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No Expo. Il conflitto e la sua rappresentazione

DSCN0067L’agire rivoluzionario, nell’attraversare un percorso di trasformazione radicale delle relazioni politiche e sociali, è, costitutivamente, anche narrazione.
La diffusione e l’accessibilità pressoché universale di strumenti di comunicazione ha enormemente amplificato il carattere discorsivo dell’azione di piazza.
Sottile è il confine tra rappresentazione e rappresentanza. Su questo confine si giocano partite di egemonia, che spesso sfuggono all’analisi e al controllo di chi partecipa alle iniziative, pur avendo contribuito a costruirle.

Il dibattito/scontro sul Primo Maggio milanese si inceppa su una faglia solida ma prismatica, dove si intrecciano più piani.
Uno è quello dei media, che, come cinicamente rilevava qualche amante del “realismo”, fanno la loro partita e contribuiscono a costruire una narrazione difficile da ignorare, perché spesso costituisce e costruisce una parte dell’opinione.
Nel dibattito di queste settimane non è mancato chi – leggete l’ultimo editoriale su infoaut – pur rivendicando il “riot”, lo avrebbe preferito più “civile”, più forte nel proporre una comunicazione dove l’atto distruttivo fosse immediatamente leggibile dal filtro dei media. Pur condividendo l’aspirazione ad una comunicazione che sappia farsi opinione più allargata, dubitiamo che i media siano governabili dai movimenti.
Quest’analisi della giornata mette in scena una rappresentazione della piazza, disegnata da chi vorrebbe farsene “rappresentante”, ben al di là dello spazio di una may day milanese, in cui le anime scisse della post autonomia, si sono contese il monopolio della visibilità.
Al di là della trasparente rabbia di chi pensava di condurre il gioco ma non ha portato a casa il risultato pieno, colpisce che il concetto sensato della chiarezza degli obiettivi, venga delegato allo specchio dei media. Ci permettiamo di immaginare che se il “riot” avesse colpito solo banche e auto di lusso, la narrazione mediatica non sarebbe cambiata.

Parte di chi ha agito il “riot” ha affidato ai graffiti la propria narrazione. Un cuore intorno al foro di una vetrina infranta, una scritta su un negozio aperto il Primo Maggio, allusioni poetiche ad una narrazione rivolta ai propri affini, che raramente riesce a farsi opinione condivisa al di fuori di chi ha la chiave di decodifica culturale del messaggio.

Scartiamo intenzionalmente il concetto di “opinione pubblica”, perché l’epoca in cui la diffusione aurorale della stampa quotidiana produceva “opinione pubblica” è tramontata e i piani su cui si costruiscono le narrazioni condivise sono molteplici, a volte intersecati ma non sempre comunicanti.

La giornata delle spugnette dove la sinistra Mastrolindo è scesa in strada per ripulire la città è frutto della proposizione della tematica del bene comune in chiave nazional-popolare. Quella giornata, ben più degli scontri del Primo Maggio, ha messo in secondo piano la devastazione e saccheggio rappresentati dal modello Expo. L’appannata amministrazione Pisapia ha recuperato punti, l’Expo probabilmente meno.

Nelle prime ore dopo la manifestazione milanese i social media pullulavano di complottisti che ripetevano la noiosa litania sugli infiltrati nero vestiti: fortunatamente in meno di 24 ore questo argomento buono per tutte le stagioni è stato riassorbito in un dibattito meno banale. Il ricorrente comparire di queste tesi afferisce all’incapacità di confrontarsi con pratiche eccedenti la normalità: se c’è la lunga mano della questura tutto va a suo posto, non c’è lacerazione, non c’è divaricazione, non c’è conflitto, non c’è divisione tra buoni e cattivi, perché i “cattivi” sono ridotti al rango di burattini.
È un’interpretazione intrinsecamente rassicurante. Niente dibattito, niente confronto. I buoni sono buoni e i cattivi sono finti. Una favola triste e inutile.
Una favola che fa sempre meno presa sull’immaginario.

La narrazione sconfitta è stata quella delle assemblee che hanno costruito le giornate No Expo, il cui punto di arrivo e ri-partenza avrebbe dovuto essere il Primo Maggio milanese.
Un corteo comunicativo e conflittuale era la proposta per una may day che mettesse insieme, nello stesso spazio, una rappresentazione plurale dove l’agire comunicativo fosse condiviso da tutte le anime del corteo.
Una scommessa che il “riot” ha fatto saltare, svuotando di senso la giornata dei “blocchi” del 2 maggio e portando alla cancellazione dell’assemblea finale.
Il No Expo proseguirà, ma il momento magico della rappresentazione corale non potrà essere recuperato.
Forse era una scommessa impossibile, forse la rete No Expo ha tentato la quadratura del cerchio. Di certo sullo sfondo c’era un’aspettativa non detta ma sussurrata di bocca in bocca: il primo maggio a Milano il “riot” avrebbe riempito la scena. Forse era una storia già scritta. Forse.

Lo abbiamo messo con le virgolette “riot”. Lo abbiamo scritto in inglese perché se avessimo scritto sommossa, o rivolta sarebbe stata chiara a tutti la distanza tra le parole e le cose.

“Riot” ha invece in se la potenza semantica dell’immagine stereotipa che si riproduce di piazza in piazza, di continente in continente. Ragazzi mascherati, lacrimogeni, polizia, auto in fiamme e banche sfondate. Roba che ritorna a tutte le latitudini, tanto che qualcuno sta teorizzando il ritorno delle rivolte, senza accorgersi, che non hanno mai smesso di esserci.
L’immagine iconizzata del lancio della boccia parla la lingua del conflitto, racconta quello che ogni giorno non accade: è innegabilmente seduttiva per tanti, perché narra l’immediatezza di un agire che non rimanda ad altro, che si concreta nel subito, che ha in se il proprio fine: comincia e finisce con la vetrina infranta.
A due passi dagli scontri i supermercati erano aperti, un gelataio spalmava coni con un occhio alla strada, a Rho migliaia di volontari lavoravano per l’illusione di salire il mezzo scalino che divide i sommersi dai salvati.

