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Agli incroci del labirinto

Si chiama Simona. Mentre scrivo si trova al centro grandi ustionati di Torino. Non può vedere né sentire nulla: è stata sedata ed intubata, per evitarle sofferenze terribili. Stava andando al lavoro, quando nel parcheggio è stata raggiunta da Mario D’Uonno, l’uomo che da oltre due anni la perseguita in un crescendo di insulti, violenze e minacce. Pochi giorni prima era sfuggita ad un tentativo di speronamento, questa volta non ce l’ha fatta. É stata inseguita, bloccata, picchiata. Infine l’uomo ha preso la tanica di benzina che aveva preparato, l’ha gettata sull’auto ed ha appiccato il fuoco. Prima di perdere conoscenza Simona ha gridato “è stato lui”.
Lui che sui social aveva scritto “Ti manderò all’inferno. Fosse l’ultima cosa che faccio”. Detto e fatto.
Simona non è una vittima. Aveva dato parola alla persecuzione, aveva denunciato le angherie che subiva. Anche per questo Mario D’Uonno ha cercato di bruciarla viva, di annientarla.

Sui media e sui giornali si è scatenata la canea di chi chiede più polizia e repressione, di chi parla di “amore malato”, di “sfera affettiva”, di questioni “private”.

Le statistiche dell’ultimo anno ci dicono che nel nostro paese il numero di omicidi è ancora calato. Se si scorporano i dati emerge che è diminuito il numero degli uomini uccisi, resta invece stabile quello delle donne ammazzate.
Nell’aridità di questi calcoli è la cifra della guerra contro la libertà femminile. Una guerra che non si deve nominare, che viene sistematicamente travestita da malattia, eccesso, eccezione. Raptus e follia sono il paravento che copre il non detto, il non dicibile.
La violenza contro le donne è un fatto del tutto “normale” nel nostro paese e su scala planetaria. Normale perché non ha nulla di eccezionale, strambo, folle; normale perché viene agita da uomini di tutte le età, di tutti i ceti sociali, di ogni livello di istruzione.
Il disconoscimento della guerra contro le donne, innescata dai tanti percorsi di libertà ed autonomia che hanno segnato gli ultimi quarant’anni, ha rimesso in pista il femminismo. Un femminismo consapevole che la posta in gioco è alta, che nulla è scontato, che la lotta al patriarcato è necessaria per ogni reale trasformazione verso la libertà e l’uguaglianza di soggetti, che lo sguardo femminista sottrae agli stereotipi di genere e consegna all’avventura del superamento delle identità precostituite ed imposte.

Si tratta di un femminismo intersezionale, che coglie l’intreccio tra il patriarcato e le altre forme di dominio, che, quindi, si pone come uno degli snodi di una critica e di una lotta radicali alle relazioni politiche e sociali in cui siamo forzati a vivere.
Si tratta di un femminismo che riempie le piazze ed agisce lontano, lontanissimo dal femminismo della differenza, che si limita a rovesciare lo specchio, perché mira alla conquista del potere, valorizzando le gerarchie al femminile, senza intaccare il nucleo fondativo del dominio, tenendosi ben lontano dalle periferie del mondo.
La prospettiva transfemminista, intersezionale, intrinsecamente libertaria del femminismo degli anni ‘10 è riuscita a coinvolgere tantissime persone, al di là dei generi. La partita che questi movimenti stanno giocando è di importanza cruciale. Siamo agli incroci di un labirinto: da un lato c’è l’uscita, dall’altro il Minotauro, che asserve, stupra e uccide.

Viviamo tempi grami. Potenti raggruppamenti identitari e sovranisti danno voce alle paure di chi ha imparato che non c’è riparo per nessuno ai tempi del capitalismo trionfante: anche nei paesi del nord ricco del pianeta ci sono persone senza futuro né prospettive. I movimenti che rimettono al centro la patria, la bandiera, la famiglia, la frontiera offrono un salvagente simbolico fatto di identità escludenti, si fanno forti nella negazione dell’altro, che diviene nemico. Stranieri, migranti, profughi sono i nemici che vengono da fuori, i poveri il cui presente potrebbe divenire il nostro futuro. Le donne sono il nemico interno, il loro asservimento è indispensabile alla riaffermazione della famiglia, nucleo politico ed etico, su cui basa il patriarcato alle nostre latitudini.
ll matrimonio è stato a lungo un legame sancito dallo Stato e dalla Chiesa che fissava la diseguaglianza e l’asservimento delle donne, sottomesse al marito alla cui tutela venivano affidate. Eterne minorenni, e per sempre inadeguate ed incapaci, passavano dalla potestà paterna a quella maritale.
Le lotte che hanno segnato le tante vie della libertà femminile hanno in buona parte cancellato quella servitù, ma non sono riuscite ad intaccare il nucleo sociale ed etico su cui si fondano: la famiglia.
La famiglia è la fortezza intorno alla quale si pretende di ri-fondare un ordine politico e sociale gerarchico ed escludente.
A sinistra come a destra il dibattito non è sulla famiglia ma solo su “quale” famiglia. Chi la vorrebbe estesa alle coppie omosessuali, chi la vuole modellata sulla “sacra” famiglia.
Lo Stato, non per caso, nega diritti e tutele alle persone che scelgono di non sposarsi, di non piegarsi alla legalizzazione dei sentimenti, delle passioni, della tenerezza, di rifiutare l’imposizione di un modello rigido di relazione, costruita sulla coppia e sui loro figli. Una relazione che, in quanto tale, diviene socialmente riconoscibile. E riconosciuta.
Oggi un governo clerico-fascista prova a ri-modellare le nostre vite cercando di impedire la libera scelta di avere o non avere figli, creando inoltre serie difficoltà a chi vuole divorziare.
Il vice premier leghista, lo stesso che con il collega pentastellato Toninelli ha condannato a morte tante bambine e bambini nel Mediterraneo, vuole un mondo di mamme e di papà, di italianissime famiglie armate di presepi che rappresentano un mondo pastorale fatto di statuette di plastica, montagne di carta e laghi di stagnola. La vita vera è fatta di gente che non arriva a fine mese, di persone private dei documenti e gettate in strada, di uomini donne e bambine e bambini sgomberati e denunciati.
La (sacra) famiglia di sacerdoti e governanti mira a costringere le donne ad adeguarsi ad un ruolo di cura, sostitutivo dei servizi negati e cancellati negli anni.

