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No Zoo(m). Passeggiata s-catenata contro ogni gabbia

Nel pomeriggio di domenica 18 dicembre a Torino si è svolta un’iniziativa contro la privatizzazione del Parco Michelotti e l’apertura di un nuovo zoo e contro ogni gabbia fisica e mentale. Dalle carceri ai CIE, dalle Rems ai repartini psichiatrici sino alle frontiere che fermano e imprigionano migranti e profughi.
La “passeggiata s-catenata” è partita dalla “gabbia” di fronte alla Biblioteca Geisser, ha attraversato il ponte della Gran Madre per poi giungere in Via Po, dove è stato fatto un presidio informativo con banchetti, musica, e una mostra di opere d’arte sul tema gabbie. Si è tenuta anche un’assemblea aperta con numerosi interventi. Durante la passeggiata sono stati esposti ed appesi striscioni e cartelli con messaggi di protesta e libertà. Distribuiti diversi volantini con uno spottino informativo in loop sull’acquisizione del parco da parte dell’azienda Zoom s.p.a. che si è aggiudicata il bando trentennale dell’area.

La prossima iniziativa è stata fissata per il mese di gennaio.

Ascolta la diretta di radio Blackout con Arianna.

Qui puoi leggere il volantino distribuito dalla Federazione Anarchica Torinese

Qui qualche foto della giornata 

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Roma. Gli abiti nuovi della giunta Raggi

Lunedì scorso è avvenuto l’incontro al Campidoglio per la ridefinizione della giunta romana. Il meeting ha decretato la nomina di Luca Bergamo, ex PD, come nuovo vicesindaco della giunta comunale a 5 Stelle. L’attuale assessore alla Cultura del Campidoglio ha preso il posto del dimissionario, Daniele Frongia, che ha mantenuto le deleghe alle Politiche giovanili e allo Sport. Passo indietro invece per Massimo Colomban, imprenditore trevigiano vicino a Casaleggio, e assessore alle Partecipate della giunta pentastellata di Roma, già candidato perdente del centro-destra in Veneto. Pinuccia Montanari, già nella giunta di Del Rio a Reggio Emilia, è la nuova assessora alla Sostenibilità Ambientale. Prenderà il posto di Paola Muraro, sotto indagine per reati ambientali e responsabile di aver restituito smalto al re delle discariche Manlio Cerroni, che da lei ricevette la nomina a consulente tecnico di parte dalla Gesenu, società commissariata per mafia.

Nel frattempo, dopo l’arresto del fidato dirigente Raffaele Marra, proveniente dagli ambienti del neo-fascismo e di fatto responsabile delle dimissioni di Carla Rainieri (ex-capo di gabinetto), la sindaca Virginia Raggi ha dichiarato ai giornalisti che se dovesse mai arrivarle un avviso di garanzia per la firma degli atti compiuti da Marra (compresa la nomina di uno dei fratelli di Marra a capo del Dipartimento Turismo), valuterà il da farsi, prima di allora non intende pensarci affatto.

Di tutto questo e molto altro l’info di Blackout parlato con Francesco, che ci ha restituito un quadro generale della situazione nella Roma Capitale.

Ascolta la diretta

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Posta aerea. Presidio contro Mistral Air

mistral-00C’erano due robusti digos piazzati di fronte all’ufficio postale di corso Giulio Cesare, prima della strettoia che immette a Porta Palazzo, il più grande mercato all’aperto d’Europa. Poco più in là il Balon, il posto degli stracci, oggi sempre più in bilico tra “riqualificazione” all’insegna del vintage e dell’usato per ricchi e mercato dove i poveri possono rimediare qualcosa di utile a poco.
In quest’angolo vivono molti immigrati degli ultimi anni, magrebini, africani, cinesi, rom rumeni e tanti altri. Sono soprattutto loro ad entrare ed uscire dall’ufficio postale. Chi ritira un pacco, che spedisce una raccomandata, chi ritira qualche soldo.
Nonostante la Digos e quelli del commissariato di zona provino a tenerci lontani, non ci riescono. La gente si ferma, prende il volantino, legge i cartelli, guarda lo striscione dove campeggia la scritta “stop deportazioni”.

Sui cartelli si racconta una storia che pochi sanno, quella di una compagnia aerea, la Mistral Air, che deporta profughi e migranti per conto del ministero dell’Interno.

Di seguito il volantino distribuito davanti all’ufficio postale lo scorso sabato.

mistral-01Mistral Air, la compagnia aerea di Poste Italiane, non trasporta lettere, pacchi e cartoline… ma deporta rifugiati e migranti in paesi dove non vogliono tornare.
Fuggono guerre, miseria, persecuzioni, dittature. C’è chi non vuole sottostare ad un matrimonio forzato e chi non intende fare il soldato. C’è anche chi, semplicemente, vuole andare in Europa, perché desidera un’altra vita.
Tutti si trovano di fronte frontiere chiuse, filo spinato, polizia ed esercito.

A migliaia muoiono durante il viaggio. Annegati in mare, soffocati nei tir, travolti da un treno in una galleria ferroviaria. Ammazzati, tutti, dagli Stati, dalle frontiere, dalle leggi che impediscono a chi nasce in un paese povero di viaggiare liberamente.
Li chiamano clandestini, perché non hanno le carte in regola, perché non hanno il permesso di soggiorno. Pochi sanno che è quasi impossibile emigrare legalmente in Italia.

La legge stabilisce che puoi avere il permesso di soggiorno solo se hai un lavoro, una casa, se hai imparato bene l’italiano. Vieta però di entrare in Italia per cercare un’occupazione. Se vuoi entrare ed avere le carte in regola, devi avere in tasca il contratto di lamistral-02voro. Un racconto di fantapolitica? No l’Italia di oggi.
Ovviamente nessuno assume qualcuno senza averlo visto prima, nessuno prende un operaio tunisino che parla solo arabo, nessuno da lavoro ad una badante ucraina che non si è mai mossa dal suo paese.

L’operaio tunisino, la badante ucraina, il muratore nigeriano, l’idraulico moldavo entrano tutti clandestinamente nel nostro paese, tutti lavorano in nero. Tutti sperano che il padrone, prima o poi, li regolarizzi, facendo un finto contratto nel loro paese.
Chi ce la fa ad avere il contratto e, quindi, il permesso, se perde il lavoro, dopo poco perde anche il permesso e torna clandestino.

I clandestini, uomini e donne, rischiano la reclusione in un CIE, rischiano di essere espulsi. Magari con un charter della Mistral Air, la compagnia area di Poste Italiane.

In questi anni di guerre feroci moltissimi uomini, donne e bambini hanno perso tutto: casa, lavoro, la possibilità stessa di sopravvivere.

mistral-03I profughi di guerre, cui spesso l’Italia ha partecipato con bombardieri, droni, truppe ed elicotteri da combattimento, cercano di raggiungere l’Europa del nord, per tentare di riprendere il filo delle loro vite interrotte, spezzate, violate.

Trovano di fronte a loro muri sempre più alti, centri di accoglienza dove ONG, associazioni, cooperative sono ben pagate per cercare di sopire con minestre e coperte il desiderio di continuare un viaggio interrotto dalla polizia italiana.

Molti non ci stanno e provano a passare le frontiere. Da un paio d’estati molti migranti si organizzano con antirazzisti e solidali per sfuggire ai trafficanti e ai controlli lungo le frontiere. È successo a Chiasso, è successo a Ventimiglia, dove quest’estate la parola è passata ai manganelli, ai gas, alle botte. Allo Stato.
Molti uomini e donne in viaggio sono stati rastrellati e caricati su un volo diretto al Sud. Come nel gioco dell’oca: se perdi torni alla casella di partenza.