La stessa retorica sulla distruzione dei simboli del potere e del capitalismo, la narrazione di alcuni settori di movimento, ha una logica debole, vista l’incomparabile distanza tra le infinite macerie del capitalismo e i vetri infranti nel centro di Milano.
La seduzione è nel gesto, non nella sua rappresentazione politica.
Su questo sentire che ha una propria intrinseca onestà c’è chi ha provato a giocare il vecchio gioco dell’egemonia. Ma è una tela dalla trama logora, che gioca sporco con i propri stessi compagni di “riot”, perché nega loro dignità politica, relegandoli nella sfera della spontaneità. Una spontaneità che non escludiamo si sia data in qualche occasionale processo imitativo ma è improbabile che sia appartenuta ai più.
Diciamolo chiaro: Milano non è Baltimora o Istanbul.
A Milano non c’è stata una sommossa ma un settore della piazza che per un’ora e mezza ha messo in scena la sommossa.
Lo diciamo con rispetto. Il rispetto dovuto a chi rischia, a chi è stato arrestato, a chi potrebbe perdere la propria libertà per anni. La vendetta dello Stato affina i propri strumenti e sarà segno della maturità dei movimenti che nessuno sia lasciato solo, che chi è nel mirino abbia sostegno attivo, perché nelle Procure stanno tessendo la rete delle prossime operazioni repressive.

Eravamo al corteo del Primo Maggio a Milano. E non siamo pentiti di esserci stati, anche se avevamo creduto alla scommessa di un corteo conflittuale e, insieme, comunicativo.

Eravamo in coda. Dietro a tutti, rioter compresi, e siamo arrivati sino in fondo.
Un corteo è un corteo. Doveva essere la rappresentazione collettiva delle lotte che in ogni dove danno corpo al mondo nuovo che vogliamo e che stiamo già costruendo, nel conflitto e nell’autogestione. Non lo è stato. Ci saranno altre occasioni, se sapremo costruirle.
Non ci interessano le vetrine rotte, ci interessa la storia che raccontano. Il fatto, nudo e crudo, è che quel settore della piazza milanese non era lo specchio di lotte reali ma il loro sostituto. Lo diciamo con l’umiltà di chi sa quanto sia arduo un percorso di lotta radicale, un percorso che osi mantenere chiara all’orizzonte l’urgenza dell’anarchia, l’urgenza di un mondo senza servi né padroni. Senza stati, né eserciti.
Lo diciamo con la chiara consapevolezza che quanto avvenuto ci interroga tutti sull’efficacia del nostro agire, sulle prospettive di lotta. Dobbiamo registrare un’assenza. Un’assenza pesante come un macigno, un’assenza che abbiamo visto evocare in questi anni da tanti compagni e compagne, intelligenti e generosi. Un’assenza che non possiamo ignorare. Manca la proiezione rivoluzionaria, manca la tensione a credere possibile un mondo realmente diverso da quello in cui siamo forzati a vivere. La precarietà iscritta nella materialità del vivere quotidiano, diviene condizione esistenziale, chiusura prospettica. Senza tensione ad un mondo altro, senza una rottura quotidiana dell’ordine imposto, il sasso che spezza il vetro, la molotov che brucia il macchinone bastano a se stessi.
Il problema non è il volo ma l’atterraggio: le lotte sui territori solo occasionalmente riescono a coniugare radicalità e radicamento.
Questa continua ad essere la nostra prospettiva, una prospettiva costitutivamente estranea a logiche egemoniche, perché allergica ad ogni forma di potere. E di contropotere.

La strada da fare è tanta. Il conflitto, quello vero, lo agiamo giorno dopo giorno nei territori dove viviamo e che attraversiamo. E ne conosciamo la difficoltà.
Il Primo Maggio sempre più gente va a lavorare.
Questa è la vera sconfitta che noi tutti abbiamo patito quest’anno: pochi hanno scioperato, perché le reti di sostegno a chi lotta sono troppo deboli, perché la divisione tra sfruttati ha aperto solchi profondi, perché la rappresentazione di un altro futuro, come di un AlterExpo deve ancora fare breccia nei cuori e nelle menti di tanti con cui, nei nostri quartieri, facciamo un pezzo di strada insieme.

I compagni e le compagne della Federazione Anarchica Torinese

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Cie di Torino. Una sigaretta spenta accende la rivolta

IMMIGRAZIONE: CROTONE; SCONTRI CON CC, BLOCCATA SS 106Martedì 12 maggio. Una mattina come tante al CIE di corso Brunelleschi. I reclusi non hanno l’accendino: troppe volte hanno innescato gli incendi che hanno bruciato le sezioni della prigione per senza carte di Torino.
Di solito i prigionieri chiedono da accendere ai militari. Ieri mattina niente accendino, ma insulti e provocazioni. La tensione cresce, quelli dell’area Bianca rifiutano il cibo e lo buttano oltre le recinzioni, nell’area Rossa un ragazzo prova ad impiccarsi.
Nel primo pomeriggio arriva la celere e usa il manganello: diversi reclusi finiscono in infermeria.
Nell’area Verde viene dato alle fiamme un materasso, alcuni rifiutano la cena, altri salgono sul tetto. Tre immigrati portati via nel pomeriggio probabilmente sono stati arrestati.
Per tutta la notte la celere rimane schierata con chiaro intento intimidatorio, vengono fatte alcune perquisizioni ed alcuni salgono sul tetto.

Il CIE è una polveriera. Non bastano né le promesse né le minacce del direttore del CIE Emilio Anello della cooperativa Aquarinto a calmare le acque.
Questa volta ad incendiare il clima è bastata una sigaretta rimasta spenta.

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Libia. Il Grande gioco di Haftar

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L’attacco dell’esercito del generale libico Haftar ad un mercantile turco che si dirigeva verso un porto del paese africano sancisce un salto di qualità nel conflitto iniziato con l’intervento occidentale e la morte del raiss Gheddafi nel 2011. Haftar, ufficiale di Gheddafi poi passato all’opposizione e risieduto a lungo negli Stati Uniti dove ha collaborato a lungo con la CIA ed il Dipartimento degli Esteri del paese americano, sostiene che la nave turca si dirigesse verso Derna, porto libico sotto il controllo dei salafiti proclamatisi alleati dell’Isis, eventualità che il governo e l’armatore turco smentiscono.

