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No Tav. Vendetta di Stato

crema314 maggio 2013. Un gruppo di No Tav compie un’azione di sabotaggio al cantiere di Chiomonte.
14 maggio 2014. Quattro attivisti verranno processati per l’azione di quella notte. L’accusa è quella di “attentato con finalità di terrorismo”. La vendetta di Stato mette in scena una cerimonia in grande stile, scegliendo il primo anniversario di quella notte di lotta perché sia chiaro chi è il più forte.
Non solo. I quattro compagni arrestati il 9 dicembre, dopo 40 giorni nel reparto di alta sorveglianza del carcere delle Vallette vengono trasferiti in altre carceri.
Mattia e Nicolò al carcere ad Alessandria, Claudio a Ferrara, Chiara in quello di Rebibbia a Roma. Le condizioni di detenzione loro inflitte sono molto dure, più di quello che il regime cui sono sottoposti prevede. Chiara a Torino è rimasta per 40 giorni in isolamento, a Rebibbia può fare la socialità con le altre, ma è sempre in cella da sola. Mattia e Nicolò sono in rinchiusi con altri ma non possono comunicare tra di loro ed hanno dimezzate sia le due ore di socialità sia le due ore di aria.
La condizione più dura la deve vivere Claudio, in isolamento assoluto da quando è stato trasferito a Ferrara.
La sua situazione è trapelata il 10 dicembre dopo la visita di sua mamma e di suo fratello.
A tutti, dopo un mese e mezzo di visite da parte di amici e compagni, è stato concesso di vedere solo i parenti stretti.

E’ chiara la volontà di annientare questi compagni, di cercare di spezzarne la resistenza.

Altrettando chiaro, ed emerge anche dalle carte esibite dalla Procura, che questa esibizione di violenza a malapena mascherata da norme e dispositivi, mira a fiaccare la lotta dei No Tav. Mira a mettere in ginocchio un intero movimento.
Nella stessa direzione vanno i mega risarcimenti a Ltf, il general contractor dell’opera,

Anarres ha intervistato Eugenio Losco, uno degli avvocati del collegio difensivo dei quattro No Tav, quando si è saputa la decisione di saltare l’udienza preliminare aprendo subito il dibattimento.
Ascolta l’intervista

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Svizzera a braccia chiuse

svizzera-referendum-sulle-quote-sulla-immigrazione-vincono-i-si“La Svizzera ci accolse a braccia chiuse”. Così l’incipit di una vecchia canzone di migranti italiani nel paese elvetico.
La recente consultazione che ha reintrodotto le quote di ingresso per gli immigrati pare riportare indietro le lancette dell’orologio.
Le dinamiche, soprattutto culturali, che hanno permesso la vittoria, sia pure di misura, delle istanze dei partiti di destra, sono tuttavia molto differenti.
I sì alla chiusura delle frontiere hanno toccato quote vicine al 70% nelle zone di frontiera con l’Italia e la Germania, come il Ticino e la Turgovia. Il provvedimento colpisce soprattutto gli immigrati dai paesi UE, che sinora godevano della possibilità di circolare liberamente in Svizzera.
L’esito della consultazione mette in difficoltà la Svizzera, pressata dagli imprenditori, cui fa comodo la manodopera a poco prezzo e incalzata dall’UE che promette ritorsioni.
L’Unione Europea, per bocca della presidenza greca, ha detto chiaro alla Svizzera che non può prendersi il bambino e buttare l’acqua sporca. Gli accordi bilaterali sottoscritti da Berna prevedono infatti sia la libera circolazione del capitali che degli esseri umani. Colpisce che un rappresentante dell’Europa di Schengen, dell’Europa fortezza, rinfacci alla Svizzera l’arroccamento nel proprio castello montano. “Si è sempre i terroni di qualcun altro”, questa verità, scriveva ieri sulle pagine del Manifesto “Alessandro Dal Lago” è dimostrata dal voto svizzero.

