La fuga di Renzi, che ha posticipato a novembre e probabilmente spostato a Bruxelles il vertice sull’occupazione giovanile previsto a Torino l’11 luglio, non muta la situazione dei tantissimi giovani che non hanno un lavoro, o vivono di precarietà quotidiane, che ne segnano le vite in modo irreversibile.
Se i vertici – e con loro la variabile dipendente dei controvertici – sono la rappresentazione politica che si gioca nello spazio di una giornata, la questione della liberazione dal lavoro salariato come scommessa dei movimenti che mirano a spezzare l’ordine sociale, resta sul piatto ed impone un ragionare – ed un agire – più radicalmente volto ad una prospettiva di esodo conflittuale.
Un percorso difficile, ma – a nostro avviso – non eludibile. Non ci sono scappatoie.
La rappresentazione ritualizzata del conflitto che si gioca nei controvertici, anche quando la materialità dell’agire e la violenza istituzionale si incidono nell’immaginario, tanto da divenire passaggio obbligato, bagno sacro per una generazione di attivisti, non riesce tuttavia a oltrepassare la dimensione del simbolico. Poco importa che la narrazione del poi ci consegni qualche girotondo in tuta o k-wey o i fuochi di un luglio genovese.
Oggi, a bocce ferme, dopo il rinvio del vertice di Torino, vogliamo provare a ragionare, proponendo anche strumenti di approfondimento.
Di disoccupazione abbiamo parlato con Francesco, autore dell’articolo “Disoccupazione e Unione europea” uscito sul settimanale Umanità Nova, che vi proponiamo di seguito.
Ascolta la diretta con Francesco.
Una premessa è d’obbligo.
I ragionamenti che facciamo sulla disoccupazione non sono esaltazioni del lavoro salariato, sfruttato e sotto padrone.
Non ha alcun senso lamentarsi della disoccupazione aspirando a fare un lavoro di merda, precario e sottopagato, da dove puoi essere cacciato via in qualsiasi momento e per qualsiasi ragione.
Noi siamo per la liberazione di tutti gli sfruttati. Liberazione dal dominio, liberazione dal comando, liberazione dal capitale.
Le analisi che sviluppiamo sulla disoccupazione, come su altro, servono a ragionare collettivamente su come si stiano modificati i modelli di sfruttamento e come combatterli meglio.
Ci sembra si sia usciti dal circuito produci-consuma-crepa. La produzione la fanno altrove e qui ti tengono appeso tra la disoccupazione e il lavoro part time per poterti condizionare meglio. Il consumo è diventato pura sopravvivenza. Solo la morte l’hanno lasciata, accentuandola con la chiusura degli ospedali, il costo delle cure sanitarie e i ricatti di big pharma.
Una parte importante di questo processo di modifica delle condizioni del lavoro e dell’accesso al lavoro ce l’ha l’Unione Europea.
La tradizione di lotte sociali del proletariato europeo aveva fatto sì che le condizioni di lavoro fossero, in Europa, sensibilmente migliori che non negli USA.
Il processo di unificazione europea ha comportato la perdita progressiva di quelle conquiste, la crisi degli ultimi sei anni ha fornito la scusa per dare il colpo di grazia alle condizioni di vita e lavoro di milioni di persone.
La disoccupazione in questo gioca un ruolo importante. Ce lo spiega la stessa Commissione Europea nel “Winter forecast” di marzo 2014, dove dice che il
tasso di disoccupazione di equilibrio (NAIRU) per l’Italia – a fini del raggiungimento degli obiettivi di bilancio e di inflazione – non può essere inferiore all’11% nel 2015 ed è meglio se è superiore. Infatti la “disoccupazione sostenibile serve a ridurre le pressioni salariali e a frenare la crescita dei salari. Questo, unito con lieve miglioramento della produttività, comporta solo moderati aumenti del costo unitario del lavoro nominale.”
Senza entrare in tecnicismi economici, è bene sottolineare che un dato del NAIRU così alto serve alla Commissione Europea per sovrastimare il deficit strutturale dell’Italia e chiedere una manovra economica aggiuntiva.
In ogni caso è perfettamente inutile che il governo e l’Unione Europea sparino tante panzane sulla loro volontà di ridurre la disoccupazione, visto che, proprio loro, si sono dati tanto da fare per crearla e si stanno dando da fare per mantenerla alta.