Dietro questo atto di aggressione c’è la guerra per procura che si muovono Turchia e Qatar i quali appoggiano i Fratelli Musulmani insediati al governo a Tripoli, e Arabia Saudita ed Egitto che fiancheggiano il governo uscito dalle elezioni libiche del 2012 e che si proclama laico ma soprattutto nemico dei Fratelli musulmani. L’Egitto, da parte sua ha cambiato radicalmente posizione dopo il colpo di stato che ha abbattuto il Presidente Morsi dei Fratelli Musulmani ed ha insediato al potere il generale Al Sisi, schieratosi con l’Arabia Saudita.

In altre parole l’azione di ieri potrebbe essere inquadrata dentro la guerra che le due coppie di potenze dell’area sunnita del mondo mussulmano mediorientale si stanno muovendo su più scacchieri in questo momento: Africa del Sahel, Libia e Siria. Più in generale si tratterebbe di un conflitto per l’egemonia nel mondo arabo in vista di uno scontro più generale con l’Iran, potenza emergente dell’area e stato in prudente ma deciso avvicinamento verso gli Stati Uniti.

Bisogna anche ricordare che Haftar ha agito probabilmente anche per impedire la costituzione di un governo di unità nazionale tra i tripolini filo-turchi (e qatarini) e il parlamento di Tobruk (amico di Egitto e sauditi). Il loro possibile riavvicinamento vorrebbe dire che i due blocchi sunniti hanno trovato un accordo che non potrebbe che escludere proprio Haftar che si è presentato come salvatore della patria e che affida alla vittoria militare le sue chance di controllare l’intero paese.

Non è da escludere nemmeno che il generale libico agisca per conto di Washington che, in pieno sganciamento dal Medio Oriente, non vede di buon occhio la formazione di un blocco sunnita (che avrebbe anche l’appoggio di Israele – si vedano i boatos su di un accordo tra il paese ebraico e Hamas ormai passata in quota saudita – perchè quest’alleanza sarebbe necessariamente diretta contro Teheran e questo porterebbe alla continuazione dell’instabilità nell’area.

Area dalla quale gli americani non vedono l’ora di sganciarsi come dimostrano le tensioni sempre più forti tra Washington da un lato e Israele e Arabia Saudita dall’altro. Il costo del mantenimento dell’intervento americano in Medio Oriente è sempre più alto e oggi, dopo lo sganciamento dal petrolio saudita, sempre meno giustificato per un’amministrazione poco condizionata dalla lobby petrolifera e da quella dell’industria delle armi, da sempre favorevoli all’alleanza con Ryad e Tel Aviv e alla presenza USA in Medio Oriente.

Non si deve dimenticare infine che il bombardamento del mercantile turco avviene all’indomani delle ritrovate velleità europee (a guida italiana) di intervento in Libia. Tali velleità si basano sull’ipotesi di una ritrovata unità nazionale libica e della fine delle ostilità tra Tobruk e Tripoli. Eventualità, come abbiamo visto, considerata assolutamente negativa tanto da Haftar che da Washington.

Ascolta la diretta con Stefano dell’info di Blackout

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Processo del compressore. Chiesti cinque anni e mezzo per Francesco, Graziano e Lucio

no-tav-675Il PM Padalino ha chiesto 5 anni e mezzo di reclusione per Francesco Lucio e Graziano, accusati di aver partecipato al sabotaggio della notte tra il 13 e il 14 maggio 2013 al cantiere Tav di Chiomonte.

Era la seconda udienza del processo a loro carico iniziato il 22 aprile.

Per questo stesso fatto sono stati condannati a tre anni e mezzo di reclusione altri quattro No Tav, che ora si trovano ai domiciliari. Francesco, Lucio e Graziano sono invece ancora in carcere in regime di alta sorveglianza, nonostante, anche per loro, sia caduta l’accusa di terrorismo. I PM Andrea Padalino e Antonio Rinaudo hanno fatto ricorso contro i pronunciamenti della corte d’assise per e della Cassazione che hanno negato la sussistenza dell’accusa di attentato con finalità di terrorismo, avanzata dai due PM con l’elmetto.

L’udienza di oggi, come quella precedente, vi è svolta a porte chiuse, perché i tre no tav hanno scelto il rito abbreviato. Oggi si è chiusa la requisitoria dei PM e ci sono state le arringhe degli avvocati.
Qualche giorno fa è stato impedito ad Eugenio Losco, uno dei difensori, di incontrare i propri assistiti, messi in quarantena per una supposta scabbia.
Di certo ci sono le pessime condizioni igieniche delle celle del carcere delle Vallette, dove sono stati trasferiti dopo una lunga detenzione in regime di alta sorveglianza a Ferrara.
Il 27 maggio è prevista la sentenza.

Ascolta l’intervista con l’avvocato Losco dell’info di Blackout prima dell’inizio dell’udienza

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Chiomonte. Polizia in gabbia

chiomonteVenerdì 8 maggio. Alla merenda sinoira ai cancelli che chiudono strada dell’Avanà poco dopo la centrale Iren partecipano decine di No Tav. Siamo lontani dal cantiere ma la strada e le vigne sono chiuse dal 27 giugno del 2011, quando le truppe dello Stato buttarono giù le barricate e, dopo una lunga resistenza, occuparono il territori della Libera Repubblica della Maddalena.

Come ogni venerdì si gioca alle bocce quadre, si bevono si mangiano le cose che ciascuno ha deciso di condividere. Un pizzico di Libera Repubblica che torna a vivere ogni mercoledì a mezzogiorno e ogni venerdì tra il declinare del pomeriggio e la prima serata.

Il tempo è bello, si sta bene insieme. Dopo la consueta, sonora battitura ai cancelli e sul guardrail della strada, le forze del disordine hanno una brutta sorpresa. I cancelli non si aprono più: gli uomini e le donne in divisa e quelli della Digos, la polizia politica, sono prigionieri della loro stessa gabbia.

Le leggende della Val Susa narrano di grossi bulloni, schiuma riempitiva e cori di scherno.
I maligni sostengono che i tutori del disordine ci hanno messo un po’ ad uscirne fuori.

