Ogni venerdì intorno alle 10,45 dalle libere frequenze di Blackout si sbarca su Anarres, pianeta delle utopie concrete.
Qui potete (ri)ascoltare la prima parte della puntata del 27 maggio:
Di seguito gli argomenti trattati oggi:
* Francia. I blocchi delle raffineria e gli scioperi di ferrovieri e lavoratori di EDF. Nostro corrispondente Gianni Carrozza, corrispondente parigino di Collegamenti e redattore di Vive La Sociale! su radio Frequence Plurielle.
Al di là della cronaca dell’ultima settimana, tra blocchi delle raffinerie, scioperi delle ferrovie e grandi manifestazioni di piazza, con Gianni abbiamo provato a cogliere le prospettive di un movimento che, dopo due mesi, continua ad essere in crescita, nonostante ampi settori del maggiore sindacato, la CGT, abbiano scelto di radicalizzarsi per provare a controllare una situazione che minaccia(va) di non essere più controllabile dalle burocrazie sindacali. In quest’ultima settimana è scesa in campo anche FO, Force Ouvriere, sindacato classicamente padronale, mentre meno rilevante è il ruolo degli studenti. Crepe si aprono nel fronte governativo, dove il partito socialista deve fare i conti con una crescente fronda della sua base sociale e politica.
Continuano le Nouit Debout e tentano – sia pure a fatica – di sbarcare anche nella banlieaue, mentre gli attivisti si spostano dove ci sono blocchi e azioni di picchetto.
Una riflessione particolare è stata dedicata al tema del blocco (delle merci, delle persone, dei flussi di notizie) come strumento per mettere in difficoltà un padronato, molto più libero di agire, vista la leggerezza estrema del sistema produttivo, ancorato al just in time, privo di magazzino, con capannoni e macchine in leasing.
Ne è scaturito un dibattito interessante, in cui è emerso, che sebbene la pratica del blocco sia efficace nel mettere in difficoltà la controparte, l’ingovernabilità del territorio, passa, necessariamente da un allargamento del fronte di lotta più radicale.
* Torino. Anarchici in piazza contro razzisti e polizia. Cronaca della giornata di lotta – corteo e contestazione della fiaccolata di poliziotti e comitati razzisti in sostegno ad un piano “sicurezza” il cui solo obiettivo è la guerra ai poveri.
* Torino. Giovedì 2 giugno, ore 15,30 in piazza XVIII dicembre, vecchia Porta Susa
Qui l’appello per il corteo antimilitarista del 2 giugno a Torino
Ascolta e diffondi lo spot del corteo
* Grecia. Abbiamo parlato dello sgombero di Idomeni con Jannis, anarchico greco, che ci racconta delle centri di detenzione che attendono i profughi deportati dall’accampamento spontaneo al confine tra Grecia e Macedonia.
Grandi capannoni industriali all’estrema periferia di Salonicco, quello che resta delle fabbriche brasate dalla crisi, sono la destinazione “momentanea” per i profughi deportati in questi giorni da Idomeni. Grandi scheletri senza infissi, sanitari, fili elettrici, recuperati e riciclati negli anni da chi ne aveva bisogno.
Probabilmente non c’è neppure l’acqua.
Qui, i profughi, isolati in piccoli gruppi, sorvegliati dall‘esercito, saranno lontani dagli sguardi e dalla possibilità da rendere visibile, e quindi politicamente rilevante, la loro condizione.
Intorno alle ex fabbriche quartieri di immigrati dall’est, spesso ostili ai profughi, dove Crisi Argi, i nazisti di Alba Dorata, guadagnano terreno. Nelle ultime settimane hanno provato ad alzare la testa, facendo ronde per i quartieri, cosa mai avvenuta a Salonicco ed inquietante, nonostante i nazisti siano stati intercettati e fermati dai compagni.
A Idomeni restano solo più 500 persone, le sole che non paiono disponibili ad andarsene volontariamente. Gli altri 7.900, in parte sono saliti spontaneamente sui pullman dell’esercito, molti altri – forse 3000 – se ne sono andati prima dello sgombero, improvvisando accampamenti in altre località lungo il confine. A Polycastro, in una stazione di servizio, sono accampate oltre duemila persone, in parte provenienti da Idomeni.
Secondo fonti No Border in 700 ce l’avrebbero fatta a bucare il confine macedone.
Lo sgombero sinora “pacifico” dell’accampamento di Idomeni è frutto del lungo lavorio fatto da ONG, volontari e funzionari statali. I profughi sono stati privati dell’acqua, ogni giorno il cibo non bastava per tutti, l’accesso ad internet per tentare la domanda di ricollocazione in un altro paese europeo non era altro che una chimera.
