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Charlie [2]. Né dio né stato

charbLa strage nella redazione di Charlie Hebdo ha suscitato un ampio confronto che continua e si estende viralmente tra la rete, i giornali, i bar.  Tra i contributi che abbiamo pensato di proporvi un articolo della redazione del settimanale anarchico Umanità Nova

L’attacco contro la redazione di Charlie Hebdo che ha lasciato a terra 12 vittime apre un nuovo capitolo della famigerata “guerra al terrore”.
È uno scontro dove, al di là della retorica dei neocon americani e dei loro tristi epigoni europei la maggioranza delle vittime sono stati gli abitanti dei “paesi musulmani” e le libertà civili conquistate in secoli di lotta in occidente.
Non c’è dubbio che l’attacco commesso da islamisti, pista al momento più accreditata e probabile, alla sede del giornale satirico francese vada a favore di chi nella logica dello scontro di civiltà ci sguazza. E in questa logica ci sguazzano sia gli apparati industriali-militari occidentali, con il loro corollario di neo-burocrati della sorveglianza, che le componenti più reazionarie del mondo islamico, facciano esse parte del blocco di potere sunnita delle petromonarchie del golfo o parte di quella galassie di schegge impazzite e di soggetti più o meno autonomi, ivi compreso lo Stato Islamico o parte del blocco di potere Siro-Iraniano sciita o dei vanagloriosi sogni neottomani di Erdogan. Continued…

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Charlie[1]. Io non mi dissocio

non dissocioLa strage nella redazione di Charlie Hebdo ha suscitato un ampio confronto che continua e si estende viralmente tra la rete, i giornali, i bar.
Vi proponiamo un pezzo di Karim Metref.
Qui potete ascoltare l’intervista realizzata dall’info di Blackout.
Il pezzo di Karim è la risposta ad un articolo di Igiaba Scego uscito sull’Internazionale:

Cara Igiaba,
in questi giorni saremo messi sotto torchio e le prossime campagne elettorali saranno fatte sulla nostra schiena. Gli xenofobi di tutta Europa vanno in brodo di giuggiole per la gioia e anche gli establishment europei che non hanno risposte da dare per la crisi saranno contenti di resuscitare il vecchio spauracchio per far rientrare le pecore spaventate nel recinto.
Da ogni parte ci viene chiesto di dissociarci, di scrivere che noi stiamo con Charlie, di condannare, di provare che siamo bravi immigrati, ben integrati, degni di vivere su questa terra di pace e di libertà.
Ebbene, anche se ovviamente condanno questo atto come condanno ogni violenza, non mi dissocio da niente. Non sono integrato e non chiedo scusa a nessuno. Io non ho ucciso nessuno e non c’entro niente con questa gente. Altrettanto non possono dire quelli che domani dichiareranno guerra a qualcuno in nome di questo crimine.
Tu dici: “Oggi mi hanno dichiarato guerra. Decimando militarmente la redazione del giornale satirico Charlie Hebdo mi hanno dichiarato guerra. Hanno usato il nome di dio e del profeta per giustificare l’ingiustificabile. Da afroeuropea e da musulmana io non ci sto”.
Io con questa gente sono in guerra da trent’anni. Li affrontavo con i pugni all’epoca dell’università e con le parole e con le azioni da allora e fino a oggi. Sono trent’anni che li combatto e sono trent’anni che il sistema della Nato e i suoi alleati li sostengono regolarmente ogni dieci anni per fomentare una guerra di qua o di là.
Anche io sono afroeuropeo, sono originario di un paese a maggioranza musulmana ma non mi considero un musulmano: non sono praticante, non sono credente. Ma anche io non ci sto. Non ci sto con questi folli, non ci sto quando lo fanno a Parigi ma non ci sto nemmeno quando lo fanno a Tripoli, Malula o a Qaraqush.
Non sto con loro e non sto con chi li arma un giorno e poi li bombarda il giorno dopo. Non ci sto in questa storia nel suo insieme e non solo quando colpisce il cuore di questa Europa costruita su “valori di convivenza e pace”. Perché dico che questa Europa deve essere costruita su valori di pace e convivenza anche altrove, non solo internamente (ammesso che internamente lo sia).
Tu dici che questo non è islam. Io dico che anche questo è islam. L’islam è di tutti. Buoni o cattivi che siano. E come succede con ogni religione ognuno ne fa un po’ quello che vuole. La adatta alle proprie convinzioni, paure, speranze e interessi. Nelle prossime ore, i comunicati di moschee e centri islamici arriveranno in massa, non ti preoccupare. Tutti (o quasi) giustamente si dissoceranno da questo atto criminale. Qualche altro Abu Omar sparirà dalla circolazione per non creare imbarazzo a nessuno. La Lega e altri avvoltoi si ciberanno di questa storia per mesi, forse per anni. E noi ci faremo di nuovo piccoli piccoli, in attesa della fine della tempesta. Come stiamo facendo dopo questi attentati (forse) commessi da quella stessa rete che la Nato aveva creato per combattere una sua sporca guerra.
Loro creano mostri e poi, quando gli si rivoltano contro, noi dobbiamo chiedere scusa, dissociarci e farci piccoli. A me questo giochino non interessa più. Non chiedo scusa a nessuno e non mi dissocio da niente. Io devo pretendere delle scuse. Io devo chiedere a questi signori di dissociarsi, definitivamente, non ad alternanza, da questa gente: amici in Afghanistan e poi nemici, amici in Algeria e poi nemici, amici in Libia e poi… non ancora nemici lì ma nemici nel vicino Mali, amici in Siria poi ora metà amici e metà nemici… Io non ho più pazienza per questi macabri giochini. Mando allo stesso inferno sia questi mostri sia gli stregoni della Nato e dei paesi del Golfo che li hanno creati e li tengono in vita da decenni. Mando tutti all’inferno e vado a farmi una passeggiata in questa notte invernale che sa di primavera… Speriamo non araba.

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Profughi, affari e una buona stella