La vittoria degli xenofobi, sia pure di misura, è frutto della paura dell’ignoto, del timore che l’attuale benessere possa finire, che le frontiere siano barriere dietro cui difendersi.
Le dinamiche della globalizzazione sinora hanno favorito la Svizzera, tuttavia la consapevolezza che scelte di delocalizzazione e deindustrializzazione potrebbero non ignorare i cantoni di quest’angolo di Europa, genera mostri.
Il paragone più immediato è con la Lega Nord, il cui massimo consenso, specie in Lombardia e Veneto è stato raccolto prima della crisi, quando l’economia del nord est, tra iperfruttamento di lavoratori immigrati e basso livello tecnologico, andava ancora a gonfie vele, assurgendo a paradigma dell’operosità padana, contrapposta all’indolenza meridionale.
Paradigmi razzisti che non hanno retto alla crisi, ma si sono nutriti di una paura che mirava all’immigrato, perché il popolo “leghista” non poteva certo smontare il meccanismo capitalista, perché avrebbe significato azzannare il proprio stesso cuore.

Oggi in Ticino la crescita di medie e piccole aziende è conseguenza e non causa dei bassi salari dei lavoratori provenienti dalla Lombardia. Immigrati giovani o frontalieri, che in Svizzera lavorano ma non risiedono, fanno girare più veloci gli ingranaggi del paese, versando contributi, che sono linfa vitale in un paese in cui l’età media è decisamente elevata.

Negli anni Settanta vi era un razzismo volgare ed esplicito. Come dimenticare le scritte nei bar di Zurigo “vietato l’ingresso ai cani e agli italiani”?
Oggi siamo di fronte ad un atteggiamento più genericamente xenofobo, di arroccamento identitario, nei confronti di “un’invasione” che metterebbe a repentaglio sicurezze e valori acquisiti.
La spinta all’esclusione si è rinforzata intrecciandosi con il tema squisitamente ecologista della difesa del territorio dalla cementificazione.
La Svizzera profonda, impregnata di miti pastorali, di purezza dell’aria e dei costumi alza un muro. Contro la propria paura.

Ascolta le dirette realizzate dall’info di Blackout con Peter Schrembs del circolo “Carlo Vanza” di Lugano e con Alessandro Dal Lago docente all’Università di Genova.

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Egitto/Tunisia. La spada dell’islam e i cannoni dei militari

Photoxpress_4585474La “primavera” egiziana è finita nel sangue e nell’autoritarismo. Il colpo di stato che ha portato al potere i militari, la persecuzione dei Fratelli Musulmani, le centinaia di morti, gli attentati, paiono chiudere ogni spazio per un’opposizone laica e non autoritaria. Sull’orlo della guerra civile il paese si accinge a incoronare Al Sissi presidente.
E’ la fine della primavera: un nuovo faraone si accinge a regnare, la componente più radicale dei Fratelli Musulmani si prepara al martirio. Sin qui poco male: purtroppo la grande coalizione Matarod, pur fermando l’arroganza dei Fratelli che si accingevano a disegnare il paese a propria immagine, ha tuttavia aperto la strada al colpo di mano di Al Sissi.
Uno scenario che ricorda quello dell’Algeria dei primi anni Novanta, quando i militari fermarono l’irresistibile ascesa del FIS, il fronte islamico di salvezza, aprendo la strada ad un bagno di sangue durato due anni e costato 250.000 morti.

Un esito simile era possibile anche in Tunisia, ma, negli ultimi minuti della partita, i dirigenti di Ennahda hanno fatto marcia indietro, adottando una linea decisamente più moderata.
La nuova Costituzione è la più progressista dell’intera regione, pur nelle ambiguità di un testo che all’articolo 6 afferma che lo Stato protegge la religione e il sacro ma al tempo stesso anche la libertà di coscienza. Per non dire dell’articolo 7 che fissa nella famiglia il nucleo della società ma stabilisce l’uguaglianza tra uomo e donna. Sempre l’articolo 7 stabilisce la divisione dei poteri, non menziona la sharia, ma sancisce che l’Islam è la religione di Stato.
La situazione resta tuttavia foriera di qualsiasi sviluppo. Non dimentichiamo che Ennahada, prima della violenta caduta dei propri “cugini” egiziani, governava a proprio esclusivo profitto e flirtava con le milizie salafite che nel 2012 e 2013 hanno messo a ferro e fuoco le città, incendiato i caffè con l’alcol nel menù, aggredito i laici, assassinato due leader dell’opposizione.

