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Senzapatria. Antimilitaristi ai giardini (ir)reali il 20 settembre

2014 09 11 manif fat antimili 20 b copySabato 20 settembre
ore 15/24
presidio con banchetti, bar, cibo, concerti, performance, interventi, ai giardini reali (corso san maurizio angolo via rossini).

ore 15 banchetti, musica e interventi

ore 17 assemblea antimilitarista
Interventi su F35, business delle armi, occupazione militare del territorio dall’Afganistan alla Val Susa, passando per i CIE e i quartieri popolari di Torino, il paradigma bellico del nuovo millennio, scenari di guerra globale.

Bar e cena benefit lotte antimilitariste

Acolta l’intervista a Stefano Raspa del comitato contro Aviano 2000

…e quella a Domenico Argirò del movimento No F35

ore 21 concerto con
N.N. (agri-punk)
Fasti (indy-sperimentale)

a seguire dj set

L’Italia è in guerra da molti anni. Ne parlano solo quando un ben pagato professionista ci lascia la pelle: un po’ di retorica su interventi umanitari e democrazia, Napolitano che saluta la salma, una bella pensione a coniugi e figli.

È una guerra su più fronti, che si coniuga nella neolingua del peacekeeping, dell’intervento umanitario, ma parla il lessico feroce dell’emergenza, dell’ordine pubblico, della repressione.
Gli stessi militari delle guerre in Bosnia, Iraq, Afganistan, gli stessi delle torture e degli stupri in Somalia, sono nei CIE, nelle strade delle nostre città, sono in Val Susa.
Guerra esterna e guerra interna sono due facce delle stessa medaglia. Lo rivela l’armamentario propagandistico che le sostiene. Le questioni sociali, coniugate sapientemente in termini di ordine pubblico, sono il perno dell’intera operazione.
Hanno applicato nel nostro paese teorie e tattiche sperimentate dalla Somalia all’Afganistan.
Se la guerra è filantropia planetaria, se condizione per il soccorso sono le bombe, l’occupazione militare, i rastrellamenti, se il militare si fa poliziotto ed insieme sono anche operatori umanitari il gioco è fatto. Continued…

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Eni in Nigeria. Soldi e veleni

nigeria_eniMatteo Renzi non ha intenzione di rimuovere i dirigenti dell’ENI, raggiunti da avvisi di garanzia per corruzione in Nigeria, un paese dove l’ENI ha ingenti interessi nello sfruttamento della ricchezza petrolifera del paese. Una ricchezza che rappresenta invece una dannazione per le popolazioni del Delta del Niger, che pagano con la salute le conseguenze dell’inquinamento dell’aria, dell’acqua e del suolo ma non godono in alcun modo dei profitti dell’oro nero.
Le pagine dei giornali hanno dato grande rilievo all’inchiesta che coinvolge i dirigenti del colosso italiano degli idrocarburi, accusati di corruzione per aver pagato qualche satrapo locale per garantirsi posizioni di vantaggio per i propri impianti sia di terra che di mare.
Quasi nulla l’attenzione per le responsabilità dell’ENI nell’avvelenamento del suolo, dell’acqua, dell’aria: le popolazioni del Delta, che vivono di agricoltura e pesca, sono duramente colpite da questa politica criminale.
Nonostante anche Amnesty abbia più volte denunciato le politiche di sfruttamento feroce e senza tutela dell’ambiente e per chi ci vive, i media vi hanno dedicato ben poca attenzione.
Da diversi decenni, le aziende petrolifere, presenti nel delta del fiume Niger in Nigeria – oltre all’Eni, Total e Shell – favorite da un tessuto normativo che non tutela le popolazioni dell’area, hanno fatto il bello e il cattivo tempo.
Eni opera in Nigeria, con la costituzione, negli anni sessanta, di Agip e l’avvio delle sue attività di esplorazione. Le fuoriuscite di petrolio dagli oleodotti gestiti da Eni sono un fenomeno ricorrente. Hanno contaminato i campi coltivati, le falde acquifere, le paludi e i fiumi dai quali le comunità traggono l’acqua per tutte le esigenze della vita quotidiana. Le conseguenze delle fuoriuscite sono aggravate da incendi e ritardi nella bonifica dei siti inquinati.
Nei siti produttivi di Eni sono inoltre presenti le torce di gas, bruciato durante l’estrazione del petrolio. A causa di questa pratica, detta gas flaring, gli abitanti convivono con una polvere nera che si deposita nelle case, sui vestiti e sugli alimenti e in molti lamentano problemi di salute, per effetto degli agenti nocivi e cancerogeni sprigionati da tali torce. La qualità di vita viene inoltre compromessa dal rumore delle torce di gas nonché dall’odore acre e dall’illuminazione che esse producono nell’area circostante ventiquattr’ore su ventiquattro.
Oltre a essere responsabile nei casi in cui l’azienda gestisce direttamente gli oleodotti, Eni lo è anche attraverso la sua partecipazione del 5% alla Joint Venture, costituita con la società statale nigeriana NNPC (Nigerian National Petroleum Company) e con le compagnie petrolifere Elf ed SPDC (Shell Petroleum Development Company): quest’ultima è la società sussidiaria del Gruppo Royal Dutch Shell e rappresenta il principale operatore della Joint Venture.
Un importante rapporto del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente sulle conseguenze dell’inquinamento da petrolio nel territorio dell’Ogoniland, una zona del delta del Niger, pubblicato il 4 agosto 2011, ha sottolineato che sebbene la Shell sia la principale responsabile degli effetti negativi degli impatti dell’estrazione di petrolio da parte della Joint Venture, gli altri partner di quest’ultima hanno anch’essi una parte di responsabilità. Eni è consapevole delle gravi mancanze delle operazioni realizzate dalla Joint Venture con la Shell e degli effetti negativi sui diritti umani e sull’ambiente.
Nel dicembre del 2012 la Corte di giustizia della Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale (Ecowas) ha dichiarato il governo nigeriano responsabile per i gravi e ripetuti abusi perpetrati delle compagnie petrolifere e sottolineato l’esigenza per il governo stesso di riportate tali società alle proprie responsabilità.
Un’ipotesi fantascientifica per una classe politica corrotta e legata a filo doppio agli interessi delle multinazionali, cui è permesso usare una propria polizia privata contro le popolazioni che protestano in difesa della propria salute e del territorio in cui vivono. La violenza di questi mercenari al servizio di ENI, Shell e Elf nei confronti di manifestanti inermi, contribuisce ad infittire le fila dei ribelli armati del Mend.