Gli integralismi religiosi riemersi ovunque nel pianeta puntano al disciplinamento violento degli ambiti sociali che attraversano: le prime ad essere colpite sono le donne libere, le identità non conformi, le persone che spezzano l’ordine patriarcale. L’Italia che vorrebbe modellare il ministro della famiglia Fontana può parere diversa dall’Afganistan dei talebani, ma lo sguardo è superficiale, viziato dal pregiudizio etnocentrico, che considera la secolarizzazione un processo compiuto ed irreversibile alle nostre latitudini, quasi impossibile altrove. Basta pensare all’odierna Polonia di Kaczinsky per cogliere la profonda arroganza di chi si crogiola nell’illusione che la “superiore civiltà” europea possa rintuzzare e sconfiggere i tanti Fontana, che stanno mettendo sotto assedio la libertà delle donne e di tutti.
L’attacco in corso, la guerra mascherata e subdola contro le identità erranti, plurime, transitanti, si nutre di leggi e regolamenti, ma anche della complicità di chi nega il carattere sistemico, politico della violenza contro le donne, annegandola nel luogo da cui trae origine e si alimenta, la famiglia.
Il femminismo che ha invaso le piazze, le strade, le case, i posti di lavoro nasce,anche dalla consapevolezza dello scontro in atto e del carattere nevralgico della sfida.
Sono sempre più le donne, che non ci stanno a recitare il canovaccio scritto per loro da preti e fascisti. Tante donne che, in questi ultimi decenni, hanno imparato a cogliere le radici soggettive ed oggettive della dominazione per reciderle inventando nuovi percorsi.
Percorsi possibili solo fuori e contro il reticolo normativo stabilito dalla religione e dallo Stato. Uno dei limiti più significativi del percorso maggioritario, quello rappresentato in Italia dalla rete Non una di meno, è l’incapacità di emanciparsi dalla fascinazione dell’istituito.
La critica nei confronti dell’istituzione statale non è quasi mai uscita dal vincolo delle tutele, delle leggi, della palude welfarista. È il vizio di fondo che segna la storia della cosiddetta sinistra nel nostro paese, l’attitudine a delegare allo Stato, che ne determina l’estensione, la valenza, le condizioni. Salute, istruzione, servizi possono e devono essere sottratti al controllo statale.
La scelta di non uscire dall’ombrello statale rischia di impantanare un movimento forte nelle piazze ma in difficoltà nello scontro sociale. Giocare sempre in difesa è una scelta debole, che a malapena impedisce all’avversario di segnare altri punti.
La partita è altrove. Lo stabiliscono, al di là della spinta all’autonomia reale dei movimenti e dei singoli, le condizioni stesse dello scontro sociale, che non prevedono compromessi e ammortizzatori. Il disciplinamento delle donne, specie di quelle povere, è parte del processo di asservimento e messa in scacco delle classi subalterne. Anzi! Ne è uno dei cardini, perché il lavoro di cura non retribuito è fondamentale per garantire una secca riduzione dei costi della riproduzione sociale.

Il femminismo libertario e anarchico pone al centro una critica radicale dell’istituito, perché ciascun* attraversarsi la propria vita con la leggerezza di chi si scioglie da vincoli e lacci.
Lo sguardo femminista è imprescindibile per un processo rivoluzionario che miri al sovvertimento in senso anarchico dell’ordine sociale e politico in cui siamo forzati tutti a vivere.
Il percorso di autonomia individuale si costruisce nella sottrazione conflittuale dalle regole sociali imposte dallo Stato e dal capitalismo. La solidarietà ed il mutuo appoggio si possono praticare attraverso relazioni libere, plurali, egualitarie.
Una scommessa che spezza l’ordine. Morale, sociale, economico.

Maria Matteo
(quest’articolo è uscito sull’ultimo numero di Arivista anarchica)

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