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Referendum, complotti e altre narrazioni

Triste il tempo che ha bisogno di eroi”. Lo diceva il Galileo immaginato da Brecht, un uomo che avrebbe voluto vivere un’epoca in cui non dovesse scegliere tra la vita e l’abiura della propria dignità umana. Sappiamo che Galileo scelse di vivere e non possiamo permetterci di biasimarlo.

I nostri tempi sono tanto lontani da quelli dell’astronomo che vide come giravano il sole ed i pianeti, ma negò quel che sapeva, da costringerci a formulare un differente lessico per raffigurarli.
Sono tuttavia tempi tristi.
L’epopea eroica dei nostri giorni è racchiusa in narrazioni su cui è una bestemmia chiedere l’onere della prova .

La Costituzione nata dalla Resistenza è uno di questi. I sostenitori del rigetto della riforma costituzionale bocciata dal referendum confermativo del 4 dicembre, hanno sostenuto che la lotta partigiana, la Resistenza al nazifascismo, hanno costituito il cemento della carta costituzionale. Cambiarla avrebbe significato tradire la Resistenza.
Così il no al Referendum è diventato per certa sinistra una crociata antifascista.

Questo racconto trae il proprio alimento da un sentire diffuso, difficile da interrogare con le mere armi della critica, nei fatti impermeabile perché si nutre di una Resistenza ormai mitica e, quindi, storicamente inattingibile.

Tuttavia l’epopea partigiana è ed è stata nocciolo sentimentale di tante esperienze diverse, da consentire, anche sul piano inclinato della retorica, di cogliere linee di cesura, capaci di incrinare il Mito, facendo riemergere se non la storia, una memoria non condivisa e pacificata. Quella della lotta antifascista dagli anni Venti alla seconda metà degli anni Quaranta, quella di chi, riconoscendosi nella componente rivoluzionaria dell’epopea partigiana, ha intrecciato i fili delle lotte di ieri con quelle di oggi.

Una parte importante di quelli che hanno combattuto il fascismo e la dittatura erano internazionalisti che lottavano perché la resistenza al fascismo si trasformasse in rivoluzione.
Nessuno di loro si sarebbe identificato tra i padri e le madri della Repubblica nata dalla Resistenza, perché nessuno di loro voleva una società di classe, perché molti rigettavano il patriottismo, lo stato e la sua pretesa di avocare a se il monopolio della violenza.
Come è finita è noto. La Resistenza venne disarmata e poi imbalsamata nella guerra di liberazione nazionale. I partigiani che continuarono la lotta dopo il 25 aprile, quelli che l’avevano iniziata ben prima dell’8 settembre 1943, finirono in carcere, mentre Palmiro Togliatti, segretario del Partito Comunista e ministro della giustizia, firmava l’amnistia per i fascisti. Tutto cambiò, ma molto di quello che contava rimase come prima.
La lunga teoria di stragi di Stato che ha segnato il percorso della Repubblica nata dalla Resistenza, ne è il segno, perché la stessa funzione pacificatrice della socialdemocrazia in salsa PCI, stentò ad imporsi in un paese, dove forte era la tensione a volere di più che la fine della guerra e del fascismo, in un paese dove i fascisti, sconfitti, ma saldamente ai loro posti nei gangli della macchina statale, continuarono ad operare.
Un riferimento ideale alla Resistenza che non ne ha saputo/voluto cogliere le fratture si è trasformata in mero espediente retorico utile all’ammucchiata referendaria, del tutto vano in una prospettiva di radicale trasformazione sociale.
Tanto vano da non cogliere che la crociata per la Costituzione era in ritardo di qualche anno e che i centralisti di ieri si trasformavano oggi nei fautori della devolution, imposta a suo tempo dalla Lega per mantenere l’alleanza con il carrozzone berlusconiano. Incredibile poi il silenzio sull’introduzione nel dettato costituzionale del pareggio in bilancio, che pure mise sotto scacco la pretesa di usare i soldi che lo Stato ricava dalla tassazione per i fini mutualistici cui allude la stessa Costituzione: salute, istruzione, mobilità pubblica.