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Allegria! La scuola in un quiz

aula-deserta-222x160Il 12 maggio si è svolto lo sciopero contro le prove Invalsi nella scuola superiore. Lo sciopero è stato sostenuto da tutto il sindacalismo di base e da numerose organizzazioni e collettivi studenteschi, ma non ha visto l’adesione o l’indicazione di sciopero da parte di nessuno dei sindacati “maggiormente rappresentativi” che pure hanno proclamato, nella giornata dello scorso 5 maggio, la loro contrarietà al ddl Renzi-Giannini.
Eppure la valutazione è uno dei punti essenziali del disegno di legge, che ribadisce con forza, tra l’altro, il ruolo dell’Invalsi.
L’Invalsi è un’agenzia convenzionata con il Ministero dell’Istruzione, che svolge attività di predisposizione di test e di valutazione del sistema scolastico di cui vengono definiti gli standard di rendimento. i test si caratterizzano in modo assolutamente negativo sotto il profilo didattico, perché, seguendo il mito fabbrichista della misurazione oggettiva, propongono le medesime prove (italiano e matematica) in un liceo classico e in una scuola professionale, perché escludono abilità non standardizzate come quelle derivanti dalla presenza di studenti stranieri o in situazione di handicap, perché considerano solo modalità fisse e schematiche di ragionamento.
Ma ovviamente l’Invalsi ha anche altri risvolti e finalità. Attraverso questa presunta rilevazione degli apprendimenti si punta a valutare le scuole e i singoli docenti; non più per l’obiettivo, inizialmente propagandato, di dare finanziamenti alle scuole in linea con lo standard e premi stipendiali ai docenti meritevoli: questo avrebbe comportato investimenti; molto meglio attivare il procedimento opposto e utilizzare la valutazione Invalsi per lasciare al palo le scuole di serie B e i docenti che si rivelino asini, magari perché insegnano a ragionare invece che a fare crocette. Quindi in un’ottica di istruzione intesa come merce, l’Invalsi punta a valutare innanzitutto tutto la produttività, ovviamente quella più funzionale alle esigenze del mercato e alla logica dell’autoritarismo.
Ed è questa manovra, insieme a quella più complessiva, che va contrastata con decisione.

Il ddl sulla buona scuola è al vaglio della commissione Affari costituzionali dopo il via libera in commissione cultura, mentre il 18 maggio dovrebbe approdare nell’aula di Montecitorio.

Le ultime modifiche riguardano il ruolo del preside manager che, a propria discrezione, potrà assumere i docenti, ma non potrà più premiarli a proprio piacimento. A decidere i più meritevoli sarà un apposito comitato, ancora un mistero i criteri che verranno utilizzati, anche se le prove invalsi dovrebbero essere lo strumento principe. Una toppa peggiore del buco secondo i sindacati di base che rilanciano la lotta con la proposta del blocco degli scrutini.

I sindacati di base contestano il “nucleo di valutazione” assunto da Renzi ma proposto dai sindacati di Stato, perché di fatto consegna ulteriori poteri ai potentati locali.

L’info di Blackout ne ha parlato con Patrizia dell’Unicobas, insegnante a Livorno.

Ascolta la diretta

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8 maggio 1945. Guerra finita, nazi-fascisti sconfitti. Ma in Algeria non sembra…

8-maiIn occasione del 70esimo anniversario della fine della seconda guerra mondiale, il blog La Bottega del Barbieri ha voluto ricordare la prima strage coloniale della Francia di De Gaulle.

Ascolta l’intervista all’autore dell’articolo, Karim Metref, torinese di origine algerina.

Di seguito il suo articolo:

L’8 maggio 1945 è festeggiato in tutto il mondo nordoccidentale come la fine della seconda guerra mondiale. La vigilia, sul tardi, era stata diffusa la notizia della resa: l’esercito tedesco aveva ufficialmente depositato le armi, ovunque. Al mattino scoppiarono festeggiamenti in tutta l’Europa occidentale e negli Stati Uniti. In Unione Sovietica quando giunse la notizia della resa dei tedeschi era già l’8 e quindi i festeggiamenti della fine della guerra furono organizzati il 9 maggio. L’incubo era finito per l’Europa. Ma non era così per tutto il mondo.
L’Algeria era a quell’epoca «territorio francese d’oltremare» come si dice ancora per la Nuova Caledonia o per la Guiana. L’amministrazione coloniale di Algeri prese subito la parte del governo collaborazionista di Vichy. Durante il regno del generale Pétain l’ordine coloniale già molto ingiusto divenne ferreo. Gli indigeni erano merce a disposizione del colono. Ogni voce di dissenso era soffocata. Quando nel 1942 sbarcarono in Algeria gli statunitensi, l’amministrazione coloniale salì subito sul carro del più forte e rientrò sotto l’ala protettrice dell’alleanza. Ma la morsa sulla popolazione indigena non si alleggerì, anzi. Centinaia di migliaia di ragazzi furono mobilitati per andare a combattere. De Gaulle non avendo truppe di «veri» francesi al seguito, si inventò un esercito francese fatto principalmente di marocchini, senegalesi e algerini. Carne da macello da mandare allo sbaraglio senza troppi rimorsi. I suoi pochi soldati bianchi se li teneva stretti per l’ingresso trionfale in ogni città liberata dai combattenti africani.
Oltre alla partenza di molti uomini per il mattatoio europeo, le popolazioni algerine subirono tutto il peso dello sforzo bellico francese. I magri raccolti (ricavati grazie al lavoro di vecchi, donne e bambini) e gli animali erano requisiti e mandati verso la metropoli per sfamare la popolazione stremata dal 4 anni di conflitto ad altissima intensità.
Durante l’incredibile inverno del 1945, l’isolamento a causa delle nevicate eccezionali, la fame, il freddo e le malattie spazzarono via migliaia di persone nelle zone montuose del Nord Est del Paese. Continued…

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Torino. Corteo antifascista a Mirafiori e striscione all’occupazione razzista di via Pinelli

DSCN0028“Solidarietà ai rom. Case per tutt*. Morte al fascio”. Questo striscione è stato appeso in serata ai cancelli dell’ex scuola di via Pinelli. L’edificio è stato occupato dai razzisti di Fratelli d’Italia, che rivendicano la casa solo per gli “italiani”. E’ la seconda occupazione dei fascisti di Fratelli d’Italia, impegnati da qualche anno a soffiare sul fuoco della guerra tra poveri, tentando di contrapporre torinesi ad altri torinesi, che, pur nati in luoghi diversi, vivono nella città capitale per sfratti e sgomberi.
DSCN0019Un’operazione con le gambe corte, perché è sempre più chiaro che i padroni, che lucrano sulle vite di tutt* non badano al colore della pelle, ma solo a quello dei soldi.