Ascolta l’intervista realizzata dall’info di Blackout con con Luca Saltalamacchia, avvocato che collabora con organizzazioni ambientaliste impegnate in Nigeria.

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Tav. Il bluff di Renzi

renzi-a-chiomonteHanno lavorato per una settimana: il cantiere/fortino di Chiomonte è stato tirato a lucido, le televisioni allertate, i quotidiani amici hanno gestito l’annuncio, la polizia in assetto antisommossa ha bloccato il ponte sul Clarea.
C’erano tutti. Digos, giornali, delegazione europea, e, sebbene non invitati, anche un buon numero di No Tav, che hanno raggiunto i propri terreni in Clarea aggirando il blocco del ponte passando dal sentiero alto.
Renzi all’ultimo minuto da deciso di non venire. Aveva poco tempo e c’erano le nuvole basse. L’elicottero non poteva volare. Tutti gli altri visitatori “illustri” sono passati dalla via maestra delle truppe di occupazione, l’autostrada A32. Lui no. O l’elicottero o niente.
Una foglia di fico che non copre le vere ragioni di un presidente del consiglio che non tollera le contestazioni: anche in questa occasione ha preferito tagliare la corda di fronte ai No Tav che lo aspettavano armati di fischietti e campanacci.
Renzi è Si Tav o No Tav a seconda della convenienza. Nel maggio del 2013, quando ancora l’ipotesi di guidare un governo era lontana, Renzi scriveva nel suo libro-manifesto Oltre la rottamazione: “Altro luogo comune: per creare posti di lavoro è necessario inventarsi l’ennesima grande opera. (…) le grandi opere non sono né un bene né un male in sé. Dipende da dove sono, quanto costano, quanto servono. (…) Non credo a quei movimenti di protesta che considerano dannose iniziative come la Torino-Lione. Per me è quasi peggio: non sono dannose, sono inutili. Sono soldi impiegati male..” (p. 106).
Oggi da presidente del consiglio suona una musica diversa. Ieri ha dichiarato alla stampa: “Mi pare di capire che da parte francese ci sia un problema che riguarda il finanziamento per i prossimi anni – ha detto il premier – ma si procede. (…) Io rispetto le posizioni di chi è contrario, almeno fino a quando non sfociano in atteggiamenti violenti contro le forze dell’Ordine, che voglio ringraziare. Anche per questo è mia intenzione andare al cantiere”.
La posizione del governo francese è chiara: non muoveranno un mezzo se non saranno sicuri di avere il finanziamento europeo del 40%. Renzi sa perfettamente che nemmeno il suo governo può fare a meno di quei soldi, sa anche che le procedure per averli non sono state completate.
Anche per questo motivo, all’ultimo minuto, ha deciso di tornare a Roma.
Pare abbia dichiarato l’intenzione di venire ad ottobre.
I No Tav lo aspetteranno. Pazienti ma decisi. Bugianen.

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No Tav. Tre giorni di lotta tra Torino e la Val Susa

no tav omnia sunt communiaMartedì 16 settembre. Con l’intervento di un consulente della difesa è ripreso a Torino, nell’aula bunker delle Vallette, il maxiprocesso a 53 No Tav alla sbarra per la resistenza allo sgombero della Libera Repubblica della Maddalena e per la giornata di lotta del 3 luglio 2011. Il dibattimento è oramai giunto alle ultime battute e la Procura, rappresentata dal pm Nicoletta Quaglino, intende fare la requisitoria contro i 53 imputati interamente nella giornata del 30 settembre.
Numerosi No Tav erano presenti in aula per dare sostegno attivo ai 53.
Era la prima udienza senza i due PM con l’elmetto, Andrea Padalino e Antonio Rinaudo, cui è stato sfilato il processo sul quale hanno giocato la loro carriera. Sebbene le ragioni della Procura oggi guidata da Armando Spataro siano formalmente ineccepibili – troppi quattro PM per un processo che volge al termine – la decisione di mettere da parte i due PM più esposti mediaticamente ha il sapore agre della bocciatura. Resta in mano a Padalino e Rinaudo il processo contro i quattro attivisti accusati di terrorismo per un sabotaggio al cantiere di Chiomonte il 14 maggio del 2013. Si tratta tuttavia di una patata bollente che rischia di scottare chi se la ritrova tra le mani. Il prossimo 6 ottobre è stata fissata la nuova udienza del Tribunale del Riesame bocciato in maggio dalla sentenza della Cassazione perché l’imputazione di attentato con finalità di terrorismo è stata giudicata inconsistente. In quell’occasione i due PM dovranno riformulare l’accusa con argomenti abbastanza forti da convincere il Riesame a pronunciarsi in senso opposto alla Cassazione. Una strada decisamente in salita.
Il processo contro Chiara, Claudio, Mattia e Nicolò riprenderà giovedì 18 settembre, sempre nell’aula bunker delle Vallette.
Ci saranno anche i No Tav per far sentire la propria solidarietà per attivisti accusati di una pratica rivendicata dall’intero movimento. All’ora di pranzo i No Tav si sposteranno in piazza Nizza per il pranzo e di lì in via Falcone e Borsellino 17b dove c’é la sede di LTF, il general contractor della Torino Lyon, per un pranzo condiviso, un presidio rumoroso e un’assemblea di piazza.