Naufragio Scicli: a bordo barcone 150-200 persone25 dicembre. Per vederci bene serve la luce, se la luce è troppa si rischia di restare abbagliati, di non vedere quello che conta. E’ il caso delle recenti inchieste sugli intrallazzi miliardari che hanno coinvolto l’amministrazione comunale romana, l’ex sindaco (post)fascista Alemanno, e un giro trasversale di politici, malavitosi e coop rosse, dall’ex Nar/banda della Magliana Carminati al democratico Buzzi.
Il colore dei soldi unisce più di quello della politica.
L’inchiesta ha dato visibilità ad un malaffare diffuso, capillare, sistemico, chiarendo quale grosso e lucroso affare sia la gestione dell’accoglienza dei richiedenti asilo o “l’integrazione” di rom e sinti. Occorre tuttavia guardare oltre il dito che indica la luna. Quando le assegnazioni sono fatte seguendo le regole, i rifugiati e i rom sono comunque un buon affare per chi gestisce l’accoglienza.
Ben poco, a volte nulla, di quello che dovrebbe essere garantito viene davvero offerto a chi fugge guerre e persecuzioni ed approda nel nostro paese per cercare di ottenere asilo.
Il business sulla pelle degli immigrati, dei richiedenti asilo, delle comunità rom e sinti è enorme. L’attenzione mediatica si è concentrata sulle tangenti versate per accaparrarsi i fondi destinati all’accoglienza, ma pochissimi si sono interrogati su quali siano i meccanismi che permettono questi enormi affari sulle spalle dei migranti e di noi tutti.
Partiamo da una considerazione banale ma importante: qualsiasi spesa pubblica di grossa entità – in particolare ma non solo, se affidata a enti esterni – ha un corollario di speculazioni, ingordo appetito di individui privi di scrupoli, corruzione… Questa regola vale per l’edilizia, assistenza o qualsiasi altro ambito.
I meccanismi che regolano i contributi per l’assistenza a rom e richiedenti asilo sono diversi ma con vari aspetti in comune e stesse tecniche per poterne ricavare ingenti somme. Se per i rom una buona parte dei contributi viene dall’Unione Europea, per “l’emergenza dei richiedenti asilo” i soldi vengono tutti dal ministero dell’interno.
Vogliamo capirne di più. Per questa ragione abbiamo sentito Federico, un compagno di Trieste che conosce bene la questione.
Ascolta la diretta con Federico

Vale la pena fare un passo indietro.
Tutto comincia nel 2011: la guerra civile in Libia e la fuga di migliaia di persone che si dirigono nel nostro paese sono all’origine di una ennesima, sin troppo prevedibile, “emergenza”. La prassi adottata ancora oggi è stata elaborata e sperimentata in quell’occasione. Le prefetture, tramite i comuni, individuano nei vari territori soggetti terzi (consorzi, cooperative, enti caritatevoli, ecc) disposti a prendersi in carico (in strutture proprie o dei comuni stessi) un certo numero di richiedenti asilo. Con questi soggetti terzi vengono stipulate convenzioni. Niente gara di appalto al ribasso come nei CIE, ma un’assegnazione diretta, che di fatto molto spesso ricade su cordate amiche. Chi entra nell’affare riceve, per ogni giorno di permanenza nelle strutture, un quota fissa di 35 euro a persona. Con questa quota devono essere garantiti una serie di servizi: vitto, abbigliamento, spese sanitarie, assistenza legale, mediazione culturale e interpreti, corsi di italiano, ecc ed ovviamente le paghe agli operatori che seguono le persone prese in carico. Di questi 35 euro ai richiedenti asilo rimangono in mano solamente 2,50 euro al giorno (il cosiddetto pocket money) che in genere viene dato a cadenza mensile.
È un meccanismo con numerosi punti critici. Ecco i principali.
La scelta dei soggetti terzi a cui affidare le convenzioni e quali servizi siano poi effettivamente effettuati. È abbastanza evidente che una cosa è affidare l’assistenza a soggetti che – nel bene e nel male e pur con mille limiti e criticità – sono nati ed hanno esperienza nel lavorare coi migranti e in particolare coi richiedenti asilo (pensiamo ad esempio a piccoli consorzi o associazioni di base locali slegati dai grandi carrozzoni nazionali tipo Caritas) e altro è darlo a cooperative o associazioni “amiche” che normalmente fanno tutt’altro e che si improvvisano gestori di strutture di accoglienza. Da questo al business sulla pelle dei migranti il passo è breve. Perché – e qui veniamo al secondo punto – il lucro si costruisce su quanti e quali servizi vengono effettivamente forniti ai richiedenti asilo e sulle paghe degli operatori che vi lavorano. Il cibo scadente costa meno di pasti dignitosi, come i corsi di italiano da burla, l’assistenza legale fittizia. E la lista degli esempi si potrebbe ancora allungare. È ovvio che pagare un operatore 700 euro al mese non è la stessa cosa che pagarlo 1300. La quota erogata è sempre la stessa e non ci sono controlli: i margini per guadagnarci sopra sono enormi.
Il meccanismo partito nel 2011 non si esaurito con la fine di quel flusso di profughi (le convenzioni si sono chiuse quasi tutte a fine 2013) ma è stato riproposto pari pari con l’ondata iniziata nel 2013 di persone provenienti soprattutto da Pakistan, Afganistan e Siria. Una nuova “emergenza”, un nuovo enorme business.
Una macchina che rende ricco chi la manovra, stritola le vite di chi già è fuggito a guerre e persecuzioni.
In questi giorni hanno avuto una certa eco i dati diffusi dall’agenzia delle Nazioni Unite sui morti nel Mediterraneo, che, alla faccia di Mare Nostrum, nel 2014 sono state più che nei tre anni precedenti.
Nei primi 10 mesi dell’anno sono arrivati sulle coste italiane circa 150mila migranti, più del triplo rispetto al 2013, soprattutto eritrei e siriani.
L’accoglienza dei profughi in Italia è trattata da media e politici come eterna “emergenza”, per consentire operazioni “tappabuchi” dove la grande abbuffata di soldi pubblici possa proseguire senza grossi intoppi.
La Svezia, paese molto meno popoloso dell’Italia ha accolto molti più rifugiati dell’Italia. In un solo weekend di ottobre, quando era al culmine la crisi di Kobane, sono arrivati in Turchia oltre 150mila profughi, più di quanti ne abbia accolti l’intera Unione europea dall’inizio del conflitto a Damasco. Cifre che la dicono lunga sulle frontiere serrate dell’Unione Europea.
Le cifre di chi non arriva ci raccontano di una strage i cui responsabili siedono nei parlamenti e nei governi dell’UE. In prima fila l’Italia.
Oltre 3400 morti in mare. Una catastrofe umanitaria destinata ad aumentare ancora: I rifugiati sono più del 60% di chi approda nel nostro paese. L’acuirsi e moltiplicarsi di conflitti, in cui spesso il nostro paese è impegnato direttamente, rende facile prevedere che sempre più persone cercheranno rifugio in Europa. Molti, sempre più non arriveranno. La sostituzione di Mare Nostrum con Triton, la missione UE con meno mezzi e meno soldi, non potrà che far crescere la lista di chi affoga.
Mare Nostrum fu la risposta alla strage del 3 ottobre 2013 di fronte a Lampedusa, quando le acque del Mediterraneo inghiottirono 366 uomini, donne, bambini.
Una risposta umanitaria – 150.000 persone intercettate – una risposta di polizia: il nome stesso della “missione” ce lo racconta.
Con Triton, 2,9 milioni mensili di budget contro i 9 di Mare Nostrum, ed il compito di pattugliare entro le trenta miglia dalla nostra costa, resta solo la polizia. E non avrebbe potuto essere altrimenti: Triton è una missione di Frontex, l’agenzia europea per il controllo delle frontiere.
Chi affoga in mezzo al mare lascerà traccia di se solo nei cuori chi lo ha visto partire senza più dare notizie. Chi passa e viene immesso nel programma per i rifugiati si apre la strada dell’accoglienza made in Italy. Tanti soldi per chi gestisce, un lungo limbo per chi resta intrappolato in un paese dove pochi vorrebbero restare.
Lungo una frontiera fatta di nulla si consuma un’idea di civiltà fatta di sopraffazione, guerra, di sfruttamento selvaggio.

