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Le rovine di Bolzaneto

La sera prima un temporale aveva rotto per qualche ora l’estate. Noi si stava stipati nel camper a mangiare pasta e discutere.
Si sapeva di andare in guerra. Per le strade deserte scorazzavano le camionette, l’autostrada già da giorni era deserta come neppure a novembre in riviera. Chi si avventurava verso il centro raccontava delle gabbie che serravano il cuore della città, dei check point, dei lasciapassare, degli energumeni che esibivano le nuove divise imbottite.
Nonostante l’apparato militare esibito, nonostante il ragazzo ridotto in fin di vita a Goteborg da un poliziotto che gli aveva piazzato tre pallottole nella schiena, giovedì 19 luglio 2001 c’era un’aria festa a Genova. Migliaia di bandiere rosse e nere coloravano il corteo dei migranti.
Il 20 luglio, il giorno degli assedi alla zona rossa, il giorno dei tanti punti di incontro, perché ciascuno potesse giocare la propria partita nel modo che preferiva, dormimmo a Sampierdarena, a due passi da piazza Montano, dove sarebbe partito il corteo dei lavoratori in sciopero e di Anarchici contro il G8, il cartello che metteva insieme tanta parte degli anarchici italiani. E non solo.
Le assemblee erano una babele di lingue, idee, aspettative: i traduttori arrivavano esausti a fine giornata.
Nelle prime ore del mattino giunge la chiamata dai compagni rimasti nella zona est: la polizia ha fatto irruzione al centro sociale “Pinelli”. È il primo segnale di una giornata lunga, lunghissima.Lontani dai riflettori e dallo spettacolo facciamo il nostro corteo per le strade della Genova proletaria, quella delle lotte operaie, della resistenza, dell’identità di classe come simbolo di riscossa e di lotta. Arrivano decine di pullman di lavoratori in sciopero. La scommessa di puntare sullo sciopero generale, uno sciopero politico contro i responsabili delle scelte che affamano, assetano, devastano il pianeta e tanta parte di quelli che ci vivono è stata vinta.
Con noi ci sono lavoratori e lavoratrici che hanno deciso di perdere il salario di un giorno per dare un segnale di forza e di dignità ai potenti della terra, asserragliati nella zona rossa, dietro gabbie di ferro sorvegliate da uomini in armi.
Nei giorni precedenti, nella mia città, Torino, si erano fatte assemblee per preparare lo sciopero e il corteo del 20 luglio. Per una sera luglio pareva ottobre con la gente che straripava dalla sala, con i pullman subito pieni.
Ricordo la telefonata di un vigile del fuoco che si prenotava per il pullman e mi domandava “devo venire come l’altra volta?”, “con il casco, la divisa e l’ascia?”. Gli risposi di fare un po’ come credeva: mi sono sempre chiesta se poi l’ascia l’avesse portata davvero.
Nei giorni seguenti, nelle cronache insanguinate e violente dei giornali, tra le tante menzogne che circolavano, quel pezzo del 20 luglio venne dimenticato e nascosto. Troppo scomodo il percorso di chi voleva impastare la farina della radicalità con il lievito potente del radicamento sociale.
Il corteo si era ormai sciolto quando arrivava la notizia dell’assassinio di Carlo Giuliani. Erano 24 anni che la polizia non aveva ordine di sparare in piazza. L’ultima volta era stato il 12 maggio del 1977, la ragazza uccisa si chiamava Giorgiana Masi.
Ho visto i compagni più giovani piangere.
La ferocia dello Stato la sapevano ma mai l’avevano toccata con mano, mai il sangue aveva bagnato le strade della loro giovinezza.
Furono ore convulse. In un circolo di anziani vediamo alla TV le camionette della polizia che corrono, sbandano, schiacciano le auto. Il ritorno ad est è un calvario: sirene spiegate e strade ingombre dei resti della battaglia di quel giorno. Le notizie si affastellano, il telefono brucia, la stanchezza è vinta solo dall’adrenalina.
Lo Stato italiano aveva impartito una lezione di democrazia applicata a chi si illudeva che questo mondo feroce potesse essere cambiato senza scontrarsi con i cani da guardia di un ordine che si rappresentava nella sua potenza e nella sua paura nel Palazzo ducale di Genova, sorvolato da elicotteri e circondato da gabbie. Genova è stata anche questo: le botte e i lacrimogeni distribuiti a tutti, senza distinzione. Anzi. I mansueti ne hanno prese di più: per i robocop erano bersagli facili e inermi.
I compagni del Blocco Nero incendiano banche, auto di lusso, saccheggiano un supermercato, corrono al carcere di Marassi e provano invano a tirar giù la porta. Finiranno anche loro la galoppata di quel giorno fuggendo per le strade di una città fatta di vicoli e di scalinate.
Diverranno il babau da additare ed isolare: ad accanirsi di più sarà la sinistra istituzionale, che subito cavalcherà la tesi degli infiltrati, dei provocatori, di gente estranea a quel movimento. Una colossale menzogna. Nelle piazze no-global, da Seattle a Praga, il movimento antiglobalizzatore era stato forte grazie alla propria pluralità di approcci e di metodi. In quei giorni e nelle settimane successive i vari “rappresentanti” del Genoa Social Forum liquideranno le componenti più radicali marchiandole a fuoco con parole destinate a spezzare per sempre il movimento nato a Seattle nel ‘99.
Furono sin troppi i “compagni di strada” che in quei giorni fornirono alla polizia l’alibi di cui aveva bisogno per giustificare la propria ferocia.
In piazzale Kennedy la sera del 20 luglio Agnoletto e la sua corte di politicanti dichiara solennemente che chi non ha sottoscritto l’appello del Genoa Social Forum non entrerà nel corteo.
Noi e tanti altri non abbiamo sottoscritto nulla. Noi e tanti altri non siamo andati alle riunioni del Genoa Social Forum. Riunioni nazionali fatte di lunedì: roba per professionisti della politica, gente che ci costruisce carriere e fortune.
Il giorno dopo saltano tutti gli schemi, tutti i piani – compresi quelli di assalto alla zona rossa – tutti i giochi della politica. Eravamo tanti, diventiamo una marea, una marea di gente che ha visto le immagini che noi non abbiamo ancora visto: gli scatti che raccontano la storia di un ragazzo con un estintore, il passamontagna e lo scotch al braccio. Un ragazzo che muore in un luglio troppo assolato.
Le cariche sul lungomare, fatte senza neppure il pretesto del black bloc, fatte per ferire, spaventare, umiliare sono il segno inequivocabile che lo Stato è più che deciso a mandare tutti a casa con la coda tra le gambe.
Noi anarchici siamo migliaia e migliaia. Entriamo nel corteo con i nostri striscioni e le nostre bandiere. Accanto a noi c’è un gruppo di rifondati: sventolano “Liberazione” e ci danno dei violenti, degli infiltrati, dei provocatori. Dicono che oggi la polizia non caricherà, perché oggi il corteo è pacifico. Neanche dieci minuti dopo anche loro ricevono una lezione pratica di democrazia reale. Cariche e lacrimogeni per tutti. Una calca infernale, una tragedia sfiorata.
Usciremo da Genova diverse ore dopo un lungo peregrinare per essere certi che nessuno dei nostri si fosse fatto male seriamente o fosse stato arrestato. Di un compagno non si saprà nulla: finirà a Bolzaneto e riemergerà qualche giorno dopo nel carcere di Alessandria.
L’autostrada è vuota, spettrale. Ci areniamo a Cogoleto e scopriamo che a pochi chilometri dall’inferno, si consumano i consueti riti dell’estate in Riviera. Non dormiamo da giorni ma di dormire non se ne parla: vogliamo mangiare, bere, bere ancora e parlare di tutto. Siamo vivi, siamo liberi e tanto ci basta.
La mattina dopo il massacro della Diaz ci investe nelle parole di un compagno che ci chiama e racconta con voce rotta del sangue, delle ossa rotte, delle bestie scatenate su gente che dorme.
Nei giorni successivi chi esce dall’inferno racconta le torture di Bolzaneto.