Il voli dei deportati avevano spesso il colore giallo e azzurro della Mistral Air.

mistral-05Chi vive a Torino spesso ha una storia di emigrazione alle spalle. Tanti hanno sentito le storie di mistral-04emigrazione di padri e madri, fatte di discriminazione e razzismo.
Discriminazione e razzismo sconfitti dalla lotta comune per la casa, il salario i trasporti.

Oggi chi comanda e chi si fa ricco sulle nostre vite vorrebbe che facessimo la guerra ad altri poveracci, ai profughi e agli immigrati, ai clandestini. Noi sappiamo però che chi comanda e chi sfrutta vuole la guerra tra poveri per poter meglio sfruttare, per poter meglio comandare.

Non diventiamo complici dei padroni e del governanti.

Gli esseri umani non sono pacchi postali.

Diciamolo forte a Poste Italiane!

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Lotta agli sfratti. Il riesame cancella gli arresti

liberituttiTorino, venerdì 16 dicembre. Nelle prime ore del pomeriggio è arrivata la notizia che il giudice del Riesame ha cancellato tutte le misure imposte dalla GIP Loretta Bianco su richiesta del PM Andrea Padalino a 13 attivisti nella lotta contro gli sfratti.
L’operazione era scattata lo scorso 29 novembre, quando quattro compagni sono stati arrestati e condotti in carcere, mentre ad altri nove è stato notificato il divieto di dimora in città.
Nel mirino un picchetto anti sfratto dello scorso 2 maggio in via Baltea, in Barriera di Milano, per il quale è stata formulata l’accusa di violenza privata e resistenza a pubblico ufficiale
In queste settimane la Gip aveva concesso i domiciliari ai quattro arrestati, ma solo tre di loro erano passati dalle Vallette alla propria casa trasformata in prigione.
I compagni e le compagne banditi da Torino, avevano deciso di violare le misure imposte dal tribunale.
Venerdì 9 dicembre un corteo aveva attraversato le strade del quartiere dai giardinetti di via Montanaro sino a corso Brescia, per ribadire la volontà di disobbedire ai divieti e continuare a partecipare alle lotte.

Tre giorni dopo, martedì 6 dicembre, nelle prime ore dell’alba la polizia ha fatto irruzione all’Asilo Occupato di via Alessandria, alla casa di corso Giulio Cesare e in varie abitazioni private, per arrestare otto dei nove banditi disobbedienti. Quattro compagni sono stati arrestati e condotti in carcere, due alle Vallette, due invece non sono incappati nelle maglie della repressione.
All’Asilo la polizia è intervenuta in forze bloccando le strade e buttando giù le porte. Alcuni occupanti sono saliti sul tetto e ci sono rimasti sino alla conclusione dell’operazione repressiva.

Giovedì 15 dicembre al tribunale di Torino si è svolta l’udienza del riesame per tutti e 13 i compagni. Di fronte al tribunale c’è stato un presidio di solidarietà, che ha poi dato vita ad un breve corteo intorno al tribunale, passato di fronte all’ufficio degli ufficiali giudiziari, la mano della magistratura nell’esecuzione degli sfratti e nella denuncia di chi vi si oppone.
Il PM Padalino ha descritto le personalità politiche degli imputati, mirando a metterne in luce la pericolosità sociale, piuttosto descrivere l’episodio per il quale sono sotto accusa.
Una vera esibizione del diritto penale del nemico, dove chi sei conta più di quel che fai.

Gli è andata male. Il Riesame ha cancellato tutte le misure contro i 13 compagn*.

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Il referendum dei poveri e dei disoccupati

marciaNulla sarà più come prima:‭ ‬il referendum istituzionale ha visto un’ampia partecipazione popolare ed i‭ “‬NO‭” ‬hanno vinto.‭ ‬Aurore radiose attendono le legioni di votanti che,‭ ‬matita copiativa alla mano,‭ ‬hanno modificato radicalmente la situazione in Italia.‭ ‬Il blocco frigorenzaicomassonico è stato sconfitto.‭ ‬I superstiti renziani risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano discese con orgogliosa sicurezza.‭ ‬Tutto il potere è andato al CNEL che ha decretato la fine della povertà e della disoccupazione in Italia.

Si sa,‭ ‬i sogni muoiono all’alba.‭ ‬E all’alba del‭ ‬6‭ ‬dicembre sono arrivati i dati ISTAT sulla povertà in Italia.‭ ‬Il‭ ‬28.7%‭ ‬delle famiglie italiane‭ (‬17,5‭ ‬milioni di persone‭) ‬è povera o in condizioni di grave indigenza.‭ ‬Più della metà delle coppie con tre o più figli minori è povera.‭ ‬Lo è quasi la metà delle persone che vivono nel Sud Italia.‭ ‬In Europa siamo tra quelli messi peggio.‭ ‬Alcune zone del Sud Italia sono quelle che hanno,‭ ‬percentualmente,‭ ‬più poveri d’Europa.‭

Aumenta il numero dei‭ ‬working poor:‭ ‬quelli che sono poveri nonostante lavorino regolarmente con un contratto di lavoro.‭ ‬Ormai si tratta di quasi un lavoratore su‭ ‬4‭ (‬23.5%‭)‬.‭

Negli ultimi‭ ‬5‭ ‬anni è anche aumentata la differenza di reddito tra chi ha molto e chi ha poco.‭ ‬La differenza di reddito tra il‭ ‬20%‭ ‬più povero‭ (‬che possiede il‭ ‬7.7%‭ ‬del reddito complessivo‭) ‬e il‭ ‬20%‭ ‬più ricco‭ (‬che ha quasi il‭ ‬40%‭ ‬del reddito complessivo‭) ‬è aumentata ulteriormente.‭ ‬Se invece del reddito‭ (‬che è quello che uno guadagna ogni anno‭)‬,‭ ‬guardiamo al patrimonio‭ (‬che è quello che uno possiede‭) ‬la situazione è ancora peggiore:‭ ‬le‭ ‬10‭ ‬famiglie più ricche in Italia possiedono quanto il‭ ‬40%‭ ‬dei residenti‭ (‬italiani e stranieri‭) ‬più poveri.

Qualche milione di poveri ha dovuto rinunciare alle cure ed alle spese sanitarie e la mortalità é aumentata del‭ ‬9.1%‭ (‬sono morte‭ ‬54.000‭ ‬persone in più rispetto all’anno precedente‭)‬.‭ ‬Le aspettative di vita,‭ ‬in Italia,‭ ‬sono diminuite per la prima volta da‭ ‬150‭ ‬anni‭ (‬da quando vengono misurate‭)‬.‭ ‬Intanto però‭ ‬le persone che hanno più di‭ ‬30‭ ‬milioni di euro nelle proprie disponibilità finanziarie sono aumentate del‭ ‬7.8%.

Ma che ci frega dei poveri e dei malati,‭ ‬abbiamo passato gli ultimi mesi a parlare del referendum e passeremo i prossimi a parlare della legge elettorale.‭ ‬Queste sono le cose che contano.‭ ‬Del resto chiunque sia stato al governo non ha fatto altro che peggiorare le condizioni di vita e lavoro,‭ ‬quindi è meglio cianciare di come votare piuttosto che di come cambiare veramente le cose.

