Torino, 18 dicembre 1922. Le squadracce fasciste al comando di Pietro Brandimarte, torturarono e assassinarono sindacalisti, anarchici, socialisti. Tra loro Pietro Ferrero, della Unione Anarchica Italiana, segretario della FIOM.
Umiliato e pestato sotto la Camera del Lavoro in via Cernaia, venne legato ed un camion e trascinato sino al monumento a Vittorio Emanuele. Lì, più morto che vivo, venne finito dai fascisti.
La strage di Torino fu l’atto finale di una lunga ritorsione, cominciata dopo l’occupazione delle fabbriche.
I padroni avevano avuto paura, paura che gli operai in armi passassero all’insurrezione, espropriando le fabbriche e continuando a far sa se.
Ferrero era stato attivo nelle lotte operaie di quegli anni, culminate prima nell’insurrezione contro la guerra del 1917 in Barriera di Milano, poi nel biennio rosso. Con Garino si opporrà all’abbandono delle fabbriche voluto dalla gran parte della dirigenza della FIOM.
Sapeva che se avessero mollato, il prezzo sarebbe stato durissimo. Licenziamenti, reparti confino, pestaggi, omicidi.
In piazza XVIII dicembre, di fronte alla vecchia stazione di Porta Susa, c’è una lapide che ricorda le vittime dello squadrismo fascista.
Pochi sanno è che nel dopoguerra Brandimarte venne reintegrato nell’esercito e seppellito con gli onori militari.
Nulla di cui stupirsi. Il comunista Togliatti, ministro della giustizia del primo dopoguerra, amnistiò i fascisti, che aveano imprigionato, torturato e ucciso partigiani e antifascisti.
Gli antifascisti imprigionati per aver combattuto il fascismo fuori dalle date ufficiali della Resistenza, restarono in carcere per decenni. La Resistenza venne imbalsamata quando ancora era nell’aria la polvere da sparo, quando viva era la memoria degli anni di Salò, dei deportati e degli uccisi.
L’Italia democratica imprigiona i partigiani, libera e onora i fascisti.
Milano, 15 dicembre 1969. L’anarchico Pino Pinelli viene ucciso nei locali della questura di Milano e gettato dal quarto piano per simulare un suicidio. Tre giorni prima una strage di Stato, eseguita da fascisti agli ordini del governo, aveva fatto 16 morti nella sede della banca dell’agricoltura in piazza Fontana a Milano. La questura e i media puntarono il dito sugli anarchici: Pietro Valpreda farà tre anni di carcere prima che la pressione delle piazze porti alla sua liberazione.
Questore di Milano era Marcello Guida, già capo del confino di Ventotene, dove vennero rinchiusi centinaia di antifascisti, molti dei quali anarchici.
Per quella strage non ci sono colpevoli, l’omicidio di Pinelli venne archiviato come “malore attivo”. Lo Stato non processa se stesso.
Il fascismo non finisce il 25 aprile del 1945. La Repubblica teme che i semi sovversivi piantati durante la resistenza germoglino: i funzionari, poliziotti e giudici fascisti restano al loro posto.
Nel 1969 un vento di libertà scuoteva le fabbriche, le scuole, i quartieri. La strage di piazza Fontana, preparata dall’Ufficio affari riservati del ministero dell’Interno, fu la risposta di chi sperava in una clima di terrore, per imporre una svolta autoritaria.
Non ce la fecero. Tutti sapevano chi era STATO.
Fascisti vecchi e nuovi furono la manovalanza di una trama tessuta da chi temeva che i movimenti di quell’anno potessero prendere una piega sovversiva.
Quando i movimenti sociali fanno paura, lo Stato reagisce con la violenza.
La democrazia reale ammette il dissenso, purché resti semplice opinione, mero esercizio di eloquenza, banale gioco di parola. Se il dissenso diviene attivo, se si fa azione diretta, se rischia di far saltare le regole di un gioco feroce, la democrazia reale mette in campo ogni arma per piegare chi ne nega la legittimità.
Quando vengono messi in pericolo proprietà privata, gerarchia, tribunali e polizia lo Stato democratico colpisce a fondo.
A volte bastano le regole di un gioco truccato alla partenza, a volte servono squadracce e fascisti con le bombe. A volte basta un carabiniere con una pistola.
A Torino il 18 dicembre del 1922, a Milano il 15 dicembre del 1969, a Genova il 20 luglio del 2001.