Privati della loro dignità, minacciati ed umiliati, metà dei profughi hanno finito con accettare senza proteste la deportazione, un’altra metà hanno deciso di fuggire, prima dello sgombero, nella notte del 24 maggio.
Il divieto ai giornalisti di raccontare lo sgombero era parte della strategia di isolamento delle persone. Se nessuno vede e racconta quello che succede, anche la protesta sembra diventare inutile.
Un risultato che il governo Tsipras non dava certo per scontato, viste le migliaia di agenti in assetto antisommossa mandati a Idomeni da ogni parte della Grecia.
* Zitto e mangia la minestra. É il titolo del contributo di Benjamin Julian sul blog refugeestrail. Mostra in modo efficace il ruolo dei volontari apolitici nell’assistenza e controllo dei migranti in viaggio a Chios e Idomeni. nel fiaccare la resistenza, umiliando le persone che si aiutano, riducendole a tubi digerenti, minori da assistere, inferiori cui mostrare il modo giusto di vivere. Uno sguardo colonialista e complice delle politiche repressive del governo.
Sotto trovate la traduzione fatta dal blog Hurriya, che abbiamo letto ad Anarres
Oggi le autorità greche hanno dato l’avvio a quello che minacciavano da tempo: lo sgombero dell’accampamento di Idomeni. Il portavoce del ministro dell’immigrazione ha detto che tutti sapevano che “le condizioni di vita” sarebbero state migliori nei campi in cui le persone saranno ricollocate e aveva promesso che “non sarebbe stata usata la forza”, ma anche che si aspettava che le 8000 persone che hanno vissuto lì per mesi sarebbero state spostate in meno di una settimana. Per garantire che nessuno potesse vedere il modo pacifico con cui Idomeni sarebbe stata sgomberata, a giornalisti e attivisti è stato precluso l’accesso all’area.
Una spiegazione di come questo paradosso dello spostamento non violento di migliaia di persone, che non avevano intenzione di spostarsi, potesse essere risolto, è stata data da un rappresentante di MSF, secondo il quale la gestione del campo da parte della polizia ha “reso complicata la fornitura di cibo e l’assistenza sanitaria”.
Si tratta di una mossa simile a quella riportata dai/dalle migranti di Vial a Chios, quando venne detto loro che avrebbero dovuto lasciare il campo per trasferirsi nell’altro hotspot di Kos: “Non avevamo l’acqua per poter usare i bagni o poter farci una doccia”, ha detto un migrante. “Avevamo giusto l’acqua potabile da bere. La polizia ha tagliato l’acqua perché, ci hanno detto, dobbiamo spostarci su un’altra isola”.
Queste tattiche vengono solitamente definite assedi di guerra, intimidazioni, abusi o, per ultimo, atti antiumanitari. Ma negli ultimi tempi sembra essersi affermata la scuola di pensiero che ritiene queste pratiche non sostanzialmente sbagliate, trattandosi solo di una questione di procedure. Il lavoro umanitario consiste nel trovare “un buon posto”, identificato dai volontari o dalle autorità, dove poter trasferire i/le migranti. I desideri e le richieste dei/delle migranti sono semplicemente ignorati. Questo approccio cresce naturalmente nel contesto della politica di confine europea, e dovremmo cominciare a resistere e opporci ad essa.
Rimani in fila
Non è solo il consueto sentimento europeo di superiorità che nutre questo atteggiamento. Durante il lavoro che ho svolto nelle mense questo inverno, mi ha colpito quanto velocemente una mentalità paternalista, o peggio autoritaria, si possa sviluppare tra i volontari.
Noi, per lo più ventenni bianchi/e, eravamo donatori e loro riceventi. Noi avevamo cose che la maggior parte dei/delle migranti non aveva. Potevamo viaggiare, prendere in affitto case, guidare auto, mentre loro non potevano. Eravamo noi che l* facevamo mettere in fila, che decidevamo le loro porzioni, che decidevamo se una persona poteva ricevere una, due o nessuna porzione di zuppa, che l* facevamo allineare in fila, che facevamo rispettare la coda a chi la saltava e così via. Questa posizione di superiorità può facilmente sfociare nella prepotenza, e ho visto spesso e in diversi luoghi volontari urlare contro i/le migranti che erano in attesa in fila per ottenere un paio di mutande o una carta di registrazione. Si tratta di uno spettacolo che non vorrei vedere mai più.