Poi però,‭ ‬mentre erano tutti impegnati a celebrare la vittoria,‭ ‬ottenuta peraltro con una buona partecipazione popolare,‭ ‬nessuno si è accorto che parecchi poveri non sono andati a votare e se ne sono fregati di un referendum che non sposta di una virgola la loro condizione di sfruttati.

C’è una correlazione diretta tra il numero degli astenuti al referendum costituzionale ed il tasso di povertà:‭ ‬le regioni con più poveri sono quelle che hanno votato di meno.‭ ‬Nel Sud e nelle Isole,‭ ‬dove il‭ ‬55%‭ ‬delle persone non riesce a sostenere una spesa imprevista di‭ ‬800‭ ‬euro‭ (‬uno degli indicatori di disagio sociale‭)‬,‭ ‬ha votato meno del‭ ‬60%‭ ‬degli aventi diritto.‭ ‬Nelle regioni con meno poveri è avvenuto l’inverso:‭ ‬più gente è andata a votare.

Allo stesso modo è andata per il numero di disoccupati.‭ ‬La provincia italiana con più disoccupati‭ (‬Crotone con il‭ ‬31,4%‭ ‬della popolazione disoccupata‭) ‬è quella che ha votato meno‭ (‬47.8%‭ ‬di votanti‭)‬.‭ ‬Vicenza,‭ ‬che è la città dove c’è stata la maggiore affluenza‭ (‬78,5%‭ ‬di votanti‭) ‬è la penultima per disoccupazione‭ (‬4,7%‭)‬.‭ ‬Tranne pochissime eccezioni,‭ ‬l’elenco delle province italiane ordinate per numero di disoccupati e ordinate per numero di astenuti sono sovrapponibili.

In queste ore,‭ ‬tanti stanno accreditandosi i voti referendari.‭ ‬Ci sono Renzi,‭ ‬Grillo e Salvini‭ (‬ed uno stuolo di mosche cocchiere‭) ‬che sostengono che i‭ “‬SI‭” ‬e i‭ “‬NO‭”‬,‭ ‬siano adesioni al loro disegno politico‭ (‬che consiste,‭ ‬al di fuori dei fronzoli,‭ ‬nell‭’ ‬andare al potere e mangiare più dei loro predecessori‭)‬.‭

Assistiamo anche a un tentativo di rivendicazione di taluni che hanno partecipato al teatrino elettorale con l’ossimoro del‭ “‬NO sociale‭”‬:‭ ‬un voto può essere sociale quanto un’accelerazione può essere rallentata.‭ ‬La vacuità del loro disegno di trasformazione attraverso il referendum fa il paio con la totale inconsistenza del risultato una volta ottenuta questa inutile vittoria.

Non c’è niente da fare,‭ ‬gli anarchici sono diversi.‭ ‬Non credo ci sia uno di noi che sostenga che chi non è andato a votare sia necessariamente anarchico.‭ ‬Noi non siamo andati a votare con le nostre motivazioni,‭ ‬altri con le loro.‭ ‬E non necessariamente coincidono.‭ ‬Ci limitiamo a registrare che,‭ ‬nelle aree dove è maggiore il disagio sociale,‭ ‬è maggiore l’astensione da questa inutile sceneggiata.‭

A differenza di tutti quelli che si sono battuti per il‭ “‬SI‭” ‬o per il‭ “‬NO‭”‬,‭ ‬affermando che votando in un modo o nell’altro sarebbe cambiato tutto,‭ ‬noi astensionisti abbiamo detto fin dall’inizio che,‭ ‬chiunque avesse vinto,‭ ‬non sarebbe cambiato nulla.

Incuranti della tempestiva smentita da parte dei fatti,‭ ‬delle roboanti promesse elettorali,‭ ‬gli attori del teatrino della politica stanno affrettandosi a rimettere in scena la pantomina della legge elettorale.‭ ‬Che si parli di come eleggere questo o quello,‭ ‬piuttosto che di disoccupazione,‭ ‬povertà,‭ ‬salario,‭ ‬abitazioni,‭ ‬istruzione,‭ ‬sanità.‭ ‬Tutte cose delle quali non hanno nessuna voglia di occuparsi,‭ ‬se non per peggiorarne le già catastrofiche condizioni.‭

La maggior parte delle persone è andata a votare al referendum illudendosi di cambiare qualcosa.‭ ‬Noi siamo stati gli unici a dire che non sarebbe cambiato nulla.‭ ‬I fatti ci hanno dato ragione.‭ ‬Aver dimostrato lungimiranza e coerenza non serve però a cambiare la situazione.‭ ‬E‭’ ‬necessario sottrarsi a questo teatrino‭ ‬rilanciando la lotta‭ (‬questa sì‭ “‬sociale‭”) ‬per migliorare le condizioni di vita e lavoro di tutti e tutte.

Fricche in Umanità Nova

Per approfondimenti:

Ascolta la diretta a caldo di Massimo Varengo per l’info di Blackout

Ascolta la chiacchierata con Francesco nella puntata di Anarres del 9 dicembre

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Democrazia criminale. La strage di piazza Fontana

FUNERALI DELL'ANARCHICO GIUSEPPE PINELLI , MORTO NELLA QUESTURA DI MILANO ANNO 1969Il 12 dicembre è stato il 47° anniversario della strage di piazza Fontana. Una bomba esplose nel salone centrale della Banca Nazionale dell’Agricoltura il 12 dicembre 1969. Il 1969 fu l’anno in cui lo scontro di classe fu il più intenso e radicale nella storia della Repubblica.
La bomba uccise 17 persone e ne ferì un altro centinaio. Fu il primo atto della “strategia della tensione”, che negli anni successivi insanguinò l’Italia. Si va dalla strage di piazza della Loggia a Brescia, alla quella del treno Italicus, sino al 2 agosto del 1980 quando una bomba devastò la sala d’attesa di seconda classe nella stazione ferroviaria di Bologna.
Dopo la strage di Milano si scatenò una durissima repressione contro gli anarchici, indicati sin dalle prime ore come responsabili: centinaia di compagni furono fermati e trattenuti in questura. Uno di loro, Giuseppe Pinelli, attivo nella lotta alla repressione, venne fermato la sera del 12 dicembre. Nella notte tra il 15 e il 16 dicembre, dopo 3 giorni di estenuanti interrogatori, Pinelli precipitò dal quarto piano della questura di Milano. La polizia liquidò la faccenda come suicidio, per coprire l’assassinio avvenuto tra le mura della Questura milanese, diretta da Marcello Guida, già a capo del Confino sull’isola di Ventotene, durante la dittatura fascista.
Quando, anche attraverso le denunce di alcuni giornalisti non asserviti al potere, vennero a galla le numerose incongruenze della ricostruzione fatta dalla polizia politica milanese, un magistrato democratico e di sinistra come Gerardo D’Ambrosio mise la pietra tombale sulla vicenda inventando la formula atrocemente comica del “malore attivo”.