Ascolta l’intervista dell’info di Blackout ad Perino collegato con la radio dall’aula bunker delle Vallette. Perino nei giorni scorsi si è visto recapitare un avviso di conclusione indagini per istigazione a delinquere. Colpevole – come sempre – di non avere peli sulla lingua.

IMG_20140918_172410[1]Aggiornamento al 19 settembre

Qualche centinaio di No Tav ha partecipato all’udienza nell’aula bunker delle Vallette. Pochi momenti di tensione ci sono stati quando la polizia ha tentato di impedire l’ingresso in aula a tutti. Dopo un breve fronteggia mento è stato ripristinato l’ingresso a rotazione.

Dopo un pranzo condiviso in piazza Nizza i No Tav si sono spostati alla sede di LTF in via Falcone e Borsellino 17/b. Di fronte alla sede quasi clandestina della società erano schierata digos e polizia in antisommossa. Dopo un cacerolazo con pentole e fischietti, la giornata di è conclusa con un’assemblea.

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Sardegna. Luoghi a perdere

basi-militariLo scorso 9 settembre, dopo l’incendio scoppiato durante un’ennesima esercitazione militare nel poligono di Capo Frasca, il presidente della Regione Sardegna, Francesco Pigliaru ha dichiarato «Penso che Capo Frasca si possa chiudere». Sul tema delle servitù in materia di servitù militari. «Sono sovradimensionate, un gravame che appare sempre più ingiustificato, anche sul piano operativo», ha detto Pigliaru. Il presidente ha ipotizzato una riduzione di quasi 7mila ettari delle servitù nell’isola, pari al 21% dell’intero onere che al momento pesa sulla Sardegna e proporzionale alla contrazione del personale impiegato.
Il fronte istituzione dell’opposizione a basi e poligoni di guerra in Sardegna punta sulla conferenza Stato/Regioni per raccogliere i consensi dei sovranisti, molto numerosi nell’isola. . Persino L’Unione Sarda dell’imprenditore immobiliarista Sergio Zuncheddu si è impegnato in uma forte campagna mediatica contro le servitù militari.
La stessa manifestazione di sabato 13 a Capo Frasca è stata indetta da formazioni dell’arcipelago stalino/indipendentista ed inizialmente ha raccolto ben pochi consensi. Poi la manifestazione è cresciuta, raccogliendo adesioni molto più ampie e rimettendo in pista una prospettiva antimilitarista.
Oltre a Capo Frasca ci sono altre tre basi: il poligono del Salto di Quirra, quello di Teulada, e la base aerea di Decimomannu.
A Quirra, una sorta di  “zona franca”, lecito e illecito si sono attorcigliati in un nodo, stretto soprattutto dal silenzio militare. Giganteschi cumuli di munizioni, brillati con esplosioni tossiche. Nanoparticelle nocive di missili e bombe, sprigionate nell’aria all’uranio che non hanno risparmiato la natura circostante, né, tantomeno, la salute della popolazione civile, colpita da una straordinaria incidenza di patologie e forme tumorali. Popolazione lotta con le istituzioni: quelle sarde non meno di quelle italiane.
Nei quattro poligoni sardi vengono fatte esercitazioni militari sin dagli anni ’40. Qui la seconda guerra mondiale non è mai finita.
La lunga teoria di morti per tumori e leucemie, bambini e agnelli nati malformati, fondali e terreni pieni di ordigni inesplosi segna l’esistenza di luoghi dove si testano armi, si simulano condizioni di guerra, a discapito della vita e della salute di uomini donne e bambini che vivono nei paesi più vicini. Incalcolabili i costi di bonifiche forse impossibili. Negli Stati Uniti i luoghi scelti per questi giochi di guerra vengono definite “aree sacrificate per l’interesse nazionale”. Luoghi a perdere.

Non c’é mediazione possibile sulle servitù militari, sulle basi e sulle industrie armiere.
Vanno chiuse. Senza se e senza ma.

La manifestazione di sabato 13 a Capo Frasca potrebbe essere una buona occasione per rimettere in pista l’opposizione alla militarizzazione dei territori e delle nostre vite.

Anarres ne ha parlato con Guido Coraddu, anarchico e antimilitarista e sardo.

Ascolta la diretta

Aggiornamento al 14 settembre

Migliaia di persone hanno partecipato alla manifestazione al poligono di capo Frasca, circondando la base e facendo una sonora battitura. In un paio di punti gli antimilitaristi hanno tentato di tagliare le reti.  La polizia schiarata in antisommossa all’interno del recinto è dovuta indietreggiare per sottrarsi al lancio di sassi e fumogeni. Abbattute le reti in diversi punti buona parte dei manifestanti è riuscita ad entrare nella base.
Una manifestazione che, alla vigilia pareva giocarsi all’interno del circuito istituzionale, ha invece aperto una prospettiva di azione diretta popolare.

