Il paradigma della guerra umanitaria
Negli ultimi 30 anni nel nostro paese si è gradualmente modificato l’immaginario sulla guerra.
Sino alla prima guerra del golfo, la memoria della seconda guerra mondiale, dell’occupazione militare, della fame, della fuga dalle città, dei morti al fronte, nella lotta partigiana o sotto le bombe era molto forte.
La guerra era considerata un male da evitare, un male che poteva distruggere le nostre vite, le nostre città, il nostro futuro. La minaccia dell’olocausto nucleare, il pericolo che una nuova guerra su scala planetaria potesse portare alla distruzione del pianeta aveva contribuito a favorire una potente avversione nei confronti delle avventure belliche.
La retorica nazionalista ha accompagnato, sostenuto e giustificato la guerra di conquista ai confini orientali del regno d’Italia, le violentissime guerre coloniali prima e durante il fascismo, la disastrosa partecipazione dell’Italia al secondo conflitto mondiale a fianco delle potenze dell’Asse.
Dopo la sconfitta, la caduta del fascismo, l’occupazione statunitense dell’Italia, il nazionalismo trionfante si attenua e muta di segno, alimentando il mito degli “italiani brava gente”, un mostro subdolo, che assolve il fascismo e chi l’aveva sostenuto dai crimini di guerra di cui il governo e le truppe italiane si macchiarono in Libia, Somalia, Eritrea, Etiopia, Spagna, Grecia, Albania durante le guerre che si sono succedute dal 1930 al 1945.
Il mito degli “italiani brava gente” è una terribile forma di negazionismo. I massacri, le torture, i campi di concentramento, l’uso di gas sulla popolazione civile sono stati dimenticati. Le responsabilità degli orrori sono state sistematicamente nascoste o attribuite ad altri, il governo tedesco o il regime fascista.
L’Italia è l’unico paese colonialista a non aver mai fatto i conti con la propria storia. Una storia che i più ignorano, coltivando la convinzione che il colonialismo italiano fosse diverso da quello francese, inglese, tedesco, in virtù di una sorta di indole bonaria innata nelle popolazioni della penisola.
Dal dopoguerra il patriottismo viene relegato alla narrazione dell’epopea risorgimentale e alla resistenza, interpretata come lotta di liberazione nazionale dall’occupazione tedesca. I fascisti sono considerati nemici, perché sono alleati con le forze di occupazione tedesche.
Di fatto sino alla partecipazione alla prima guerra del golfo – 1991 – e all’intervento militare in Somalia – 1992-1993 – l’opposizione alla guerra come strumento di risoluzione dei conflitti fuori da una prospettiva di autodifesa era fortissima nel nostro paese. Tanto forte che per giustificare quei due interventi fu necessario varare la nozione di guerra umanitaria.
La guerra umanitaria, in se un ossimoro, una contraddizione difficile da concettualizzare, è divenuta l’asse portante intorno al quale costruire sia l’intervento delle truppe italiane all’estero, sia il successivo business della ricostruzione e dei rifugiati.
Dalla crisi albanese “all’emergenza Nordafrica” associazioni, cooperative e aziende del terzo settore con i giusti santi in parlamento si sono spartite i lucrosi affari, effetto collaterale di ogni guerra umanitaria.
Nel 1991 l’attenzione dei media è fortissima. Il rapido successo della missione di guerra attenua i timori che si erano rapidamente diffusi alla vigilia. L’embargo degli anni successivi contro l’Iraq farà più morti di Desert Storm – Tempesta nel deserto – ma non intaccherà la convinzione che la guerra – narrata come missione di polizia internazionale, fosse giustificata.
L’intervento in Somalia – ex colonia italiana – verrà propagandato come mera missione umanitaria. Per mesi, prima dell’intervento della coalizione guidata dagli Stati Uniti, i media italiani daranno ampio spazio alle immagini di fame e malattia nel paese, dilaniato da “una guerra per bande”.
Le truppe italiane si ritirarono dopo il sanguinoso attacco al checkpoint “Pasta”. 25 anni dopo la Somalia è ancora in guerra, tuttavia il paradigma bellico che venne perfezionato in quell’occasione, non ha mai smesso di essere usato per giustificare occupazioni militari, torture, bombe.
Durante la seconda guerra del Golfo, l’Italia intervenne a guerra ufficialmente finita. “Mission accomplished” dichiarò il presidente statunitense Bush, con involontaria atroce ironia.
Fu nell’ambito dell’operazione “Antica Babilonia”, nata per “contribuire alla rinascita dell’Iraq” che le truppe di occupazione italiane di stanza a Nassirya, spararono ad un’ambulanza con una partoriente e vari familiari a bordo. Nella “battaglia dei ponti” fecero un massacro di popolazione civile.
Nei due mesi di bombardamenti a tappeto in Kosovo e Serbia, gli Amx italiani scaricarono bombe ogni giorno, colpendo fabbriche, ospedali, strade, ferrovie. Eppure la cornice di quell’operazione di guerra fu quella del soccorso alle popolazioni kosovare.
La guerra in casa
Allo scadere dell’ultimatum all’Iraq del 15 gennaio 1991, imponenti manifestazioni attraversarono le principali città italiane. Supermercati , farmacie e benzinai esaurirono le scorte, perché dilagava la paura della guerra. Tanta gente era ancora convinta che la guerra potesse investire direttamente l’Europa, che l’intervento in Iraq potesse portare la guerra nelle nostre case.
