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Sul orlo del cratere

Vulcano-Dubbi-EritreaVivere alla pendici di un vulcano attivo è un gioco pericoloso. Anno dopo anno, si rischia di perdere tutto quello che si ha, persino la vita. Tuttavia c’è sempre qualcuno che ci abita, perché i terreni sono più fertili, i materiali eruttivi hanno numerosi impieghi utili, l’energia geotermica è una buona fonte di riscaldamento.
Vivere ai tempi della crisi è un gioco pericoloso che nessuno sceglie volontariamente, tuttavia offre delle possibilità di sviluppo a pratiche di autonomia dall’istituito, che le politiche di welfare parevano aver mandato definitivamente in soffitta. Il welfare, strumento principe di ammortizzazione del conflitto sociale, rende più tranquillo e sicuro il cammino, ma incatena con lacci robusti chi ne beneficia.
D’altra parte la fine di tutele strappate con decenni di lotta ed erose da corsi politici via, via più impetuosi negli ultimi trent’anni, se rende più difficili le vite dei poveri, rischia tuttavia di innescare un’eruzione sociale, che non sempre le politiche disciplinari riescono a contenere.
Le prospettive che emergono dalle scelte del nuovo governo Renzi sono il tentativo di prevenire il conflitto sociale, asservendo con poche briciole e molti lacci tanta parte dei lavoratori precari, disoccupati, giovani nel nostro paese. La parola magica è workfare e si ispira al modello tedesco delle leggi Hartz.
Sul piatto c’è l’introduzione di un sussidio condizionato alla partecipazione ad un corso di formazione e ad un’offerta di lavoro. Peggio di quanto prospettavano nel recente passato il Partito Democratico o il Movimento 5 Stelle con le fumosissime allusioni al “reddito di cittadinanza”.
Nell’Atene di Pericle non c’erano vie di mezzo: o eri schiavo o eri cittadino. Nella Germania dell’era Merkel la “schiavitù di cittadinanza” è la ricetta con la quale il governo tedesco è riuscito a ridurre la disoccupazione, garantendo lauti guadagni agli imprenditori tedeschi, sgravati dall’impegno di versare contributi.
In Germania chi non ha un’occupazione riceve intorno ai trecento euro al mese. Se gli viene proposto un lavoro per venti ore settimanali a 450 euro al mese – senza obbligo per il padrone di versare tasse – ha due possibilità ugualmente sgradevoli. Se rifiuta perde buona parte dell’assegno di cittadinanza, se accetta si lega mani e piedi ad una condizione di super sfruttamento non contrattabile e senza prospettive di pensione.
Schiavo e cittadino insieme. Un infelice ma ben riuscito ossimoro politico.
Nel 2008 la disoccupazione in Germania era superiore a quella italiana, oggi le parti si sono invertite, ma il numero di ore lavorate in realtà non è cambiato.
Per uno dei tanti paradossi di cui è capace un capitalismo sotto oculata e tenera tutela statale la Germania è riuscita ad avvicinare la realizzazione di un obiettivo che, in altri tempi, è stato molto caro al movimento dei lavoratori: che tutti lavorino meno, che tutti lavorino. Peccato che la ricetta tedesca non comporti una seconda – fondamentale – parte: la parità di salario nonostante la riduzione di orario. In parole povere, non vi sia una sia pur lieve, trasferimento di reddito dai padroni ai lavoratori.
Al momento si tratta di “suggestioni”, poiché il governo Renzi su questo terreno ha deciso di muoversi con un percorso più lento e prudente, cercando di far passare una legge delega sulla riforma del lavoro e affidandone poi la concreta attuazione ai successivi decreti attuativi, poiché il reperimento delle risorse per l’attuazione di queste misure potrebbe rivelarsi non facile.
Molto concreto e immediatamente operativo è il decreto legge su contratti a termine e apprendistato, che offre ai padroni manodopera usa e getta, con vincoli sempre più esili. Il contratto di apprendistato – per “giovani” sino a 29 anni – prevede l’eliminazione degli esili limiti imposti dalla riforma Fornero, in particolare l’obbligo per i padroni di mettere per iscritto il piano formativo, di garantire l’assunzione dei vecchi apprendisti al momento di assumerne di nuovi, di sostenere l’accesso a corsi di formazione. Per tre anni – con otto rinnovi – si lavora per poco senza alcuna garanzia di assunzione al termine dell’iter. Per i contratti a termine viene cancellato l’obbligo di giustificare l’utilizzo di precari.
I padroni ottengono un’altra bella fetta di libertà, di scioglimento di lacci e lacciuoli che gli consentono di assumere e licenziare liberamente lavoratori sotto pagati.
Sulla bilancia di Renzi potrebbe da un lato stare il workfare, dall’altro migliaia di licenziamenti nel pubblico impiego e la fine della cassa integrazione. Di fatto la rottura tra le generazioni potrebbe favorire un piano d’azione destinato ad impoverire tutti, senza provocare eruzioni sociali incontenibili.
Nell’immaginario di chi non ha mai avuto diritti, i dipendenti pubblici e la cassa integrazione guadagni rappresentano aree di mero privilegio.