Difficile che le operazioni demagogiche della banda capeggiata da Maurizio Marrone facciano dimenticare le spese pazze dei consiglieri regionali di “Fratelli d’Italia”, tra borsette di lusso, cene, e consulenze sull’immagine.

antifa1Lo stesso striscione era stato aperto dagli attivisti di “Gattorosso Gattonero” al corteo antifascista che nel pomeriggio era partito da piazza Caio Mario per contrastare l’ennesima iniziativa dei comitati di “cittadini” di via Artom, che per la terza volta in pochi mesi avevano annunciato un corteo a Mirafiori contro rom, immigrati, prostituzione e spaccio.

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L’obiettivo esplicito è la cacciata dei rom da piazza Caio Mario, dove si erano rifugiati dopo la fuga da via Artom, dove i fascisti soffiavano sul fuoco dell’odio contro di loro.
Alla fine dello scorso anno per ben due volte questo comitato nato sotto la tutela di Forza Nuova era sceso in piazza, senza troppo successo ma con una buona copertura mediatica. Non erano mancati antirazzisti ed antifascisti che si erano messi di mezzo, obbligandoli ad una ritirata strategica.

Quello del 9 maggio è stato n ennesimo flop. Nonostante all’iniziativa avessero dato la propria adesione Forza Nuova, Casa Pound, Fratelli d’Italia, Forza Italia i fascisti erano una quarantina e non si sono mossi dall’angolo di corso Traiano dove avevano aperto un gazebo, protetto da centinaia di uomini e mezzi della polizia, che hanno bloccato tutte le strade che consentivano l’avvicinamento ai fascisti.

DSCN0009Gli antifascisti erano circa 250 e hanno attraversato le strade del quartiere, raggiungendo il mercato di via Vigliani, dove è stato fatto un volantinaggio informativo, prima di proseguire nel corteo.

Di seguito il volantino di Torino Antifascista:

DSCN0022“Contro fascismo, razzismo e sfruttamento: solidarietà e auto-organizzazione!

Nella violenta fase di crisi neoliberista in cui viviamo da anni, non riusciamo più a rispondere a bisogni fondamentali: casa, giusto salario, reddito, dignità, futuro. Veniamo sfruttati, sfrattati, ridotti alla fame, privati dei servizi, i nostri quartieri dati in pasto a speculatori. Da un lato si dilata il divario tra i pochi ricchi e i molti DSCN0024poveri, tra chi decide e chi è costretto a subire; dall’altro, gli stessi capitalisti e politicanti che ci impoveriscono, cercano di mettere noi sfruttati gli uni contro gli altri, per distogliere l’attenzione dalla guerra di classe che portano avanti sulla nostra pelle. La “guerra tra poveri” è un’arma basata su un’ideologia nazionalista ed interclassista (“siamo tutti italiani”), che i nostri veri nemici – padroni e istituzioni – usano per farci identificare con loro e farci odiare tra noi. Non cadiamo nella trappola!

qntifa 5L’obiettivo dei sedicenti “comitati di cittadini” sostenuti dagli stessi partiti fascisti e corrotti – Forza Nuova, Fratelli d’Italia e Forza Italia – che da anni si intascano i nostri soldi e uccidono il nostro futuro, è quello di ingannarci con gli strumenti di chi comanda: il razzismo e la paura. Vogliono convincerci che il problema erano ieri “i meridionali”, oggi “i rom”, “gli immigrati”, “la prostituzione”, “lo spaccio”, mentre nei nostri quartieri il problema reale è trovare una risposta autonoma ai nostri bisogni. Continued…

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Ho bruciato il tricolore. 11 condanne per vilipendio

fuoco_al_tricoloreQuesta mattina il tribunale di Torino ha condannato 11 antimilitaristi.
Nella sentenza della giudice Zanetti pene tra i 1.000 e i 1.800 euro di multa per vilipendio alle forze armate.
Due mesi di reclusione all’anarchico che ha dato alle fiamme una bandiera italiana.
Il 4 novembre del 2009, il giorno che lo Stato italiano dedica alle forze armate, un plotone di soldati caricati a molla, attraversò il centro e sbucò in piazza Castello, dove, come ogni anno, c’era la cerimonia dell’ammaina bandiera.
4_novembre_festa_degli_assassiniDi fronte al monumento ai Cavalieri d’Italia una bandiera italiana venne data alle fiamme tra gli applausi di una piccola folla accorsa intorno al monumento.
Oggi per quell’azione simbolica lo Stato, la cui sacralità non può essere irrisa, ha presentato il conto. Lo stesso Stato che quattro mesi fa sfilava nel centro di Parigi con il cartello “Je souis Chalie”. La libertà è un concetto a geografia variabile.
La nostra solidarietà al nostro compagno Emilio e agli altri antimilitaristi colpiti dalla repressione.

