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Femminicidio. Un atto politico

La violenza estrema è la punta dell’iceberg. Le coltellate, il fuoco, la stretta feroce che serra la gola, i pugni, il colpo di pistola troncano la vita, annientano il nemico. Annientare è far diventare nulla chi prima era qualcuno. C’è chi lo fa con freddezza, chi con rabbia, chi persino con paura, ma il fine resta lo stesso: imporre se stessi sino alle estreme conseguenze.
Questo è il senso di ogni omicidio.
In guerra questo diviene evidente e, soprattutto, lecito. In guerra uccidere è un merito. Nonostante la teoria dei “diritti umani” abbia provato ad attenuare la logica bellica, introducendo qualche fragile elemento di tutela, nei fatti poco cambia. Anzi. Nelle guerre dell’ultimo secolo i civili disarmati sono obiettivi di guerra anche più dei soldati in armi.

Quando sotto i colpi cade una donna, il senso muta. Il termine femminicidio descrive l’uccisione di una donna in quanto donna. L’uccisione di una donna in quanto donna ha un significato intrinsecamente politico. Per paradosso il femminicidio è un atto politico, proprio perché ne viene nascosta, dissimulata, negata la politicità.
Anche in questo caso la guerra rende più chiara una logica che in tempi di pace si preferisce dissimulare.
La politicità “normalmente” nascosta emerge: le uccisioni e gli stupri etnici nelle guerre dell’ex Jugoglavia, l’assassinio delle donne curde di religione Yezida che si ribellavano alla riduzione in schiavitù nel nord dell’Iraq ce lo mostrano in modo chiaro. I corpi delle donne violati, asserviti, torturati, obbligati a mettere al mondo i figli degli stupratori servono ad umiliare i maschi del gruppo, incapaci di mantenere il controllo sulle “loro” donne e sulla loro capacità riproduttiva. In ex Jugoslavia le donne e le bambine violentate venivano obbligate a portare a termine le gravidanze loro imposte. Nella zona di Shengal, dove la cultura tradizionale imponeva il matrimonio all’interno del gruppo linguistico e religioso per mantenerne intatta la coesione religiosa e sociale, la riduzione in schiavitù delle donne mirava a spezzare una piccola comunità chiusa, che non si era mai piegata al processo di islamizzazione.
Sui corpi delle donne si giocano continue battaglie di civiltà. Sia che le si voglia “tutelare”, sia che le si voglia “asservire” la logica di fondo è la stessa. Resta al “tuo” posto. Torna al “tuo” posto. Penso io a te, penso io a proteggerti, a punirti, a disciplinarti.

Araceli Osorio era la madre di Lesvy, studente all’università di Città del Messico, l’UNAM. Nel 2014 Lesvy venne torturata e uccisa nei pressi della facoltà di ingegneria. Araceli prese la parola alla manifestazione femminista indetta dopo il femminicidio e la narrazione distorta dei media e dei dirigenti dell’UNAM. Le sue parole ri-politicizzano la morte della figlia. “Il mio orrore è una goccia minuscola in un oceano di orrori”.
Un oceano di orrori. Il concetto di femminicidio è stato elaborato dopo la scomparsa di migliaia di donne a Ciudad Juarez e in tutto il Messico. Inghiottite dal deserto, dall’omertà, dalla connivenza e complicità della polizia. Ogni tanto, ad estremo monito per tutte, viene ritrovato un corpo. Un corpo che rivela le torture orrende, gli stupri, le mutilazioni subite. Vite che non contano, ragazze delle maquilladoras, le fabbriche dove i loro corpi sono sfruttati allo stremo per paghe poverissime, diventano carne da macello.
Una strage. Una strage che non risparmia nessuna. Un oceano di orrori. Un “normale” oceano di orrori.
Accade in Messico, accade in ogni dove. Accade ovunque la libertà delle donne, i nostri corpi liberi sfidano il patriarcato.
Negare questa sfida, considerare la lotta delle donne contro il patriarcato, un retaggio residuale di un passato che non torna, è una falsificazione, che nasconde la caratteristica reattiva di tanta parte della violenza maschile sulle donne.

Alle nostre latitudini ammettere la natura intrinsecamente politica dei femminicidi e, in genere, della violenza maschile sulle donne aprirebbe una crepa difficilmente colmabile, perché renderebbe visibile una guerra non dichiarata ma brutale. Per questo motivo l’uccisione di una donna in quanto donna viene considerato un fatto privato. Un fatto che assurge a visibilità pubblica solo nelle pagine di “nera” dei quotidiani.
Femminicidi, torture e stupri diventano pubblici quando sono agiti in strada, fuori dagli spazi domestici, familiari o di relazione, quando i profili di chi uccide e violenta si prestano ad alimentare il discorso securitario, favorendo un aumento della militarizzazione, la crescita della canea razzista, nuove e più dure leggi.
La guerra contro le migrazioni ha bisogno di trasformare in nemico chi viaggia. I corpi delle donne diventano il luogo sul quale si gioca la contrapposizione tra chi “tutela” le donne e chi le attacca. La “civiltà” dell’Occidente contro gli estranei, stranieri, diversi, nemici. Quelli da tenere fuori, perché tutto sia in ordine.
Ben diverso è lo sguardo verso le immigrate, che abitano le nostre case e si occupano degli anziani, dei bambini, della casa, verso le ragazze di ogni dove sui marciapiedi in attesa di clienti. Corpi femminili docili e disponibili, a disposizione di chi ha potere e soldi.

