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La guerra in casa

libellulaBombe nei ristoranti, allo stadio, in aeroporto, in metropolitana, in una sala concerti.
Oggi esco, prendo l’autobus e forse non arrivo al lavoro. Domani c’è un esplosione e mio figlio non torna più.
Queste cose una volta succedevano in posti lontani, pericolosi, posti dove la guerra è “un’abitudine”. Come se fosse possibile assuefarsi all’orrore.

Da qualche tempo la guerra è venuta a cercarci a casa. La convinzione che la guerra fosse altrove, passo a passo, si sta frantumando. Ma tenace resta l’illusione che sia possibile ricacciarla indietro. Chiudendo le frontiere, cacciando gli immigrati, sigillando i quartieri poveri, mettendo le città in mano ai militari, piazzando telecamere e orecchie elettroniche ovunque.
Le nostre scarne libertà vengono frantumate pezzo a pezzo senza che la maggior parte della gente reagisca. La paura è un’arma potente. Chi governa ne profitta per prendersi più potere, per proclamare lo stato di eccezione permanente, per mettere sotto controllo ogni forma di insorgenza sociale.

Quando tutti sono nel mirino, non c’è né riparo né protezione. Se il nemico è disposto a morire pur di uccidere, prima o poi colpisce di nuovo. Se l’obiettivo è il terrore, lo si raggiunge facilmente.
Dopo gli attentati dello scorso novembre Hollande ha reagito bombardando le città irachene controllate dall’ISIS ed ha proclamato lo stato di emergenza. Doveva durare una settimana, rischia di estendersi all’infinito. L’eccezione diventa norma.
Una formula semplice quella di Hollande. Vendetta fuori dai confini, militari nelle strade di casa propria.
Mentre scrivo non si è ancora spenta l’eco delle esplosioni all’aeroporto e nella metropolitana di Bruxelles. La capitale belga, i suoi quartieri più poveri, dove vivono gli immigrati di ieri e di oggi, sono stretti in una morsa dalla polizia.
Si moltiplicano le polemiche sulle “falle” dell’Intelligence belga, per mantenere l’illusione che gli attentati possano essere realmente prevenuti ed impediti. Chi li attua ha dalla sua la scelta di rinunciare a tutto, anche alla vita.
In questi ultimi decenni il fondamentalismo islamico è stato tollerato, foraggiato, sostenuto da paesi non islamici, convinti di poter usare questi scomodi alleati senza scottarsi le mani.

Dalle Torri gemelle in poi sappiamo che non è così: i fautori del jihad globale non esitano ad esportare la guerra negli Stati Uniti ed in Europa. Non esitano a proporre la loro propaganda agli esiliati delle metropoli, agli immigrati senza diritti, ai nuovi cittadini senza cittadinanza reale, ai nipoti del colonialismo che vivono in Europa.
Chi muore per uccidere ragazzi che ballano, chi spara sino all’ultimo colpo in un ristorante affollato, non modifica le politiche dei governi europei ma mostra in un’ultima tragica fiammata una potenza straordinaria, capace di sedurre altri, di allargare le fila di chi si arruola e di chi, sommessamente, plaude.

A Torino, nella zona di porta Palazzo, nei negozietti a ridosso del più grande mercato d’Europa, sino a qualche hanno fa vendevano sottobanco lampade che rappresentavano le Twin Towers spezzate da un aereo. La gran parte degli acquirenti e dei venditori credo abbia continuato la propria vita all’ombra della Mole. Resta il fatto che quel soprammobile kitch fa mostra di se in qualche salotto torinese. Un simbolo di rivincita, che nulla muta nella materialità del vivere, ma consente a chi l’acquista di condividere una briciola di quella potenza suicida.

Spargere morte per le strade d’Europa serve ad infrangere il mito della forza invincibile dell’Occidente, ad alimentare un immaginario di rivalsa, offrendo uno spazio simbolico dove Crociati e Saraceni tornano a sfidarsi dopo il lungo buio coloniale.

La religione diventa la solida roccaforte che cementa l’identità e un senso di comunità che gli Stati nazionali figli della spartizione coloniale non danno a sufficienza. Specie in Europa la cesura di classe perde importanza nella fratellanza del jihad globale e le istituzioni caritative islamiche colmano il vuoto determinato dalla scomparsa progressiva del welfare.
Il corrispondente del Fatto quotidiano da Idomeni, villaggio greco al confine con la Macedonia, racconta dei profughi intrappolati nel fango, tra filo spinato ed un fiume in piena e scrive “Non ci odiano ancora”. Fino a quando i profughi di guerre sostenute e foraggiate dall’Europa, dagli Stati Uniti, dalla Russia non odieranno chi ci vive?
Sino a quando i profughi rinchiusi in campi di detenzione in Grecia, intrappolati in Turchia, strangolati dai trafficanti d’uomini, non odieranno gli europei, i cui governi stanno pagando quello turco perché spranghi le frontiere, impedisca le partenze, chiuda in trappola uomini, donne e bambini. I profughi e gli emigranti diventano facile preda di sfruttamento, violenza, soprusi. Amnesy International scrive che nei campi con il marchio Ue in Turchia, i diritti umani sono solo una favola amara, le cronache riportano storie di lavoro nero, paghe da fame, ricatto continuo.
Poco importa. Esternalizzare la brutalità, affidare alla Turchia il lavoro sporco è una pratica che l’Italia sperimentò con successo pagando la Libia di Gheddafi perché serrasse le frontiere, impedisse le partenze, accogliesse con disinvoltura i respinti in barba alle convenzioni internazionali sui richiedenti asilo. Queste scelte hanno un prezzo ben più alto dei sei milioni di euro versati oggi alla Turchia.