plotone%20di%20automiDi seguito la dichiarazione con cui Emilio, rivendica il suo gesto:
Ho bruciato la bandiera italiana
Era il 4 novembre 2009. Ogni anno in quella giornata lo Stato Italiano celebra quell’immane carneficina che fu la prima guerra mondiale. Quando ero bambino era la festa della vittoria, poi divenne festa delle forze armate. La festa degli assassini. Assassini in divisa, con fanfare e retorica, con insegne e bandiere, assassini che lo Stato trasforma in eroi.
e%20la%20bandiera%20bruciaLa bandiera italiana, simbolo di un paese in guerra, simbolo di quell’infamia che si chiama amor patrio, è solo un pezzo di stoffa. In nome di quel pezzo di stoffa uomini e donne vestiti di una divisa hanno licenza di uccidere, bombardare, torturare, stuprare.
foto%20ricordoSi chiama guerra. Oggi la chiamano missione umanitaria, nel ventennio era invece un’impresa civilizzatrice.
L’umanità e la civiltà della guerra ce le raccontano i corpi massacrati dai gas dei libici e degli eritrei, gli impiccati della Cirenaica, i fucilati del villaggio greco di Domenikon, i campi di concentramento italiani dell’isola di Rab. L’umanità e la civiltà della guerra ce la raccontano gli afgani bombardati, mortevessati, umiliati, ce la raccontano i corpi dei prigionieri somali torturati con gli elettrodi dai parà della Folgore, le carni martoriate della ragazza somala stuprata da eroi italiani con un razzo illuminante.
L’umanità e la civiltà della guerra ce la raccontano i profughi e migranti speronati in mare dalla vedetta militare italiana Sibilla, gli uomini donne bambini affogati nel Mediterraneo, cacciati a forza verso l’inferno da cui venivano.
Il tricolore sventola oggi come ieri quando le truppe dello Stato reprimono le popolazioni ribelli del nostro paese. C’era una bandiera bianca rossa verde alla testa delle truppe che nel 1898 cannoneggiavano il popolo di Milano in rivolta per il pane, c’é una bandiera italiana sulle galere e sui CIE, dal 27 giugno del 2011 c’è un tricolore sul piazzale della Maddalena, sgomberato ed occupato dalle truppe dello Stato, le stesse truppe che combattevano in Afganistan.
Le bandiere nazionali sventolano alla testa degli eserciti che si combattono per il controllo di un pezzo di terra, per il dominio, per l’accaparramento di risorse che potrebbero essere di tutti. Le guerre alimentano gli affari, affari di morte. Il capitalismo vive della distruzione, vive della produzione e del commercio di armi, prospera nelle terre occupate, nei paesi distrutti.
Le bandiere nazionali sventolano sui confini che dividono gli uomini, righe di nulla su una mappa che segnano il destino di chi nasce di qua o di là.
Io sono anarchico. La mia patria è il mondo intero, nella mia mappa ci sono laghi e montagne, fiumi e città, ma nessun confine, nessuna barriera, nessuna bandiera che non sia quella di un’umanità affrancata dal dominio, dagli eserciti, dalle guerre.
Per questa ragione il 4 novembre del 2009 a volto scoperto di fronte a tutti – poliziotti compresi – ho dato alle fiamme il tricolore.
So bene che per il codice penale della Repubblica italiana questo è un reato. Chi dice la propria su istituzioni e simboli investiti dall’aura della sacralità, chi irride l’esercito o brucia una bandiera finisce in tribunale.
Lo Stato fa il gioco degli innocenti e dei colpevoli. Non è il mio gioco, perché quello che per lo Stato è un reato per me è espressione di libertà e dignità. L’onore degli eserciti, la santità della bandiera, sono il mezzo per trasformare una ginnastica di morte in attività onorevole e ben pagata. È un’operazione che richiede riti e sacerdoti. Giudici e tribunali per chi non ci sta.
Alla faccia degli altisonanti principi che sancirebbero la libertà di dire la propria.

Nulla di cui stupirsi. Ammazzare, torturare, violentare, occupare città e paesi è una pratica normale degli Stati, che nella maggior parte delle persone suscitano orrore ed indignazione.
Lo Stato mi condanna per aver dato alle fiamme il simbolo che accompagna chi uccide in suo nome.
Lo Stato è la massima espressione della violenza, una violenza brutale e legalizzata.
Nel mondo che voglio non c’è posto per gli stati, i confini, gli eserciti, le guerre.”

Federazione Anarchica Torinese – FAI

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Torino. Le due piazze del Primo Maggio

2015 torino primo maggio (00)Un tempo il simbolo della città era la Mole. Un edificio pazzo che doveva essere una sinagoga ma divenne un fiasco vuoto. Solo da ven’anni l’hanno riempito con il museo del cinema, la vecchia macchina delle illusioni. I turisti fanno la fila e la Torino targata PD ci racconta la favola di una città che sopravvive al dopo Fiat.

2015 torino primo maggio (3)