Mentre scriviamo qualcuno muore in carcere, sul filo spinato di un confine, qualcuno chiude gli occhi senza aver mai mangiato a sufficienza, altri vivono raspando tra i rifiuti di una discarica, qualcuno nasce in una baracca ed ha già il destino segnato.
Su quella baracca non c’è nessuna buona stella.

Oggi i cristiani festeggiano l’anniversario della nascita di un dio che si è fatto uomo e da uomo si è fatto torturare ed uccidere per una salvezza che non è di questa terra.
Noi che abitiamo la terra e il tempo che ci è capitato, sappiamo che quel poco di bene che potremo ottenere, dipende da ciascuno di noi.
Un mondo senza padroni, governanti, galere, sfruttamento, eserciti è possibile.

Un buon anno di lotta e libertà a tutti e a tutte.

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Chiara, Claudio, Mattia e Nicolò ai domiciliari

notavcant scritta23 dicembre. Dopo oltre un anno di reclusione il tribunale ha deciso di attenuare le misure cautelari contro Chiara, Claudio, Mattia e Nicolò, i quattro No Tav assolti dall’accusa di attentato con finalità di terrorismo lo scorso 17 dicembre. Condannati in primo grado a tre anni e mezzo per danneggiamento e incendio, resistenza e porto d’armi da guerra passano dal regime di alta sorveglianza in carcere ai domiciliari con tutte le restrizioni.
Non è la libertà ma è un passo avanti nella lotta per la loro liberazione.
Ancora incerta la sorte di Francesco, Graziano e Lucio, accusati come gli altri quattro del sabotaggio in Clarea del 14 maggio 2013, per i quali lunedì 22 dicembre c’è stata l’udienza del tribunale del riesame chiamato a pronunciarsi sull’accusa di terrorismo avanzata dalla Procura torinese il 9 dicembre. La sentenza del riesame arriverà entro il 28 dicembre, forse già domani. Nel frattempo i tre sono stati trasferiti nella sezione di alta sicurezza del carcere di Ferrara.
L’accanimento della Procura torinese non si placa neppure dopo la sonora bocciatura subita in corte d’assise. I PM Andrea Padalino e Antonio Rinaudo hanno intascato la benedizione del ministro Lupi, che a poche ore dalla sentenza di Torino, ha dichiarato che chi va in giro di notte con molotov e cappuccio è sicuramente un terrorista. Opinione ribadita in queste ore dopo il sabotaggio della linea ad alta velocità nei pressi di Bologna. Persino Renzi ha preferito la prudenza, limitandosi a parlare di sabotaggio, mentre Lupi insiste sul terrorismo.
Vien da chiedere al ministro dei trasporti se i poliziotti a volto coperto che sparano lacrimogeni in faccia, fracassando ossa e mettendo a repentaglio la vita di tante persone, debbano essere considerati a loro volta dei terroristi.
Domanda inutile. Chi serve lo Stato, chi serve la lobby politico-affaristica che vuole imporre il Tav, ha il diritto di imprimere a forza il marchio della democrazia sui corpi di chi si ribella all’occupazione militare, alla violenza legalizzata dello Stato.
Per la gente del movimento No Tav, che in questi mesi si è stretta ai quattro attivisti, condannati per un’azione che tutti hanno fatto propria, resta la soddisfazione per un allentamento della morsa che li stringe.
Resta forte, per tutti, l’impegno per la liberazione di tutti i prigionieri No Tav.
Per la liberazione delle zone occupate, per fermare un treno, per fermare un’idea di relazioni politiche e sociali ingiusta ed oppressiva.

Su Radio Onda d’Urto un primo commento della notizia

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Ex Moi. Salvini da spettacolo ma non si avvicina

ex moi salviniSabato 20 dicembre. Anche il segretario della Lega Nord, Matteo Salvini, ha cercato ed ottenuto il suo quarto d’ora di visibilità venendo a Torino per “ispezionare” le palazzine occupate nel 2013 da centinaia di profughi e rifugiati rimasti in strada, dopo la chiusura della cosiddetta “emergenza nord africa”.
Da settimane fascisti di tutti i colori soffiavano sul fuoco della guerra tra poveri per raccattare consensi a Torino sud. Ogni volta è stato un flop. Agli appelli di Forza Nuova e Fratelli d’Italia hanno risposto poche decine di persone.
Nel mirino i rom di via Artom e i rifugiati dell’ex MOI.
L’inchiesta su mafia capitale ha mostrato a tutti quale grande affare siano le vite di rifugiati e rom. Il colore dei soldi è più forte del colore politico, una coop “rossa” e un esponente dell’eversione fascista e della banda della Magliana si sono uniti per spartirsi la torta. Una torta della quale rifugiati e rom non hanno mangiato nemmeno le briciole.
Con o senza tangenti i rifugiati sono un buon affare. Finché… Finché non decidono di riprendersi le loro vite, occupando le palazzine delle Olimpiadi dello spreco e della speculazione, fatte di sabbia e sputo e rimaste vuote dopo il passaggio del carrozzone degli affari.
Matteo Salvini ha preso le redini della Lega Nord, mirando a diventare il Le Pen italiano, punto di riferimento della destra più estrema e razzista. Alcune centinaia di persone hanno atteso Salvini all’EX Moi per il presidio lanciato dal Comitato di sostegno ai rifugiati e profughi.
Per l’occasione la polizia ha fatto le cose in grande. Ha chiuso via Giordano Bruno poco prima di piazza Galimberti ed ha militarizzato una buona fetta di quartiere.
Salvini, accompagnato da un accorato Cota e da un sempreverde Borghezio, non si è mosso da piazza Galimberti. Ha annunciato che la Lega si prepara alla scalata della Regione, sorvolando con indifferenza sulle firme false e le ruberie generalizzate che hanno affondato la precedente giunta regionale. Il tutto condito con la consueta salsa razzista.
A fine mattinata duecento profughi e solidali si sono mossi verso lo sbarramento di polizia, dove hanno sostato a lungo, con slogan e interventi.
Salvini, finito lo show mediatico, se ne è andato senza tentare di avvicinarsi alle palazzine.
I media hanno offerto ampia copertura al segretario leghista, che ha portato a casa il risultato che voleva. Più forte la soddisfazione di antifascisti e antirazzisti per aver tenuto lontano il manipolo leghista.