Sin dalle prime dopo la strage la campagna contro gli anarchici raggiunse toni parossistici. Pietro Valpreda, innocente, ma con un profilo che si prestava bene al ruolo che la questura cercò di fargli recitare nella tragedia di quei giorni, venne subito difeso dal movimento anarchico milanese, che seppe cogliere con estrema lucidità il senso degli eventi e, in una conferenza stampa dichiarò “la strage è di Stato, Valpreda è innocente, Pinelli è stato assassinato”. Queste parole, che il Corriere della Sera definì deliranti, divennero l’asse portante di una campagna che fu fatta propria da ampi settori dell’opposizione politica e sociale. Tre anni dopo Valpreda verrà scarcerato. Le infinite vicende giudiziarie sulla strage finirono in nulla. La verità su quella vicenda, che spezzò per sempre qualsiasi illusione sulla Repubblica nata dalla Resistenza, è patrimonio della memoria che i movimenti continuano tenacemente ad alimentare.
Il golpe fu una possibilità concreta in quegli anni. I neofascisti furono lo strumento dei servizi segreti, gente cui poco importava il prezzo in vite umane, stampato sul cartellino.
Manodopera fascista fu messa a disposizione dei padroni e dei governanti dell’epoca, spaventati dalla primavera degli studenti, dall’autunno degli operai. Fu grazie alla forza di quei movimenti se non calò rapido l’inverno. Restano tuttavia, pesanti come macigni, i 17 morti della banca. Il 18°, il partigiano Pinelli, scaraventato dal quarto piano della Questura, dove era la stanza del commissario Calabresi, è un monito per chi crede nella bontà della democrazia.

L’info di radio Blackout ne ha parlato con Cosimo Scarinzi, all’epoca giovane anarchico milanese, che ha offerto la sua testimonianza e la sua analisi.
Ascolta l’intervista.

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Algeria. Una democrazia imbalsamata

ghardaia-770x375Le agenzie stampa occidentali hanno diffuso la notizia della morte in carcere di un giornalista anglo-algerino, in sciopero della fame da diversi mesi. La versione ufficiale sulla sua morte parla di infezione polmonare. L’organizzazione Reporter senza frontiere ha chiesto l’apertura di un’inchiesta.

La vicenda, presentata come ennesimo caso di repressione della libertà di parola, ha contorni decisamente diversi.

Mohamed Tamalt,il blogger morto in galera a 42 anni, era un attivista islamista radicale. Non è finito nei guai con la magistratura algerina per i suoi articoli, ma per aver pubblicato su facebook violenti attacchi, anche personali, nei confronti di esponenti dell’entourage del presidente Abdelaziz Bouteflika, che probabilmente gliel’hanno giurata. Corrotti e potenti non hanno tollerato critiche feroci rivolte anche ai propri familiari.
Il fratello di Tamalt, l’ultimo a vederlo vivo qualche mese fa, segnalava ferite alla testa del blogger islamista.
È quindi probabile che sia morto per i maltrattamenti subiti in carcere.
Tamalt faceva parte di una formazione, per fortuna ancora minoritaria, che mescola religione e nazionalismo, lontana quindi dalle internazionali islamiste come Al Queda o Isis o la Fratellanza musulmana, ma non meno pericolosa per la libertà di uomini e donne in Algeria.
Un paese dove, vent’anni dopo la guerra civile, nessuno ha pagato per le atrocità commesse sia dall’esercito che dai tagliagole islamici. L’islam radicale è stato sconfitto militarmente, ma è riuscito a modellare il costume specie nelle campagne e nelle regioni più povere. Nelle grandi città l’islamizzazione della società non è riuscita.

Sul piano sociale le conquiste dei lavoratori algerini sono state fatte a pezzi negli ultimi vent’anni.

La situazione politica è in stallo. Il presidente Bouteflika, pur malato ed anziano, si appresta a correre per il suo quarto mandato. La politica istituzionale algerina sembra mummificata come il presidente, debole ma inamovibile, perché il suo clan e il blocco di potere a lui collegato non riesce ad esprimere una personalità altrettanto carismatica.

Ascolta la diretta dell’info di radio Blackout con Karim Metref, blogger, insegnante di origine kabila.

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Governo. Vecchi e nuovi democristiani

magico-realismo-illusioni-con-la-pittura-15Il nuovo governo si è presentato questa mattina alla Camera dei deputati, per chiedere la fiducia. La squadra capitanata da Gentiloni, è di 18 ministri, 12 dei quali già presenti nel governo Renzi.

Sebbene molti considerino il nuovo governo un clone di quello precedente, qualche indizio suggerisce che Gentiloni smorzerà le punte più aguzze della politica renziana. Nel suo discorso il primo ministro ha posto l’accento sulla questione meridionale e sulle difficoltà che il governo dovrà rappresentare. Una narrazione che, pur inserita nel tessuto ordito dal suo predecessore, se ne distacca per stile e toni.

Gentiloni ha chiarito che il suo non è un governo di scopo, né di transizione: il nuovo primo ministro intende governare finché avrà la fiducia.

Contro questa prospettiva si muovono forze ed interessi diversi. Da un lato la Lega e il Movimento 5 stelle, che oggi sono saliti sull’Aventino, dall’altro lo stesso Renzi, che scalpita per elezioni a giugno, dopo l’approvazione di una nuova legge elettorale.

Va da se che con l’Italicum, doppio turno e premio al partito di maggioranza, potrebbe facilmente riprodursi lo schema già visto alle comunali di Roma e Torino, e, prima di Parma e Livorno: il M5S che vince al ballottaggio con il PD, grazie all’appoggio di tutti (o quasi) gli altri partiti.

In questo momento il PD e probabilmente Forza Italia puntano ad una legge elettorale proporzionale, che favorisca le alleanze, mettendo nell’angolo il M5S.

Oggi,leggendo gli editoriali di Stampa e Corriere, emergeva in modo chiaro che la borghesia italiana punta ad un governo che arrivi a fine legislatura. Sebbene nel tempo il M5S sia riuscito a divenire un interlocutore affidabile per i blocchi di potere della penisola, resta il fatto che offre migliori garanzie l’usato sicuro piuttosto che il nuovo fresco di mercato.
D’altra parte sinora il PD ha saputo garantire politiche economiche e sociali tali da garantire e favorire la perpetuazione dell’ordine costituito, con pochi rischi di conflitto sociale diffuso.

E’ quindi possibile che Gentiloni abbia qualche chance di traghettare la propria compagine governativa sino alla primavera del 2018.

Chi si era illuso che tutto cambiasse dopo il referendum, deve fare i conti con il fatto che è bastato sostituire un cocchiere arrogante ad avventato con uno più pacato e prudente, per rimettere in viaggio la carrozza.

Chi invece si indigna perché Mattarella non ha sciolto le Camere ed indetto nuove elezioni, evidentemente conosce poco la Costituzione che ha difeso come ultimo baluardo di libertà.

Nella Costituzione non è prevista l’elezione diretta del governo e l’incarico di formarne uno spetta, in primis, al partito di maggioranza relativa, che in questo caso è il PD.

Va da se, invece, che il governo Gentiloni dovrà fare i conti sullo slittamento di senso assunto dal referendum costituzionale, dopo la scelta, decisamente avventata di Matteo Renzi di trasformare il si e il no in un giudizio sul suo governo.

Il “licenziamento” di Giannini pare essere un tentativo di recupero del consenso perduto tra i lavoratori della scuola, tradizionalmente bacino di consenso per il PD.

Tutto questo, va da se, è un gioco che vale finché le pur palpabili tensioni sociali ri-troveranno la via della sottrazione conflittuale dall’istituito. Altrimenti, a metà boa degli anni Dieci, rischiamo di realizzare la più triste delle profezie dei Nostradamus della Prima Repubblica e ci toccherà, comunque vada, morire democristiani.

Ascolta la diretta dell’info di blackout con Stefano Capello.