I torinesi invece han fatto la coda per visitare il grattacielo di Intesa- SanPaolo del senatore dem e archistar genovese Renzo Piano. Una scheggia di ghiaccio tra il tribunale e il palazzo dell’ex Provincia, il simbolo del legame tra l’amministrazione comunale e regionale e la Banca. Il comune concesse il terreno per un pugno di soldi, la Banca coprì il buco nelle casse del comune, Chiamparino venne rieletto sindaco, poi si parcheggiò nella poltrona di presidente della Compagnia di SanPaolo per approdare a quella di 2015 torino primo maggio (5)governatore regionale. Torino non venne travolta dalle inchieste che hanno segnato la gestione di Expo a Milano dopo il passaggio di consegne dal centro destra agli arancioni di Pisapia. Ma, nonostante tutto, la città non è del tutto pacificata.
In questo maggio il centro è sottosequestro per la Sindone, i 2015 torino primo maggio (6)commercianti non fanno affari e si lamentano., il sindaco post comunista replica che non si vive di solo pane e per il Primo Maggio vola a Milano per i manicaretti all’inaugurazione dell’Expo, grande abbuffata collettiva per palazzinari e coop rosse. Il grande baraccone mai-finito che già crolla a pezzi è il simbolo di una classe politica che non riesce ad ancorarsi 2015 torino primo maggio (2)neppure nell’oggi più effimero.
Anche il governatore Chiamparino si è lasciato alle spalle le rovine della Torino olimpica per un lungo weekend di vacanze.
I maligni sospettano che nessuno dei due avesse voglia della consueta bordata di fischi della piazza del Primo Maggio torinese.
2015 torino primo maggio (10)Quest’anno il PD aveva chiesto ai sindacati di proteggerlo, ma Cgil, Cisl e Uil non ne hanno voluto sapere. E’ finita con i picchiatori prezzolati dell’Hydra in pettorina PD schierati in piazza e la polizia che ha diviso in due il corteo per tenere lontani i contestatori.
2015 torino primo maggio (1)Il solco tra la piazza istituzionale e quella delle lotte sociali è sempre più profondo.
Lo spezzone rosso e nero ha attraversato il centro cittadino aperto dallo striscione “né Stati né padroni. Azione diretta”.
Nei vari interventi dal camion c’è il senso di una giornata di sciopero, lontana dalla retorica 2015 torino primo maggio (7)della “festa”, che sindacati e sinistra istituzionale vorrebbero imporre, sradicando dall’immaginario il retaggio di lotta che accompagna questa giornata sin dal 1886.
Dal volantino distribuito in piazza: “Ci raccontano che viviamo nel migliore dei mondi possibili, che liberismo e 2015 torino primo maggio (9)democrazia garantiscono pace, libertà, benessere. Ci raccontano le favole e pretendono che ci crediamo. Intanto piovono pietre. (…)
Le leggi condannano gli anziani ad una vecchiaia senza dignità, i giovani alla precarietà a vita. Con il contratto a tutele crescenti i nuovi assunti avranno contratti a tempo indeterminato. Una bella favola. I padroni per tre anni non pagano contributi e possono licenziarti a piacere. Se il licenziamento è illegittimo ti danno due soldi e via. La precarietà cambia solo nome e diventa normale per tutti. (…)
A Milano l’Expo mette in scena l’Italia ai tempi di Renzi, tra cantieri miliardari e morti di lavoro, agro business e green economy, lavoro gratuito e servitù volontaria, sfratti e polizia, gentrification e colate di cemento.
Un mostro che affama il pianeta, lo desertifica, lo trasforma in una discarica.
Il suo modello è Eataly, il supermercato MangiaItalia, dove precarietà e sfruttamento sono la regola.
Chi si fa ricco con il lavoro altrui non guarda in faccia nessuno. Chi governa racconta la favola che sfruttati e sfruttatori stanno sulla stessa barca e elargisce continui regali ai padroni.
I padroni si sentono forti e sono passati all’incasso.
Renzi vuole la fine delle lotta di classe, la resa senza condizioni dei lavoratori. (…)
C’è chi non ci sta, chi si ribella ad un destino già scritto, chi vuole riprendersi il futuro. (…)
Cambiare la rotta è possibile. Con l’azione diretta, costruendo spazi politici non statali, moltiplicando le esperienze di autogestione, costruendo reti sociali che sappiano inceppare la macchina e rendano efficaci gli scioperi.
Un mondo senza sfruttati né sfruttatori, senza servi né padroni, un mondo di liberi ed eguali è possibile. (…) Tocca a noi costruirlo”.
Lo spezzone anarchico si conclude in piazza San Carlo con un ultimo intervento.
Poi via di corsa verso Milano per il corteo No Expo. La giornata sarà ancora lunga.

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Primo Maggio. Espropriamo i padroni!

poveri piediniCi raccontano che viviamo nel migliore dei mondi possibili, che liberismo e democrazia garantiscono pace, libertà, benessere. Ci raccontano le favole e pretendono che ci crediamo. Intanto piovono pietre.
Nelle nostre periferie tanti non ce la fanno a pagare il fitto e il mutuo e finiscono in strada. A Torino si moltiplicano gli sfratti, mentre ci sono migliaia di appartamenti vuoti.

Il governo dice che non ci sono soldi.
Mente.
I soldi per le guerre, per le armi, per le grandi opere inutili li trovano sempre. Da anni aumenta la spesa bellica e si moltiplicano i tagli per ospedali, trasporti locali, scuole.
Non vogliono spendere per migliorare le nostre vite, perché preferiscono investire in telecamere e polizia. Continued…

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Expo. Sgomberi, repressione e lavoro nero

lavoro_neroLa tensione sale a Milano in vista dell’Expo. Al punto che si sta verificando un effetto boomerang: decine di scuole hanno deciso di cancellare le visite già programmate, perché spaventate dai continui allarmi per la sicurezza.

Questa mattina la polizia ha sgomberato alcune case al Giambellino, effettuando perquisizioni alla ricerca di armi. C’é stato un arresto e numerosi fermi di attivisti francesi. Un chiaro segnale intimidatorio prima delle giornate No Expo in programma dal 30 aprile al 3 maggio, il cui fulcro sarà la manifestazione del Primo Maggio nel centro di Milano.

E’ di due giorni fa la notizia – diffusa dal Corriere della Sera – che nei cantieri Expo c’è un ingresso non ufficiale, un cancello appena accostato, dove entrano nelle prime ore del mattino, i lavoratori in nero assunti dalle aziende e dalle cooperative che hanno avuto un subappalto del subappalto per Expo. La corsa contro il tempo è sempre più forsennata.

Ai tempi in cui si mangia più il marchio che il cibo, quest’Expo all’insegna dell’agrobusiness, non può essere rimandata. Il primo ministro Matteo Renzi ci si gioca la faccia.

Così sul fronte del lavoro si corre come topolini inseguiti dal gatto, per quattro soldi e senza un contratto.

Sul fronte delle contestazioni sono partite, oltre ad una campagna mediatica poco accorta, le misure di polizia.

L’ampia rete di movimento, che ha costruito l’appuntamento di questo lungo fine settimana, continua sulla sua strada.

L’appuntamento il Primo Maggio dalle 14 in piazza XXIV maggio.
L’info di radio ne ha parlato con Massimo, un compagno di Milano

Ascolta la diretta

 

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Grecia. Sull’orlo del baratro

Tsipras-varoufakisLa situazione greca procede drammaticamente verso l’epilogo. Tsipras sostituisce Varoufakis come capo delegazione nelle trattative con la ex troika, promuovendo un uomo più direttamente legato al Primo Ministro e meno inviso ai Ministri delle Finanze dell’Eurogruppo. Al di la’ dei nomi, sui quali la stampa europea si è scatenata nel tentativo di dimostrare che l’esperimento Syriza è già fallito, la situazione greca è sempre peggiore. Questo perché il debito greco nei confronti dell’estero è legato a prestiti contratti direttamente con l’FMI, debiti di fronte ai quali non può nemmeno dichiarare il default, pena l’isolamento commerciale assoluto del paese. Per intenderci rischierebbe il sequestro di ogni nave che attraccasse in un porto estero e il blocco di ogni flusso di merci o persone da e verso il paese ellenico. Per questo motivo il governo greco cerca disperatamente di arrivare ad un accordo con l’Europa che scongiuri il default che renderebbe ancora più drammatica la situazione sociale della popolazione. Nel frattempo Tsipras è costretto a svuotare le casse degli Enti Locali per garantire la normale amministrazione, cioè il pagamento di stipendi e pensioni.