Sino a quando non ci odieranno? Sino a quando non accuseranno tutti quelli che vivono al di là del filo spinato di essere responsabili delle loro vite sospese, ricattate, senza futuro?

Un argine all’odio c’è. Sono i No Border che aiutano a bucare le frontiere, portano qualcosa da mangiare, si mettono di traverso per impedire le deportazioni.
Sono i tanti greci che aiutano con cibo, medicine, abiti, la gente in viaggio.
È come sgottare il mare con un cucchiaino ma lascia comunque il segno, spezza l’accerchiamento, mostra il volto dei nemici delle frontiere, allude a relazioni politiche e sociali che rendano pratica viva la libertà, l’eguaglianza, la solidarietà.

Non c’è più spazio per le parole, perché le parole sono state usurate, abusate, logorate. In nome dell’umanità si bombarda, si tortura, si stupra, si incarcera. I corpi dilaniati che la pornografia mediatica ci mostra con finto pudore sono l’immagine della democrazia reale, che ha annegato nel sangue il proprio nucleo assiologico. “È una bestemmia questa libertà!” Così suona una canzone che ricorda la disperata rivolta della gente del Meridione d’Italia beffata dalla retorica risorgimentale, divenuta feroce occupazione militare savoiarda.

Un canto simile potrebbe echeggiare tra le rovine delle città bombardate in Iraq, in Siria, in Afganistan.
Ma non è la cifra della jihad, perché la libertà tradita, la dignità calpestata si traducono in rigetto dell’autodeterminazione delle persone, in adesione ad una religione che offre il quadro concettuale per combattere la libertà, combatterne l’idea, combatterne le manifestazioni concrete.
La bestemmia diventa la libertà stessa.
Le donne ne sono le principali vittime, perché la libertà femminile è in se una sfida ad un ordine eminentemente patriarcale, che trova la propria massima espressione nella guerra. La ferocia del Califfato verso le donne e le bambine è un fenomeno violentemente reattivo, il terreno sul quale si gioca una partita di potere in paesi dove la libertà femminile aveva pur compiuto qualche passo.
Nella stessa area geografica, nei cantoni del Rojava, dove prevale un’impostazione laica e libertaria delle relazioni sociali, la libertà femminile è uno dei cardini delle esperienze di autogoverno.
Sbaglia chi considera l’Islam radicale un fenomeno antimoderno, perché della modernità mutua sia l’apparato tecnologico, sia l’assunzione di un’economia di mercato, sia l’attitudine a costruire un apparato amministrativo statale.
Il nucleo fondante dell’ISIS è la chiara consapevolezza che la propria forza è nella negazione di ogni relativismo, di ogni diversità. Perché distruggere le vestigia in pietra di antiche civiltà, rimaste intatte durante centinaia di anni dal diffondersi dell’islam? Perché tanto accanimento contro minoranze etniche e religiose radicate in Iraq da millenni, come i cristiani della piana di Ninive e gli ezidi di Shengal?
Semplice. Quando la libertà diventa in se una bestemmia, le donne vanno ridotte in schiavitù, i non islamici e il passato preislamico vanno eliminati. Non c’è spazio per null’altro. Altrimenti non si spiegherebbe la follia strategica di aver fatto saltare gli equilibri in Iraq, mandando per aria una rete di alleanze, sin troppo disponibili con le milizie islamiste in Siria.

I sintomi che qualcosa di nuovo ed inquietante stesse maturando anche in Europa c’erano tutti già dieci anni fa. La grande rivolta delle banlieue francesi del 2005 scatenò sociologi e politologi, tifosi delle rivolte e amici dell’ordine costituito. Vennero spesi fiumi di parole per una rivolta che non prese mai la parola, neppure quella spuria di qualche improvvisato leader. Nulla. Parlavano le auto bruciate. Per quasi due mesi sembrava una gara, che infiammò, nel senso letterale, le periferie dell’Esagono.
Eppure. Bastava dare un’occhiata a questi minorenni, quasi tutti maschi, che radevano al suolo le proprie scuole, le proprie cabine telefoniche, le auto dei propri parenti e vicini.

Già allora le parole erano a zero, non c’era lessico comune, che non una generica inimicizia per la polizia, che mai divenne alleanza con i sovversivi.

Quando i fuochi si stavano attenuando gruppi di ragazzi di Banlieue attaccarono un corteo di studenti in lotta, picchiandoli e depredandoli. Niente parole. Le parole disponibili erano andate tutte a male.

Dieci anni dopo, la jihad fornisce il lessico comune. Oggi non bruciano solo le auto.

Da qui bisogna ripartire. Il lessico della libertà ha bisogno di pratica, di condivisione, di lotte comuni lungo la cesura di classe, lungo il precipizio della crisi. Crisi economica, ecologica, di prospettive.
Serve una casa comune, dove le comunità in lotta si inventino i propri spazi, luoghi, relazioni. Servono mattoni. Il lessico di una libertà che non suoni come bestemmia si nutre dalle mani delle anziane donne di Idomeni, che cuciono abiti e nutrono chi fugge dalla guerra.

(questo articolo è uscito sull’ultimo numero di Arivista)

Posted in immigrazione, Inform/Azioni, internazionale.

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