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Torino. Una piazza borghese. E le sue paure

La piazza Si Tav del 10 novembre a Torino, a saperla osservare, ci racconta della persistenza del mito del progresso e della velocità. Il motore dello sviluppo, del benessere e del saldo ancoraggio al treno del primo mondo.
La piazza Si Tav, piazza borghese, per bene, torinese, che si alimenta del ricordo di Cavour e del canale di Suez, sogna un Piemonte che non c’è più. E non tornerà.
È una piazza la cui principale novità è il suo stesso esserci, la scelta di scendere in campo e di rendere visibile un aggregato sociale, che usualmente è restio a farlo.
Il paragone con la marcia dei 40.000 colletti bianchi della Fiat al termine dell’ultimo braccio di ferro tra la classe operaia torinese e i padroni della città appare tuttavia del tutto incongruo. In questi ultimi 40 anni tanta acqua è passata sotto i ponti della città dei tre fiumi.
I colletti bianchi difendevano, pagati e spinti dal padrone, una posizione di piccolo privilegio che ritenevano inattaccabile. Pochi anni dopo i fatti dimostrarono quanto grande fosse stato il loro errore. I protagonisti di quella marcia e i loro figli, colletti bianchi per via ereditaria, vennero licenziati, quando il padrone decise che non servivano più.
Ma. L’errore più grande lo commisero gli operai in lotta da trentacinque giorni davanti ai cancelli della Fiat. Credettero al sindacato, che già aveva pronto l’accordo che barattava ventimila licenziati con sessantamila cassaintegrati. La grande epopea dei lavoratori della città-fabbrica non finì per la marcia degli impiegati Fiat, ma per la resa ad un sindacato che stava cambiando pelle, avendo già mutato anima negli anni del compromesso socialdemocratico.
Se in quei giorni fosse partito un appello a tornare in piazza, la marcia dei “40.000” sarebbe scomparsa nel nulla e nessuno la ricorderebbe.
Quella vicenda si incise a sangue nella memoria collettiva, perché spianò la strada alla vendetta padronale, che fu implacabile.
Torino si è trasformata radicalmente. La città della Fiat, pensata e costruita come città fabbrica, ha lasciato il posto alla città immaginata tra il Politecnico, la stessa Fiat, le Banche e il partito Democratico. Città di servizi, turismo e grandi eventi. Gli antichi borghi operai, luogo di crescente marginalità sociale, sono costantemente sospesi tra riqualificazioni escludenti e il parco giochi per carabinieri, militari e poliziotti.
Evocare la marcia dei “40.000” è un abile artificio retorico per proclamare la vittoria prima di aver vinto.
Questa volta però, alla faccia del governo pentastellato della città, che si è affrettato ad aprire un’interlocuzione con i Si Tav, il movimento No Tav non ha esitato e ha lanciato un corteo per l’8 dicembre che, partendo da piazza Statuto, quella della rivolta del 1962 contro la UIL, si concluderà in piazza Castello, nello stesso luogo dei Si Tav.
La partita è quindi ancora apertissima.
Ed è meno banale di quanto sembri, perché ci racconta della città com’è ora, non di quella del tempo andato.
La borghesia scende garbatamente in piazza per rimettere a posto le cose, per fare ordine, per spiegare alla sindaca Appendino chi comanda in città.
La piazza Si Tav del 10 novembre è la piazza dei padroni. Basta dare un’occhiata all’elenco delle associazioni promotrici per rendersene conto. Si va dalle associazioni padronali a quelle del commercio per arrivare alle organizzazioni sindacali degli edili di CGIL, CISL e UIL, che questa volta non hanno problemi a stare nella stessa piazza dei padroni. Non devono più fingere.
