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Il confine oltre il deserto. Vuoti a perdere

Quand’ero giovane si pagava un sovrapprezzo sul latte nelle bottiglie di vetro: se si restituiva il recipiente vuoto si veniva rimborsati. Le bottiglie senza riscatto erano vuoti a perdere. Finivano nel bidone della spazzatura.
Oggi in molti luoghi il vetro usato viene raccolto e riciclato.
Una fortuna che non tocca a tanti esseri umani, condannati sin dalla nascita ad essere dei vuoti a perdere. Da eliminare in fretta e senza costi eccessivi.
Il vuoto a perdere sa di avere il destino segnato e proprio per questo difficilmente si rassegna o adotta tattiche prudenti. Il vuoto a perdere non può permettersi il lusso della disperazione.
Chi vorrebbe fermare le grandi migrazioni non comprende che la violenza crescente degli Stati ricchi riempie i cimiteri ma non ferma chi decide di mettersi in viaggio.
Sull’autostrada che da Ventimiglia porta in Francia un avviso luminoso avverte che ci sono pedoni. Ormai è un cartello fisso. Ogni giorno qualcuno prova a passare le frontiere con la Francia, la Svizzera, l’Austria: prendendo i sentieri sui monti, imboccando pericolosissime gallerie ferroviarie, nascondendosi sull’auto di chi non accetta che vi siano frontiere. In agosto sui sentieri che portano al colle della Scala, nei pressi di Bardonecchia, due ragazzi, inseguiti dai carabinieri, sono precipitati: uno di loro è gravemente ferito. A Bardonecchia ci sono posti di blocco e militari, ma c’è sempre chi tenta la sorte.
Ogni giorno, da qualche parte, qualcuno muore. Muoiono anche i progetti di vita della sua famiglia, di chi ha giocato tutto sul viaggio del figlio più forte, sano, intraprendente. Migrare costa, costa tantissimo: chi parte deve avere i soldi per pagare i trafficanti, per soddisfare i tanti passeur necessari ad andare avanti, per chetare la violenza dei carcerieri libici.
Tante storie tutte uguali, ma ognuno ha la sua, fatta di luoghi, affetti, speranze, desideri, rabbia, paura e tanto altro. A chi importa dei vuoti a perdere? A chi interessa la gran folla dell’umanità in eccesso?
In fondo se sono poveri, se i loro paesi sono alla fine delle liste di chi fa le classifiche, qualche colpa dovranno pur averla.
La povertà diventa come il marchio di Caino, un delitto da espiare.

A casa loro
La retorica dell’aiutiamoli a casa loro è un motivo trasversale tra destra e sinistra. In tanta parte dell’Africa la gente avrebbe volentieri fatto a meno della mano tesa dell’Europa, della Cina, degli Stati Uniti, della Russia…
Mani tese per poter prendere il meglio, asservendo e impoverendo le popolazioni investite dall’occupazione militare del continente.
La razzia è continuata dopo la fine dell’era coloniale. Tutto è cambiato ma la devastazione ed il saccheggio sono rimasti quelli di prima. L’Italia ha continuato a mettere le mani nel grande forziere del corno d’Africa.
Qualche volta, quando la punta dell’iceberg emerge a due passi da casa nostra, capita che si accenda un riflettore sulla violenza colonialista dei giorni nostri. Ma dura poco, pochissimo.
La furia della polizia in piazza Indipendenza a Roma si è abbattuta su profughi accampati in strada, dopo lo sgombero della palazzina dove vivevano. Video e foto hanno mostrato uno scampolo della quotidianità dolente della gente in viaggio, che non arriva mai a destinazione, nemmeno quando è qui da anni. Restano sempre stranieri, estranei, vuoti a perdere. Sono tantissimi gli immigrati che provengono da Somalia, Etiopia, Eritrea, tre gioielli dell’impero di Vittorio Emanuele III.
Le mani di un poliziotto che stringono il volto piangente di Judith sono l’immagine più forte e brutale di quella giornata d’agosto. Quel uomo dell’antisommossa è lo specchio del colonizzatore, dell’italiano che si trova di fronte alla sua faccetta nera. Una delle tante. Ai bei tempi, quando c’era l’impero, bastavano pochi soldi per comprare una bambina e farne la propria moglie momentanea. Usa e getta. Come oggi quelli del califfato, che suscitano tanta indignazione tra gli italiani brava gente, dimentichi se non ignari del proprio retaggio coloniale.
Sui sussidiari delle nostre scuole non c’è traccia dei gas usati contro la popolazione civile, delle bombe sui villaggi, della ferocia dei ragazzi con il tricolore. Una storia che non è certo finita con la caduta della dittatura fascista.
Il poliziotto compassionevole di piazza Indipendenza la notte del 21 luglio del 2001 faceva parte della squadra che trasformò la scuola Diaz di Genova in una macelleria. Lo ha rivelato il suo ex comandante Canterini, a caccia di legittimazioni per quella notte di sangue e torture. Alla fine tutto torna. Con buona pace di chi crede che la violenza poliziesca sia straordinaria rottura dell’ordine democratico e non banale quotidianità.