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Oltre le frontiere. La resistenza delle comunità federaliste e libertarie tra Siria e Iraq

donne curdeLa scorsa settimana la notizia della decapitazione di un giornalista statunitense, il trentunenne Steven Sotloff ha occupato le prime pagine dei giornali, sia pure con enfasi minore rispetto alla decapitazione del collega James Foley, che metteva in scena uno spettacolo comunicativo il cui obiettivo è ben al di là della minaccia agli Stati Uniti, per investire direttamente una più vasta platea internazionale, la stessa da cui provengono i miliziani dell’IS.
La coreografia (la tunica arancio che richiama le tute dei prigionieri di Guantanamo), la demolizione del mito del “nero” Obama e le sue promesse mancate, le minacce all’islam sciita, sono messaggi semplici ma potenti, capaci di dare forza all’immaginario dell’islam radicale.
Sui media main stream ci sono diversi attori: i feroci seguaci del califfo Al Baghdadi, i “curdi”, “l’imbelle” governo iracheno. Più sullo sfondo il regime dell’alawita Bashar el Hassad, contro il quale gli Stati Uniti hanno armato le formazioni islamiste che concorrono alla conquista del paese, il maggior sponsor di Hassad, la Russia putiniana, la Turchia che ha finanziato l’Is.
Il termine “curdi” nasconde più di quanto non riveli. I curdi di cui narrano i media nostrani – diversa è l’informazione negli stessi Stati Uniti – sono quelli della zona dell’Iraq sotto il controllo del PDK di Mas’ud Barzani, alleati con gli Stati Uniti, e “naturali” destinatari delle armi promesse anche dal governo italiano.
Mai entrate nella scena mediatica le formazioni guerrigliere del Rojava (Siria nord orientale) protagoniste della controffensiva che ha liberato numerose zone occupate dell’IS, che, curiosamente, ha interrotto la propria marcia su Baghdad per attaccare le zone curde controllate dalle formazioni libertarie, federaliste e femministe del Rojava e di alcune zone dello stesso Iraq.
Non per caso nel mirino dell’IS è entrato il campo profughi di Makhmur, che da vent’anni ospita curdi sfuggiti alle persecuzioni contro il PKK in Turchia.

Per capirne di più vale la pena ascoltare l’intervista dell’info di Blackout con Daniele Pepino, un compagno che conosce bene le zone curde che stanno sperimentando il confederalismo democratico.

Ascolta l’intervista

Guarda anche un video dove alcune donne raccontano la scelta di entrare nelle YPJ, formazioni di autodifesta popolare, costituite da sole donne.

Di seguito un lungo articolo di Daniele che ci fornisce il lessico essenziale per meglio capire la partita che si sta giocando tra Siria, Iraq. E non solo.
Per la prima volta da decenni il percorso intrapreso in Rojavà narra una storia che apre prospettive che vanno ben al di là delle montagne curde.

Le notizie dal Vicino e Medio Oriente si susseguono a un ritmo incalzante. Il Kurdistan si trova, ancora una volta, nell’occhio del ciclone, dilaniato dall’esplodere delle tensioni tra le potenze regionali che si spartiscono il suo territorio.

Non è semplice, in un simile scenario, fornire un quadro della situazione che non sia immediatamente superato dall’incedere degli eventi. I quintali di notizie, parole, immagini, vomitati dai mass media, invece di chiarire la complessità dello scenario mediorientale, contribuiscono a spargere una confusione che è tutt’altro che casuale.

Perciò ci sembra prioritario – nei limiti di quanto è possibile fare in un breve articolo – provare a fornire qualche strumento interpretativo utile a comprendere le dinamiche in corso con uno sguardo di più lungo periodo rispetto alla cronaca emergenziale del giorno dopo giorno.

Da un lato, è necessario ricordare come quel che accade in Kurdistan (e più in generale in Medio Oriente) sia sempre, anche, il precipitato dell’interazione di forze esterne, a cominciare dagli Stati che ne occupano il territorio, ossia la Turchia, la Siria, l’Iraq e l’Iran (a loro volta, peraltro, veicoli di uno scontro di interessi su scala mondiale).

Dall’altro, è bene sottolineare come ciò non precluda l’esistenza di specifiche dinamiche locali, le quali, anzi, dimostrano sempre più spesso come proprio questi momenti di crisi e disfacimento possano rappresentare le crepe da cui emergono nuovi percorsi di autonomia, rivolta e protagonismo popolare.

L’immagine costruita dal discorso mediatico dominante racconta, sostanzialmente, di una folle guerra di fanatici terroristi musulmani contro i quali l’Occidente è costretto a intervenire (per ragioni umanitarie, ça va sans dire!) appoggiando le uniche forze al momento in grado di opporvisi, ovvero “i curdi”. Per fornire qualche antidoto alle ambiguità e ai silenzi che caratterizzano tale ricostruzione, ci pare utile, in primo luogo, delineare chi sono realmente le forze in campo, cosa rappresentano, quali identità e progettualità incarnano (in particolare nel campo curdo). In secondo luogo [nella prossima “puntata”], proveremo a sondare i percorsi di autonomia popolare che nonostante tutto – compresa una censura mediatica impressionante – resistono e rappresentano una forza di rottura per niente trascurabile (sia da un punto di vista politico che militare), in particolare nel Kurdistan siriano (Rojava). Infine, cercheremo di abbozzare qualche riflessione di portata più generale sul senso degli eventi in corso.
Continued…

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Tra Mare Nostrum e Frontex Plus