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Corrispondenza dal Rojava

rojavaL’attenzione dei media internazionali è concentrata da mesi sulla battaglia di Aleppo, da qualche giorno si è spostata su Palmira, nuovamente conquistata dall’ISIS.

Grande eco ha avuto l’attentato rivendicato dal TAK (Falconi per la libertà del Kurdistan) ad Istanbul e la dura repressione – 235 arresti – scatenata da Erdogan contro l’HDP, il partito considerato vicino al PKK, da mesi nel mirino della magistratura turca.
La tortura nei confronti degli arrestati è pratica comune che colpisce gli attivisti meno noti come il segretario del partito.

Scarsa è l’attenzione dei media internazionali sulla guerra che l’esercito turco sta combattendo in Rojava contro le esperienze di autogoverno del Rojava. Anche Shengal è minacciata di invasione dalle truppe turche ammassate al confine.

Un compagno torinese, che da diversi mesi si trova in Rojava, ha diffuso un report sulla guerra in corso.
L’informazione di radio Blackout lo ha sentito in diretta martedì 6 dicembre. Ci ha raccontato degli ultimi bombardamenti e della morte di due volontari, che aveva conosciuto direttamente, un comunista tedesco e un anarchico statunitense. Quest’ultimo, Mike Israel, è stato tar i fondatori dell’IWW di Sacramento.

Ascolta la diretta con il compagno.

Di seguito il suo report:
“Il 24 agosto l’esercito turco ha dato il via all’operazione denominata scudo dell’Eufrate, invadendo ufficialmente il territorio siriano. Da quel giorno si sono susseguiti molti attacchi contro il Rojava. Continued…

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Nord Dakota. Sospesi i lavori dell’oleodotto

US-ENVIRONMENT-PROTEST-OIL-PIPELINELa scorsa settimana è circolata la notizia che l’oleodotto che avrebbe dovuto passare sotto il lago Oahe è stato bloccato. Obama alcune settimane fa ha fermato i lavori, chiedendo ulteriori verifiche sull’impatto ambientale dell’opera. Il verdetto del Genio militare è favorevole ai Sioux della Riserva di Standing Rock e alle migliaia di attivisti che hanno dato vita all’accampamento di lotta che ha raccolto settemila persone, nonostante la neve e il freddo. Il percorso dell’oleodotto è stato bocciato, perché il rischi per l’ambiente sono troppi ed è consigliabile studiare percorsi alternativi.
E’ tuttavia presto per cantare vittoria, perché la sospensione è di 120 giorni non è la prima nella storia di una lotta, in cui ci sono stati oltre quattrocento arresti, numerosi feriti, anche gravi.

Il 20 gennaio si insedierà Donald Trump, che ha già dichiarato di voler far ripartire i lavori: è chiaro che, pur avendo segnato un punto a proprio favore, gli oppositori all’oleodotto hanno di fronte ancora una lunga lotta.

Per questo tantissimi tra i nativi americani che per settimane e settimane sono rimasti accampati sulle pianure attraversate dal fiume Missouri, scontrandosi più di una volta con le forze dell’ordine, non vogliono mollare la posizione. Vogliono restare nelle loro tende e nei loro caravan nonostante il rigido inverno sulle sponde del lago Oahe sia già iniziato.

È proprio sotto quel lago che la Dakota Access, società del gruppo di Dallas Energy Transfer Partners, vorrebbe far passare l’oleodotto, col rischio di inquinare le falde acquifere a meno di un chilometro dalla riserva. In passato il numero uno della Energy Transfer è stato chiaro: “Non se ne parla proprio, non abbiamo alcuna intenzione di cambiare programmi”. Di qui il lungo braccio di ferro con l’amministrazione federale e con le autorità locali, perché lo stop ora può significare fermare tutto per mesi
Proprio quando il Dakota Access era quasi terminato.
Lungo quasi duemila chilometri, parte dai campi del Nord Dakota e arriva fino a un terminal in Illinois, passando per il South Dakota e l’Iowa. Ad opera ultimata avrà una capacità massima di 550 mila barili di greggio al giorno.
Gli interessi dietro questa infrastruttura, su cui sono stati investiti 3,7 miliardi di dollari, sono dunque enormi. La stessa famiglia Trump avrebbe ancora una partecipazione nella Energy Transfer Partners, seppur ridotta rispetto a qualche anno fa quando la cifra ammontava tra 500 mila e un milione di dollari. Di certo Trump possiede oggi azioni per 100-250 mila dollari nella Philips 66, che detiene il 25% della Dakota Access. Anche qui, dunque, potrebbe profilarsi un conflitto di interessi, nel momento in cui la nuova amministrazione Usa dovrà decidere sulle sorti del controverso progetto.
Nel frattempo un nuovo accampamento è sorto intorno al cantiere di una parte già costruita della pipeline. Il fronte si sta allargando.

La lotta dei Lakota è riuscita in questi anni a rivitalizzare il movimento dei nativi statunitensi, la fetta di popolazione più povera e repressa degli States. Non solo la resistenza al lago Ohae ha catalizzato un più ampio movimento ambientalista, tessendo reti che potrebbero essere una nuova linfa nelle lotte degli anni a venire.

Ascolta la diretta dell’info di Blackout con Robertino Barbieri.

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L’onda rosa. Il grande corteo delle donne a Roma

torinoQuando la marea sale nei paesi affacciati sull’Oceano, comincia piano, piano, piano. Poi diventa impetuosa e in breve copre tutto.

In questi mesi prima del corteo del 26 novembre abbiamo visto la marea salire. Sembrava una quieta marea mediterranea, destinata ad allontanare di qualche metro il bagnasciuga. Poi, passo dopo passo, assemblea dopo assemblea chi ha attraversato il percorso di “non una di meno” ha visto crescere una marea forte, di quelle che mutano il profilo della costa, assediando le roccaforti del potere ancorate a terra.

A Roma è dilagata come solo l’Oceano sa fare. Centomila, duecentomila donne sono scese in piazza riempiendola con i loro corpi indocili, con la forza di chi non accetta il ruolo di vittima predestinata, di chi non vuole “essere difesa” da uomini (e donne) in divisa, di chi sa che la propria libertà cresce, quanto più libera è la donna che marcia accanto.

In tante si sono incontrate e ri-conosciute per le strade di Roma, dove tanti percorsi diversi si sono intrecciati, come gomitoli di una lana che tesse una trama di saperi, pratiche, intersezioni, che torneranno a maturare nei tanti luoghi da cui si è partite e poi tornate.

L’assemblea della domenica, un’assemblea eccessiva, debordante, enorme è iniziata in perfetto orario, perché la tensione del momento non si poteva né doveva esaurire nello spazio del corteo, ma si doveva proiettare nei mesi futuri, germinando nuove lotte, nuovi incontri, nuovi spazi liberi.

I tanti tavoli tematici in cui si è articolata l’assemblea hanno raccolto proposte che dovranno essere ridiscusse e ri-articolate nei vari territori.

L’idea di uno sciopero delle donne per il prossimo 8 marzo è stata condivisa da tutte nella plenaria finale.

A Torino la prossima assembea è fissata per il 7 dicembre in via Millio 34 alle 19,30.

Ascolta la diretta di Blackout con Barbara dell’assemblea “Non una di

mde

Nello stesso giorno a Torino c’è stato un punto informativo in centro, con una piccola mostra sulle azioni solidali con le compagne sotto processo all’Aquila per aver denunciato la condotta dell’avvocato difensore di uno stupratore feroce, il militare Tuccia che nel 2012 ridusse in fin di vita una giovane donna.

