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19 ottobre. Note a margine

Roma-in-corteo-Sabato-19-ottobre-2013Il leninismo fluido del secondo millennio
Lenin si collocava agli incroci di un labirinto dove si intersecavano il vecchio autoritarismo di marca giacobina, il partito come avanguardia cosciente e ristretta, l’idea della rivoluzione come sommovimento da guidare, indirizzare in una transizione tutta collocata nel dopo. Utopia da venire, destinata a scontrarsi con il realismo di un processo che doveva trovare il proprio compimento storico in un domani inattingibile nell’immediato. La rottura rivoluzionaria, nella prospettiva leninista, non attuava il domani desiderato ma assegnava al partito padrone e padrino il compito di determinarne i tempi e i modi.
Il leninismo si compie fondendosi con la tradizione burocratica, ossessiva, gerarchica della vecchia Russia. Si compie nel sangue di chi non aveva compreso dove andasse la storia e, soprattutto, dove si dirigessero coloro che si erano assunti il compito di aiutarla a compiersi.
Le distopie owelliane ancora oggi sono il migliore specchio della prima parte del secolo breve.
C’é chi descrive Orwell come vaticinatore del nostro oggi. Secondo quest’approccio l’evoluzione della tecnica sarebbe all’origine del grande fratello globale, dettato dalle leggi della pubblicità mercantile, capace di irretire con la seduzione piuttosto che obbligare con la violenza.
Orwell era un mero cronista dei propri tempi: non pensava al futuro ma raccontava, giocando con i numeri, il suo 1948. L’asfissiante burocrazia di “1984” evoca gli scenari cupi dell’agrimensore K, più che satelliti, droni, telecamere, microchip che seminano ovunque la propria bava elettronica. Il Grande Fratello ti tortura con ferocia, ma piegarti non gli basta, vuole anche sedurti. Il modello, insuperato, di sadismo seduttivo è il Dioniso delle Baccanti di Euripide, che lascia sbranare la sua vittima solo dopo averla sedotta. Senza seduzione non c’é piacere. Né solido potere.
Orwell racconta l’Unione Sovietica, è un pittore dei totalitarismi del secolo breve, la sua non è narrativa di anticipazione. Winston Smith è uno stralunato testimone dei suoi tempi, un’eco dei processi staliniani. Anni luce dal nostro oggi.
Il Novecento, con il partito di massa, con Stalin, Mussolini, Hitler mette in campo dinamiche collettive dove la seduzione puntella e mantiene stabile l’organizzazione gerarchica.
Per la prima volta i mezzi di comunicazione fanno da megafono ai dittatori, ne espandono il potere seduttivo, al di là delle adunate, delle grandi folle che riempiono le piazze.