«Noi stiamo perdendo le energie migliori della nostra società: le famiglie li hanno educati, le scuole formati e noi diamo ciò che abbiamo creato, i nostri giovani, all’estero. Voglio dedicare questa piazza a Pininfarina e Marchionne che si sono battuti per la Tav». Diceva uno degli speaker dal camion/palco. E giù applausi a Marchionne e, non guasta mai, anche alle forze dell’ordine.
Chi c’era, come il professor Semi, anche solo per dare un’occhiata, ha descritto così piazza Castello del 10 novembre: “Il garbo, la gentilezza, le maniere civili, sono state le parole d’ordine di questa riemersione della borghesia torinese dalla propria proverbiale riservatezza e aristocratico distacco. Oggi in piazza erano visibili diversi gruppi sociali che la compongono e, per contrasto, si vedeva ancora meglio chi non c’era.
Iniziamo dai presenti. Signori e signore perbene, dall’età media attorno ai Cinquanta, ogni tanto con i figli grandi e più spesso con amici e colleghi. Si sono rivisti in massa i Barbour, e le signore avevano dei cappotti da boutique, talvolta arancioni come da richiesta delle organizzatrici della matinée. Si tratta di una stima ‘ad occhio’, ma se erano molti anche gli anziani ben vestiti, mancavano quasi completamente i 20-30enni. Le classi sociali visibili non erano molte, c’era sicuramente diversa borghesia professionale, e un po’ di ceto medio tradizionale, commercianti e artigiani. Ad occhio non erano tantissime le partite IVA ai minimi, non c’erano operai, sicuramente il livello di istruzione medio in piazza era molto elevato e per nulla rappresentativo della città. Si è detto delle fasce mediane assenti e dei giovani in generale, ma quello che saltava all’occhio fin da subito era la totale assenza di popolazione straniera, sia povera che ricca. La folla oggi riunita era molto torinese, anche se i richiami al Piemonte, all’Italia e all’Europa sono stati tanti. Una massa bianca, matura se non anziana, benestante, istruita e gioiosa ha occupato per circa due ore la principale piazza della città.”
La borghesia torinese è scesa in piazza per dare un segnale all’amministrazione locale e al governo giallo verde. Puntano sul PD, ma potrebbero senza troppi problemi appoggiare un governo di centro destra.

Nonostante il Bon Ton e i bei modi esibiti è una piazza a suo modo patetica, perché Cavour e Suez sono roba di due secoli fa e non bastano più a nutrire l’illusione del progresso che consegna doni e sicurezza all’imprenditoria operosa e ai suoi intellettuali, professionisti, professori, giornalisti.
Il treno che buca le Alpi, come a suo tempo lo stesso Tunnel del Frejus, ai cui costruttori è stato dedicato un monumento in piazza Statuto, sventa la paura del piccolo Piemonte schiacciato contro le montagne, isolato dai traffici, emarginato da Milano, la cugina meneghina, che ha retto molto meglio l’impatto della terza e della quarta rivoluzione industriale. É un feticcio, non un treno. Certo ci sono gli affari delle lobby del cemento e del tondino, delle banche, degli edili, ma la sostanza che ha portato in piazza commercianti e imprenditori, assieme alla borghesia delle professioni è la forza simbolica acquisita da quel treno.
Lo scontro sarà quindi senza esclusione di colpi, perché, sottile, ben nascosto, ma evidente appare il motore di quella piazza: la paura. Gli orfani della città Fiat oggi si aggrappano al treno ad alta velocità. Poco importa che non serva a nulla. Però può rendere bene a chi la fa. E tanto basta: di doman non c’è certezza.
La città vetrina ha scongiurato gli orrori della Rust Belt statunitense, riciclando per Olimpiadi e grandi eventi, gli enormi capannoni vuoti dell’era dell’industria trionfante. Centri commerciali e mega padiglioni espositivi con intorno nuovi quartieri ed infrastrutture per raggiungerli sono stati la ricetta del post Fiat. Ma non bastano. Non possono bastare.