Nei fatti la distanza tra la costituzione formale e quella reale è sempre stata grande. L’Italia è in guerra da trentacinque anni, senza che queste guerre siano mai state proclamate. Di fronte alla durezza di questo fatto, che importanza poteva avere lo snellimento della procedura per dichiarare guerra? Si trattava di un semplice adeguamento della Costituzione formale a quella reale.
Le leggi, quelle generali che definiscono l’ordinamento dello Stato, come quelle ordinarie, sono spesso niente più che la rappresentazione ritualizzata dei rapporti di forza all’interno della società. Non solo. La codifica in legge delle istanze dei movimenti popolari imbriglia le tensioni che si sono espresse con forza dirompente, rinchiudendole in una gabbia normativa.
Il job act renziano è il momentaneo punto di approdo di tre decenni di smantellamento di un sistema di tutele e garanzie, che fu il precipitato normativo di lotte le cui ambizioni erano ben più ampie. L’esaurirsi della spinta propulsiva di quelle lotte ha aperto la strada alla reazione.
Più in generale la Costituzione della Repubblica Italiana difende la proprietà privata, affida allo Stato il monopolio legittimo della violenza, garantito da polizia e forze armate, prevede tribunali, carceri, guerre, confini.

La parabola discendente dei No Tav
A Torino il Procuratore Capo Spataro, successo a Caselli nel perseguire i resistenti della Libera Repubblica della Maddalena, si era schierato apertamente per il no alla riforma costituzionale. Anche l’Anpi che, tranne in poche sezioni, ha condannato i No Tav, ha fatto la stessa scelta.
Le linee di cesura erano chiare nel 1945, lo sono ancora oggi per chi le vuole vedere.
Alla Maddalena di Chiomonte nella primavera del 2011 visse una Libera Repubblica, il cui richiamo ideale alle repubbliche partigiane era forte. E forte era la consapevolezza che la sottrazione di una porzione di territorio al controllo dello Stato e alle brame dei padroni amici del governo era un gesto sovversivo, radicale. Chi sedeva sulle poltrone di palazzo Chigi non poteva permetterlo: in gioco c’era ben più che un lucroso affare di treni. La libera Repubblica di Chiomonte era un avamposto resistente di pochi chilometri in mezzo ai monti, ma alludeva sul piano simbolico e reale, alla possibilità che si potesse fare a meno dello Stato, del capitalismo, della polizia, dell’esercito.
Il primo gesto della polizia dopo lo sgombero e l’occupazione fu issare alta sul piazzale del museo archeologico, vuotato e trasformato in bivacco per le truppe di occupazione, una bandiera tricolore, simbolo della Repubblica nata dalla Resistenza.
A cinque anni da quella primavera di lotta, un movimento in chiara difficoltà, si è rifugiato nella battaglia referendaria, accanto al capo della Procura di Torino. E a tanti altri, persino peggiori.
Mala tempora currunt.
Triste è il tempo che ha bisogno di miti vacui, rappresentazione di scenari costruiti a tavolino per tentare di coprire un enorme vuoto. Quello delle lotte, di prospettive di cambiamento che ri-consegnino a ciascuno la facoltà reale di decidere.
Oggi il movimento No Tav si presenta alle sfide del prossimo anno indebolito da scelte che lo hanno logorato, ma rispondono alla decisione di un ceto politico minoritario di giocare un ruolo, facendo leva sulla possibile affermazione elettorale del Movimento Cinque Stelle.

Complotti e illusioni
Se il richiamo al mito resistenziale è stato il cemento sentimentale, la caduta del governo, che ha profanato la sacralità della Resistenza, era l’obiettivo concreto, sul quale coagulare un fronte ampio.
Renzi, tradito dalla propria arroganza, ha gettato sul piatto la poltrona di primo ministro, lanciandosi nella bocca del leone.
La minoranza del PD è riuscita nell’intento di indebolirlo, senza tuttavia riuscire a dare la spallata. Il governo Gentiloni, pur con qualche spostamento di poltrone, garantisce la continuità con le politiche governative.
Nei fatti la partita istituzionale si giocherà intorno alla legge elettorale, che ognuno vorrebbe formulata secondo i sondaggi e le possibili alleanze del momento.
Le destre, messe nell’angolo dalla perdurante anomalia grillina, che in parte ne ha mutuato i programmi e gli obiettivi, speravano in un rilancio, forti del vento che spira dall’Europa, che tuttavia potrebbe continuare a gonfiare le vele dei pentastellati.
La formazione di Grillo, nonostante inchieste, avvisi di garanzia e giravolte politiche forsennate, si mantiene forte nei sondaggi, grazie al rafforzarsi della teoria del complotto contro i Cinque Stelle. La giunta Raggi imbarca una carrettata di attrezzi delle vecchie amministrazioni di centro destra? Cambia assessori con la stessa velocità con cui si cambiano le salviette a tavola? Non riesce a far uscire un bilancio che stia in piedi? Tutta colpa del grande complotto. Lo ha detto chiaro la parlamentare grillina Paola Taverna, che, incurante del ridicolo, ha parlato di “complotto per far vincere i Cinque Stelle a Roma”, nella speranza che, fallendo a Roma, non riescano ad approdare a Palazzo Chigi.
Le amministrazioni pentastellate non mantengono gli impegni presi in campagna elettorale? Tutta colpa di chi c’era prima. O, e questo è l’argomento più curioso, tutta colpa delle leggi che pongono limiti, freni, vincoli. Tutta colpa dei media, che puntano i riflettori sulle amministrazioni pentastellate, tutta colpa dei poteri forti, che complottano per impedire la rivoluzione grillina.
Il grande complotto contro i cinque stelle non è solo la boutade di Paola Taverna, ma la grande muraglia che protegge i pentastellati, che impedisce di misurare la distanza crescente tra il dire e il fare.
Il complottismo è il rifugio degli sciocchi. Quando dilaga, quando diviene sentire comune, trasformandosi in paranoia, in ossessione persecutoria, in assillo costante, diventa pericoloso. La paura è l’arma dell’estrema destra, che si nutre di complotti. Quello delle banche, della trilaterale, dei Rothschild e dei Soros.
Nelle settimane che precedevano il referendum del 4 dicembre il web è stato invaso di notizie di brogli, di schede già votate, di congiura del silenzio e omertà per favorire Renzi.