Venticinque anni dopo quella prima guerra, dopo svariati altri conflitti, agiti in nome dell’umanità e della giustizia, quel timore è diventato realtà, anche se in forme e modi che nessuno all’epoca avrebbe potuto prevedere. Dalle Twin Tower all’aeroporto di Bruxelles la guerra è arrivata, prima negli Stati Uniti, poi anche in Europa.
La convinzione che la guerra fosse altrove, passo a passo, si sta frantumando. Ma tenace resta l’illusione che sia possibile ricacciarla indietro. Chiudendo le frontiere, cacciando gli immigrati, sigillando i quartieri poveri, mettendo le città in mano ai militari, piazzando telecamere e orecchie elettroniche ovunque.
Le nostre scarne libertà vengono frantumate pezzo a pezzo senza che la maggior parte della gente reagisca. La paura è un’arma potente. Chi governa ne profitta per prendersi più potere, per proclamare lo stato di eccezione permanente, per mettere sotto controllo ogni forma di insorgenza sociale.
Quando tutti sono nel mirino, non c’è né riparo né protezione. Se il nemico è disposto a morire pur di uccidere, prima o poi colpisce di nuovo. Se l’obiettivo è il terrore, lo si raggiunge facilmente.
La narrazione della guerra di civiltà integra le altre, senza sostituirle. Il nemico assoluto, la cui ferocia non è paragonabile a nessun altra, giustifica ogni orrore sia compiuto per combatterlo e sconfiggerlo.
Il nemico stesso, con una chiara operazione di propaganda e proselitismo, esibisce quel vasto campionario di orrori, che, in genere, ad altre latitudini, viene accuratamente nascosto, negato.
Nulla di nuovo nella propaganda di guerra: la democrazia cela e nega i propri orrori o li descrive come eccezioni necessarie.
Sangue, soldi e retorica
Il ruolo di poliziotti globali e di soccorritori solleciti viene peraltro confermato anche nella guerra alla jihad globale. Con modi che rinverdiscono la narrazione coloniale, i nostri governanti giustificano la guerra, sia come strumento preventivo di azioni terroriste, sia come dovere di soccorso a popolazioni “costitutivamente” incapaci di uscire dallo stato di minorità culturale.
La nozione di guerra umanitaria si modifica ed amplia. Strumento di propaganda ed instrumentum regni, perché la gestione delle emergenze umanitarie provocate dalle guerre cui partecipano le forze armate tricolori è anche una grande e lucroso business, nonché uno straordinario laboratorio di controllo dei milioni di persone che crisi, guerre e desiderio di vita nuova spingono a mettersi in viaggio.
Gli specialisti dell’umanitario seguono e spesso accompagnano le truppe in missione all’estero. Non sono (solo) il volto buono da mostrare all’opinione pubblica, ma fanno parte integrante del dispositivo bellico. Non la prosecuzione della guerra con altri mezzi, ma la guerra con tutti i mezzi necessari.
Sul fronte della guerra non dichiarata ma sanguinosissima contro chi si incammina verso l’Europa, la narrazione cambia spesso, a seconda della convenienza del momento, ma gli strumenti di controllo e repressione sono gli stessi, affinati nel tempo dall’esperienza e dalla capacità di mettere in campo le competenze di quel terzo settore che si è fatto le ossa su carceri, CIE, comunità per tossicodipendenti e persone finite nella rete della psichiatria.
L’Italia ha una lunga esperienza bipartisan, con una fitta rete di cooperative, associazioni, enti che si spartiscono la lucrosa torta dell’accoglienza, della deportazione, del controllo dei migranti e profughi di guerra.
La narrazione di questi dispositivi resta sempre sul filo del rasoio, in bilico tra il declivio emozionale dei bimbi annegati e delle mamme incinta, e quello rabbioso della paura.
I giornali pubblicano la foto del neonato affogato, pur sapendo che è vittima delle nostre frontiere chiuse, spremendo commozioni di carta nello spazio di un mattino. Relegata nelle pagine interne la narrazione di rastrellamenti, deportazioni di migranti, fogli di via per chi lotta contro le frontiere.
Nonostante il diverso tono emotivo, la gestione disciplinare e i buoni affari per gli operatori del settore sono sempre gli stessi.
La compagnia aerea di Poste Italiane, la Mistral Air, non trasporta lettere ma deporta i rifugiati e migranti, le società di pullman siciliane non caricano turisti ma uomini, donne e bambini rastrellati nel Mediterraneo dalla Marina Militare italiana e dalle altre imbarcazioni del programma Eunavfor o di Frontex, per trasferirli nelle strutture di ogni genere in cui sono parcheggiate le persone in viaggio, intrappolate in una ragnatela di burocrazia e polizia, difficile da districare. Soccorritori e carcerieri sono le due mani di una stessa macchina, a volte gli stessi svolgono entrambe le funzioni. Spesso le strutture di accoglienza e gli operatori che ci lavorano diventano le camere di compensazione dove provare a sopire con una coperta ed un piatto di minestra la spinta a continuare la strada scelta e percorsa tra mille rischi e difficoltà.
I militari italiani assumono vesti di operatori umanitari, gli operatori umanitari, svolgono spesso funzioni di polizia. Non per caso sulle frontiere chiuse, come nelle zone di guerra dove operano le forze armate tricolori, non c’è spazio per i volontari non allineati, i sovversivi, chi si batte per la libera circolazione e contro guerre e militarismo.
Smontare il dispositivo disciplinare affinato in questi anni di guerra non è facile. Ma urgente. Chi un giorno proverà a scrivere la storia di questi anni, si potrebbe domandare, perché migliaia e migliaia di persone morivano o perdevano la libertà, nel silenzio di tanta gente perbene.
(quest’articolo uscirà sul prossimo numero di Arivista)