Questa denigrazione è divenuta a volte sistematica quando le ONG e i distributori di cibo hanno marcato le unghie o distribuito braccialetti identificativi ai/alle migranti in modo da poter assegnare loro la “quota giusta”. La motivazioni sono candide, la pratica repellente. Ma quando le condizioni sono come erano quest’inverno in Grecia, la dignità dei migranti deve essere anteposta alle pratiche del lavoro umanitario. Le condizioni in cui sono stati portati dalla guerra a casa loro e dalla chiusura delle frontiere ci lascia pochissimi spazi di manovra.
Lo sfortunato risultato di questo schema è che “‘umanitarismo” è diventata una parola molto flessibile. Il trasferimento di migranti dall’hotspot sovraffollato di Vial a quello sull’isola di Kos potrebbe essere descritto come guidato da uno scopo “umanitario”, perché essi avrebbero avuto molto più spazio a Kos. Il fatto che essi fossero chiusi dentro, mentre a Vial erano liberi di uscire, mi è stato spiegato da un volontario come un piccolo e temporaneo inconveniente – non un abuso fondamentale dei diritti dei detenuti e un diniego della loro autonomia. Che i/le migranti detenute negli hotspot dicessero di subire trattamenti “da animali”, per molti vuol dire dar loro più zuppa, più spazio, più coperte piuttosto che una questione di dignità.
Apolitici
È questa ridefinizione della parola “umanitario” come semplice fornitore di “comfort” che permette alle autorità greche di presentare l’evacuazione dei residenti di Idomeni verso i campi “più umanitari”, come un aiuto ai poveri ignoranti spaventati migranti ad effettuare la scelta più saggia. (Questo si chiama agire come un “salvatore bianco”). Ma è semplicemente irrilevante quanto buoni siano i campi militari. Il punto è che ai migranti non è lasciata scelta. Quello che manca qui è quello che dovrebbe essere un principio fondamentale dell’umanitarismo: non opporsi alla volontà e desideri di chi vi è soggetto. Trascinare adulti come se fossero bestie da un luogo a un altro non è mai un aiuto, non importa quanto gradevole sia il luogo dove verranno sistemati.
Quando i/le migranti hanno occupato il porto di Chios, ne è nata una discussione simile. Avevano trovato un posto dove non potevano essere ignorati, dove i media hanno parlato con loro, dove le loro proteste sono state viste. Ma i volontari e le ONG li hanno supplicati di andare in campi “migliori” perché dotati di docce e letti caldi. Come se ciò importasse! Hanno scelto di dormire sul cemento, non perché fossero stupidi o privi di buon senso, ma perché volevano fare una dichiarazione politica. Ma che è caduta nel vuoto a causa di quei volontari che hanno lavorato “apoliticamente”; che volevano migliorare il comfort, non cambiare la società.
Le radici del volontariato apolitico meritano un approfondimento a parte, che non voglio fare in questa sede, ma più o meno significa lavorare all’interno del sistema, registrarti (farti accreditare) quando ti dicono di farlo e non andare dove non ti è permesso. A volte le persone in buona fede seguono questa semplice idea: trovare persone in difficoltà e fornire loro tutto ciò che li fa sentire meglio.
Mantieni la calma e mangia la minestra
Il rischio che i volontari non politicizzati corrono è quello di diventare strumenti pratici di una disumana politica statale, finendo col lavorare in condizioni che, a lungo andare, distruggono le speranze dei migranti – e che potrebbero col tempo eliminare ogni traccia di umanitarismo nel trattamento che ricevono.
Il caso più evidente di questo atteggiamento è quando i volontari dicono ai migranti di mantenere la calma. Si tratta di una strategia tipicamente non politica: se VOI mantenete la calma, NOI saremo meglio in grado di portarvi la zuppa. Manca completamente uno sguardo più ampio: i/le migranti vengono violentemente perseguitati dalla UE, e vogliono esporre la loro situazione al pubblico europeo. Non possono farlo senza l’attenzione dei media, e i media non si presentano senza che vi sia un “incidente”. I migranti devono piangere, morire di fame, gridare o annegare per rappresentare una storia. Non appena “l’umanitarismo” li avvolge nel suo abbraccio soffocante, vengono buttati fuori dalle prime pagine – e possono aspettare in silenzio la deportazione. (È anche opportuno ricordare che i migranti nell’hotspot di Vial hanno notevolmente migliorato le loro condizioni evadendo letteralmente dal carcere, dopo che i volontari gli avevano detto che sarebbe stato meglio “tacere”.)
E così, l’umanitarismo non politico raggiunge l’ obiettivo opposto. Rimuovendo i/le migranti dalla scena politica e dei media presso il porto di Chios, sgomberandoli da Idomeni, dalle piazze e dai parchi, dando loro quel tanto che basta di cibo per scongiurare la fame, le autorità sono riuscite a farli tacere.