L’ISTAT ci dice, intanto, che il tasso di disoccupazione”ufficiale” in Italia è al 12,6%. Come tutte le statistiche però il singolo dato non ci dice nulla se non sappiamo cosa c’è dietro.
Vengono considerati disoccupati coloro i quali, nel mese precedente alla rilevazione, hanno effettuato una ricerca attiva di lavoro (mandato un curriculum, fatto un colloquio, risposto a un annuncio), non hanno fatto neanche un’ora di lavoro (se uno fa il baby sitter una sera per tre ore non viene considerato disoccupato neanche se si sbatte come un matto per cercare lavoro per tutto il
resto del mese) e sono disponibili a iniziare a lavorare nelle due settimane successive.
I disoccupati calcolati così sono 3.487.000. Se a questi ci aggiungiamo però quelli che il lavoro non l’hanno cercato nel mese precedente, perché “scoraggiati” o perché stanno aspettando la risposta a qualche colloquio fatto prima, ma sono comunque disponibili a lavorare abbiamo altre 3.305.000 persone. Se consideriamo anche quelli che cercano lavoro, ma non possono cominciare nelle due settimane successive (studenti sotto esami, donne in gravidanza) abbiamo altre 261.000 individui.
Se poi consideriamo anche il 1.499.000 di individui impiegati in maniera precaria e a tempo parziale abbiamo un totale di 8.552.000 persone per cui la mancanza o la precarietà di un lavoro rappresentano un problema con cui fare quotidianamente i conti.
Questa situazione è prevalentemente italiana le “forze lavoro potenziali” (come si chiamano statisticamente) in Italia sono il 14% contro il 4% medio del resto d’Europa.
Da che dipende? Dal fatto che in Italia il lavoro non si trova con i metodi “classici” in uso nel resto d’Europa, ma con conoscenze, rapporti familiari, raccomandazioni, favori.
Questo serve a far legare a filo doppio una persona al suo “sponsor” lavorativo (a maggior ragione quando è un politico) e lo rende ulteriormente ricattabile quando prova a far valere i propri diritti sul posto di lavoro.
Questa è anche una delle cause della scarsissima mobilità sociale in Italia. Chi nasce povero, per quanti studi possa aver fatto e per quanta capacità possa dimostrare, rimane povero. Con la crisi questa situazione è anche peggiorata. Adesso chi nasceva in una famiglia di relativo benessere ha molte più probabilità di diventare povero che non di mantenere la propria posizione sociale.
In Italia, prima della crisi, si ereditava non solo la posizione sociale, ma anche il lavoro del padre: il 44% degli architetti aveva un figlio architetto, il 42% dei padri laureati in giurisprudenza aveva un figlio con medesima laurea, il 41% dei farmacisti e il 39% di medici e ingegneri.
La crisi ha trasformato la piramide sociale in clessidra: la maggior parte delle persone che erano ai livelli intermedi della piramide sono stati spinti verso il basso. Qualcuno è stato spinto verso l’alto: in Italia il numero delle persone che possiedono più di 30 milioni di euro è aumentato, nell’ultimo anno del 7%, a fronte di un aumento della povertà relativa del 15%.
Il problema della disoccupazione non è nato con l’Euro (all’avvento dell’euro la disoccupazione italiana era al 9.1%), ma è stata la risposta data dal capitalismo italiano alla crisi. Nel 2007 (prima dell’inizio della crisi) la disoccupazione in Italia era al 6.1% ed oggi è al 12,6%.
La scelta di spostare le produzioni ad alta intensità di lavoro in Cina, Vietnam e negli altri paesi dell’estremo oriente, e le produzioni ad alta intensità di capitale in Germania, ha determinato il crollo di circa il 30% della produzione manifatturiera italiana e la disoccupazione è più che raddoppiata dal 2007 ad oggi. La scelta dello stato e del padronato di puntare sui bassi salari fa sì che l’industria manifatturiera italiana, che è ancora la seconda in Europa, realizzi produzioni a basso valore aggiunto facilmente delocalizzabili. Questo aumento di disoccupazione per l’Italia (e gli altri paesi della “periferia” europea) è, per questi motivi, strutturale.