L’abilità nel rendere difficile la costruzione di percorsi di solidarietà, lotta e mutuo appoggio, nel dividere ed asservire, non cancella tuttavia la durezza delle condizioni materiali di vita, l’assenza di prospettive per il futuro, chiudendo l’orizzonte progettuale di tanta parte di coloro che, per vivere, devono lavorare.
Su questo irto pendio vulcanico si offrono nuove opportunità al conflitto come alla sperimentazione autogestionaria, nonché al dispiegarsi di realtà istituenti che si diano fuori e contro l’ambito statuale, foss’anche in chiave democratica.
Serve tuttavia una riflessione sui margini e prospettive della pratica libertaria a metà del secondo decennio del secolo. Un secolo ancora avvinghiato a quello che l’ha preceduto, nel lungo distacco dalla politica ideologica, dalla ferocia dispiegata dei totalitarismi, e, insieme, dalla vischiosità della democrazia, dal lieve ma fortissimo abbraccio delle merci, catene immateriali di un vivere asservito.
In tempi di crisi l’orizzonte politico e sociale pare insuperabile. Le lotte che si limitano al qui ed ora, provando a limitare i danni, ne sono il segno. C’è chi si mette di mezzo perché una fabbrica non chiuda, negoziando sulla propria pelle il prezzo, chi protesta contro l’erosione dei servizi elargiti dallo Stato, chi lotta contro la gentrificazione di un quartiere, l’espulsione dei poveri. Manca tuttavia il passaggio dalla resistenza all’attacco, alla sottrazione conflittuale dal controllo/dipendenza dallo Stato e dal capitalismo.
La crisi, la perdita irreversibile di un ampio sistema di garanzie e tutele, la fine dello scambio socialdemocratico tra sicurezza e conflitto, ci offre prospettive inesperite. E, qua e là, paiono aprirsi anche altre possibilità.
Possibilità per costruire nel conflitto, possibilità per fare dell’esodo il punto di forza per l’estendersi di lotte che non vogliono negoziare i propri obiettivi con l’istituito.
La possibilità di riprenderci le nostre vite, sperimentando i modi per garantir(ci) salute, energia, cura degli anziani e dei bambini fuori e contro il recinto statuale. La scommessa è tentare percorsi di autonomia che ci sottraggano al ricatto delle regole dalla governance transnazionale, alla continua evocazione dell’apocalisse che abbatte chi non segue i diktat della politica nell’epoca del liberismo trionfante, della finanza anomica, della logica del fare per il fare, perché chi fa mette in moto l’economia, fa girare i soldi, “crea” ricchezza.
Questa logica “crea” solo rovine: l’emblema sono i cumuli di immondizia che ci avvelenano e uccidono, l’enorme fiera dell’usa e getta, dello spreco programmato.
Qualche volta le lotte territoriali hanno aperto lievi tracce di un percorso diverso, perché nei momenti apicali hanno consentito la ri-creazione di uno spazio pubblico strappato alla delega democratica. L’emergere di un immaginario che allude all’incompatibilità tra capitalismo e salute, tra capitalismo e domani, offrendo spazi all’emergere di un immaginario, che mette all’ordine del giorno, come necessità di sopravvivenza, la rottura dell’ordine della merce.
In questo arazzo la cui trama è tracciata di vola in volta, altri fili si intrecciano nelle lotte contro gli sfratti e per l’occupazione di spazi abbandonati. Lotte che spesso non si limitano a (cercare di) sottrarre alcuni beni al controllo del mercato, ma negano legittimità alla nozione stessa di proprietà privata, diventando sovversivi. Lo sa bene Renzi che ha promosso una normativa sulla casa che impedisce a chi occupa di fare contratti per le utenze e nega la residenza, e, quindi, l’accesso ai servizi sanitari, alla scuola, all’abbonamento per i trasporti.
Chi si illude che esista uno spazio di negoziazione, chi ha costruito una teoria dei beni comuni, che sottrae e sacralizza alcuni ambiti, lasciando però intatta la struttura relazionale basata su sfruttamento e dominio, è un illuso, nostalgico della socialdemocrazia delle mutue e del liberalismo delle fiabe. Non solo. Nella materialità trasforma una pratica radicale di riappropriazione in terreno di mediazione politica per l’ennesima escrescenza partitica della sinistra “radicale” italiana, orfana di partito dopo l’esplosione della supernova rifondata.
Da evitare come la peste, peggio della peste, perché alimenta ancora una volta l’illusione che sia possibile riformare la democrazia, un sistema di potere che, per quanto corrotto e corruttibile, manterrebbe un proprio nucleo valoriale potente, capace di ri-portare la barra al centro, ri-consegnando al “popolo” la propria sovranità.
I guai cominciano quando scendono in campo gli specialisti della mediazione, ceto politico che prova a rappresentare i movimenti. Specialisti del “realismo”, del buon senso, della necessità di fare cassa, di portare a casa il risultato. I loro spazi di manovra oggi sono ridotti dall’asprezza stessa del conflitto sociale, dalla difficoltà dei governi a porsi sul piano della mediazione, dalla sempre più marcata attitudine disciplinare nel trattare le questioni sociali.
Non mancheranno tuttavia di mettere in piedi le proprie botteghe in vista delle prossime elezioni amministrative, di chiedere una delega in bianco o su programmi fatti di fumo e demagogia.