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Spagna. Tra ley mordaza e arresti per terrorismo

Cabecera-de-la-manifestacion-e_54421507034_54028874188_960_639Bar­cel­lona. Il 15 dicembre i «Mos­sos d’Esquadra», il corpo di poli­zia della regione auto­noma cata­lana, hanno arre­stato 11 anarchici con l’accusa di appar­te­nere a un’organizzazione con fina­lità ter­ro­ri­sti­che «cui si attri­bui­scono diversi atten­tati con mate­riale esplo­sivo», rea­liz­zati tra il 2012 e il 2013 contro ban­co­mat di isti­tuti di cre­dito italiani.
L’operazione, ordi­nata dall’Audiencia Nacio­nal, il tri­bu­nale nazio­nale, è stata effet­tuata simul­ta­nea­mente in diversi paesi della Cata­lo­gna e nella comu­nità di Madrid per un totale di 14 arre­sti.
Gli arre­sti di Bar­cel­lona, scat­tati già all’alba sono stati effettuati in abitazioni private e nella casa occu­pata Kasa de la Mun­ta­nya nel “bar­rio” Vila de Grà­cia, l’Ateneu Lli­ber­tari di Sant Andreu e e quello di Poble Sec a Sants-Montjuïc.
La Kasa de la Muntanya è stata circondata da 300 poliziotti in assetto antisommossa coadiuvati dall’alto da un elicottero. Il tutto per un posto dove vivevano circa 20 persone.
Un dispiegamento di forze eccezionale, come speciale è l’accusa di terrorismo per una serie di azioni di danneggiamento di cose. Un’operazione analoga a quella dello scorso anno in cui vennero accusati di terrorismo cinque anarchici di diverse nazionalità, tra le cui imprese è stato annoverato il danneggiamento di un paio di panche di una chiesa vuota.

L’accentuarsi della pressione disciplinare dello Stato spagnolo è confermata dall’approvazione nella stassa settimana della ley organica de securidad ciudadana, detta “ley mordaza”, legge bavaglio, legge museruola, perché limita in modo drastico la libertà di manifestare e persino la satira del potere. Tra le norme approvate qualla che punisce si veste da poliziotto: una legge contro il carnevale. E’ vietato persino fotografarli i poliziotti: se capita di filmarne uno mentre a picchia un manifestante inerme, nei guai ci finisce chi fa le riprese non chi usa il manganello.
Non si possono fare slogan irridenti né affiggere manifesti di satira.
Durissima la repressione delle manifestazioni non autorizzate: dagli artisti di strada alle acampadas degli indignados.
E’ diventata pericolosa persino la disattenzione: se venite pescati senza documenti rischiate sino a trentamila euro di multa. Già, le multe. Tutte salatissime, per imbrigliare ogni manifestazione pubblica che non abbia ricevuto il sigillo dell’autorità costituita.
Sono state introdotte 45 nuove infrazioni divise tra molto gravi (con sanzioni dai 30 mila ai 600 mila euro), gravi (da 600 a 30 mila euro) e lievi (da 100 a 600 euro).
Tra le norme più gravi qualla che prevede il rimpatrio immediato di cerca di bucare la frontiera nelle enclavi spagnole in Marocco di Ceuta e Melilla. Questa norma contravviene alle normative comunitarie che vietano i rimpatri collettivi, ma è entrata nel pacchetto ed è stata approvata dalle Cortes.

In un paese, dove persino Amnesty ha dennciato il moltiplicarsi degli abusi e le violenze della polizia nei confronti di manifestanti e videoattivisti, questa legge da piena copertura alla polizia e, insieme limita fortemente la libertà di manifestare.

L’Europa delle polizie è il segno di un potere, che non vuole più ammortizzare il conflitto ma preferisce la repressione più dura.
La democrazia mostra i denti quando finisce le carote.

L’info di radio Blackout ne ha parlato con Claudio Venza, docente di storia contemporanea all’Università di Trieste.

Ascolta l’intervista

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Turchia. Arresti eccellenti

erdogan-in-versione-imperatore-ottomano-615619_tn31 arresti in 13 città turche. L’accusa? Aver cercato di rovesciare il sistema democratico del paese, costruendo prove false contro il presidente Erdogan e il suo partito, ed effettuando intercettazioni telefoniche illegali.
Nel mirino: giornalisti, sceneggiatori e produttori dei telefilm e alcuni poliziotti.
Cosi si nasconde dietro l’ultima operazione repressiva del governo turco?

Ascolta l’intervista dell’info di radio Blackout con Murat Cinar, giornalista indipendente turco.

Il testo che segue è liberamente ispirato un suo articolo sull’operazione
Continued…

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No Tav. Cade l’accusa di terrorismo, tre anni e mezzo per il sabotaggio

125433399-03843555-000b-4ec6-aefc-9115c445b224Oggi nell’aula bunker del carcere delle Vallette è stata pronunciata la sentenza al processo ai quattro No Tav accusati di terrorismo, per un sabotaggio al cantiere di Chiomonte della notte del 14 maggio 2014.
L’accusa di terrorismo è caduta. I quattro, che in aula avevano rivendicato l’azione, sono stati assolti dall’accusa di attentato con finalità di terrorismo. Sono stati condannati a tre anni e mezzo di reclusione per detenzione di armi da guerra, danneggiamento e incendio, resistenza a pubblico ufficiale.
Sono state rigettate integralmente le richieste risarcitorie delle parti civili, il governo e il Sap, il sindacato di polizia di estrema destra, che lamentavano un danno all’immagine.

Il movimento No Tav nell’anno intercorso dall’arresto di Chiara, Claudio, Mattia e Nicolò ha in varie occasioni ribadito che il processo ai quattro No Tav è un processo al movimento nel suo insieme, che ha fatto propria la pratica del sabotaggio non violento.
Centinaia sono state le iniziative di informazione e lotta attuate dai No tav in Val di Susa, a Torino e in tutta la penisola.
I due PM al processo Andrea Padalino e Antonio Rinaudo hanno continuato a sostenere l’accusa di terrorismo, nonostante un pronunciamento in senso inverso della Cassazione: oggi sono stati clamorosamente smentiti.
Il cardine dell’accusa era l’articolo 270 sexies, che definisce la “finalità di terroriamo” indicata negli articoli 280 e 280 bis che i due PM torinesi avrebbero voluto applicare ai quattro No Tav e ad altri tre arrestati a luglio per lo stesso episodio ma accusati di terrorismo solo lo scorso 9 dicembre. A gennaio il tribunale del riesame avrà sul tavolo della sentenza di oggi.

Chiara, Claudio, Mattia e Nicolò sono in carcere da oltre un anno, rinchiusi in regime di alta sicurezza, spesso isolati, lontani dai propri compagni ed affetti, la corrispondenza sottoposta a censura.

In queste settimane numerose sono state le iniziative di solidarietà concreta con gli attivisti sotto accusa:dalle migliaia di No tav che hanno dato vita alla fiaccolata delo 7 dicembre a Susa, sino ai blocchi stradali e ferroviari dell’8 dicembre, per giungere ai blocchi di treni a Roma, Vercelli, Trento.  In tarda mattinata, dopo la sentenza, la A32 è stata brevemente bloccata da un gruppo di No Tav.

Il movimento No Tav si è dato appuntamento alle 17,30 nella piazza del mercato di Bussoleno, per una prima risposta alla sentenza.
La valle è blindata da questa mattina, numerosi sono i posti di blocco sulle statali e l’autostrada, il dispositivo di sicurezza intorno al cantiere è stato rafforzato.

Al di là dell’umana soddisfazione per la caduta dell’accusa più grave, resta una condanna a tre anni e mezzo, per un gesto che, se la parola giustizia avesse un senso, dovrebbe essere elogiato.