Qui il resoconto dell’azione. 

Qui il volantino distribuito a Torino.

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Retate, fogli di via e minacce di sgombero al campo rom di via Germagnano

corteoromSgomberi, retate, fogli di via e deporrtazioni hanno scandito la vita nella baraccopoli di i via Germagnano nell’ultimo mese e mezzo. Controlli a tappeto, fotografie delle targhe, fogli di via, baracche abbattute hanno concretizzato le minacce del sindaco Appendino, che ha dichiarato ai giornali l’intenzione di sgomberare il campo.

Durante gli i “controlli” diversi rom di ogni età hanno subito aggressioni, prima di essere accompagnati in commissariato per ricevere più di 30 fogli di via. Pare siano state inoltre portate a termine alcune deportazioni in Romania, è stato messo sotto sequestro un furgone e abbattuta una baracca.
L’ultima invasione del campo è di lunedì 14 novembre. In quell’occasione ai bambini è stato impedito di andare a scuola.
L’amministrazione comunale, che ha contratto un chiaro debito con chi le ha garantito la vittoria al ballottaggio con Fassino, intende pagare sino in fondo la cambiale.
La giunta a 5 stelle non ha i fondi, con cui l’amministrazione PD ha gestito lo sgombero della baraccopoli di lungo Stura Lazio, dove la promessa di una casa, ha impedito sino allo scorso autunno il raggrumarsi di una resistenza concreta allo sgombero.
La sindaca Appendino ha ben poco da promettere alla gente del campo, ed è quindi probabile che si affidi esclusivamente alla forza bruta.
La situazione, inoltre, si è aggravata, dopo l’ordinanza di sequestro e sgombero del campo emessa dalla magistratura in seguito ai rilievi effettuati dall’Arpa, che avrebbe trovato elevati livelli di inquinamento del terreno da zinco, stagno e piombo, proclamando il disastro ambientale.
Con tutta probabilità la giunta comunale sfrutterà questa rilevazione a proprio favore accusando gli abitanti (150 famiglie in tutto) di essere gli unici artefici dell’avvelenamento (nonostante il campo si trovi praticamente accanto ad una discarica e la situazione sia stabile da più di 20 anni).
Appendino può giocare la carta di uno sgombero per il “bene” dei baraccati, dal momento che sarebbe in gioco il loro stesso stato di salute.
Va da se che la salute di chi rischia di essere gettato in strada in pieno inverno, pare interessare poco l’amministrazione pentastellata, che si allinea, anche in questo, con l’opposizione dem.
L’ultima trovata di Appendino e battere cassa a Roma, per ottenere cinque milioni di euro per lo sgombero di via Germagnano. Cambiano le giunte la musica resta la stessa.

Ascolta la diretta  dell’info di radio Blackout con Jean, uno dei partecipanti alla lotta di Lungostura Lazio, culminata nelle occupazioni dell’ex caserma di via Asti prima, e dell’ex ASL di via Borgo Ticino, poi.
Ci ha raccontato anche qualche storia individuale, come quella di Ionut, preso e portato in questura, mentre tornava dall’ospedadale dove era nato suo figlio. Per non dire di Gheorghe, che nonostante i suoi evidenti handicap, è stato portato in questura, pestato, poi in ospedale, perché sarebbe “caduto dal letto”.

 

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Torino. Arresti e divieti di dimora

asilo-29-novSin dalle prime ore dell’alba la polizia ha fatto irruzione all’Asilo Occupato di via Alessandria e alla Casa occupata di corso Giulio Cesare per arrestare quattro persone e per comunicare ad altre 9 il divieto di dimora a Torino.
All’Asilo, dove l’antisommossa ha bloccato per ore l’accesso a via Alessandria e quello su via Bologna, gli occupanti sono saliti sul tetto.
Coinvolti nell’operazione
13 esponenti dell’assemblea contro gli sfratti. Fermato e portato in Questura anche un ragazzo straniero senza documenti.
Nel mirino della Questura la resistenza ad uno sfratto in via Baltea del 2 maggio di quest’anno. A firmare il provvedimeto il PM Andrea Padalino e la GIP Loretta Bianco, entrambi già protagonisti di numerose operazioni repressive contro gli anarchici.

Ascolta la diretta di radio Blackout con Gabrio, redattore di Blackout, cui questa mattina è stato imposto il divieto di dimora a Torino.

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Referendum. Tanto rumore per nulla

diserta-2-jpgLa partita reale e quella simbolica
I miti fondatori, quelli che cementano l’immaginario, hanno lo straordinario vantaggio di non necessitare dell’onere della prova.
La Costituzione nata dalla Resistenza è uno di questi. I sostenitori del rigetto della riforma costituzionale sulla quale si terrà il 4 dicembre un referendum confermativo, ripetono come un mantra le parole di Calamandrei: “Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati.
Dovunque è morto un Italiano (maiuscolo!) per riscattare la libertà e la dignità della nazione, andate là, o giovani, col pensiero, perché là è nata la nostra costituzione.”

Questa frase coagula un nucleo emozionale potente. L’identificazione tra la Resistenza (con la maiuscola) e la Costituzione
repubblicana trasforma il no al Referendum in una crociata antifascista. Chi non partecipa al gioco è considerato un nemico o un ignavo incapace di cogliere il momento cruciale.

Difficile, anche se non impossibile, smontare questa narrazione, perché essa trae il proprio alimento da un sentire diffuso, difficile da interrogare con le mere armi della critica, nei fatti impermeabile perché si nutre di una Resistenza ormai mitica e, quindi, storicamente inattingibile.

Tuttavia l’epopea partigiana è ed è stata nocciolo sentimentale di tante esperienze diverse, da consentire, anche sul piano inclinato della retorica, di cogliere linee di cesura, capaci di incrinare il Mito, facendo riemergere se non la storia, una memoria non condivisa e pacificata. diserta-3-jpgQuella della lotta antifascista dagli anni Venti alla seconda metà degli anni Quaranta, quella di chi, riconoscendosi nella componente rivoluzionaria dell’epopea partigiana, ha intrecciato i fili delle lotte di ieri con quelle di oggi.

Una parte importante di chi ha combattuto il fascismo e la dittatura non si sarebbe potuta riconoscere nella frase di Calamandrei, perché quei partigiani non erano “Italiani [che volevano] riscattare la libertà e la dignità della nazione”, ma internazionalisti che lottavano perché la resistenza al fascismo si trasformasse in rivoluzione.
Nessuno di loro si sarebbe identificato tra i padri e le madri della Repubblica nata dalla Resistenza, perché nessuno di loro voleva una società di classe, perché molti rigettavano il patriottismo, lo stato e la sua pretesa di avocare a se il monopolio della violenza.
Come è finita è noto. La Resistenza venne disarmata e poi imbalsamata nella guerra di liberazione nazionale, i partigiani che continuarono la lotta dopo il 25 aprile, quelli che l’avevano iniziata ben prima dell’8 settembre 1943, finirono in carcere, mentre Palmiro Togliatti, segretario del Partito Comunista e ministro della giustizia, firmava l’amnistia per i fascisti. Tutto cambiò, ma molto di quello che contava rimase come prima.
La lunga teoria di stragi di Stato che ha segnato il percorso della Repubblica nata dalla Resistenza, ne è il segno, perché la stessa funzione pacificatrice della socialdemocrazia in salsa PCI, stentò ad imporsi in un paese, dove forte era la tensione a volere di più che la fine della guerra e del fascismo, in un paese dove i fascisti, sconfitti, ma saldamente ai loro posti nei gangli della macchina statale, continuarono ad operare.

diserta4-jpgOgni riferimento ideale alla Resistenza che non ne colga le fratture si trasforma in mero espediente retorico utile all’ammucchiata referendaria, del tutto vano in una prospettiva di radicale trasformazione sociale.

