Uno dei risvolti meno noti del recente Decreto legge n. 107 del 12 luglio voluto dal governo – ma votato anche da larga parte della cosiddetta opposizione – sul rifinanziamento delle missioni militari all’estero riguardava l’imbarco di militari e contractor sulle navi italiane per fronteggiare il crescente rischio pirateria (nei primi tre mesi del 2011 è stato toccato il record di 142 attacchi in tutto il mondo).
Secondo quanto previsto dall’articolo 5 – intitolato “Ulteriori misure di contrasto alla pirateria” – il Ministero della Difesa è autorizzato a ”stipulare con l’armatoria privata italiana convenzioni per la protezione delle navi battenti bandiera italiana”. Il distaccamento dei militari, o in alternativa di servizi di vigilanza privata, è ”a richiesta e con oneri a carico degli armatori”.
In questo modo, sulle navi commerciali italiane è divenuta possibile la presenza di Nuclei militari di protezione (Nmp) della Marina, comprendenti anche personale di altre forze armate. Quest’ultima misura a tutela della “sicurezza” in mare, risponde soprattutto alle interessate sollecitazioni del padronato navale (Confederazione Italiana Armatori) costretto a pagare quote sempre più alte alle compagnie assicurative o onerosi riscatti ai pirati e ai loro intermediari (anche europei); sollecitazioni mascherate da preoccupazioni per la difesa dell’interesse nazionale o della vita dei marittimi italiani (esclusi, beninteso, i lavoratori in servizio su navi straniere).
A riguardo persino gli esperti militari hanno più volte esternato la loro contrarietà alla militarizzazione del naviglio civile, come ai tempi dei “bastimenti armati” durante la Seconda guerra mondiale, che al contrario metterebbe ancora più a repentaglio la sicurezza degli equipaggi (basti pensare alle conseguenze, su una petroliera, di una sparatoria tra pirati e il corpo armato di bordo).
Contrario all’impiego di guardie armate sui mercantili si era pronunciato pure l’ammiraglio Paolo La Rosa perché porterebbe ad una «escalation di violenza senza controllo» (Il Secolo XIX, 30.4.2009), oltre ad essere in contrasto con il diritto internazionale come affermato dall’ammiraglio Cristiano Bettini per il quale “l’unica vera terapia è quella di andare alla radice del problema, cioè alla povertà dei paesi costieri da cui partono gli attacchi” (La Nazione, 22.2.2010), tanto che lo stesso Ministro della Difesa La Russa aveva espresso la preferenza per l’arruolamento di guardie dipendenti dalle agenzie private.
Peraltro la marina militare risulta già da anni impegnata in una serie di misure “antipirateria” (sovente equiparate a quelle “antiterrorismo”) a protezione della marina mercantile, attraverso la scorta delle rotte più esposte, ma soprattutto con strumenti di controllo e prevenzione quali il Virtual Regional Maritime Traffic Centre (V-RMTC) con sede nella vicinanze di Roma, ossia un sistema di sorveglianza satellitare dei mari collegato con una ventina di marine di altri Stati.
Gli armatori preferiscono ingaggiare delle guardie private sia italiane – come la Security Consulting Group – che soprattutto straniere in virtù del loro minor costo che per la maggiore dipendenza (inversamente proporzionale all’affidabilità professionale) alle direttive di chi paga. Ed è interessante notare che proprio nelle aree più battute dalla pirateria (a partire dalle acque della Somalia dove si registra il 92% dei sequestri a livello mondiale) stanno proliferando le società di sicurezza private con personale composto da ex militari.
Gli esiti infausti di provvedimenti del genere erano purtroppo prevedibili: infatti, il 15 febbraio è arrivato l’incidente: fucilieri del battaglione S. Marco imbarcati sulla petroliera Enrica Lexie, in navigazione al largo delle coste indiane, hanno mitragliato un peschereccio (si parla di 50/60 colpi), scambiato per un’imbarcazione dei pirati, uccidendo due inermi pescatori indiani.
Radio Blackout ha intervistato Marco Rossi, il primo ad occuparsi di questo caso dalle colonne del settimanale anarchico Umanità Nova.