Radio Blackout ha fatto numerose dirette dopo la sentenza.

Qui potete ascoltare Francesco, Alberto Perino, l’avvocato Eugenio Losco.

Rassegna stampa:
Repubblica Stampa

notav_corteo_bussolenoAggiornamento alle 22. Bussoleno: dopo una breve assemblea circa 500 persone hanno dato vita ad un corteo che ha attraversato il paese passando davanti ad una stazione blindata dalla polizia per poi imboccare la statale 25 bloccata da un imponente schieramento di blindati e uomini dell’antisommossa nei pressi dello svincolo autostradale del Vernetto: per scongiurare i blocchi dei No Tav, la questura ha chiuso per un’ora il traffico sulla statale.
Tra cori e slogan un pensiero solidale era per Francesco, Lucio e Graziano a loro volta accusati di terrorismo. Due di loro da un paio di giorni sono stati trasferiti a Ferrara in regime di alta sorveglianza.
Forte l’impegno, alla fine di una lunga giornata, per la liberazione di tutti i No Tav prigionieri.

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17 dicembre. I No Tav con Chiara, Claudio, Mattia e Nicolò

2014 11 14 chiomonte (14)Mercoledì 17 dicembre sarà emessa la sentenza nel processo che lo Stato ha intentato contro Chiara, Claudio, Mattia e Nicolò.
Sono in carcere da oltre un anno, rinchiusi in regime di alta sicurezza, spesso isolati, lontani dai propri compagni ed affetti, la corrispondenza sottoposta a censura.
Hanno provato a piegarli. Non ci sono riusciti, hanno provato a mettere in ginocchio un intero movimento. Hanno fallito ancora.

Facciamo un piccolo passo indietro.
Nella memoria della gente che si batte contro il Tav il dicembre del 2005 è una pietra miliare. Tra novembre e dicembre si consumò un’epopea di lotta entrata nei cuori di tanti. Un movimento popolare decise di resistere all’imposizione violenta di un’opera inutile e devastante e, nonostante avesse quasi tutti contro, riuscì ad assediare le truppe di occupazione, costruendo la Libera Repubblica di Venaus. Dopo lo sgombero violento il movimento per qualche giorno assunse un chiaro carattere insurrezionale: l’intera Val Susa si fece barricata contro l’invasore. L’otto dicembre era festa. La manifestazione, dopo una breve scaramuccia al bivio dove la polizia attendeva i manifestanti, si trasformò in una marcia che dopo aver salito la montagna, scese verso la zona occupata mentre lieve cadeva la neve. I sentieri in discesa erano fradici di acqua e fango ma nessuno si fermò. Le reti caddero e le truppe vennero richiamate.
Nel 2011 – dopo la dura parentesi dell’inverno delle trivelle – sono tornati, molto più agguerriti che nel 2005.
Lo Stato non può permettersi di perdere due volte nello stesso posto.
L’apparato repressivo fatto di gas, recinzioni da lager, manganelli e torture si è dispiegato in tutta la sua forza. La magistratura è entrata in campo a gamba tesa. Non si contano i processi che coinvolgono migliaia di attivisti No Tav.
Governo e magistratura non hanno fatto i conti con la resistenza dei No Tav. Non hanno fatto i conti con un movimento che si è stretto nella solidarietà a tutti, primi tra tutti quelli che rischiano di più, i quattro attivisti accusati di attentato con finalità di terrorismo per un sabotaggio in Clarea.
Per loro i PM Padalino e Rinaudo hanno chiesto nove anni e mezzo di reclusione.
Mercoledì 26 novembre un’assemblea popolare ha deciso un nuovo dicembre di lotta. Dopo la buona riuscita della manifestazione del 22 novembre a Torino, il movimento ha dato vita a due giorni di lotta popolare.
Il 7 dicembre migliaia di No Tav hanno partecipato alla fiaccolata che si è dipanata per le vie di Susa, assediando a lungo l’hotel Napoleon, che da anni ospita le truppe di occupazione. La via dell’albergo è stata trasformata in “Via gli sbirri” con nuove targhe apposte dai manifestanti.
Qui il video del Fatto Quotidiano

Il giorno successivo, dopo le celebrazioni del giuramento partigiano della Garda dell’8 dicembre 1943, l’appuntamento era a Giaglione e Chiomonte per una giornata alle reti del cantiere.
In Clarea il passaggio era bloccato al ponte, ma questo non ha impedito a circa un centinaio di No Tav di raggiungere, guadando alto il torrente, l’area di proprietà del movimento, dove altri erano arrivati sin dalla prima mattina.
La Questura, non paga delle recinzioni e dei cancelli che serrano via dell’Avanà a Chiomonte, ha deciso di chiudere anche il ponte con jersey e truppe con idrante. Dopo la costruzione di un albero di natale no tav fatto dai bambini, a centinaia i No Tav sono risaliti in paese, bloccando a più riprese la statale e interrompendo per una mezz’ora anche il traffico ferroviario. A fine giornata, sul ponte, la polizia ha azionato l’idrante e sparato lacrimogeni. Dai boschi petardi e fuochi d’artificio hanno illuminato la sera.
Per una sintesi dell’ultimo anno di lotta ascolta l’intervista di radio Onda D’urto a Maria Matteo

Il 9 dicembre la Procura ha consegnato in carcere una nuova ordinanza di custodia cautelare a Francesco, Graziano e Lucio, i tre No Tav in carcere da luglio il sabotaggio del 14 maggio 2013, lo stesso per il quale domani sarà emessa la sentenza per gli altri quattro No Tav.
Su questa nuova iniziativa della Procura Anarres ha intervistato, uno dei loro avvocati, Eugenio Losco, del foro di Milano. Con lui abbiamo parlato anche dell’attesa per la sentenza di domani
Ascolta la diretta

Domani, dopo il tribunale, che probabilmente si pronuncerà nel primo pomeriggio, l’appuntamento è alle 17,30 in piazza del mercato a Bussoleno.

Se le notizie dal tribunale saranno buone sarà un giorno di festa. In caso contrario la risposta del movimento No Tav sarà forte e chiara.

Forte è stata l’indignazione per la sentenza che ha cancellato la dignità di migliaia di lavoratori e cittadini di Casale Monferrato, torturati a morte e uccisi dai padroni della Eternit. La giustizia dei tribunali, ancora una volta ha mostrato il suo volto di classe, assolvendo chi si è fatto ricco sulla vita dei più.
Qui nessuno è disposto a morire senza resistere, nessuno spera nella giustizia dei tribunali. I No Tav lo hanno imparato negli anni: la libertà non si mendica, bisogna conquistarla.