In un altro luglio la corte di Cassazione ha emesso la sentenza di condanna definitiva per dieci compagni e compagne. I poliziotti che hanno pestato, gasato, torturato non faranno un giorno di galera, mentre compagni e compagne accusati di aver rotto delle cose, trascorreranno lunghi anni in carcere.
In un mondo dove il denaro e la merce significano le persone, chi brucia i templi del denaro, chi distrugge i simboli di un ordine ingiusto va punito. Chi li difende merita un premio.
Lo Stato non condanna se stesso. La mattanza di Genova fu pianificata nelle stanze del governo ed attuata da fedeli servitori.

Tante onde si sono infrante nel porto di Genova. Il movimento che venne represso nel sangue di quelle giornate di luglio, abortì la propria aurora tra social forum ed esercizi di compatibilità istituzionale.
Quel movimento agiva la propria contestazione su un piano meramente simbolico sia che si esprimesse con il linguaggio neomedievale dell’assedio, o con quello neoluddista dello sfasciare banche e auto di lusso. Genova è stato un grande spettacolo tragico.
Le torri gemelle e la guerra spensero la tensione di un movimento che finì con l’avvilupparsi negli infiniti forum dei terzi e quarti mondi.
Ma quelle giornate di Genova segnarono l’immaginario delle generazione che si affacciava alla lotta in quel primo scorcio di secolo.
Vogliamo pensare che alcuni dei semi che “Anarchici contro il G8” hanno piantato in quei giorni siano piano piano germogliati nelle lotte dove la radicalità dell’agire si coniuga con il radicamento sociale.
E chi sa? Un giorno, come nella canzone di Alessio Lega, torneremo a Genova e spargeremo sale sulle rovine di Bolzaneto.
maria matteo
(quest’articolo comparirà sul prossimo numero del settimanale Umanità Nova)

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