L’unico motivo per cui l’Italia ha una bilancia commerciale in attivo è perché sono crollati i consumi: non ci sono più soldi, le persone comprano di meno e consumando meno merci, ne vengono importate di meno (- 8.5% negli ultimi tre anni) e pur essendo diminuite anche le esportazioni (-1.7%), sono diminuite di meno delle importazioni, e il saldo è diventato attivo.
Raccontano che ci sono paesi, come la Germania, dove hanno risolto il problema della disoccupazione.
Peccato che abbiano semplicemente sostituito la disoccupazione con la sottoccupazione riducendo contemporaneamente i salari.
In Germania infatti, nel 2005 la disoccupazione era al 11.2% benché fosse in pieno boom economico. Per evitare una esplosione sociale il governo socialdemocratico di Shoereder si inventò i minijob. Chi voleva usufruire del sussidio di disoccupazione doveva accettare del lavori di 15 ore la settimana retribuiti 450 Euro al mese, senza tasse e con pochi contributi previdenziali (il costo
totale per l’imprenditore, compresa la cassa malattia è di 585 euro al mese).
In cambio lo stato tedesco versa per un single un importo pari a 374 € mensili a cui vanno aggiunti circa 300 € per l’affitto; una famiglia invece percepisce un contributo di 337 € per ogni adulto, 219 € per ogni bambino e 550 € per l’affitto.
In Germania i lavoratori impegnati con i minijob sono più di otto milioni, circa il 20% del totale degli occupati.
Oltretutto, siccome i minijob non consentono di ricevere il permesso di soggiorno hanno avvantaggiato la manodopera autoctona nei lavori meno qualificati (quelli abitualmente pagati di meno e dove c’è il maggior utilizzo di questi contratti).
Il problema è che contemporaneamente tutti i contratti esistenti per i lavori meno qualificati sono stati trasformati in contratti a minijobs con il risultato che la massa salariale complessiva percepita in Germania è rimasta sostanzialmente la stessa nonostante l’aumento dell’occupazione.
Questo ha determinato due effetti: un bassissimo costo del lavoro per le industrie, che hanno potuto produrre a prezzi considerevolmente più bassi aumentando conseguentemente le esportazioni e una diminuzione dei consumi interni con diminuzione delle importazioni.
Il risultato è che, lo scorso anno, la Germania ha avuto il saldo attivo della bilancia dei pagamenti più alto al mondo, maggiore anche della Cina che sui bassi salari e l’estrema flessibilità ha fondato il proprio successo economico.
Di fatto questa forma di sostegno alla disoccupazione rappresenta un finanziamento all’impresa, che automatizza al massimo per poter usare i minijob nella produzione e, in futuro, porterà all’esplosione del sistema previdenziale tedesco, visto che oggi, chi lavora con i minijob ha diritto solo a 3,11 euro di pensione mensile per ogni anno di lavoro. Il che significa che un lavoratore che avesse lavorato per 40 anni solo con i minijob avrebbe diritto ad appena 124 euro di pensione al mese.
L’altra favola che stanno raccontando è che il problema della disoccupazione è legato alla “rigidità” del mercato del lavoro.
Renzi ha proclamato che con il “jobs act” e l’introduzione selvaggia del contratto a tempo determinato si contribuirà alla soluzione del problema della disoccupazione.
In Spagna i contratti a tempo determinato li hanno liberalizzati dal 1984, rendendo ammissibili ripetute proroghe dello stesso contratto che ha smesso di essere legato ad esigenze temporanee di produzione.
Dopo 30 anni tutti gli studi che hanno analizzato gli effetti di questo provvedimento sono concordi nel sostenere che il risultato è: meno giorni di lavoro complessivi (si lavora – a parità di ferie – mediamente 21 giorni di meno all’anno persi a cercare un altro lavoro), salari più bassi (a parità di condizioni e indipendentemente dai giorni lavorati in meno, fin da prima della crisi erano diminuiti mediamente del 12%), precarizzazione delle scelte di vita (tutti quelli che, dopo qualche contratto, sarebbero stati assunti a tempo indeterminato, sono rimasti precari molto più a lungo) penalizzazione dei soggetti più deboli (chi ha avuto inabilità, donne incinte o con bambini piccoli non hanno il rinnovo dei contratti).
L’inutilità dell’effetto complessivo sulla disoccupazione è conclamato dal fatto che la Spagna ha oggi la disoccupazione al 25%, superiore anche a quella della Grecia.