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Fascisti all’Ex MOI? Ennesimo flop

ex moiDa settimane Forza Nuova, Casa Pound e Fratelli d’Italia stanno provando a soffiare sul fuoco della guerra tra poveri e della xenofobia.
Le loro iniziative sono tutte miseramente fallite. Qualche decina di fascisti travestiti da comitati spontanei da un lato, centinaia di antifascisti dall’altro.
Dopo la disastrosa fiaccolata contro i rom di Forza Nuova in via Artom lo scorso 28 novembre, sabato 13 dicembre è toccato a Fratelli d’Italia fare flop. In testa Maurizio Marrone, in divisa da comitato spontaneo, dietro un garrire di tricolori impugnati da una cinquantina di persone per un micro corteo in zona Lingotto.
Questa volta nel mirino dei fascisti sono le palazzine dell’ex MOI che da due anni danno rifugio a centinaia di profughi, rifugiati senza casa dopo la fine indecorosa dell’emergenza nord africa. Tanti soldi per chi l’ha gestita, poco o nulla per chi fuggiva la guerra.
Nel frattempo l’inchiesta “mafia capitale” ha messo in luce gli enormi profitti di chi gestisce – legalmente o pagando il pizzo” – i campi rom, l’emergenza abitativa, i profughi e rifugiati. In questi casi i fascisti non si fanno troppi scrupoli a lucrare sugli stessi che, a parole, vorrebbero cacciare.
Chi guarda a colore dei soldi non si fa scrupoli per la vita e la dignità di nessuno, qualunque sia il colore della pelle, il suono della lingua, il sapore delle pietanze.

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Nikos Romanos ha vinto! La Grecia verso le lezioni anticipate

atene bruciaNella tarda mattinata del 10 dicembre il parlamento greco ha approvato la proposta di consentire ai detenuti di frequentare l’università con il braccialetto elettronico.
In seguito a questa decisione, Nikos Romanos, in sciopero della fame da trenta giorni, ha deciso di interrompere la lotta e riprendere ad alimentarsi.
Nonostante le limitazioni imposte, oltre al braccialetto la frequenza di un terzo delle lezioni in teleconferenza, si tratta di un chiaro cedimento dello Stato greco di fronte alla deteminazione di Nikos.
La decisione dell’anarchico di cessare anche di bere, rischiava seriamente di far preciptare una situazione già grave. La vita di Nikos era ormai appesa ad un filo molto esile.

Nikos, in galera per una rapina, era stato torturato al momento dell’arresto ma aveva fieramente rifiutato di denunciare i poliziotti responsabili del pestaggio. Le foto dei volti tumefatti di Nikos e degli altri compagni incatenati avevano fatto il giro del mondo.

Ma la sua storia comincia prima.
Era il 6 dicembre del 2008. Nikos è nella piazzetta di Exarchia con il suo migliore amico, Alexis. Sono entrambi anarchici ed hanno appena 15 anni. Un poliziotto scambia qualche insulto con il gruppo dei ragazzini, poi estrae la pistola e ammazza Alexis.
La morte di Alexis scatena la rivolta per le strade di Atene e in tutta la Grecia.

Sei anni dopo, nel sesto anniversario dell’omicidio, un corteo di trentamila persone attraversa la città. Scontri con la poliza si accendono in più punti, circa duecento persone vengono arrestate. Per venti è stato convalidato l’arresto, per gli altri la decisione è attesa per domani.
Non si è trattato solo di una commemorazione, ma dell’appoggio concreto alla lotta di Nikos Romanos, in sciopero della fame per ottenere di frequentare l’università.
Da giorni diversi municipi, sedi sindacali, e università erano occupate in appoggio alla sua lotta.
Una situazione esplosiva che rischiava di deflagrare ulteriormente. Di qui il passo indietro dello Stato.

Nella diretta di radio Blackout fatta in mattinata prima della notizia della resa dello Stato greco, Gheorgos, un compagno del gruppo dei comunisti libertari di Atene, aveva tracciato un quadro a tinte fosche. Ieri il tribunale aveva respinto il ricorso presentato dall’avvocato di Nikos Romanos, riducendo a lumicino le speranze per la vita dell’anarchico.

Nelle stesse ore Antonis Samaras decideva di anticipare l’elezione del presidente della Repubblica, pur sapendo di non avere la maggioranza necessaria a far eleggere un nuovo capo dello Stato. In Grecia questo comporta lo scioglimento anticipato del parlamento e l’indizione di elezioni anticipate. La prima conseguenza è stato il clamoroso tonfo della Borsa di Atene che ha perso 12,78 punti percentuali. Il segno tutto politico dello scarso gradimento degli ambienti finanziari.
Il cartello delle sinistre guidato da Alexis Tsipras è in pole position nei sondaggi e mette in agitazione il sistema finanziario. Nel programma di Siryza la dismissione di tutti gli accordi con la Trojka (UE, BCE, FMI). Sarebbe un’inversione di rotta rispetto alle poltiche di lacrime e sangue imposte dal governo Samaras. Si vedrà quali saranno le scelte concrete di un partito che, crescendo ed inglobando settori del Pasok, si è sensibilmente spostato al centro. D’altra parte la mossa delle elezioni anticipate giocata da Samaras, potrebbe essere l’estremo tentativo di recuperare consensi, facendo leva sul timore del default.

Ascolta l’intervista a Gheorgos

10665273_1565936390288912_4300721603881012292_nTra le tante iniziative di solidarietà dei giorni scorsi vi segnaliamo il presidio di Torino e il corteo di Istanbul.

Aggiornamenti all’11 dicembre. I compagni e le compagne arrestati il sei dicembre sono stati liberati tutti in attesa di processo. Uno ha l’obbligo di firma mensile, un altro quello di dimora.
Nikos Romanos resterà ricoverato per almeno altre due settimane, perché le sue condizioni, dopo 30 giorni di sciopero della fame, restano gravi. I medici gli hanno prescritto una ripresa leggera e graduale dell’alimentazione: piccoli pasti ogni venti minuti.

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Stupratori in divisa

016Il soldato americano accusato di due stupri, tenta il 3° evadendo dalla caserma di Vicenza“. Questa notizia è stata lo spunto per la discussione che l’informazione di radio blackout ha fatto con Chiara de “il colpo della strega” sulle violenze sessuali contro le donne dei soldati nei territori militarizzati e insieme – ampliando la prospettiva e allargando lo sguardo – sullo stupro come arma di guerra.
La notizia è di qualche giorno fa, ma la cronaca conta purtroppo molti altri episodi simili. Già nel 2006 un militare statunitense, accusato di stupro e condannato a sei anni di reclusione, è stato liberato e si è visto ridurre la pena per le attenuanti dovute allo stress psicologico prolungato dovuto al suo incarico di un anno in Iraq.
Le motivazioni della sentenza riportano che il prolungato stress e la ridotta importanza data alla vita umana ed al benessere di coloro che lo circondano possono avere influenzato il reato.
In fondo è una confessione: chi fa la guerra diventa insensibile alla vita umana e alla dignità delle persone.

