Era la più grande baraccopoli d’Europa. Difficile dire quanta gente abitasse in lungo Stura Lazio. Un luogo oltre la stessa periferia: il fiume, le casette di lamiera e assi, l’immondizia, i topi. Di fronte gli stabilimenti dell’Iveco, oggi divisi nello spezzatino del dopo Fiat, pur nella crosta imponente della vecchia fabbrica.
Lungo i marciapiedi le prostitute a poco prezzo, tutte venute da qualche altro margine di questo mondo. Questi margini non sono sottili e bianchi, come nei quaderni delle elementari, sono enormi, sozzi, un luogo limite tra la discarica e il nulla.
Eppure. Eppure se si vinceva la voglia di scappare via e si imboccavano le stradine che portavano nel cuore del campo, ci si accorgeva che in Lungo Stura c’era una piccola città. Tendine alle finestre, il bagliore di una TV o di un computer, i bambini che giocavano. Nelle narici il puzzo dell’immondizia si mescolava al fumo delle stufe a legna. Di sera i generatori di corrente erano un rumore di fondo cui si finiva con il fare l’abitudine.
Pur nella miseria si coglievano i segni di una vita che aspirava ad essere come quella di tutti gli altri, quelli che abitavano nelle case, avevano l’acqua, il bagno, la corrente, il riscaldamento.
L’aspirazione di chi governa la città è una sola, far sparire i poveri. Visto che eliminare la povertà è un agire eversivo estraneo alla cultura e alla pratica del Partito Democratico, l’importante era nascondere la polvere sotto il tappeto.
Se non ci fossero stati di mezzo i soldi forse questa storia sarebbe stata diversa.
I cinque milioni e rotti di euro stanziati dal Ministero dell’Interno per “l’emergenza rom” a Torino sono stati utilizzati per realizzare il progetto “La città possibile”. Il progetto, messo in atto dall’unica cordata di associazioni e cooperative che aveva partecipato alla gara d’appalto, prevedeva l’inserimento progressivo delle famiglie “meritevoli” in appartamenti o social housing. All’inizio l’affitto era basso, ma in pochi mesi è arrivato a prezzi da mercato. Poco a poco le famiglie vengono gettate in strada, senza alcuna alternativa.
Per due anni tutto è filato liscio. Non c’erano elenchi chiari di chi era dentro e chi fuori dal progetto. Chi entrava doveva collaborare con lo zingaro-kapò incaricato delle demolizioni a rendere inabitabile la propria baracca. Doveva “dimostrare” la propria volontà di “superare il campo”, come se la baracca fosse un destino etnicamente programmato e non un obbligo imposto dalla povertà, dall’impossibilità di pagare un affitto. Non basta servire il Grande Fratello, bisogna amarlo. La mimesi delle dinamiche tipiche dell’universo concentrazionario non è casuale. Il ridurre le persone a minori da tutelale o minorati da sterminare è all’origine profonda di ogni forma di razzismo.
O accetti le mie regole e “cresci” o le rifiuti e vieni eliminato. Pochissimi ce l’hanno fatta, perché le carte erano truccate. Chi non ha un reddito adeguato, non può pagare affitti a prezzo di mercato. La gente delle baracche vive riciclando e vendendo le cose che pesca nei cassonetti. Si muovono discreti con un gancio per muovere l’immondizia, qualcuno gira con vecchi passeggini, un carretto per la spesa, i più fortunati hanno una bici con una grossa cassetta. Qualcuno raccoglie metalli, li rivende a italianissimi grossisti che guadagnano bene, mentre chi rovista le discariche, smonta i posti abbandonarmi, rischia molto ma guadagna pochissimo. Al campo ogni giorno arrivavano camioncini pieni di rottami, macerie, amianto, che venivano scaricati senza spendere per il conferimento in discariche autorizzate. La gente del campo accettava, sperando di trovare qualcosa di buono da rivendere.
I comitati razzisti e fascisti promuovono periodicamente marce per lo sgombero, protestando per i fumi tossici e chiudendo gli occhi sul resto.
I “fortunati” dei social housing, vengono gettati in strada poco a poco, per evitare che si uniscano agli altri sfrattati e sgomberati e decidano di lottare.
Per la maggior parte degli altri, quelli giudicati indegni di “emergere”, incapaci per “natura”, tarati all’origine, c’è stata solo violenza. Sgomberi progressivi si sono susseguiti per due anni. Le ruspe operavano selettivamente, perché i salvati non si unissero ai sommersi, perché non deflagrasse la forza di migliaia di persone gettate in strada.