Sullo sfondo, ben nota ai borghesi torinesi c’è Flint, la città dove il futuro è già presente. A Flint nacque la General Motors: oggi interi quartieri sono abbandonati. Imponenti macerie industriali ne segnano il panorama, tra povertà, mafie e ghetti urbani. La gente beve acqua avvelenata, le truppe vi svolgono esercitazioni “antiterrorismo”. È il Michigan ma potrebbe essere lo specchio di Torino, delle sue periferie, dove le macerie sono quelle sociali.
Un baratro in cui tanti hanno paura di scivolare. E la paura genera mostri.
Lo sanno bene quelli delle periferie, che hanno abbandonato il PD e hanno votato, anche se a votare non sono più tanti come un tempo, per le Cinque Stelle. Sono quelli dei blocchi dei forconi del 2013. Niente Bon Ton: blocchi, tricolori, appelli ad un governo militare, caciara. Sembrava la gente del dopo stadio, tifosi con le bandiere e le trombette, fuori controllo anche dalla destra che provava a cavalcarli e da post autonomi e anarchici situazionisti, che puntavano al caos sistemico. In comune con i borghesi del 10 novembre l’amore per i poliziotti, applauditi e vezzeggiati da entrambe le piazze.
Tornati nei ranghi dopo tre giornate, perché la rivoluzione la volevano in un giorno e in un giorno è difficile farla, anche se credi di avere il vento in poppa e ti muove la tenera auroralità di chi crede all’iconografia della rivolta. Oggi pare vogliano tornare in piazza “contro l’Europa e non contro il governo”, sperando di spuntarla sulla odiatissima direttiva Bolkenstein e altre tasse. Forse in gilet giallo, alla francese.
Anni luce tra queste due piazze. Senza dubbio. Spinte però entrambe dalla paura del futuro che non c’è più. Paura e rabbia mescolate per le promesse non mantenute per il figlio laureato dell’operaio, che non ha né lavoro né prospettive, ma tanto risentimento.
L’amministrazione Appendino è figlia anche di quella piazza. Ma non solo, perché la vittoria di Appendino, due anni fa, fu possibile solo grazie all’appoggio delle destre subalpine. Parte delle quali sono oggi uno degli assi del governo pentastellato.
Quest’alchimia un po’ bastarda ma non troppo spiega le giravolte della giunta Appendino, che potrebbero portarla ad un’impasse difficile da superare.
D’altra parte, alla fetta di elettorato forcone dei 5 Stelle, fatto di mercandini, partite IVA, giovani precari bianchi e rancorosi, non importa nulla del Tav, ma sono a loro volta soggiogati dalla retorica della difesa dei confini, dell’illusione protezionista, in bilico tra il liberismo estremo dei no tax e la richiesta di tutela statale. Un bel groviglio.

In questo groviglio parte del movimento No Tav si è infilata mani e piedi, schierandosi in modo esplicito con i 5 Stelle, nonostante oggi in tanti comincino ad accorgersi che l’opposizione al Tav è più una palla al piede che un obiettivo per i 5 Stelle. In questi anni la lotta No Tav si è saldata in modo tanto forte con la critica delle relazioni politiche e sociali dominanti, da renderla incompatibile con il capitalismo e le sue regole feroci.
I No Tav sono corpi estranei allo scontro di potere in atto, gli unici, con numeri e consenso ampi, che pur nella diversità di approcci e prospettive, non sono mossi dalla paura ma dalla consapevolezza che il futuro dipende da ciascuno di noi. L’idea stessa di sviluppo si sgretola sotto le picconate di una critica che sarebbe sbagliato credere pauperista o ingenua, perché si nutre della comprensione dell’urgenza di tante piccole opere utili alla vita e alla salute di tutti, dell’urgenza di rallentare la curva del riscaldamento globale, dell’importanza di scommettere sulla capacità di autogoverno reale dei territori. E sulla consapevolezza che ribellarsi e vincere è possibile.

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