Il pensiero va inevitabilmente al 12 febbraio 2012. Siamo a L’Aquila. In una discoteca, una giovane donna di 20 anni era stata stuprata e ridotta in fin di vita. Lasciata svenuta, sanguinante e seminuda in mezzo alla neve fuori dal locale, era stata salvata da un buttafuori della discoteca che stava facendo un giro prima della chiusura. Ha dovuto subire numerose operazioni di ricostruzione per le violenze sessuali subite e fu ad un pelo da morire. Ha dovuto allontanarsi da casa e dalla sua comunità per vivere in un luogo protetto per poi emigrare al nord. Accusato di questo stupro e tentato omicidio è Francesco Tuccia, un militare in servizio all’Aquila per l’operazione “Aquila sicura” partita dopo il terremoto.
Mele marce o prassi consolidata? E’ evidente la consuetudine di queste violenze in particolare nei territori militarizzati, ma in generale nelle zone dove il pacchetto sicurezza ha imposto più pattugliamenti, controlli antiprostituzione e massiccia presenza di forza dell’ordine.

Nella maggior parte dei casi, lo stato si è autoassolto, ribadendo l’immunità e l’impunità delle istituzioni in divisa quando fanno violenza. Immunità ed impunità che fanno parte dell’insieme dei privilegi che i “tutori dell’ordine” hanno come contropartita dei loro servigi.
L’esercizio della violenza di genere in situazioni di conflitto costituisce di fatto un continuum dei comportamenti discriminatori e violenti che avvengono in tempo di pace.

Lo stupro di donne è da sempre strumento specifico di terrore e lo è stato in particolare nei conflitti degli anni ’90 in Europa. Spesso gli stupri di massa sono accompagnati da gravidanze forzate. Lo scopo è duplice: umiliare le donne e alterare il mantenimento della comunità in senso etnico.

Lo stupro è una pratica diffusa anche tra le forze armate nelle cosiddette missioni di pace: i casi più recenti – Congo, Bosnia, Sierra Leone, Rwanda e Kosovo – hanno sollevato per la prima volta l’attenzione a livello internazionale, dando la possibilità di cominciare a parlare anche delle violenze sessuali compiute dai peacekeepers.
Un caso tra tutti, quello della Bosnia, dove il corpo femminile è stato – letteralmente – territorio di contesa. I militari (e non solo) violentavano il corpo delle donne dell’Altro per farne terreno di conquista, luogo di inseminazione etnica.
Lo stupro non è stata “conseguenza” della guerra ma arma che ha affiancato le operazioni di pulizia etnica. Una violenza inaudita che ha lasciato dietro di sé non solo paura e smarrimento, ma anche colpevolizzazione nelle donne stesse, spesso isolate e emarginate dalla loro stessa comunità, per essere state disonorate.

A cavallo tra gli anni Settanta ed Ottanta ci fu in Guatemala un tentativo di genocidio della popolazione Maya. Meno noto è il gran numero di stupri contro le donne, parte integrante di quella guerra.

Nel nostro paese non si sono mai fatti i conti con il retaggio coloniale fascista e in particolare sulla propaganda di guerra che metteva al centro la donna/preda desiderosa di essere cacciata. La colonna sonora di quell’epoca è la canzone “Faccetta nera…”. Dopo la guerra di conquista la propaganda muta di segno: messe in soffitta le cartoline con belle ragazze poco vestite, le donne africane sono rappresentate come sporche, stupide, bestiali. Da respingere, per non inquinare la razza.

Ascolta l’intervista

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L’anarchico Nikos Romanos. Scommette la vita per un pizzico di libertà

romanos1Era il 6 dicembre del 2008. Nel quartiere di Exarchia ad Atene un paio di poliziotti insultano un gruppo di ragazzini. Alla loro risposta uno di loro, Korkoneas, estrae la pistola e spara due volte, uccidendo Alexis Grigoropoulos. Alexis aveva 15 anni ed era anarchico. Quel giorno con Alexis c’era Nikos Romanos, il suo migliore amico. Si erano conosciuti sui banchi di scuola, insieme erano diventati anarchici. Nikos cercò inutilmente di rianimare Alexis. In tribunale non ci va, ma al giudice inquirente dice chiaro che il suo amico è stato giustiziato a sangue freddo.
Ai suoi funerali porterà in spalla la bara di Alexis.
La morte del giovane anarchico scatenò una rivolta che scosse il paese. Le immagini dell’albero di Natale in fiamme nella centralissima piazza Sintagma, divennero l’emblema di quel dicembre.

Cinque anni più tardi Nikos Romanos e altri tre anarchici vengono arrestati con l’accusa di aver preso parte a due rapine a Velvendòs, in Macedonia.
Sono tutti pestati a sangue. I loro volti pesti e sanguinanti fanno il giro del mondo. La polizia, per nascondere la ferocia del pestaggio, trucca le foto. Nikos rifiuta di denunciare i suoi aguzzini. Le immagini lo mostrano incatenato, strattonato, col volto gonfio e tumefatto per le botte ricevute, scortato da decine di agenti di polizia che a testa alta grida “ Viva l’Anarchia bastardi! ”. Tramite il suo avvocato rilascia la seguente dichiarazione: “Le mie motivazioni sono politiche. Mi ritengo prigioniero di guerra. Non mi considero una vittima. Non sporgerò denuncia nei confronti dei poliziotti che mi hanno picchiato. Vorrei che i maltrattamenti che ho subito sensibilizzassero l’opinione pubblica.”
Viene accusato di terrorismo ma persino il PM riconosce Peponis riconosce che l’accusa non regge e dichiara “.E’ la prima volta che assisto a una rapina in cui si liberano gli ostaggi, con fiato della polizia sul collo. Malgrado avessero a loro disposizione armi in abbondanza non hanno sparato ai poliziotti che li inseguivano nè hanno usato l’ostaggio come scudo per darsi alla fuga….” Per poi concludere “Per me non esistono elementi per suffragare l’accusa di formazione e appartenenza ad organizzazione terroristica”.
In galera Nikos studia e riesce a superare i difficili esami di ammissione all’università. In primavera Nikos supera brillantemente gli esami e viene ammesso alla facoltà di Amministrazione delle Aziende Sanitarie di Atene.
Il presidente della Repubblica e il ministro della giustizia lo invitano per complimentarsi e gli offrono un premio di 500 euro. Nikos rifiuta sia l’incontro sia i soldi.

La vendetta dello Stato non si fa attendere. L’amministrazione penitenziaria cambia le regole e gli vieta di uscire dal carcere per frequentare l’università.
Nikos decide di iniziare uno sciopero della fame di protesta. Dopo tre settimane viene ricoverato in ospedale circondato da decine di poliziotti in armi. Quando le sue condizioni peggiorano il ministero impone ai medici di praticargli l’alimentazione forzata. I medici stracciano l’ordine.

In tutta la Grecia ci sono manifestazioni in solidarietà a Nikos. Martedì ad Atene diecimila persone attraversano il centro e si scontrano duramente con la polizia. Il bilancio è di numerosi feriti e 14 arresti. Edifici pubblici ed università vengono occupate sia nella Grecia continentale sia a Creta.

Il governo è in difficoltà, teme che la rivolta dilaghi come nel 2008 quando il migliore amico di Nikos venne freddato da un poliziotto.

Nikos è deciso a non mollare. Per una boccata di libertà è disposto a morire.

La storia di Alexis e di Nikos è l’emblema della criminalità dello Stato. Di tutti gli Stati.

Anarres ne ha parlato con Ghoergos del gruppo dei comunisti libertari di Atene.