Nei tempi che viviamo l’insorgenza sociale è affrontata dallo Stato con crescente violenza poliziesca, e con una sempre più marcata delega al potere giudiziario, cui è affidato il compito di chiudere i conti con i movimenti più radicali. Questa situazione, che nel nostro paese non si verificava da decenni, inasprisce uno scontro, che allarga il fronte di chi non è disponibile a chinare la testa ma ci pone di fronte al rischio di accelerazioni senza prospettive di reale trasformazione sociale.
Occorre rimettere in pista una narrazione rivoluzionaria. Non la grande narrazione che pretende di anticipare e descrivere la storia, ma la narrazione che emerge dalla pratica concreta dei movimenti sociali, dalla nostra capacità di porre al centro lo scontro con il potere e la sottrazione dall’istituito.
Esodo, sperimentazione nel conflitto, conflitto che si alimenta ed alimenta dell’autogestione di quanto riesce a strappare con le lotte è la prospettiva radicale e libertaria che emerge nell’attraversamento di tanta parte dei movimenti di lotta nel nostro paese.
Una partita di libertà ed una sfida per l’anarchismo sociale. Il momento è difficile, ma alle pendici del vulcano il terreno è più fertile.

Maria Matteo (quest’articolo è uscito sul numero di maggio di Arivista)

Posted in anarchia, idee e progetti, Inform/Azioni.

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