Nel mezzo la vita quotidiana. Una vita con regole sue, dove le pur esili tutele garantite di cui godono gli altri, quelli del mondo di sopra, non valgono. Senza residenza, senza tessera sanitaria, senza lavoro in regola vivi nel limbo, rischiando ogni giorno un decreto di espulsione o un viaggio di sola andata in Romania. Se resti nascosto, se tieni la testa basta, se non protesti per i soprusi quotidiani, forse te la cavi, altrimenti finisci nel mirino di vigili urbani, polizia, magistratura, assistenti sociali. Al campo c’erano tantissimi bambini: il ricatto sui figli,il più odioso, è anche il più efficace. E’ l’arma più usata dalle istituzioni e dalle associazioni per piegare ogni accenno di protesta, per convincere i riottosi, per sedare gli animi più caldi.
L’amministrazione comunale di Torino è stata molto abile. Tra promesse e minacce, tra illusioni e repressione è riuscita a trasformare la più grande baraccopoli d’Europa in un cumulo di macerie, disinnescando una miscela potenzialmente esplosiva.
Le associazioni amiche – Valdocco, Terra del Fuoco, Strana Idea, Liberi Tutti, Aizo, Croce Rossa Italiana – hanno assorbito i soldi, il vice sindaco Tisi si è appuntato un fiore all’occhiello, la baraccopoli non c’è più. L’ultima manciata di casette è stata buttata giù il 10 dicembre.
Tutto perfetto? Non proprio.
Un gruppo di famiglie sgomberate dal campo, sfrattate dai social housing, dopo un anno di assemblee, incontri, conoscenza con un alcuni antirazzisti e anarchici torinesi, quando la rassegnazione pareva prevalere, ha deciso che la misura era colma. Hanno gettato il cuore oltre l’ostacolo.
Alla fine di settembre Aramis, un ragazzo del campo ha reagito contro l’intimazione ad abbandonare la sua baracca. Tre vigili del nucleo nomadi lo hanno bloccato a terra, hanno sparato spray urticante, hanno minacciato tutti estraendo la pistola, poi l’hanno arrestato con l’accusa di aggressione. Al processo un paio di video girati con il telefonino da altri abitanti del campo hanno smentito le dichiarazioni dei vigili in tribunale.
Il 12 ottobre a centinaia hanno attraversato il centro cittadino per raccontare la loro storia, con un corteo aperto da uno striscione bianco con una scritta rossa “no a sgomberi e sfratti. Casa per tutti/e!”. Quello striscione sarà il simbolo di tutte le lotte successive.
Per la prima volta da molti anni gli invisibili, la gente dei margini, è scesa in strada, ha preso la parola, ha mostrato la propria determinazione nel denunciare la truffa milionaria della “Città possibile”.
Il Comune ha replicato con un ulteriore sgombero il 19 ottobre. In risposta gli sgomberati hanno occupato l’ufficio nomadi e fatto un piccolo corteo.
Il primo novembre 25 famiglie sgomberate e sfrattate si sono prese una casa occupando una parte dell’ex caserma La Marmora di via Asti. Un luogo impresso a sangue nella memoria della nostra città: in quella caserma durante l’occupazione nazifascista venivano rinchiusi, torturati e uccisi i partigiani.
Il luogo non è stato scelto a caso. Una parte dell’imponente ex complesso militare, oggi di proprietà della Cassa Depositi e Prestiti, era stato occupato in aprile da Terra del Fuoco, associazione vicina a SEL, che è parte attiva del progetto “La città Possibile”. Le 25 famiglie illuse dal sogno di una casa, sgomberate dal campo, si sono prese un posto per vivere in uno spazio, in parte occupato da chi si era arricchito, sgomberando il campo. La vicenda ha un’eco mediatica enorme. La tensione tra il PD e SEL è da tempo alle stelle: proprio in quei giorni viene annunciata la candidatura dell’ex leader Cgil Giorgio Airaudo a sindaco di Torino, una mossa che mette a rischio la rielezione di Piero Fassino, che solo un mese dopo annuncerà la propria ricandidatura. Terra del Fuoco fiuta il pericolo e, dopo una reazione stizzita ed incazzata, tenta, senza riuscirci, di assorbire l’anomalia. La gente di lungo Stura ha imparato a conoscerli e intima loro di stare lontani. “Siamo qui e di qui non ce ne andiamo”
Il fior fiore della sinistra intellettuale sabauda si affaccia in via Asti. Siamo in precollina, una zona residenziale borghese, dove i baristi cacciano i rom, che entrano a prendere il caffè. E’ un succedersi di nuance tra grigio e rosa pallido.
Il 12 novembre arriva la polizia a sgombera tutti. Le famiglie gettate in strada partono in corteo e raggiungono il centro. Romeo e Catalin, due ragazzi dell’occupazione che non avevano mai chinato la testa, sono ammanettati e portati al CIE. Si fanno presidi e raccolte fondi per sostenerli. Cinque giorni dopo vengono deportati in Romania. È la vendetta contro i rom che avevano osato prendersi una casa in precollina.