frontex_plusNell’ultimo anno sono morti nel canale di Sicilia oltre 2000 uomini, donne, bambini. Una strage. Una strage di Stato, scritta nelle leggi che impediscono la libera circolazione delle persone nel nostro paese, come nel resto d’Europa.
Dopo i 360 morti nell’immane tragedia del 3 ottobre scorso il governo italiano decise di mettere in piedi una missione militare nel Mediterraneo, per intercettare le navi cariche di profughi e migranti che sono tornate a solcarlo quando è venuta meno la cortina d’acciaio per la quale l’Italia pagava profumatamente il governo libico.
Sin dalle prime battute è stato chiaro che il costo dell’operazione “Mare Nostrum” era enorme. Il governo italiano spende 9,5 milioni di euro al mese. Sia Monti che Renzi hanno bussato alle porte dell’Europa, pretendendo un impegno diretto degli altri paesi dell’Unione sulla frontiera sud. Dopo le centinaia di sbarchi di questi ultimi sei mesi, alcuni paesi europei sino sono impegnati a mettere a disposizione alcuni mezzi navali per mettere in campo l’operazione Frontex Plus. Dopo alcune settimane dall’annuncio Frontex Plus è ancora avvolta in una nebulosa.
L’unico dato sicuro è che potrà affiancare ma non sostituire Mare Nostrum, poiché i mezzi impiegati saranno del tutto inadeguati.
Frontex Plus dovrebbe partire il primo novembre ma la commissaria europea all’immigrazione Cecilia Malstroem non è ancora in grado di definire quale ne sarà la portata, sebbene si sappia già ora che sia l’area coperta, sia i mezzi impegnati non potranno essere che inferiori a quelli dell’operazione italiana.
Frontex Plus è destinata ad integrare ed incorporare due missioni internazionali già esistenti nel Mediterraneo: la Hermes e la Enea. Le navi Ue non si spingeranno però in acque internazionali, e avranno un ruolo di solo controllo e non di soccorso umanitario.
Il nodo è comunque quello dei finanziamenti: ad oggi non si sa esattamente quali Stati e con quali risorse parteciperanno all’iniziativa europea, che potrebbe sgonfiarsi come una ruota bucata se non ci saranno impegni concreti e precisi.

L’info di Blackout ne ha parlato con Federico, attivista antirazzista ed attento osservatore delle politiche sull’immigrazione e l’accoglienza dei profughi nel nostro paese.

Ascolta l’intervista

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Arquata. Giornata di blocchi No Tav

f1Arquata Scrivia. Lunga notte al presidio No Tav/No Terzo Valico di Arquata Scrivia, dove gli attivisti avevano deciso di resistere all’esproprio del terreno dove sorge il presidio, un terreno messo a disposizione di un No Tav del paese. In questo terreno si dovrebbe estendere il cantiere per cominciare la perforazione dei 39 chilometri di galleria per la linea ad alta velocità tra Genova e Tortona. La zona è ricca di amianto e l’intero scavo metterebbe a repentaglio la salute degli operai e della popolazione.
Se a questo si aggiunge che la nuova linea, ben lunghi dal favorire il trasferimento modale dalla gomma al ferro, garantisce un corridio ferroviario ai camion e ai container provenienti dal porto di Genova e diretti a Tortona ai piazzali della famiglia Gavio, le mani in pasta nel f6ricco business delle autostrade, emerge in modo chiaro la vocazione del governo di turno a finanziare con soldi pubblici un affare privato.
Questa mattina tre blocchi hanno chiuso tutti gli accessi alla zona. La polizia e gli esponenti del Cociv non si sono presentati e la zona è scarsamente militarizzata. In mattinata il Cociv, che è il general contractor dell’opera, ha dichiarato di aver rimandato l’esproprio. Evidentemente la presenza di qualche centinaio di No Tav ha determinato l’improvvisa decisione di rinunciare ad effettuare subito un’operazione annunciata sin dai primi giorni d’agosto, dopo la giornata di lotta del 30 luglio, quando i No Tav/No Terzo Valico hanno f22resistito tra cariche e lacrimogeni a numerosi tentativi di esproprio fissati per quella giornata.

Consapevoli che il Cociv ha tempo sino alla mezzanotte di oggi per effettuare l’esproprio, gli attivisti e i solidali provenienti da Torino, Milano, Genova e dalla Val Susa hanno deciso di mantenere i blocchi, che continuano quindi ad oltranza.
La presenza dei No Tav al presidio di Radimero ha impedito che oggi proseguissero i lavori nel cantiere limitrofo. Sono stati inoltre fermati i camion diretti al cantiere del Terzo Valico, rendendo così impossibile proseguire i lavori anche nei cantieri di Voltaggio e Liberna, dove era diretto parte del materiale trasportato dai camion costretti a fermarsi di fronte al presidio dei No Tav.

L’info di blackout ne ha parlato con Salvatore, attivista No Tav/No Terzo valico.

Ascolta la diretta

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Beffa No Tav. Una notte al cantiere: il video

2014 09 06 passeggiata in clareaNella notte tra il 4 e il 5 settembre un folto gurppo di No Tav ha fatto una visita a sorpresa al cantiere di Chiomonte.

Secondo quanto riferiscono i quotidiani La Stampa, Nuova Società e Repubblica,  gli attivisti (20, 40 o più a seconda delle versioni) hanno colto di sorpresa il sistema di sicurezza del cantiere, danneggiandolo in più punti e riuscendo a farvi ingresso.

Colpita una torre faro, i No Tav sono entrati all’interno del cantiere/fortino utilizzando delle scale ed hanno danneggiato una centralina elettrica che regola il funzionamento dell’illuminazione esterna al cantiere, quella che impedisce alla notte di avvolgere i boschi della Clarea. Simbolo della violenza dell’occupazione militare.

Inutile dire che i due PM con l’elmetto Andrea Padalino e Antonio Rinaudo hanno annunciato di essere già sulle tracce degli autori dell’incursione notturna.
Il giorno successivo è stato diffuso in rete un video dell’azione di contrasto dell’occupazione militare della Clarea.

Ve lo proponiamo di seguito:

Sabato 6 settembre dopo circa 300 No Tav hanno partecipato alla marcia notturna al cantiere. Un folto gruppo ha raggiunto il ponte sulla Dora, fronteggiando le truppe dell’antisommossa con battiture e fuochi d’artificio. Un altro gruppo si è fermato prima dell’ingresso dell’autostrada, dove si erano raccolte numerose camionette.  Questa mossa ha nei fatti scongiurato il pericolo che la polizia potesse accerchiare i No Tav nel tratto di strada tra il sottopasso dell’autostrada e il ponte. Una zona pericolosa, divenuta una trappola il 9 luglio 2013.