Le imprese italiane in Africa fanno buoni affari. La diga più alta del continente si trova in Etiopia ed è stata costruita dalla Salini-Impregilo, che da quelle parti si aggiudica tutti gli appalti.
É la diga Gibe III, la terza di una serie di cinque in costruzione sul fiume Omo. È la più grande centrale idroelettrica dell’Africa con una potenza in uscita di 1870MW.
L’allora premier Matteo Renzi l’ha inaugurata nel 2015 con solenni parole di elogio per le imprese italiane. Una bella favola. Una favola nera.
La bassa valle dell’Omo non è certo disabitata: ci vivono 200.000 persone, che pratica(va)no la caccia, la pesca e l’agricoltura di sussistenza. La diga ha messo fine alle esondazioni stagionali del fiume. Il gigantesco invaso rischia di causare il degrado e l’abbassamento del livello del lago Turkana in Kenya – il più grande lago in luogo desertico del mondo – dalle cui acque e riserve ittiche dipendono altri 300.000 indigeni.
Ma. La diga permette l’irrigazione di vaste piantagioni commerciali che si stanno realizzando nelle terre delle tribù. Le autorità locali stanno sfrattando questi popoli dalle loro terre, per trasferirli in villaggi di reinsediamento, dove non riescono a sopravvivere.
Gibe III è uno dei tanti esempi di intervento italiano in Africa. Quando mezzo milione di persone diventano vuoti a perdere. Di anno in anno si allunga la schiera dei profughi climatici, della gente in fuga dalla guerra per il coltan, il petrolio, le terre fertili.
Chi si sta spartendo l’Africa oggi non ha neppure il fastidio di mantenere un’amministrazione coloniale ed un esercito sul posto.
Una invisibile linea di confine separa i sommersi dai salvati. Su questa linea negli ultimi sei mesi la guerra si è fatta più aspra, senza esclusione di colpi, senza pietà.

La cacciata delle ONG e l’accordo con gli scafisti
Che l’aria stesse cambiando ancora una volta in peggio lo si è capito quest’inverno. Il 2 febbraio il nuovo ministro dell’Interno Minniti ha siglato un accordo con il governo Al Sarraj in Libia, benedetto il giorno successivo dal vertice di Malta. Una mossa che assumeva mero sapore propagandistico, per acquistare consensi in vista di elezioni che all’epoca parevano molto vicine. Il governo Al Sarraj non controlla neppure Tripoli, le due o tre “guardie costiere” sono parte del traffico di esseri umani, un affare molto lucroso nella Libia devastata da sei anni di guerra. Il capo della guardia costiera di Zawiya è anche capo di una delle milizie che gestiscono le partenze.
In realtà l’accordo con Al Sarraj porterà soldi, armi e pattugliatori in Libia e sarà il primo tassello del mosaico di Minniti. Il ministro si è fatto le ossa alla scuola di Cossiga e per lunghi anni ha avuto la delega ai servizi segreti, nei tanti governi dove è stato sottosegretario agli Interni.
Il suo capolavoro è la cacciata dal Mediterraneo delle navi delle tante ONG, che negli ultimi anni si sono assunte il compito di ripescare in mare naufraghi e gente abbandonata su barconi alla deriva.
Un lavoro fatto intessendo infiniti fili e facendo leva sulle spinte che arrivavano dai propri stessi avversari politici. In prima fila Salvini e Grillo, che hanno puntato l’indice contro le ONG accusandole di essere complici degli scafisti. Si sono poi uniti al coro alcuni magistrati siciliani come il Procuratore di Catania Zuccaro, che, pur dichiarando di non avere prove, si è detto certo che ci fosse del marcio nell’attività delle navi delle ONG impegnate nel Mediterraneo. Il lavoro di criminalizzazione è durato mesi, per preparare il terreno all’ultima offensiva.
All’inizio dell’estate, in un clima emergenziale suscitato ad arte dai media, è saltato fuori il codice da imporre alle ONG, pena la chiusura dei porti. Un cappio al collo, che rende nei fatti quasi inutile muoversi nel Mediterraneo. Poliziotti a bordo, strumenti che segnalano la propria posizione, divieto di mettersi lungo le rotte della gente in viaggio. La maggior parte delle Ong non ha sottoscritto il codice. Le minacce della guardia costiera libica di impiegare le armi ha portato al ritiro dal Mediterraneo di gran parte delle imbarcazioni delle Ong ribelli. Mentre scrivo nel canale di Sicilia sono rimaste solo due navi impegnate in operazioni di ricerca e soccorso.
In agosto gli sbarchi sono stati meno di un settimo di quelli dello stesso periodo dell’anno precedente
Il 25 agosto su Middle East Eye compare un articolo di Francesca Mannocchi che ha raccolto numerose testimonianze sugli accordi tra uomini dei servizi segreti italiani e le milizie che controllano la costa libica tra Zawiya e Sabratha, i porti da cui partono la maggior parte delle imbarcazioni dirette in Italia.
Tra Tripoli e Zawiya ci sono meno di 50 chilometri e otto posti di blocco. L’unico modo per raggiungerla è via mare.
“Poche settimane dopo l’emanazione del Codice per le ONG, la costa di Zawiya è avvolta nel silenzio.” (…) Un testimone riferisce “del complesso e delicato equilibrio di potere tra le diverse milizie che gestiscono i vari traffici di esseri umani, petrolio e altro”. “Altre fonti riferiscono che la quiete dei porti tra Zawiya e Sabratha ha un prezzo. Non si spiegherebbe altrimenti come un’area che per anni è stata il crocevia del traffico di esseri umani sia diventata all’improvviso calma.” (…) Il costo negoziato per ottenere il blocco delle partenze per almeno un mese sarebbe di cinque milioni di dollari.
Il governo italiano smentisce qualsiasi accordo con gli scafisti, ma già a fine agosto nuove prove emergono da un articolo  dell’Associated Press. La milizia “Martire Abu Anas al Dabbashi” di Sabratha collabora da anni con il governo italiano, perché si occupa della sicurezza dell’impianto ENI di Mellita.
Assieme alla “Brigata 48” gestiscono tutti i traffici in quel tratto di costa. Entrambe le formazioni armate sono controllate da membri del clan Dabbashi, ossia i “re del traffico di migranti”. Il capo della prima conferma l’intesa con gli italiani.