Fassino, per ricucire lo strappo con Terra del Fuoco promette che le attività dell’associazione “amica” continueranno.
Qualcuno pensava che sarebbe finita lì. L’arte di seminare la paura ha moltiplicato i propri adepti. La tentazione di sparire in qualcuno dei tanti buchi neri della metropoli è forte. Ma il prezzo è alto. Occorre accettare di rintanarsi in un margine sporco dove l’invisibilità è condizione materiale e simbolica “normale”.
Le famiglie che si sono conquistate uno spazio pubblico, entrandovi con la forza della propria stessa presenza, non hanno aderito ad un qualche progetto per cambiare il mondo, non sono diventate anarchiche, anche se la maggior parte dei solidali che ne hanno appoggiato la lotta, lo sono.
Hanno però trovato del tutto normale fare tante assemblee sotto il ritratto di Bakunin che campeggia nella sede della FAT, non lontano da una bandiera nera con una grande A nel mezzo.
Il loro agire è diventato politico, quando hanno deciso di lottare contro chi li voleva schiavi, sottomessi, muti, servili. Prendere la parola, occupare una casa hanno concretizzato un agire che non era più mera strategia di sopravvivenza, ma agire per qualcosa che è più di una casa, più di un luogo fisico. È la dignità, la libertà di essere protagonisti della propria storia. La dignità non è condizione dello spirito, ma si concretizza proprio in una casa. Una casa vera.
Così il 20 novembre una parte delle famiglie sgomberate da Avion in via Asti, ha occupato una palazzina comunale abbandonata, in via Borgo Ticino, in Barriera di Milano. Uomini, donne e bambini lasciato la paura a tempi ancora peggiori.
La nuova casa si chiamava “Casa Catalin e Romeo”, dal nome dei due ragazzi deportati in Romania per aver partecipato all’occupazione di via Asti.
I vicini qui erano decisamente più amichevoli. Una domenica il giardinetto è stato aperto a tutto il quartiere. La vita dopo 20 giorni di occupazione stava riprendendo il sapore della quotidianità, fatta di abitudini, lavoro, gioco e affetti.
Il 10 dicembre la parola è tornata alle armi. Sono arrivati a “Casa Catalin e Romeo” intorno alle 9,30 del mattino. Blindati, digos, Amiat e vigili del fuoco hanno bloccato l’accesso a via Borgoticino, impedendo a tutti di avvicinarsi.
Nonostante i blocchi, un gruppo di solidali è riuscito a passare dal cortile del Lidl. Dopo un lungo tira e molla una di noi è riuscita ad entrare. Poi sono arrivati anche gli avvocati.
Al momento dell’irruzione tanti occupanti erano fuori a lavorare o a scuola. Nella casa c’erano solo una quindicina di persone, qualche anziano, alcuni ragazzi e un bambino di cinque mesi.
Tutti sono stati fotografati e identificati. Catalin è stato ammanettato e portato in questura e di lì al CIE.
Ha la testa dura Catalin. Non si è rassegnato agli sgomberi e alla deportazione. Ha deciso di tornare e raggiungere parenti e amici che avevano occupato un’altra casa.
La struttura di via Borgoticino è stata blindata dagli operai del comune al termine dello sgombero. Resterà vuota tutto l’inverno, mentre un gruppo di famiglie con figli piccoli ed anziani è di nuovo in strada.
Quell’occupazione periferica era un affronto che l’amministrazione comunale non poteva tollerare. Era la dimostrazione pratica che il progetto “la città possibile” è stato un fallimento, che la gran parte degli abitanti della Baraccopoli di Lungo Stura Lazio era stata buttata in strada senza alternative abitative.
In questi giorni il prezzo di una baracchetta al campo di via Germagnano è salito a 600 euro. Gli sgomberi hanno fatto lievitare i prezzi nel mondo di sotto.
Il sabato successivo una trentina di solidali è davanti al CIE: musica, interventi, petardi e un grosso fuoco d’artificio. I fratelli e i genitori di Catalin lo salutano, gli fanno sentire la propria presenza. Sono preoccupati per Catalin, ma anche orgogliosi di questo ragazzo, che non molla, che non abbassa la testa.
La Questura e il Comune giocano ancora la carta della paura, per costringere le persone a nascondersi nei fabbriconi gelati e fatiscenti, in baracche ai margini del nulla urbano.
Non sempre ci riescono. C’è sempre qualcuno come Catalin che si gioca la libertà per avere un tetto. C’è sempre qualcuno che alza la testa e occupa una casa.
Maria Matteo
(Quest’articolo è uscito sull’ultimo numero del settimanale Umanità Nova