A Torino il Procuratore Capo Spataro, successo a Caselli nel perseguire i resistenti della Libera Repubblica della Maddalena, si è schierato apertamente per il no alla riforma costituzionale. Anche l’Anpi che, tranne in poche sezioni, ha condannato i No Tav, ha fatto la stessa scelta.
Le linee di cesura erano chiare nel 1945, lo sono ancora oggi per chi le vuole vedere.

Alla Maddalena di Chiomonte nella primavera del 2011 visse una Libera Repubblica, il cui richiamo ideale alle repubbliche partigiane era forte. E forte era la consapevolezza che la sottrazione di una porzione di territorio al controllo dello Stato e alle brame dei padroni amici del governo era un gesto sovversivo, radicale. Chi sedeva sulle poltrone di palazzo Chigi non poteva permetterlo: in gioco c’era ben più che un lucroso affare di treni. La libera Repubblica di Chiomonte era un avamposto resistente di pochi chilometri in mezzo ai monti, ma alludeva sul piano simbolico e reale, alla possibilità che si potesse fare a meno dello Stato, del capitalismo, della polizia, dell’esercito.

Il primo gesto della polizia dopo lo sgombero e l’occupazione fu issare alta sul piazzale del museo archeologico, vuotato e trasformato in bivacco per le truppe di occupazione, una bandiera tricolore, simbolo della Repubblica nata dalla Resistenza.

diserta1A cinque anni da quella primavera di lotta, un movimento in chiara difficoltà, si rifugia nella battaglia referendaria, accanto al capo della Procura di Torino. E a tanti altri, persino peggiori.

Mala tempora currunt.

La Costituzione più bella del mondo?
La Costituzione della Repubblica Italiana difende la proprietà privata, affida allo Stato il monopolio legittimo della violenza, garantito da polizia e forze armate, prevede tribunali, carceri, guerre, confini…
E la “nuova” Costituzione sottoposta a referendum confermativo? Anche!

Nei fatti la distanza tra la costituzione formale e quella reale è sempre stata grande. L’Italia è in guerra da trentacinque anni, senza che queste guerre siano mai state proclamate. Di fronte alla durezza di questo fatto, che importanza ha lo snellimento della procedura per dichiarare guerra? Si tratta di un semplice adeguamento della Costituzione formale a quella reale.

Le leggi, quelle generali che definiscono l’ordinamento dello Stati, come quelle ordinarie, sono spesso niente più che la rappresentazione ritualizzata dei rapporti di forza all’interno della società. Non solo. La codifica in legge delle istanze dei movimenti popolari imbriglia le tensioni che si sono espresse con forza dirompente, rinchiudendole in una gabbia normativa.

Il job act renziano è il momentaneo punto di approdo di tre decenni di smantellamento di un sistema di tutele e garanzie, che fu il precipitato normativo di lotte le cui ambizioni erano ben più ampie. L’esaurirsi della spinta propulsiva di quelle lotte ha aperto la strada alla reazione.

Le donne (e gli uomini) che in Italia si sono battuti per la depenalizzazione dell’aborto e per la libera maternità, non volevano una libertà monca, delimitata da una legge, frutto del compromesso tra il mondo cattolico e le istanze libertarie e laiche, che attraversavano potentemente la società.
Oggi scegliere è sempre più difficile, perché i pesanti limiti di quella legge vengono usati contro la libertà femminile, senza che vi sia una significativa spinta da parte dei movimenti.

Sono solo due esempi della concretezza delle argomentazioni di chi si sente estraneo ed ostile alla partita referendaria, perché l’illusione che la battaglia sulla Costituzione sia di quelle decisive nasconde una realtà che andrebbe affrontata nella sua crudezza.
L’attuale governo – come quelli che l’hanno preceduto – ha affondato le lame nel corpo sociale con la facilità con cui il coltello si infila nel burro.
La distanza tra la Costituzione formale e la Costituzione reale dimostra che le stesse regole del gioco del potere sono solo una vetrina da lustrare nelle cerimonie ufficiali tra il 25 aprile e il 2 giugno. Una vetrina che certa sinistra, radicale e non, sta lucidando per mettere in scena un’opposizione al governo che stenta a crescere nella società e si rifugia nel gioco referendario, dove c’è ressa per partecipare alla partita dei tutti quanti assortiti contro Renzi.

Il gioco politico
Se il richiamo al mito è il cemento sentimentale, la caduta del governo, che ha profanato la sacralità della Resistenza, diviene l’obiettivo concreto, sul quale coagulare un fronte ampio.
Una sinistra in cerca d’autore ha deciso di giocare la carta referendaria per tentare di uscire dal pantano in cui si trova da anni. Quel che resta della Sinistra radicale punta su un rilancio che la ri-proietti nella sfera istituzionale. I post-autonomi invece mirano a candidarsi a punto di riferimento di una galassia extraistituzionale, che possa godere di qualche patronage da parte di un governo pentastellato.
Il fronte del No è attraversato da numerose linee di cesura, che tuttavia, si ricompongono intorno all’obiettivo.
Leghisti, fascisti, pentastellati, rifondati ed antagonisti andranno tutti a votare No per cacciare Renzi. Anche la minoranza dello stesso PD voterà No per indebolire il governo.

Renzi, tradito dalla propria arroganza, ha gettato sul piatto la propria poltrona di primo ministro, lanciandosi nella bocca del leone. E’ riuscito a coagulare contro di se un variegato fronte di opposizione, non ultima la minoranza del PD, che vorrebbe indebolirlo, ma non ha interesse a farlo cadere.
Nei fatti la partita interna al PD è di gran lunga la più interessante, perché mostra nella sua crudezza, la feroce lotta di potere, nella quale la riforma costituzionale è solo un feticcio. La minoranza del PD, che in parlamento è però maggioranza, non può permettersi di far cadere direttamente il governo, ma sa di essere destinata scomparire se la legge elettorale non cambierà, per cui si sta giocando le ultime carte prima di una possibile scissione.
Renzi sa che probabilmente perderà e naviga a vista per restare a galla.
Le destre, messe nell’angolo dalla perdurante anomalia grillina, che in parte ne ha mutuato i programmi e gli obiettivi, sperano in un rilancio, forti del vento che spira forte dall’Europa, che tuttavia potrebbe continuare a gonfiare le vele dei penta stellati.

Gli ingredienti della propaganda per il no sociale sono un misto di buoni sentimenti e richiami al realismo. Un minestrone strano ma efficace, visti gli ampi consensi che vi si sono coagulati intorno.
Nei fatti un espediente per restare a loro volta a galla, un espediente che rischia di distogliere l’attenzione dall’urgenza della questione sociale, tentando di incanalarne le tensioni in una partita referendaria, dove si decide se mantenere o meno il bicameralismo.

Gli antagonisti hanno trovato la formula magica che risolve tutti i problemi. Votare No alla riforma costituzionale voluta dal governo, per far cadere Renzi e mandare al suo posto i 5 stelle, un partito autoritario, giustizialista, razzista.