Difficile credere che alla svolta degli islamisti tunisini sia estraneo il destino dei vicini egiziani, ben più radicati di loro nel paese, perché Hannada era fuorilegge sotto Ben Alì, mentre i Fratelli Musulmani egiziani hanno vissuto all’ombra del regime di Mubarak, spartendo fette di potere, senza mai subire una reale persecuzione. Durante l’insurrezione di Tarhir i Fratelli hanno mantenuto un profilo basso, arrivando a prendere le distanze dalla propria componente giovanile, quando questa decise di unirsi ai rivoltosi.
La loro forza è stata anche la loro debolezza. L’incapacità di comprendere che la ricchezza di Tarhir non si sarebbe fatta facilmente ingabbiare sotto la cappa integralista, la presunzione di aver posto sotto controllo i militari.
Ubris – l’arroganza che fa incazzare gli dei – la chiamavano i greci. Dai fulmini di Giove e ai cannoni di Al Sissi.

A farne le spese la libertà di tutti. Al Cairo i giornalisti locali e stranieri sono incarcerati insieme ai leader dei Fratelli Musulmani: la minaccia di dure leggi anti-terrorismo serve nei fatti a silenziare le voci libere dei tanti blogger egiziani.

Ne abbiamo parlato con Karim Metref, insegnante, scrittore, blogger di origine kabila, che da molti anni vive nel nostro paese.
Ascolta la diretta

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Spagna. La mannaia di Rajoy

no-a-la-criminalizacion-de-la-protesta-socialIl governo conservatore guidato da Mariano Rajoy sta dando un giro di vite alle libertà politiche e sociali in Spagna. La scorsa settimana decine di migliaia di donne e uomini hanno manifestato contro la proposta di legge che renderà nuovamente illegale la scelta di abortire nel paese spagnolo, lasciando ai medici il giudizio se consentire o meno l’interruzione di gravidanza in caso di stupro o grave malformazione del feto.
Maternità imposta dallo Stato, negazione della libertà di decidere per le donne e le ragazze spagnole, cui pure la normativa attuale già impone notevoli vincoli.
Il movimento “Yo decido – decido io” ha raccolto ampia solidarietà anche all’estero: in contemporanea con il corteo da Atocha a Madrid si sono tenute manifestazioni in diverse città europee di fronte ad ambasciate e rappresentanze consolari ispaniche.
la piattaforma “Yo decido” si articola contro la pretesa dello Stato e della Chiesa cattolica di normare la vita degli individui, uomini e donne limitandone la libertà.

L’aborto è solo l’ultima frontiera delle politiche repressive di Rajoy, che si è articolato in un apparato legislativo che limita fortemente la possibilità di manifestare.
Si va dalla legge sulla sicurezza cittadina che conferisce alla polizia il potere di identificare chiunque in qualunque momento, di redigere un registro delle persone controllate, di circondare preventivamente gruppi di manifestanti, fare video senza necessità di autorizzazioni. Per non dire dell’accresciuto potere legale di disperdere le manifestazioni, dove la polizia ha il potere di effettuare interventi preventivi, quando ritiene che i manifestanti stiano per infrangere divieti o commettere reati. Una manifestazione di forza da parte dello Stato spagnolo, che criminalizza preventivamente tutti coloro che si oppongono alle politiche del governo. Persino chi esprime solidarietà alle vittime della repressione finisce nel mirino della magistratura con sanzioni che vanno dalla contravvenzione a cinque o sei cifre sino alla reclusione.

Cosa resta del movimento che ha riempito le piazze della propria “indignazione”? Il movimento, ci racconta Claudio Venza, storico della Spagna contemporanea, si è dissolto sotto i colpi della repressione e nell’incapacità di generalizzarsi. Resta tuttavia un radicamento territoriale che si esprime nelle lotte per la casa, contro gli sfratti, che in qualche occasione raccoglie anche centinaia di persone che si stringono intorno alle persone attaccate dalla polizia, impedendo lo sgombero delle abitazioni perse da chi non è riuscito a pagare il mutuo o il fitto.