In questi stessi giorni Minniti ha dichiarato alla stampa di essere “preoccupato per le condizioni dei migranti nelle prigioni libiche”. Alla fiera dell’ipocrisia Minniti avrebbe buone chance di conquistare il primo posto.
Negli stessi giorni è stato stipulato un accordo per la realizzazione di campi di concentramento per immigrati in Ciad, in Mali e in Niger. La ciliegina sulla torta del ministro dell’Interno.
La linea di confine si sposta a sud, oltre il deserto dove i “diritti umani”, nozione sulla quale spesso in Italia si misura l’altrui civiltà, hanno una diversa declinazione.

Una tela sottile
Sapremo presto se il blocco delle partenze, le prigioni nell’Africa subsahariana, lo spostamento su altre rotte dei migranti basterà a frenare l’ascesa di Lega Nord e Movimento Cinque Stelle, che su questi temi stanno giocando tanta parte della loro campagna elettorale. Non che abbia molta importanza chi il prossimo anno siederà sulle poltrone di Gentiloni e Minniti.
La ritirata delle ONG è stata rapida ed indolore per il governo. Non avrebbe potuto essere altrimenti, perché sono sin troppo forti i loro legami istituzionali, la loro dipendenza da finanziamenti pubblici.
Quello che colpisce come un pugno nello stomaco è il silenzio complice dei più, mentre si moltiplicano gli episodi gravi di razzismo e xenofobia. Si allarga il fronte della guerra ai poveri e tra poveri nelle nostre periferie, dove le destre soffiano sul fuoco, dove la precarietà rende difficile immaginare un futuro, dove l’orizzonte appare sempre più chiuso.
Chi sfrutta le nostre vite ci vuole tutti a capo chino, flessibili, disponibili, arrendevoli. Non sempre tutto fila liscio: qua e là il filo che intreccia le vite di indigeni e migranti emerge nelle lotte comuni per la casa, la salute, i trasporti.
É una tela ancora sottile quella che mescola i fili e le storie, ma poco alla volta potrebbe diventare la trama di un’alleanza di oppressi e sfruttati che si nutre della consapevolezza che la guerra alla gente in viaggio è un episodio della guerra contro chi lotta contro quest’ordine feroce e intollerabile. È una possibilità lieve, un sottile accenno di brezza, che ancora non segna la rottura dei tempi che viviamo.
Chi invece si illude di poter emergere perché il confine si è spostato, perché nuove prigioni rinchiudono i migranti, non sa una verità semplice semplice. Per i governanti e per i padroni siamo tutti pedine sulla scacchiera.
Vuoti a perdere.

(quest’articolo è uscito sull’ultimo numero di Arivista)

 

Posted in immigrazione, Inform/Azioni, internazionale, razzismo.

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