Quando invece l’assassino, lo stupratore ha le chiavi di casa, i femminicidi e gli stupri vengono descritti con gli strumenti messi a disposizione dalla psichiatria: il violento è un malato. Raptus, follia, depressione rendono agilmente plastica la narrazione della violenza.
Il folle sfugge alle regole della comunità, perché il suo agire è privo di ragione e, quindi, non rappresenta una rottura del patto sociale. La narrazione della violenza come follia o criminalità agita da pochi soggetti estranei, rende invisibile la guerra contro le donne per la ri-affermazione di una relazione di tipo patriarcale.

Lo sguardo patriarcale si impone nelle istituzioni, che negano il carattere sistemico della violenza di genere, si esplicita nei media, deflagra nel dibattito pubblico sui social, dove la veloce interattività e la solitudine di chi scrive facilitano un linguaggio più crudo, non mitigato dal politicamente corretto.
Sino al 1996 lo stupro era rubricato nel codice penale nel capitolo “Dei delitti contro la moralità pubblica e il buon costume”. Solo in quell’anno, dopo decenni di lotte, in Italia lo stupro divenne reato contro la “persona”.
La violenza sessuale era un delitto contro la morale, che impone che le donne restino vergini sino al matrimonio e mogli fedeli dopo il passaggio dall’autorità paterna a quella maritale.
La legge è cambiata, l’immaginario che la sorreggeva è invece ben vivo ed alimenta le chiacchiere da bar, non meno dei giudizi dei tribunali, dove si consumano nuove violenze contro le donne.
Nella manifestazione che seguì l’assassinio di Lesvy Osorio le donne portavano cartelli con scritto “Si me matan…” “Se mi uccidono…” e di seguito un elenco dei comportamenti della loro vita personale che avrebbero potuto essere usati per “giustificare” i loro assassini. Tra le scritte c’era: “se mi uccidono è perché uso gonne corte e scollature”, “perché mi ubriaco”, “perché mi piace viaggiare da sola”, “perché sono bisessuale”, “perché dico no quando lui vuole che sia un si”. “perchè mi sono fatta un tatuaggio”, “perché vado a far festa con le mie amiche”…
Gli stessi argomenti che trovate ogni giorno nella cronaca “nera” dei quotidiani. Le studenti fiorentine stuprate quest’estate da due carabinieri in servizio sono il più noto tra gli episodi recenti. Uno dei tanti nell’oceano delle violenze agite da uomini protetti da una perdurante logica patriarcale, che attraversa la società e permea le istituzioni. Trasformare chi subisce violenza in responsabile rimanda alla logica per cui alle donne non è permesso essere libere. Una donna libera sa cosa rischia e, quindi, se l’è andata a cercare. Non c’è solo l’inversione dell’onere della prova, c’è la convinzione che la libertà femminile merita una punizione. Chi si espone allo sguardo merita anche l’intrusione violenta nel proprio corpo, la molestia verbale, la toccatina fugace che restaura l’ordine del mondo.
In nome del padre.

La violenza di genere è intrisecamente politica. Non solo per i numeri impressionanti ma, soprattutto, per i mille dispositivi messi in campo, per nascondere, privare di senso, sminuire la portata sistemica dell’attacco.
La violenza colpisce anche quelle che non la subiscono. La minaccia stessa, il pericolo di attraversare liberamente i luoghi delle nostre vite sono parte di un dispositivo che prova a tenerci sotto scacco, nell’auspicio di disciplinarci con la paura.
Occorre che la paura cambi di campo. Occorre spezzare un immaginario, di cui ancora tante di noi sono complici. La servitù volontaria è il nostro peggiore nemico, perché le pratiche che spezzano il tempo e risignificano un mondo sono ancora troppo recenti, perché un retaggio tanto pesante è difficile da spezzare, perché la sottrazione e la fuga appaiono ancora le strategie vincenti, proposte ed imposte dalle nostre mamme a tante di noi.
Non c’è libertà se non nel rischio e nella lotta. Chi cade nel cammino non è una vittima ma una donna colpita perché libera. Chi ci uccide compie un atto politico. Sfidare assassini e stupratori è un atto politico.

Le reti femministe nate negli ultimi anni, Non Una di Meno è la più nota, sono figlie dalla necessità che nella guerra contro la libertà femminile si moltiplichino le relazioni, il mutuo soccorso, gli intrecci solidali per battere un nemico subdolo, annidato in ogni spazio che viviamo.
La scommessa oggi è chiarire l’intreccio potente tra la dominazione patriarcale e la violenza dello Stato, dei capitalismo, delle frontiere, delle religioni. Il femminismo binario, centrato sull’empowerment femminile è esperienza residuale in questo secondo decennio del secolo che inaugura il millennio.
Partire da se non per liberare un genere ma per attraversarli alla ricerca del proprio percorso di libertà è una pratica femminista di segno libertario, che si propone a tutti, a tutte a tutt*.

(quest’articolo è uscito sull’ultimo numero di Arivista)

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