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Morire di lavoro: dalla strage alla Thyssen al Job Act

arbeit-eingangsschild-auschwitz-297238_iIl senato italiano ha approvato ieri il job act. In strada la polizia caricava studenti e sindacati di base che tentavano di avvicinarsi al Senato, dove la nuova legge è passata con il sostegno dell’intero Partito Democratico.
Venerdì 5 dicembre, nell’anniversario della strage alla Thyssen, un ampio cartello di organizzazioni politiche e sindacali si è dato appuntamento in piazza Madama Cristina sin dalle 17.

La notte fra il 5 e il 6 dicembre 2007 sette operai della ThyssenKrupp di Torino bruciano vivi. Lo stabilimento Thyssen doveva essere chiuso: i padroni decisero che gli operai potevano rischiare le loro vite pur di risparmiare le proprie spese per la sicurezza.
Lo scorso anno sette operai cinesi sono bruciati nella fabbrica/dormitorio dove vivevano e lavoravano a Prato. Schiavi sottopagati e invisibili emergono dal buio solo con la fiammata che gli ha portato via la vita.

La strage alla Thyssen colpì l’opinione pubblica per il numero e per l’orrore di quelle morti, prolungate da strazianti agonie. Ne furono investite la coscienze troppo spesso intorpidite dalla propaganda padronale e governativa che sostiene che non vi è contraddizione fra l’interesse delle aziende e quelli dei lavoratori. Tutti sulla stessa barca. Qualcuno rema e qualcuno guadagna seduto nella cabina di comando. A volte il mare grosso ruba la vita di qualcuno.
Le morti sul lavoro sono pane quotidiano, pane amaro che si mangia in silenzio. Le tragedie di Prato e della Thyssen sono diverse solo perché tanti sono stati uccisi tutti insieme, ma enorme è numero di morti, mutilati, feriti sul lavoro, perché continua è la strage di lavoratori in tutti i settori della produzione, dai cantieri alla fabbriche, dall’agricoltura ai trasporti.

Oggi, con il job act, il governo, con il pieno sostegno del padronato, rafforza ancora di più il dispotismo aziendale.
Non è difficile capire cosa comporterà questa legge per la sicurezza sui posti di lavoro. Chi pretenderà di far valere il diritto alla sicurezza, alla vita, alla salute rischierà il licenziamento e dovrà accontentarsi di un pugno di soldi.

Il peggio potrebbe ancora venire. L’immagine dell’ingresso del campo di concentramento di Auschwitz è tanto famasa da logorarsi. La dicitura “il lavoro rende liberi” non era solo una feroce irrisione verso uomini, donne e bambini destinati a morire, ma era la rappresentazione più che efficace di una parte – certo non secondaria – della macchina concentrazionaria.
Il lavoro forzato venne impiegato massicciamente dal governo tedesco durante la seconda guerra mondiale. I prigionieri più giovani, sani e forti venivano avviati alla produzione in fabbrica in condizioni spaventose. Inutile dire che chi non moriva di stenti e malattie finiva nelle camere a gas.
Le testimonianze pubblicate negli anni ci mostrano come questi lavoratori e lavoratrici fossero la dimostrazione inequivoca dell’intima natura del capitalismo, il suo sogno oggi inesprimibile ma mai sopito di avere a disposizione un’infinità di schiavi asserviti che lavorano gratis, costano quasi nulla e possono essere costantemente sostituiti. Gli attuali padroni della ThyssenKrupp sono i degni eredi di quei Krupp in prima fila nell’appoggiare il nazismo. I Krupp come i Siemens e tanti altri meno noti e godettero ampiamente del vantaggio di avere a disposizione manodopera a nessun prezzo motivata a lavorare a morte dalla speranza di poter continuare a vivere.
Realizzarono il sogno di tanta parte dei padroni. Di ieri e di oggi.

L’info di Blackout ne ha parlato con Cosimo Scarinzi, che è convinto che la lotta sia solo all’inizio. Il job act per il momento è solo un foglio in bianco, sul quale il governo dovrà scrivere i decreti attuativi. Renzi ha promesso i decreti delegati per la fine dell’anno, quindi la partita potrebbe essere ancora aperta.

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Gli immigrati rendono più della droga

lupa«Rendono più della droga». Per la holding criminale che comandava su Roma gli immigrati erano un business senza pari. La banda fascista agli ordini di Massimo Carminati, arrestato martedì 2 dicembre insieme ad altre 36 persone, aveva trovato nell’accoglienza dei profughi l’occasione per intascare milioni.

Il regista dell’operazione è Salvatore Buzzi, anche lui finito in carcere. L’idea di trasformare il sociale in un business gli è venuta negli anni ’80 proprio in prigione, mentre scontava una pena per omicidio doloso. Oggi come presidente del consorzio di cooperative Eriches – della LegaCoop – guidava un gruppo che ha chiuso il bilancio 2013 con 53 milioni di euro di fatturato. Gli incassi arrivano da servizi per rifugiati e senza fissa dimora, oltre che da lavori di portineria, manutenzione del verde e gestione dei rifiuti per la Capitale. Un colosso nel terzo settore. Che secondo gli atti delle indagini rispondeva agli interessi strategici del “Nero” di Romanzo Criminale. Buzzi infatti, secondo i pm, sarebbe «un organo apicale della mafia capitale», rappresentante dello «strumento imprenditoriale attraverso cui viene realizzata l’attività economica del sodalizio in rapporto con la pubblica amministrazione».

Una holding criminale che spaziava dalla corruzione all’estorsione, dall’usura al riciclaggio, con infiltrazioni “diffuse” nel tessuto imprenditoriale politico e istituzionale.
I documenti dell’operazione che ha portato in carcere referenti politici e operativi della mafia fascista mostrano nuovi dettagli sull’attività della ramificazione nera di Roma. A partire dall’attività per gli stranieri in fuga da guerra e povertà. «Tu c’hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati?», dice Buzzi al telefono in un’intercettazione: «Non c’ho idea», risponde l’interlocutrice. «Il traffico di droga rende di meno», spiega lui. E in un’altra conversazione aggiunge: «Noi quest’anno abbiamo chiuso con quaranta milioni di fatturato ma tutti i soldi, gli utili li abbiamo fatti sui zingari, sull’emergenza alloggiativa e sugli immigrati, tutti gli altri settori finiscono a zero».

Viene il dubbio sui rapporti che potrebbero intercorrere tra il “re di Roma”, già esponente dei NAR e della banda della Magliana e i fascisti che scorazzano nelle periferie romane a caccia di rom e profughi. Per non dire degli sgomberi di massa attuati da Gianni Alemanno come sindaco della capitale.

Di fatto quest’inchiesta nella quale si parla di mafia, ma in realtà rivela uno stretto intreccio di corruttele, dove la strada è aperta dai soldi più che dalle mitragliette, mostra come la corruzione permei nel profondo la società italiana, diventando una seconda pelle. O come la maglietta della salute: potresti toglierla ma nel dubbio la tieni.

L’info di Blackout ne ha parlato con Francesco, un compagno di Roma.

Ascolta la chiacchierata

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