Ascolta la diretta realizzata da anarres con Claudio

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SIAE. Smartphone e coltelli da cucina

siae-tassa-equo-compenso_1268460Una nuova tassa potrebbe abbattersi sull’hitech. A essere colpiti saranno smartphone, tablet, computer fissi e mobili. Ma anche chiavette Usb, hard-disk esterni, Tv con funzione di registratore e decoder. In pratica tutti i dispositivi elettronici che funzionano da archivi digitali. Un balzello ancora una volta a carico di chi compera un cellulare o una chiavetta. Andrebbe da 5,20 euro per smartphone e tablet che acquisteremo, fino a 40 euro per i decoder con memoria interna da 400 GB. Una tassa che peserà maggiormente sui dispositivi low cost.

L’imposta non è nuova. Non tutti lo sanno, ma la paghiamo già. Nessuno se ne accorge perché gli importi per gli smartphone sono di 90 centesimi e per i tablet non si paga.
Le cifre sono stabilite dal Decreto del 30 dicembre 2009 che ne prevedeva il periodico aggiornamento, per adeguarle allo sviluppo delle tecnologie digitali. Ma perché dobbiamo pagare? Secondo quanto stabilisce la Siae (Società italiana autori editori): «In cambio della possibilità di effettuare una copia personale di registrazioni, tutelate dal diritto d’autore». Dunque per fare una copia di contenuti audio-video di cui siamo già più o meno legittimi proprietari. Per esempio per portare la compilation di Cd e Dvd su un secondo dispositivo personale come un lettore Mp3, smartphone o tablet. Ma anche un programma Tv, un cartone animato e un filmato (anche di YouTube) che riversiamo su un hard disk esterno. Gli incassi Siae servono dunque per compensare i mancati introiti degli autori. E ora si richiede un rinnovo delle cifre per il cosiddetto “equo compenso”.
La Siae è una società decotta, fallita nei suoi scopi, che nemmeno paga la maggior parte degli autori, obbligati ad iscriversi. Il governo pare deciso a sostenerla, estorcendoci dei soldi per il mero fatto che certi dispositivi ci offrono la possibilità di copiare.
L’equivalente di arrestare per tentato omicidio chiunque abbia in casa un coltello da cucina.

La posta in gioco, se le cifre restassero quelle proposte, non è da poco. Facciamo due conti. Le stime di acquisto del comparto hitech in Italia per il 2014 parlano di 16 milioni di nuovi smartphone. Più almeno 8 milioni di tablet e circa 10 milioni tra computer (desktop, notebook, ultrabook) e Tv. Quasi tutte le Tv hanno anche una porta Usb, dunque sono soggette alla tassa. Fatta la somma e moltiplicata per un importo medio di almeno 5 euro viene una cifra superiore a 160 milioni di euro. Aggiungendo chiavette Usb, hard-disk e decoder si raggiungono facilmente 200 milioni di euro.

Ascolta l’intervista a Lorenzo, attivista per la libertà in rete, fatta dall’info di Blackout

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In strada sotto la pioggia. Lo sgombero di via Spano a Torino

122638205-8dc9824d-f1b3-4ebb-836d-969ee9701edcVia Spano. Una palazzina vuota da tanto tempo, che aveva ripreso vita con l’occupazione di tante persone sfrattate dalle loro case perché non riuscivano più a pagare il fitto. Con loro i profughi dell’emergenza nordafrica, per i quali gli spazi dell’ex Moi non bastavano più.