Il gioco della Carta Costituzionale è come quello delle tre carte: non si vince mai. O, meglio, vince il ceto politico, vincono i populisti, il popolo del no euro, quello degli spaventati dalla finanziarizzazione dell’economia. Non si caccia un mostro evocandone un altro. Il Godzilla che esce dalle acque del Mediterraneo è un mostro nazionalista, che si nutre di muri e filo spinato, che sogna il protezionismo e l’autarchia. Può sconfiggere Renzi, come Trump ha sconfitto Clinton.
La paura fa Novanta, ma la paura è, questa sì, l’arma dell’estrema destra, del fascismo che ritorna, del grande complotto contro la compagine grillina.
D’altra parte il rischio, forse consapevole, del caos sistemico, li attrae, come qualche anno fa i forconi tricolori per le strade di Torino. Camminare sul filo è eccitante ma rischioso.
Imitare Togliatti e il vecchio PCI è la tentazione ricorrente degli antagonisti del terzo millennio, accecati dalla follia del ritorno di un passato che (fortunatamente) non ritorna. Giocano la loro partita tra penetrazione nelle cooperative, festival come quello dell’Unità, flirt istituzionali e movimenti sociali.
Su quest’insieme eterogeneo di pratiche imprimono il marchio del realismo contro l’utopia vana, “ideologica”, di chi non accetta il gioco e sceglie il rifiuto.
Il rifiuto di cacciare Renzi per far governare Di Maio. O Salvini, Berlusconi…

Cacciamoli tutti! Vadano via tutti!

Tra chi governa o aspira a governare noi rifiutiamo di scegliere, scegliamo il rifiuto. Non vogliamo decidere la foggia delle nostre catene, perché vogliamo spezzarle, nella chiara consapevolezza che la strada è tutta in salita, irta di ostacoli.
Nell’altrettanto chiara consapevolezza che l’urgenza del momento, non consente scappatoie.

Noi non vogliamo né padroni, né padrini. Non vogliamo il caos. Sappiamo che percorsi di libertà, di uguaglianza di mutuo appoggio si nutrono dell’autonomia del corpo sociale dal quadro politico istituzionale, perché solo nella pratica si sedimenta l’immaginario che costruisce, giorno dopo giorno, nel conflitto e nella sottrazione dall’istituito, il mondo che vogliamo.
Cambiare la rotta è possibile. Con l’azione diretta, costruendo spazi politici non statali, moltiplicando le esperienze di autogestione, costruendo reti sociali che sappiano inceppare la macchina e rendano efficaci gli scioperi, le lotte territoriali, le occupazioni e riappropriazioni dal basso degli spazi di vita.

Un mondo senza sfruttati né sfruttatori, senza servi né padroni, un mondo di liberi ed eguali è possibile.
Tocca a noi costruirlo.

I compagni e le compagne della Federazione Anarchica Torinese

Scarica qui l’opuscolo 

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Militari stupratori. Vernice rosa e scritte alla scuola di applicazioni militari di Torino

mde“I militari stuprano. L’Aquila non si dimentica. Tuccia stupratore, Valentini il suo difensore.”
“Se toccano una, toccano tutte, la solidarietà è la nostra arma.”

Nella notte tra il 17 e il 18 novembre manifesti con queste scritte sono stati affissi sui muri delle Scuola di Applicazioni militari di corso Galileo Ferraris di Torino. Accanto è stata tracciata la scritta “militari stupratori”: una secchiata di vernice rosa ha coperto parte dell’insegna.

Un’azione di solidarietà con le donne sotto processo a L’Aquila, per aver espresso solidarietà attiva a Rosa, stuprata e quasi uccisa da Tuccia, militare dell’operazione strade sicure.

Le immagini dell’azione e il comunicato sono state pubblicate su Indymedia

Cosa è successo?
mdeSiamo all’Aquila. Sono trascorsi tre anni dal terremoto che ha devastato la città a fatto tanti morti. Il governo Berlusconi decise che l’Aquila divenisse laboratorio di sperimentazione di strategie di controllo di una popolazione, piegata dal terremoto ed obbligata a scegliere tra la (auto)deportazione sulla costa e i campi tende militarizzati.
Il centro città è ancora un cumulo di macerie, i campi tende hanno ceduto il posto a container e alla New Town, fatta di cemento e sputo, che ha arricchito i palazzinari senza ricostruire la città.
Per l’operazione “strade sicure” partita nel 2008 in risposta all’ennesimo allarme “sicurezza”, anche per le strade dell’Aquila è presente un robusto contingente di militari.

La notte del 12 febbraio del 2012 fa molto freddo. Siamo in montagna e la neve è alta.
Rosa viene trovata mezza nuda, esanime in un lago di sangue ed in grave stato di ipotermia. Solo pochi minuti e sarebbe morta.
Sono le quattro. Rosa aveva trascorso la serata in una discoteca a Pizzoli, dove non c’erano tante persone se non i militari di “strade sicure”.
mdeIn seguito Rosa ricorderà solo che si trovava al guardaroba a parlare con la sua amica. Si risveglierà in sala operatoria. Lo stupro è evidente e anche la brutalità con la quale è stato commesso.
48 punti per ricostruire vagina e apparato digerente devastati dalla violenza.
Il militare del 33° reggimento artiglieria Aqui dell’Aquila Francesco Tuccia, difeso dagli avvocati Antonio Valentini e Alberico Villani, sarà l’unico indagato e condannato per i fatti.

Il dibattimento processuale, il racconto dei media, ci dimostra che una cultura di complicità e legittimazione dello stupro, della violenza maschile sulle donne permea ancora profondamente il nostro paese. Specie quando gli stupratori indossano una divisa.
Al processo, nonostante la terribile violenza, l’avvocato Valentini sostenne che Rosa era stata consenziente.
Una violenza, se possibile, peggiore di quella che le aveva lacerato le carni, facendola quasi morire.
La solidarietà femminista ha fatto sì che la storia di Rosa non passasse inosservata.
Le donne che hanno seguito il processo, che informato su quello che accadeva, rimanendo vicine a Rosa, si sono attirate l’ostilità di militari e avvocati difensori.

Venerdì 18 novembre all’Aquila si è aperto un altro processo. Questa volta alla sbarra erano due donne della Rete di solidarietà femminista, che avevano partecipato alla campagna di solidarietà con Rosa.
Ad accusarle c’è l’avvocato Valentini, uno dei difensori dello stupratore Tuccia.
La loro colpa?
Aver diffuso una lettera, nella quale veniva descritta la condotta processuale di Valentini, che, nel novembre del 2015, era stato invitato ad un convegno alla Casa Internazionale delle Donne di Roma, un luogo simbolo dei percorsi di libertà delle donne.
Un convegno al quale non ha mai partecipato, perché, dopo la campagna , le donne della Casa hanno deciso di chiudergli la porta in faccia.
Valentini, pronto a presentarsi alle prossime elezioni, ha reagito denunciando per “diffamazione aggravata” le due donne.

Le due compagne sono state perquisite, private delle proprie apparecchiature elettroniche di uso quotidiano (cellulari, computer, tablet) per aver diffuso una mail che ribadiva l’atteggiamento provocatorio e sprezzante del difensore di Tuccia nei confronti di Rosa, dove si ricostruiva il clima morboso e pesante di un agghiacciante processo per stupro. In quella lettera era scritto chiaro che la responsabilità di quello stupro era anche dello Stato che aveva trattato le vittime del terremoto come problema di ordine pubblico.
All’Aquila, come in ogni dove, i militari fanno la guerra alla popolazione civile. E stuprano.

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