Nel corso della settimana di lotta No Tav dal 1 al 7 settembre vi sono state numerose altre iniziative.
Dal volantinaggio al mercato di Susa all’assedio all’hotel Napoleon, sino alla giornata di lotta ai cancelli che a Chiomonte chiudono via dell’Avanà, dove il 4 settembre si è ripetuto un appuntamento che, dopo il campeggio itinerante di luglio è continuato per tutto il mese di agosto.

Ascolta qui l’intervista dell’info di Blackout a Mimmo, uno degli over 50 promotori dell’iniziativa del mercoledì.

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Niscemi. I No Muos invadono la base

invasionemuos2014Sabato 9 agosto. Migliaia di attivisti hanno preso parte alla manifestazione contro le antenne di guerra. Il corteo è partito da Contrada Ulmo dirigendosi verso la base dell’esercito statunitense in barba ai divieti imposti dalla Questura. Come il 9 agosto dello scorso anno un buon numero è riuscito ad entrare nella base, dove da giovedì una delle antenne è occupata da sette No Muos.
Dopo la partenza alcuni No Muos hanno dato alle fiamme i fogli dei via e i divieti di dimora imposti dalla polizia e dalla magistratura. Una bella risposta a chi credeva di allontanarli dalle lotte.
Il corteo era aperto dalle mamme No Muos, in prima linea nella lotta contro il sistema Muos e contro tutte le antenne, le cui emissioni hanno provocato tumori specie tra i più piccoli.
Senza dimenticare che le antenne vecchie e nuove sono un tassello importante del sistema di comunicazione militare statunitense per le guerre di oggi e di domani.
Il corteo ha percorso il perimetro della base fino ad arrivare a ridosso delle antenne dove erano saliti i sette attivisti.
Quando le reti sono state tagliate e i No Muos in testa al corteo hanno cominciato ad entrare la polizia ha caricato. Più in là sono stati aperti altri varchi e i manifestanti si sono riversati nell’area della base raggiungendo l’antenna occupata.
Un’importante giornata di lotta di un movimento che non si arrende.
Tre dei sette sull’antenna hanno deciso di scendere: continua la resistenza degli altri quattro.

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Libia. Il grande gioco tra sangue e petrolio

libiaLa Libia è attraversata da una guerra per bande che sta frantumando il paese, rendendo sempre più difficile la vita sia ai libici sia ai numerosi profughi subsahariani che ci vivono. Mercoledì 6 agosto c’é stato un blackout totale. A Tripoli internet, la rete dei cellulari e l’acqua funzionano a singhiozzo.
Anche l’assistenza sanitaria è a rischio, perché il governo filippino ha chiesto ai 13mila lavoratori immigrati nel paese di lasciare la Libia. Ben tremila filippini lavoravano in Libia come infermieri e medici.
Il parlamento, eletto il 25 giugno, in una consultazione in cui gli islamisti al potere dopo la guerra civile scatanatasi dopo l’intervento di Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti ed Italia nel paese, sono ora in minoranza, si è riunito per la prima volta a Tobruk, 1500 chilometro da Tripoli. Tobruk è nell’estremo est del paese, molto vicino alla frontiera egiziana.
Lunedì 4 agosto 160 parlamentari su 188 hano eletto presidente del parlamento il giurista Aguila Salah Iss. Alla votazione non hanno preso parte i deputati vicini ai Fratelli Musulmani che hanno boicottato la votazione, perché sia il Gran Mufti al-Ghariani e il presidente uscente Abu Sahmain, sostenuto dagli islamisti, hanno detto che ritengono incostituzionale la nuova Assemblea.
Un’assemblea parlamentare quasi in esilio, perché sia la capitale Tripoli, che il maggiore centro della Cirenaica, Bengasi sono teatro di feroci combattimenti.

Gli Stati Uniti e quasi tutti i Paesi europei hanno rimpatriato i propri connazionali ed evacuato le proprie rappresentanze, con l’eccezione dell’ambasciata italiana che rimane aperta. Gli interessi italiani nell’ex colonia sono ancora fortissimi e il governo Renzi non può certo permettersi di abbandonare il campo. Già nel 2011, dopo mesi alla finestra il governo italiano decise di intervenire in Libia, rompendo l’alleanza con il governo di Muammar Gheddafi, per contrastare il piano franco inglese di sostituire l’Italia sia nerll’interscambio commerciale sia nel ruolo di referente privilegiato in Europa.
L’Italia riuscì in quell’occasione a mantenere i contratti dell’ENI, ma, nonostante le assicurazioni delle nuove autorità libiche, non è mai riuscita ad ottenere l’outsourcing della repressione dell’immigrazione già garantito da Gheddafi. In questi giorni il governo moltiplica gli allarmi sull’emergenza immigrati, ma, nei fatti la crisi libica rende difficile richiudere la frontiera sud.

Per profughi e migranti la situazione nel paese è terribile. L’Alto commissariato Onu per i rifiugati, che ha lasciato Tripoli a causa degli scontri, segnala che circa 30mila persone hanno passato il confine con la Tunisia la scorsa settimana, mentre ogni giorno 3.000 uomini attraversano la frontiera con l’Egitto; sono soprattutto egiziani che lavoravano in Libia, ma anche libici che possono permettersi la fuga. Tuttavia, la condizione peggiore è quella dei rifugiati provenienti dall’Africa subsahariana. “Sono quasi 37mila – spiega l’agenzia Onu – le persone che abbiamo registrato; nella sola Tripoli, più di 150 persone provenienti da Eritrea e Somalia hanno chiamato il nostro numero verde per richiedere medicinali o un luogo più sicuro dove stare. Stiamo anche ricevendo chiamate da molti siriani e palestinesi che si trovano a Bengasi e che hanno un disperato bisogno di assistenza”.