Oggi gli eredi di quel percorso, pur ambendo a dirigere il processo di trasformazione non riescono più a riproporre con efficacia il modello partito.
La fluidità, caratteristica dei movimenti a cavallo tra i due millenni, rende difficile ripensarne una riedizione, sia come partito della rottura rivoluzionaria, sia come struttura interna alle dinamiche istituzionali democratiche.
La potente ondata libertaria che, nelle proprie innumeri articolazioni, ha attraversato gli ultimi quarant’anni, è a tal punto pervasiva che nemmeno gli eredi della tradizione autoritaria dei movimenti di emancipazione sociale, possono spazzarla via con la sicumera di chi cavalca il destriero della Storia. Specie quando il nobile animale ha da tempo disarcionato i propri cavalieri. La metafora dell’orgoglio equino ci racconta di un tempo che non soggiace né ad una filosofia della storia, né, tanto meno, a chi vuole piegare gli eventi al disegno dei filosofi.
Nel nostro paese la diaspora seguita alla dissoluzione di Rifondazione Comunista non pare trovare approdi né terre promesse, solo una lunga deriva senza prospettive. Si potrebbe dire che l’eccesso di realismo che portò la compagine bertinottiana dentro il governo Prodi, si è dimostrato un boomerang, che è rimbalzato con violenza abbattendo chi l’aveva lanciato. Sel, che ne ha raccolto l’eredità, si tiene in bilico tra ambizioni movimentiste e struttura partito, facendo leva sul carisma del leader. Più di recente l’esperienza di ALBA è rovinosamente naufragata nella triste avventura elettorale di “Rivoluzione civile”. Poche gambe sembra avere Rossa, nonostante l’appoggio della componente sconfitta della Fiom.
La normalizzazione della stessa Fiom nell’universo della CGIL targata Camusso, non ha avuto ricadute esclusivamente sindacali, ma significativamente politiche. La fine della cosiddetta anomalia Fiom ha dissolto l’illusione che il sindacato potesse avere un ruolo suppletivo del partito ormai decomposto. Un ruolo che, per le aree post autonome e post disobbedienti, era essenzialmente di tutela politica in campo istituzionale. In una sorta di patto non scritto, gli uni garantivano una sponda movimentista agli altri, che a loro volta svolgevano un ruolo di mediazione importante per la salvaguardia dei loro spazi materiali e simbolici di azione politica e sociale.
Il venir meno di un meccanismo informale ma efficace di tutele ha scompaginato il quadro.
Il moltiplicarsi dei meccanismi disciplinari messi in campo dai governi per contenere e bloccare ogni insorgenza sociale, mutano le condizioni dello scontro, che si fa più crudo, senza troppi spazi di mediazione.
Due anni fa, in occasione della manifestazione del 15 ottobre 2011, il tentativo di alcune aree della diaspora post comunista e del sindacalismo di base di assumere una leadership da spendere sul piano elettorale, si dimostrò fragile, incapace di controllare una piazza che gli sfuggì di mano, sino agli scontri di piazza San Giovanni, ai caroselli dei blindati, alla violenza di Stato.
Quella piazza divenne lo specchio delle convulsioni che attraversa(va)no l’opposizione politica nel nostro paese.
Piazza San Giovanni e l’intera giornata del 15 ottobre 2011, furono una grossa fiammata in un barile pieno di benzina, che non si estese ma si consumò in se stesso.
Se non fosse per la repressione durissima, per le condanne pesanti inflitte, per i procedimenti in corso che rischiano di ricreare uno scenario simile a quello che seguì il G8 di Genova, quel giorno sarebbe stato da tempo archiviato.
A due anni da quell’ottobre le aree post autonome hanno deciso di giocare nuovamente la carta romana. Dopo un’estate non facile sui fronti di lotta del Tav in Val Susa e del Muos in Sicilia, hanno provato l’operazione complessa di estendere l’appuntamento dei movimenti di lotta per la casa, che a Roma hanno caratteristiche ampie e radicate, ad altre tematiche: disoccupazione, precarietà, reddito, difesa del territorio. Il ponte tra lo sciopero dei sindacati di base del 18 ottobre è riuscito, quello con i No Tav e i No Muos è rimasto su un piano meramente simbolico, senza una significativa partecipazione alla manifestazione.
La scommessa persa il 15 ottobre 2011 dalle aree istituzionali del litigioso arcipelago della cosiddetta sinistra radicale, è stata invece vinta il 19 ottobre di quest’anno. Grandi numeri e grande controllo della piazza. L’operazione “contenitore” questa volta ha funzionato. L’assedio si è trasformato in un lungo corteo pacifico, puntellato, nella parte finale dalle azioni di piccoli gruppi organizzati, che sapevano dove e come attaccare, dosando con cura ogni momento, senza mai tentare un affondo reale.
La Questura ha messo in campo un dispositivo da tempi di guerra, ma ha dato il via libera ad un percorso che lambisse diversi ministeri, l’ambasciata tedesca, una sede di Trenitalia. Ai piani alti c’era la convinzione che questa volta il vaso di Pandora non si sarebbe rotto, spargendosi per la città.
Un ruolo decisivo lo hanno svolto i media, sia nel suscitare allarmi preventivi sia disegnando un quadro falso dei tanti buoni e dei pochi cattivi.
Gli eredi della tradizione leninista si sono candidati alla leadership informale dei movimenti di opposizione sociale, pur senza tentare, né probabilmente auspicare, avventure organizzative che rischierebbero di spezzare il debole equilibrio del 19 ottobre. Preferiscono affidarsi alle suggestioni dell’immaginario, come leva potente capace di creare legami al di là dell’approccio organizzativo.
Hanno in questi anni saputo ridefinire un rapporto con i media persino più spregiudicato di quello intessuto con settori istituzionali.
Consapevoli del ruolo strategico dell’informazione, sia quella main stream che dei social network da facebook a twitter, costruiscono strategie comunicative sul filo del rasoio, sempre in bilico tra la necessità di presentarsi come forza consapevole e capace di mediazione e al tempo stesso perno dell’opposizione più radicale. In un’epoca segnata dal trionfo di un immaginario, che consuma i propri miti molto in fretta, non si propongono come guide ma come tutori, padrini, garanti. Una seduzione fluida, effimera, qui ed ora. La distopia orwelliana è distante, destrutturata dalle regole della comunicazione ai tempi del mercato globale.

Non è tuttavia un’operazione priva di costi.
Il governo ha giocato la carta dell’efficienza del proprio apparato repressivo nel contenere la piazza, limitando i danni. Si è persino concesso l’apertura formale di un dialogo con i movimenti romani per la casa, offrendo un incontro con il ministro per le infrastrutture Lupi, chiusosi in un nulla di fatto.
Il Procuratore di Torino Caselli si è permesso una lettera di complimenti agli organizzatori che hanno “isolato i violenti” che ha il sapore agre dello sfottò.
Il 19 ottobre è stata un’importante giornata di auto rappresentazione collettiva delle tante anime accatastate degli orfani della sinistra, mescolati con tanti senza casa, precari, qualche frammento dei movimenti di difesa territoriale.
L’accampata finale, contrapposta al comizio previsto e mai fatto il 15 ottobre, era troppo debole, troppo lontana da Tahrir o da Puerta del Sol per diventare reale icona di un nuovo movimento.
D’altra parte i movimenti che in questi anni hanno saputo riporre al centro la questione sociale, compreso quello romano per la casa protagonista del 19 ottobre, hanno la loro forza nel radicamento quotidiano nei territori, dove lo scontro ha sempre meno margini di mediazione politica.
La durezza dello scontro in atto in Valsusa ne è il segno: qui lo Stato vuole spezzare, costi quel che costi, un movimento che non si è mai piegato, che non ha mai accettato di ridursi a mero testimone dello scempio ma ha deciso, pagandone i costi, di resistere attivamente. Un movimento che, nella pratica quotidiana, ha saputo costruire percorsi decisionali condivisi anche nei momenti più difficili.
Più in generale i movimenti sociali di questi anni sono stati attraversati da una tensione libertaria, che nonostante la persistenza di una cultura autoritaria della sinistra, non appare facilmente comprimibile, né controllabile dagli eredi di Lenin, sia pure in versione fluida.
Per i libertari in generale e per gli anarchici in particolare diventa sempre più urgente intersecare ed intrecciare percorsi di autonomia reale dall’istituito che valorizzino questa tensione libertaria.
(una versione più stringata di questo articolo è stata pubblicata dalla rivista A)

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