La ristrutturazione del debito greco varata nel 2010 ha consegnato al paese una situazione pesantissima; il debito, infatti, è stato ridotto in questi anni di lacrime e sangue di non più del 10% del suo totale restando solidamente ancorato a un meno 330 miliardi sul bilancio dello stato.

La ragione di questo è da ricercarsi nel tipo di ristrutturazione attuata nel 2010 che ha visto l’UE ed il Fmi esclusivamente interessate a salvare le banche tedesche e francesi, proprietarie di gran parte del debito pubblico del paese. L’accordo permise a queste ultime di sfilarsi dalla pesante situazioni scaricandola sui paesi dell’Unione tra cui il nostro che dal 2010 al 2015 ha aumentato la sua esposizione verso la Grecia da 7 a 40 miliardi di euro.

D’altra parte la soluzione possibile per il dilemma greco sarebbe quella per cui il denaro necessario a pagare i conti potrebbe essere preso dalla parte milionaria in euro della stessa popolazione greca che, in questi anni di crisi ha visibilmente aumentato il suo reddito.

Lo scoglio vero da questo punto di vista è chiaramente politico: Tsipras, infatti, dovrebbe riuscire a tassare la chiesa ortodossa ellenica – il maggior proprietario immobiliare del paese – e gli armatori greci, il principale gruppo dominante del paese. La tassazione degli armatori è però vietata dalla costituzione del paese e il suo divieto fu il pedaggio che il paese dovette pagare per la fine della dittatura dei colonnelli nel 1974. D’altra parte Tsipras, al di la dei gesti simbolici come il mancato giuramento nelle mani del vescovo di Atene, non sembra intenzionato a colpire i possessi della chiesa.

L’info di Blackout ne ha parlato con Francesco.

Ascolta l’intervista

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Profughi. Un buon affare

Taranto, arrivo dei profughi libici da LampedusaChe i profughi, gli immigrati, i rom siano un buon affare ormai lo sanno tutti. Dopo l’inchiesta su Mafia Capitale è noto che “rendono più gli zingari che la cocaina”.

I profughi costano in media 40 euro al giorno. Questi soldi soldi non finiscono nelle loro tasche ma nelle casse delle cooperative e strutture di accoglienza, che tranne piccole eccezioni ci lucrano offrendo in cambio poco o nulla, anche quando non entrano in campo gli appetiti delle mafie.

Il grande business dell’accoglienza è dovuto in buona parte ai ritardi con cui lo Stato risponde alle richieste di asilo. Secondo la legge non dovrebbero passare più di tre settimane. Nei fatti passa anche un anno prima della risposta. Poi ci sono gli eventuali ricorsi.

In questo tempo il profugo non può lavorare, se non in nero. E’ in un limbo.

Oggi in Italia sono 81mila i migranti che si trovano in strutture d’accoglienza. Sessantacinquemila hanno presentato domanda di asilo politico, mentre gli altri o hanno status particolari (i bambini per esempio) oppure non hanno ancora fatto domanda. Chi deve decidere se hanno diritto o no — sulla base di una serie di requisiti, primo tra tutti le condizioni del paese di provenienza — sono le 40 commissioni territoriali nominate dal ministero dell’Interno che dipendono dalle Prefetture.

In attesa della risposta i profughi possono essere ospitati nei Cara, i grossi centri per richiedenti asilo, strutture a metà tra la scuola e la prigione. Altri vengono assorbiti nel circuito del sistema Sprar (sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati). Oppure, terza ipotesi, essere ospitati nei Cas, i centri di primissima accoglienza.

Molti non trovano posto da nessuna parte e restano in strada. Invisibili.

E’ il mondo al tempo delle frontiere.

L’info di Blackout ne ha parlato con Federico, un compagno che ben conosce la situazione dei profughi.

Ascolta la diretta

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Salvini. Le Marche non ti vogliono

Matteo-Salvini-Hotel-House-Porto-Recanati_Foto-LB-10Ieri il segretario della Lega Nord Salvini aveva in programma un tour elettorale nelle Marche. Tappe previste: Ancona, Porto Recanati, Macerata. Ovunque è stato respinto da antirazzisti e antifascisti.
Lega Nord e Fratelli d’Italia sono stati attivamente contrastati ai movimenti di opposizione sociale.
Ad Ancona era previsto un comizio nella centrale piazza Roma. Antirazzisti hanno cercato di impedire che venisse montato il gazebo leghista, difeso dalla polizia in assetto antisommossa. Prima dell’arrivo di Salvini la celere ha caricato a freddo per tentare di sgomberare la piazza. Ma la prova di forza non è riuscita. C’é stato un fitto lancio di uova, bottiglie, e tutto quello che capitava. Salvini è stato obbligato a nascondersi con pochi accoliti in una angolo della piazza, nonostante alla prima carica ne siano seguite altre due.
Salvini ha rinunciato alla visita al Piano, un quartiere dove vivono moltissimi immigrati ed è partito alla volta dell’Hotel House di Porto Recanati, che ospita un migliaio di profughi africani.
Ad attenderlo ha trovato un cordone di circa quattrocento persone, in buona parte immigrati, che gli hanno chiuso l’accesso al grattacielo. La polizia ha provato a sfondare senza successo e Salvini si è dovuto ritirare.

Anche a Macerata gli antirazzisti gli si sono parati di fronte. Dure le cariche della polizia che hanno ferito, tre attivisti. Ad uno hanno spaccato la testa.

L’info di Blackout ne ha parlato con Gianfranco, del gruppo Malatesta di Ancona.

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