Gli africani neri rischiano la pelle. Uomini delle milizie entrano nelle case che danno rifugio ai profughi, che vengono derubati di ogni cosa e spesso uccisi. Molti maschi vengono rapiti e ridotti in schiavitù: vengono obbligati a fare i facchini durante gli spostamenti, le donne vengono invece sistematicamente stuprate. Nelle carceri, dove i migranti subsahariani sono detenuti finché pagano un riscatto, la situazione è peggiorata: oltre ai “consueti” abusi ai prigionieri è negato anche il cibo.

Le divisioni storiche tra Tripolitania, Cirenaica, e Fezzan sono divenute esplosive. Al di là della partita politica c’é la lotta senza quartiere per il controllo delle risorse, in primis il petrolio.
Dopo la caduta di Moammar Gheddafi tre estati fa, i vari governi che si sono succeduti non sono riusciti a imporsi sui circa 140 gruppi tribali che compongono la Libia. Il 16 maggio Khalifa Haftar, ex generale dell’esercito, a capo della brigata Al Saiqa ha attaccato il parlamento e lanciato l’offensiva contro le forze islamiste, particolarmente forti nella Cirenaica, la regione di Bengasi. Oggi a Bengasi le milizie islamiste hanno preso il controllo della città mentre il generale Haftar controllerebbe solo l’aeroporto. I gruppi jihadisti, riuniti nel Consiglio della Shura dei rivoluzionari di Bengasi, hanno proclamato un emirato islamico. Tra di loro, ci sono anche i salafiti di Ansar al Sharia.
Haftar, che alcuni ritengono agente della CIA, è sostenuto da Egitto e Algeria e, forse, dagli stessi Stati Uniti non ha le forze per prendere il controllo della regione. La coalizione contro di lui comprende sia gli islamisti sia laici che non lo considerano un golpista.
La politica statunitense nella regione è all’insegna delle ambigue alleanze che caratterizzano da un paio di decenni le scelte delle varie amministrazioni. In Libia Obama sostiene Haftar, mentre in Siria appoggia le milizie quaediste anti Assad, le stesse che in Iraq hanno invaso il nord, controllando Mosul e la cristiana piana di Ninive. D’altro canto il sostegno verso il governo dello shiita Nouri al Maliki è solo verbale: nessuna iniziativa militare è stata sinora intrapresa contro il Califfato di Al Baghdadi. Al Quaeda, un brand buono per tante occasioni, è come un cane feroce, che azzanna i tuoi avversari, ma sfugge completamente anche al controllo di chi lo nutre e l’ha nutrito per decenni. L’Afganistan ne è la dimostrazione.
Nello scacchiere geopolitico in Libia, chi pare aver perso la partita sono state le formazioni vicine ai Fratelli Musulmani sostenute dal Qatar, a sua volta apoggiato dalla Francia.

A Tripoli la situazione è fuori controllo: lo scontro è tra la milizia di Zintan, una città del nordovest, e un gruppo armato nato dall’alleanza delle milizie di Misurata e di alcuni gruppi islamisti. Dal 13 luglio, gli scontri, con oltre 100 morti, si concentrano attorno all’aeroporto, controllato dai primi e bombardato dai secondi. La scorsa settimana, per vari giorni la capitale è stata coperta dal fumo di un deposito di carburante, colpito da alcuni razzi da qui arriva parte del petrolio importato in Italia con il gasdotto Greenstream, che copre il 10-11% dei consumi nazionali.

Se le formazioni quaediste dovessero prendere il controllo dei pozzi petroliferi le conseguenze sarebbero gravi soprattutto per la Tunisia e per i paesi africani.

Questa situazione mette in luce la decadenza degli Stati Uniti, che fanno di un’alchimia da stregoni una strategia. Un gioco complesso che sempre meno produce i risultati desiderati.
Oltre la scacchiera dei grandi giochi restano le migliaia e migliaia di uomini, donne, bambini massacrati.

Anarres ne ha parlato con Karim Metref, un torinese di origine Kabila, insegnante, blogger, attento osservatore di quanto accade in nord Africa.

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No Muos. Un campeggio di lotta

2014 09 07 campeggio no muosGiovedì 7 agosto. Ad un anno di distanza dalla grande manifestazione popolare che invase la base statunitense di Niscemi, nel segno di un’opposizione concreta all’installazione del sistema di controllo satellitare nella sughereta di Niscemi, il movimento rilancia con una settimana di campeggio resistente e con una manifestazione di lotta il 9 agosto.
L’anno appena trascorso è stato segnato dalla fine dei lavori per l’installazione delle antenne, dall’inasprirsi della repressione, dalla tentazione della rassegnazione.
Quest’estate di lotta è un’importante occasione di rilancio per un movimento che in questi mesi ha continuato il proprio lavoro di informazione sul territorio, per aprire nuove possibilità ad un’agire che oggi mira ad impedire che le antenne vengano attivate.
Quando l’intero sistema sarà attivato su scala planetaria offrirà una straordinaria arma all’esercito statunitense, che potrà controllare i territori che vuole colpire per indirizzare i droni carichi di bombe su obiettivi ovunque nel mondo.
Il ministero dell’Interno ha deciso di tentare la carta della repressione preventiva, dando il foglio di via da Niscemi a 29 attivisti siciliani e vietando al corteo del 9 di attraversare la sughereta. Il pretesto per il divieto è la delicatezza dell’ecosistema. Peccato che tanta attenzione ai danni ambientali non tocchi gli abitanti di Niscemi sottoposti da decenni alle radiazioni delle altre antenne della base statunitense.
Un gioco sporco che mostra in controluce la trama di chi lo fa.

Anarres ne ha parlato con Pippo Gurrieri, attivista No Muos.

