Martedì 17 luglio
punto info sulla guerra dell’Italia in Afganistan
ore 20,30 in via Po 16
Bombe tricolori
Siamo in guerra. Lo sapevate? Lo sapevate che da diversi giorni i cacciabombardieri AMX bombardano a tappeto la regione di Farah in Afganistan?
Nel governo tecnico il ministro della guerra non poteva che essere un militare, uno che la guerra la fa fino in fondo, senza fare finta di fare la pace. Il ministro Di Paola, ammiraglio già comandante della NATO, ha deciso di usare anche i bombardieri italiani per colpire l’Afganistan. L’ultimo tassello di morte nel puzzle dell’intervento italiano in Afganistan ha trovato il suo posto.
Nel silenzio.
Come se fosse una cosa normale che qualcuno sganci bombe in nome nostro dall’altra parte del mondo per un massacro di cui si è smarrito ogni perché, foss’anche quello della propaganda della lotta al terrorismo. Dopo l’attacco alla Torri gemelle l’amministrazione Bush giustificò l’aggressione feroce all’Afganistan come operazione antiterrorismo. Sul piatto l’uccisione di Bin Laden, la lotta all’islamismo radicale e, ciliegina sulla torta, la libertà femminile.
Cosa sia la libertà femminile nell’Afganistan “liberato” dalle truppe occidentali ce lo racconta l’immagine di una donna infagottata nel suo burka e massacrata a fucilate, dopo una condanna per adulterio.
Bin Laden lo hanno ammazzato nel territorio di un paese alleato come il Pakistan, l’integralismo ha continuato a mietere vittime per ogni dove, perché l’occupazione militare dell’Afganistan, le torture, i rapimenti, le bombe, i rastrellamenti hanno rinfocolato l’odio e moltiplicato le capacità attrattive del jhad, la guerra santa.
La guerra santa si alimenta della ferocia dei propri nemici. Il disciplinamento delle società governate dai salafiti stringe in una morsa le vite di milioni di uomini. E donne.
In modo speculare la guerra al terrorismo ha ridotto le libertà di tutti nei paesi occidentali, dove torture, detenzioni extragiudiziarie, controlli e repressione sono aumentati.
La guerra oggi si coniuga nella neolingua del peacekeeping, dell’intervento umanitario, ma parla il lessico feroce dell’emergenza, dell’ordine pubblico, della repressione.
Gli stessi militari delle guerre in Somalia, Bosnia, Iraq, Libia, Afganistan, dall’estate del 2008 sono nei CIE, le galere per migranti senza carte, nelle nostre città, nei quartieri dove la povertà e la crisi si mangiano il futuro di tutti.
Hanno mandato l’esercito per reprimere le popolazioni campane in rivolta contro discariche e inceneritori. Hanno militarizzato le zone terremotate dell’Abruzzo.
Alpini e carristi sono approdati dall’Afganistan alla Valsusa, per presidiare il fortino degli affari e dell’arroganza di Stato.
La separazione tra guerra e ordine pubblico, tra esercito e polizia è sempre più labile.
Saltano tutte le regole formali di regolazione del conflitto e di attenuazione della ferocia della guerra.
Se il nemico è criminale tutto diventa lecito: dalle torture ai lager come Guantanamo, ai bombardamenti di città e villaggi.
Guerra esterna e guerra interna sono due facce delle stessa medaglia. Lo rivela l’armamentario propagandistico che le sostiene. Le questioni sociali, coniugate sapientemente in termini di ordine pubblico, sono il perno concettuale dell’operazione.
L’impiego dei militari per sottomettere le popolazioni ribelli del nostro paese è l’ultimo tassello di un mosaico che ben rappresenta la democrazia reale. Chi dissente è considerato un criminale. Un nemico, come in tutte le guerre. Lo scarto tra guerra e politica, tra diplomazia e bombe, tra nemico ed avversario si attenua, diviene impalpabile. Se la politica è la prosecuzione della guerra con altri mezzi, è vero anche il contrario: la guerra è la prosecuzione della politica con ogni mezzo.
La guerra umanitaria, l’operazione di polizia internazionale, la guerra giusta hanno di volta in volta modellato le politiche del governo contro i nemici “interni”. Sono gli immigrati poveri, e con loro, i miliardi di diseredati cui la ferocia di stati e capitale ha sottratto un futuro. Sono tutti coloro che si battono contro un ordine ingiusto, fondato sulla rapina delle risorse, la distruzione del territorio, la negazione di ogni socialità senza merci. Sono quelli che si mettono di mezzo, che sanno che la libertà, quella vera, non si mendica ma si conquista, passo a passo, giorno dopo giorno.
La propaganda della paura, che ci vorrebbe nemici dei più poveri, degli ultimi arrivati costruisce il consenso intorno alla barbarie bellica. Stiamo sempre peggio, tra lavori precari e in nero, senza tutele e senza sicurezza, ma ci convinciamo che i nemici siano quelli che stanno peggio di noi, non i padroni che ogni giorno lucrano sulla nostra vita. Bisogna rompere la propaganda di guerra, costruendo ponti solidali tra gli oppressi e gli sfruttati. Un lavoro quotidiano, difficile, concreto.
E altrettanto concreta deve essere la lotta a chi la guerra la prepara, la finanzia, la alimenta, la fa.
Per fermare la guerra non basta un no. Occorre incepparne i meccanismi, partendo dalle nostre città, dal territorio in cui viviamo, dove ci sono caserme, basi militari, aeroporti, fabbriche d’armi, uomini armati che pattugliano le strade.
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