La sublimazione di tutti queste situazioni è data dalla disoccupazione giovanile.
In Italia risultano disoccupate tra i 15 e i 24 anni 656.000 persone per un tasso di disoccupazione giovanile pari al 41.9%.
Il dato va completato: tra i 15 e i 24 anni 650.000 persone cercano lavoro e non lo trovano, meno di un milione lavora, tre milioni e mezzo studiano o fanno formazione e 850.000 sono NEET (Not in Education, Employment or Training), non studiano, non lavorano né lo cercano e non fanno alcun tipo di tirocinio.
Il numero dei neet sale vertiginosamente ampliando la fascia d’età tra i 15 e i 29 anni a circa 2.300.000 persone che, sebbene le persone di età tra i 25 e i 29 anni non rientrino statisticamente nella disoccupazione giovanile, il dato numerico segnala che le prospettive per i giovani sono inesistenti anche quando sono un po’ più “vecchi”.
Qualcuno di questi brillanti “tecnici” ed “economisti” al servizio dei potenti ha suggerito di modificare la rappresentazione del tasso di disoccupazione giovanile modificando l’indice mettendolo in rapporto con l’insieme dei giovani e non solo con i giovani componenti la forza lavoro, per abbassarlo dal 41.9% al 10.5%.
Invece di preoccuparsi del motivo per cui in sei anni il tasso è più che raddoppiato (era al 20% nel 2008) si preoccupano di falsificarlo.
Ed il motivo dell’aumento della disoccupazione giovanile è banale quanto ovvio. La riforma delle pensioni, con una accentuazione con quella della Fornero, oltre ad aver obbligato i lavoratori ad essere inchiodati al posto di lavoro fino a 67 anni, ha determinato la mancata assunzione dei più giovani.
Dall’inizio della crisi, nel 2008 (ma la tendenza si è solo accentuata rispetto a prima), ci sono un milione di posti di lavoro in meno (da 23,4 milioni a 22.4 milioni), però il numero degli ultracinquantenni che lavorano è aumentato di un milione di unità (da 5.6 milioni a 6.6 milioni).
Non si tratta, con tutta evidenza, di un atteggiamento caritatevole dei padroni, che hanno assunto gli “esodati” dalla Fornero o i cinquantenni espulsi dal ciclo produttivo dalle ristrutturazioni aziendali che hanno portato miliardi di profitti ai padroni e licenziamenti, cassa integrazione e fame agli operai. Sono i lavoratori che non sono potuti andare in pensione, che seguitano a lavorare e che, per ragioni anagrafiche, invecchiano.
I giovani hanno fatto da cavie a tutte le nuove tipologie di contratto di lavoro, con la truffa degli stage alcuni lavorano addirittura gratis, sono praticamente tutti precari, molti sono spesso sottoccupati, costretti ad accettare un lavoro a tempo parziale per l’impossibilità di trovare un lavoro a tempo pieno.
Nonostante questo si seguita a spingere l’accento sulla necessità della precarietà per ridurre il numero dei disoccupati.
Se fosse vero che con la precarietà si diminuisse il numero dei disoccupati, dovremmo avere, per le ragioni dette sopra, la disoccupazione giovanile molto più bassa di quella complessiva, invece di essere enormemente maggiore.
Invece, proprio perché precari, i giovani pagano un prezzo più alto alle ristrutturazioni aziendali: sono i primi a vedere i propri contratti non rinnovati quando c’è un accenno di crisi.
Questo rende evidente anche la balla con cui i padroni giustificano i propri profitti: sono loro che rischiano il proprio capitale ed è giusto che venga remunerato. I primi (e quasi sempre i soli) che rischiano qualcosa sono i lavoratori, per i padroni ci pensa lo stato a coprire le perdite!
E adesso, Renzi, con il jobs act, vorrebbe estendere questa situazione a tutti i lavoratori.
Noi non ci siamo mai illusi che, modificando qualche legge o votando qualcuno piuttosto che un altro, possa modificarsi la situazione.
La situazione attuale conferma le nostre idee.
L’unico modo per non trascorrere la propria vita tra precariato e disoccupazione, sognando un lavoro sfruttato, è di cambiare radicalmente il modello di produzione.
Solo con la lotta è possibile riappropriarsi della propria vita, del proprio tempo, dei propri desideri.