Nel frattempo Grillo ha ripreso le redini, ha allentato la morsa giustizialista sui suoi, introducendo una sorta di garantismo, moderato dal leader maximo e dalla Casaleggio Associati. L’ultima giravolta è quella europea: il repentino passaggio dagli antiuropeisti, xenofobi, nazionalisti di Farage ai Democratici Liberali vicini a Monti e Prodi. Triplo salto mortale con atterraggio a sorpresa.
I liberal-democratici dell’Alde, dopo aver flirtato con Grillo, lo hanno lasciato a terra. Il comico, incurante del ridicolo, ha inveito contro il grande complotto.

Altro ingrediente fisso nel minestrone pentastellato sono i flussi migratori. Grillo non manca mai di condire i suoi discorsi con feroci dichiarazioni contro l’immigrazione clandestina.
La comunicazione è il suo mestiere e sa farlo bene. Solletica le destre equiparando i senza carte con i terroristi, ben sapendo che anche a sinistra questo è un nervo scoperto. Coccola anche la sinistra, schierandosi contro i CIE. Coltiva, barcamenandosi tra destra e sinistra, la paura.
La grande paura, quando si insinua nel profondo della società, è all’origine di un desiderio di ordine, pulizia, protezione, che le destre xenofobe incarnano alla perfezione in tutta Europa. In Italia, nonostante il successo della Lega in versione Salvini, l’esperienza di governo ha logorato le formazioni di destra e quelle di sinistra, suscitando un desiderio di verginità. I parlamentari pasticcioni delle Cinque Stelle piacciono perché somigliano a chi li vota, piacciono perché pasticcioni, post ideologici, capaci di mescolare difesa dell’ambiente con muri e filo spinato. Seducono gli orfani. Quelli di destra e quelli di sinistra. Sono quelli che vanno oltre gli schieramenti, senza il pesante odore di zolfo che accompagna i rosso bruni.
Nel dissolversi dell’illusione partecipativa pentastellata, ormai ridotta a mera ratifica on line da parte di una compagine accuratamente selezionata dal diarca ereditario Casaleggio, scompare ogni residuo di democrazia informatica sopravvissuto alle vittorie elettorali.
La spinta verso una democrazia radicale, che pure era nel DNA del movimento, è stata annullata senza tuttavia far indietreggiare la compagine grillina, che oggi aspira al governo del paese. E trova insospettabili alleati.
I post-autonomi hanno deciso di candidarsi a punto di riferimento di una galassia extraistituzionale, che possa godere di qualche patronage da parte di un governo pentastellato.
Gli antagonisti volevano far cadere Renzi per spingere Grillo.
Il rischio, forse consapevole, del caos sistemico, li attrae, come qualche anno fa i forconi tricolori per le strade di Torino. Camminare sul filo è eccitante ma rischioso.
Imitare Togliatti e il vecchio PCI è la tentazione ricorrente degli antagonisti del terzo millennio, accecati dalla follia del ritorno di un passato che (fortunatamente) non ritorna. Giocano la loro partita tra penetrazione nelle cooperative, festival come quello dell’Unità, flirt istituzionali e movimenti sociali.
Su quest’insieme eterogeneo di pratiche imprimono il marchio del realismo contro l’utopia vana, “ideologica”, di chi non ha accettato il gioco e ha scelto il rifiuto. Il rifiuto di cacciare Renzi per far governare Di Maio.
Il gioco non è riuscito. Il “no sociale” non ha trovato piazze da riempire o lotte da cavalcare.

Resta, amaro, il sapore di un tempo che si nutre di narrazioni tristi.

Da A rivista di febbraio 2017

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