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Esodo, conflitto, rivoluzione

39cd050084895d4471f87fa785416aa4Potere è temine carico di un’ambiguità semantica costitutiva, che ne divarica gli ambiti di senso. Nella nozione di “potere” è racchiuso sia il “poter fare” che il “poter far fare”. Non per caso qualche anno fa Amedeo Bertolo sulle pagine della rivista “Volontà” fece la proposta di separare il poter fare dal poter far fare, definendo il primo “potere”, il secondo “dominio” ed introducendo la mozione di autorità, come esercizio di influenza che non si impone ma si propone.
Il poter fare mantiene tuttavia un’ambiguità che si alimenta nella divaricazione politica tra il poter fare come “diritto” ed il poter fare come “condizione di libertà”. Pensarlo nella categoria dei “diritto” ne limita l’esercizio a quanto accettato e reso possibile dalle istituzioni statali, declinarne il senso come “condizione di libertà” apre alla sperimentazione, al dispiegarsi di realtà istituenti che si diano fuori e contro l’ambito statuale, foss’anche in chiave democratica.

Una riflessione attenta al tema del potere, ci aiuta a ragionare sui margini ed i limiti della pratica libertaria a metà del secondo decennio del secolo. Un secolo che si afferra alla coda dolente di quello che l’ha preceduto, nel lungo distacco dalla politica ideologica, dalla ferocia dispiegata dei totalitarismi, e, insieme, dalla vischiosità della democrazia, dal lieve ma fortissimo abbraccio delle merci, catene immateriali di un vivere asservito.

In tempi di crisi pare che l’orizzonte politico e sociale sia intrascendibile. Le lotte che si limitano al qui ed ora, provando a limitare i danni, ne sono il segno. Si va dall’impedire la chiusura di una fabbrica, negoziando sulla nostra pelle il prezzo, alla protesta contro l’erosione dei servizi elargiti dallo Stato, a quella per impedire la gentrificazione di un quartiere.
Eppure. Eppure la crisi, la perdita irreversibile di un ampio sistema di garanzie e tutele, la fine dello scambio socialdemocratico tra sicurezza e conflitto, ci offre prospettive inesperite. E, qua e là, paiono aprirsi anche altre possibilità.
Possibilità per costruire nel conflitto, possibilità per fare dell’esodo il punto di forza per l’estendersi di lotte che non vogliono negoziare i propri obiettivi con l’istituito.
La possibilità di riprenderci le nostre vite, sperimentando i modi per garantir(ci) salute, energia, cura degli anziani e dei bambini fuori e contro il recinto statuale. La scommessa è tentare percorsi di autonomia che ci sottraggano al ricatto del “peggio”, alla continua evocazione dell’apocalisse che abbatte chi non segue i diktat della politica nell’epoca del liberismo trionfante, della finanza anomica, della logica del fare per il fare, perché chi fa mette in moto l’economia, fa girare i soldi, “crea” ricchezza.
Sappiamo che questa logica “crea” solo macerie.
Frammenti di questo percorso sono talora nelle lotte territoriali, dove nei momenti più alti si ri-crea uno spazio pubblico strappato alla delega democratica: in questi ambiti l’emergere della coscienza collettiva allude all’incompatibilità tra capitalismo e salute, tra capitalismo e futuro, offrendo spazi all’emergere di un immaginario, che mette all’ordine del giorno, come necessità di sopravvivenza, la rottura dell’ordine della merce.
In questo puzzle la cui trama è costantemente in fieri, altri pezzi si possono rintracciare nelle lotte contro gli sfratti e per l’occupazione di spazi vuoti. Lotte che spesso non si limitano a (cercare) di sottrarre alcuni beni al controllo del mercato, ma negano legittimità alla nozione stessa di proprietà privata.
Chi si illude che esista uno spazio di negoziazione, chi ha costruito una teoria dei beni comuni, che sottrae e sacralizza alcuni ambiti, lasciando però intatta la struttura relazionale basata su sfruttamento e dominio, è un illuso, nostalgico della socialdemocrazia delle mutue e del liberalismo delle favole. Non solo. Nella materialità trasforma una pratica radicale di riappropriazione in terreno di mediazione politica per l’ennesima escrescenza partitica della sinistra “radicale” italiana, orfana di partito dopo l’esplosione della supernova rifondata.
Da evitare come la peste, peggio della peste, perché alimenta ancora una volta l’illusione che sia possibile riformare la democrazia, un sistema di potere che, per quanto corrotto e corruttibile, manterrebbe un proprio nucleo assiologico potente, capace di ri-portare la barra al centro, ri-consegnando al “popolo” la propria sovranità.
I guai cominciano quando scendono in campo gli specialisti della mediazione, ceto politico che prova a rappresentare i movimenti. Specialisti del “realismo”, del buon senso, della necessità di fare cassa, di portare a casa il risultato. I loro spazi di manovra oggi sono ridotti dall’asprezza stessa del conflitto sociale, dalla difficoltà dei governi a porsi sul piano della mediazione, dalla sempre più marcata attitudine disciplinare nel trattare le questioni sociali.
Può tuttavia capitare che il governo sia obbligato a cercare una mediazione, per evitare una sconfitta plateale. Un buon esempio sono le ricette che negli ultimi mesi stanno provando a mettere in campo per nascondere il tracollo della macchina delle espulsioni, il fallimento del sistema CIE. Nella ricetta c’è sia l’esternalizzazione della repressione, ancora una volta affidata a caro prezzo al governo libico, sia una possibile attenuazione della durezza della reclusione amministrativa messa in mano agli specialisti dell’umanitario a pagamento, a consorzi e cooperative del sociale, più che disponibili a riprendere in mano un lucroso affare.

Nei tempi che viviamo ci sono ben poche carote e tante bastonate. L’insorgenza sociale è affrontata dallo Stato con crescente violenza poliziesca, e con una sempre più marcata delega al potere giudiziario, cui è affidato il compito di chiudere i conti con i movimenti più radicali. Questa situazione, che nel nostro paese non si verificava da decenni, inasprisce uno scontro, che allarga il fronte di chi non è disponibile a chinare la testa ma ci pone di fronte al rischio di accelerazioni senza prospettive di reale trasformazione sociale.
Occorre rimettere in pista una narrazione rivoluzionaria. Non la grande narrazione che pretende di anticipare e descrivere la storia, ma la narrazione che emerge dalla pratica concreta dei movimenti sociali.

Esodo, sperimentazione nel conflitto, conflitto che si alimenta ed alimenta dell’autogestione di quanto riesce a strappare con le lotte è la prospettiva radicale e libertaria che emerge nell’attraversamento di tanta parte dei movimenti di lotta nel nostro paese.
La scommessa non è giocare una partita di diritti ma di libertà.

Maria Matteo
(quest’articolo è uscito sul numero di questa settimana di Umanità Nova)

Sul tema del conflitto, dell’esodo e dell’autogestione Anarres ha discusso con Stefano Boni, antropologo con una riflessione attenta al tema del potere. Ascolta la diretta

Di beni comuni, autogestione, conflitto abbiamo discusso con Salvo Vaccaro dell’università di Palermo. Ascolta la diretta

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