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I dolori del giovane Renzi

renziIl più giovane e dinamico capo del governo italiano (dopo Benito Mussolini) corre molto ma inciampa spesso.
In un paio di giorni ha dovuto incassare la bocciatura della confcommercio, che ha giudicato nullo l’effetto del taglio dell’Irpef per la ripresa dei consumi, e la delusione dei quattromila insegnanti che hanno visto sfumare la pensione mentre erano in dirittura d’arrivo.
Nonostante i frequenti scivoloni Renzi, tra un colpo di fiducia, una tagliola e una brasatura di massa degli emendamenti sta spazzando via la seconda camera elettiva dello Stato, prepara un’ennesima legge elettorale con l’asso pigliatutto per consolidare la democratura italiana.
Nonostante le statistiche lo diano in lieve calo di popolarità, riesce ancora a rappresentare il nuovo che avanza, mascherando il taglio di migliaia di posti di lavoro nella pubblica amministrazione per lotta alla burocrazia.
Ovviamente la tenuta si vedrà nel tempo. In un paese dove amicizie e clientele resistono nei decenni Renzi rischia di perdere per strada alcuni preziosi segmenti della sua base.
Il taglio di metà dei distacchi sindacali nel pubblico impiego – se ha alimentato la fama del leader che non guarda in faccia nessuno – ha allungato la fila degli scontenti.
Di oggi la notizia che la Cgil ha deciso di sottoporre alla Commissione europea la riforma del lavoro. Camusso non ha proclamato un’ora di sciopero contro le misure del governo, ma gioca la carta europea per punzecchiare il Primo Ministro.
Renzi dal canto suo imita Peron e cerca di instaurare una relazione diretta con il “popolo” tagliando i ponti con gli organismi di intermediazione sociale come il sindacato (post) concertativo e la stessa Confindustria.

L’info di blackout ne ha parlato con Cosimo Scarinzi della Cub.

Ascolta la diretta

Anarres ha discusso con Pietro Stara del populismo renziano, che più che in Mussolini, pare specchiarsi nell’argentino Juan Peron.

Ascolta la chiacchierata

 

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Rom a Torino. Demolite altre baracche

sgombero campo romMartedì 5 agosto. Le ruspe demoliscono un’altra porzione della baraccopoli sorta lungo le rive dello Stura, di fronte all’Iveco. E’ la seconda volta in poche settimane. I giornali parlano di degrado, abusivi, pulizia.
I rom di lungo Stura Lazio sono quasi tutti rumeni. In Romania non ci sono campi “nomadi” perché non ci sono nomadi. Chi arriva in Italia o in Francia viene etichettato come “nomade”, vagabondo, perdigiorno e relegato nei campi. Sono i campi che ti rendono zingaro, persona di passaggio per volontà dello Stato.
I mestieri tradizionali della gente rom, la riparazione delle pentole, l’addestramento dei cavalli, gli spettacoli di strada sono scomparsi come tanti altri mestieri “tradizionali” dei gagi.
I calderai rom, che viaggiavano in una regione, passando ogni anno o stagione sono spariti come i fini ebanisti piemontesi, cui la città di Torino dedica le vie.
Il nomadismo era legato al lavoro: sparito il lavoro, sparito il nomadismo. I contadini poveri piemontesi cent’anni fa in inverno andavano in Francia a fare i muratori: il loro era un nomadismo stagionale. Ogni primavera valicavano nuovamente le Alpi per tornare alle loro case.
I sinti piemontesi, che vivono nella nostra regione da 700 anni, parlano un dialetto piemu da campagnini non viaggiano più. Gli unici sinti che si muovono ancora sono quelli dei circhi: i giostrai viaggiano sempre meno, si cercano un posto fisso e lì vivono la loro vita.

Gli sgomberati di lungo Stura Lazio non hanno prospettive di trovare una casa. Più facile trovare un lavoro che una casa. Chi non ha una casa è tout court pericoloso. Così come l’uroboro che si morde la coda nutrendosi di se stesso, il razzismo istituzionale genera politiche di esclusione sociale: l’esclusione alimenta a sua volta il razzismo.

Nei fatti gli sgomberi di queste settimane sono solo operazioni di facciata. Non tutte le baracche sono state tirate giù e presto l’area tornerà a popolarsi di uomini, donne e bambini che non hanno altro posto che un’area alluvionabile e pericolosa lontana anni luce dalle case dove vivono i gagi.
Gli stessi gagi che profittano della presenza delle baracche per trasformare l’area nella propria discarica abusiva. I cronisti dei quotidiani cittadini cesellano la loro prosa su quei cumuli di immondizia. La dignità di chi è forzato a viverci viene schiacciata da un pregiudizio che si autoalimenta.

Ascolta la diretta fatta dall’info di blackout con Cecilia, antirazzista torinese

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Chiomonte. Colazione (e pranzo) No Tav ai cancelli della centrale

partita a bocce quadreMercoledì 6 agosto. Giornata di lotta ai cancelli che chiudono strada dell’Avanà nei pressi della centrale Iren al ponte sulla Dora. Una quarantina di No Tav, sin dalle sei e mezza del mattino, hanno fatto colazione di fronte all’ingresso della zona occupata, mettendo in difficoltà l’apparato disciplinare e le ditte collaborazioniste. I camion delle imprese che ogni giorno passano di lì per entrare nell’area del tunnel sono stati obbligati a fare il giro dall’autostrada.
Un altro gruppo di No Tav ha fatto un giro di monitoraggio del cantiere. Il presidio ai cancelli va avanti sino al tardo pomeriggio.
Dopo la colazione è scattata una partita a bocce quadre.
La “colazione a Chiomonte”, ripresa la scorsa settimana dopo mesi di stop, raccoglie sempre più attivisti, decisi a punzecchiare le truppe di occupazione per l’intero mese di agosto. E oltre.

Ascolta la diretta  dell’info di blackout con Mimmo (e con Paolo) attivisti No Tav della banda degli over 50

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