Ieri, dopo lo sgombero della palazzina occupata il 17 gennaio in via Spano 41 bis, 23 famiglie, alcune con bambini, si sono ritrovate sotto la pioggia con materassi, mobili, le cose della propria vita ancora una volta sparse in strada.
Grazie all’aiuto di un gruppetto di compagni sono riuscite a portare tutto all’asciutto, nel calore di altre case occupate, dove la solidarietà è la cifra di ogni giorno.
La casa di via Spano era abbandonata all’incuria da oltre sei anni: dopo l’occupazione il proprietario ha annunciato l’intenzione di ristrutturare. Il timore di perdere la propria roba, di dover rinunciare ad un possibile profitto gli ha messo le ali. Ieri osservava con soddisfazione lo sgombero.
Uno sgombero inusuale, effettuato alle nove e mezza del mattino, bloccando sul pullman un ragazzino che andava e scuola per prendergli le chiavi ed entrare dalla porta principale, senza prendersi il disturbo di sfondare la porta. Da padroni. O, meglio, da cani da guardia del principio astratto della proprietà privata, un feticcio che getta in strada chi si era conquistato con la lotta un tetto, una vita come tutti.
Quella stessa mattina nasceva con taglio cesareo un piccolo occupante: sua madre era uscita all’alba per andare in ospedale. Sgomberato nel primo giorno di vita in un inverno con sapore e odore d’autunno. Umido e grigio.
Nel tardo pomeriggio di ieri, dopo il trasloco forzato, si è svolta un’assemblea in corso Traiano.
Questa mattina gli occupanti, dopo un picchetto antisfratto, sono andati a volantinare al mercato, per raccontare la propria storia ai tanti che nel quartiere avevano accolto con piacere i nuovi vicini di casa. Una casa che oggi è vuota, vuota come le istituzioni cittadine, che non hanno risorse per i poveri, nella città delle grandi kermesse in salsa PD.
Circo per i ricchi, sgomberi per i poveri.

L’info di radio Blackout ha raccolto la testimonianza di Erman, uno degli sgomberati di via Spano

Ascolta anche – sempre a cura dell’indo di blackout, il racconto di Matteo, uno dei solidali, che da mesi seguono le vicende dei rifugiati dell’ex Moi e di quelli che hanno partecipato all’occupazione di via Spano

Aggiornamento al 6 febbraio. Le 13 famiglie sgomberate da via Spano e la rete dei solidali che sostiene la loro lotta hanno occupato nel pomeriggio gli ex bagni pubblici di via Roccavione.

 

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Omofobia. Luci e ombre

gay-franciaNegli ultimi anni la condizione materiale delle persone GLBT è cambiata molto, grazie anche alle lotte che hanno saputo incidere nel tessuto materiale e simbolico di molte società.
In alcuni casi sono mutate anche le leggi. Se le norme sono la rappresentazione ritualizzata dei rapporti di forza, che segnano una data società, è innegabile che in molte aree del pianeta il riconoscimento formale di alcuni diritti alle persone GLBT, è indice di una capacità di mutare di segno uno stigma duro a morire.
In alcuni paesi tuttavia le cose sono peggiorate sensibilmente. Dalla Russia putiniana all’India, nel segno di un’identità nazionale vissuta nel segno della “tradizione”, sono state riportate in auge leggi discriminatorie e repressive contro le persone di orientamento sessuale diverso dalla norma etero.
Nella stessa Francia dei matrimoni omosessuali, due giorni fa il presidente Hollande ha ritirato una proposta di legge sul diritto di famiglia, più inclusiva nei confronti delle persone GLBT.
La decisione è stata presa dopo una marcia organizzata dal centro destra in difesa della famiglia tradizionale.
Luci ed ombre in un panorama nel quale è difficile scorgere una prospettiva chiara.

Ascolta la diretta fatta dall’info di Blackout con Maurizio del circolo di cultura omosessuale GLBTQ “Maurice” di Torino.

 

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Grecia. Le frontiere dell’odio

grecia120 gennaio. A Farmakonisi, sulla costa greca, si consuma l’ennesima strage di Stato in mare. Una barca carica di immigrati proveniente dalla Turchia è stata abbordata da un’unità della Guardia Costiera. La barca era in panne: la polizia ha cominciato a trainarla verso la Turchia. Una manovra folle continuata finché l’imbarcazione non si è rovesciata. I superstiti che tentavano di salire a bordo sono stati respinti brutalmente.
Il mare e la ferocia del governo ha inghiottito 12 persone, tra cui 9 bambini piccoli.

