L’11 aprile è il giorno degli espropri. L’ultimo atto prima dell’avvio dei lavori per il tunnel geognostico della Maddalena. 11 mesi dopo il primo attacco, le truppe di occupazione hanno concluso la recinzione dei terreni.
Sono stati mesi di resistenza pressoché quotidiana, mesi nei quali abbiamo cercato di mettere i bastoni tra le ruote ad una macchina militare costruita con cura e intelligenza per disciplinarci, dividerci, spaventarci. Non ci sono riusciti e ogni volta ne provano una nuova per spezzare un movimento di irriducibili rompiscatole, gente che non si fa dividere, gente che non molla né si spaventa, gente che da il “cattivo” esempio un po’ a tutti.
Domani in tutta Italia vi saranno iniziative di lotta a sostegno dei No Tav ma, soprattutto, a sostegno di un’idea di relazioni politiche e sociali diversa da quella in cui siamo forzati a vivere, dove libertà, uguaglianza, solidarietà siano impegni e obiettivi comuni non parole con cui celebrare la retorica di una democrazia fatta di guerra, sfruttamento, oppressione.
La lotta No Tav è divenuta punto di riferimento per le tante resistenze del nostro paese. Una lotta popolare, dove i processi decisionali provano a costruirsi dal basso, tramite il metodo del consenso, nel confronto diretto nelle assemblee e nei comitati locali. Non sempre ci si riesce, perché l’abitudine alla delega, la forza delle gerarchie che segnano una società autoritaria, sono difficili da sconfiggere. Ma, con pazienza e con fatica, ci proviamo, perché sappiamo che la posta in gioco è molto alta. La possibilità di immaginare costruendolo e di costruire immaginandolo un futuro che dia senso al nostro presente.
Ieri al merendin di pasquetta in Clarea, assediati da imponenti recinzioni, uomini in armi e mezzi militari dappertutto, alcuni di noi si domandavano quanta strada avessimo fatto in tanti anni, quanti chilometri avessimo macinato, quante iniziative costruito, quante parole spese per tessere la tela robusta della quale è fatto questo nostro movimento. Una tela che è forte anche della capacità costante di re-inventarci spazi e prospettive, di sorprendere i nostri avversari, di allargare nel contempo il consenso popolare intorno alle nostre iniziative.
Ieri c’era chi mangiava, chi arrostiva il cibo sulla brace, chi cantava e chi discuteva.
C’era anche chi saliva alle vasche e di lì alla Maddalena occupata. La scena è desolante: un deserto circondato da muri e reti, coronate di filo spinato. Una enorme ferita. Il 27 giugno, il 16 e il 24 agosto e infine il 27 febbraio si sono presi tutto. Dall’alto si vedono bene le recinzioni concentriche che segnano i progressi degli occupanti.
Ormai da mesi, sin da metà settembre, il movimento si interroga sulle prospettive di lotta, che certo non sono più quelle del 2005. Oggi il governo ha affinato i mezzi, sapendo calibrare propaganda e violenza.
Nel 2005 i check point di polizia che impedivano l’accesso al paese di Mompantero rendevano visibile l’occupazione militare in tutto il suo portato materiale e simbolico, oggi il check point sulla strada dell’Avanà chiude una strada di vigne, senza case, persone, affetti divisi.
Il catino della Clarea è perfetto per una guerra tra eserciti, molto meno per una lotta popolare, che ha i suoi ritmi, fatti di partecipazione diretta di tutti, anziani, ragazzini e malati compresi.
L’8 dicembre con 14 ore di occupazione popolare dell’autostrada, poi in modo più netto con i blocchi prolungati di fine febbraio il movimento ha ri-trovato il suo ritmo, una lotta capace di mettere nuovamente in difficoltà l’avversario. Un avversario che non guarda in faccia nessuno, che pesta, gasa e rompe ossa in ogni dove ma indubbiamente preferisce farlo in una zona appartata e remota come la Clarea piuttosto che nel cuore della valle, a due passi dalle case.
Quando i lacrimogeni centrano i cortili delle abitazioni, quando la guerra attraversa il tuo paese, quando la democrazia reale si mostra senza infingimenti né belletti, la resistenza si rinforza, la gente esce dal lavoro e va alla barricata, il tempo della libertà prende il sopravvento su una quotidianità scandita dal ritmo della merce.
C’è chi si affeziona ai luoghi. Fa bene, perché i luoghi vivono grazie a chi li ama. Vedere la Clarea ridotta a polvere e filo spinato fa male a tutti.
Ma non è lì che si gioca la partita. Il governo lo ha capito tanto bene che ha deciso di far partire l’iter di approvazione di nuove leggi che sanzionino pesantemente i blocchi stradali e ferroviari. Se non gli dessimo fastidio, se volessero tenerci lontani da quelle dannate reti, perché fare una legge per tenerci invece lontani dall’autostrada?
Con la grande manifestazione del 25 febbraio e con i blocchi della settimana successiva abbiamo rotto l’accerchiamento mediatico con il quale hanno giustificato repressione ed arresti.
La scommessa per i prossimi giorni e mesi – l’11 è solo una tappa – è di creare le condizioni perché le truppe siano costrette al ritiro.
Occorre inceppare la macchina dell’occupazione, intralciarla con pazienza giorno dopo giorno, rendendo visibile la gestione militare del territorio. In quest’angolo di nord ovest la situazione può divenire ingovernabile, specie se riusciremo ad unire le resistenze non in un cartello politico ma nella pratica del mutuo appoggio e della solidarietà concreta.
Scegliamo noi i luoghi della resistenza.
Se ci riusciremo, se ogni paese, ogni strada diventerà per loro un problema, saranno costretti ad andarsene da Clarea come se ne andarono da Venaus.