In una conferenza stampa organizzata il 25 gennaio da alcune organizzazioni per i diritti umani, uno dei superstiti, Safi Ehsanullah, che quella notte aveva perso la moglie e i quattro figli, ha raccontato: “Eravamo in 26, 23 afgani e 3 siriani. Siamo partiti intorno alle 10 di sera dalla Turchia: due ore dopo eravamo vicini alla costa greca quando la nostra barca ha avuto un’avaria. Non eravamo troppo lontani dalla costa, stavamo pensando di fare una catena umana per sbarcare, quando è arrivata un’unità della polizia costiera greca. Ci hanno gridato di non muoverci, due di loro sono saliti a bordo ed hanno legato la nostra imbarcazione alla loro. Pensavamo fosse arrivata la salvezza. Inaspettatamente quando sono risaliti sul guarda coste, hanno cominciato a trainarci a velocità folle, andando a zig zag verso la Turchia. La nostra barca si è scontrata con quella che la trainava, cominciando ad affondare, i poliziotti hanno provato a trainarla ancora ma ormai imbarcava acqua e stava affondando. Lo scafo era vecchio e malandato e non ha retto all’impatto. E’ infine scoppiato un incendio e solo per caso alcuni di noi sono riusciti a salire a bordo della guarda coste, mentre altri sono stati respinti a calci e grida. Un rifugiato siriano che tentava di aiutare una donna a salire a bordo allungandole un bastone è stato brutalmente pestato dai poliziotti.

Sabato 25 gennaio. In mattinata un centinaio di nazisti di Xrisi Argi – Alba Dorata – hanno percorso in corteo le zone di Keratsini e di Amfiali. In questo quartiere era stato assassinato il rapper antifascista Pavlos Fyssas. Nell’angolo in cui era stato accoltellato era stata posta una targa in sua memoria che i nazisti hanno danneggiato. La marcia nazista – tutti i partecipanti indossavano magliette con la scritta “xrisi argi” – è proseguita sino allo steki – Spazio anarchico- “Resalto”. Qui i nazisti hanno attaccato lanciando pietre. I danni peggiori sono stati inflitti ad una casa vicina allo steki “Resalto”. Per un pelo si è sfiorata la tragedia. Le pietre che hanno frantumato le finestre della casa sono finite nella camera da letto dove riposavano alcuni bambini piccoli. Una bimba che stava dormendo si è salvata perché il padre è riuscito a portarla via. I 15 compagni e compagne che si trovano nel “Resalto” hanno risposto fermamente all’attacco dei fascisti. La polizia ha assistito senza avvicinarsi né intervenire alle azioni degli squadristi, che non sono stati né fermati né arrestati. In contemporanea nel vicino quartiere di Korydallos si è svolta una manifestazione antifascista.
Nel pomeriggio circa 400 persone hanno risposto all’appello dei compagni del “Resalto”, dando vita ad un corteo che ha ripercorso le strade dove si era svolta l’iniziativa fascista, cancellando le scritte. Inutile dire che questo corteo è stato seguito da vicino da ingenti forze di polizia.
In questo video le immagini dell’attacco nazista, della casa colpita, del corteo antifascista

Ascolta la diretta realizzata dall’info di Blackout con Gheorgo. un compagno di Atene.

Sabato 1 febbraio. Centinaia di nazisti di Xrisi Argi – Alba Dorata – sono scesi in piazza nell’anniversario dello scontro del 1996 tra Grecia e Turchia per il possesso dell’isola di Imia.
La polizia aveva negato il permesso di sfilare sia ad Alba Dorata, che a due manifestazioni antifasciste.
Nonostante il divieto il presidio fascista si è trasformato in una parata militaresca in sostegno dei dirigenti del partito arrestati per omicidio.
La polizia li ha lasciati fare, caricando invece con estrema violenza 1500 antifascisti.
In piazza Syntagma, numerose violente cariche hanno obbligato i manifestanti a cercare di ricompattarsi nella parte bassa della piazza, ma questo non ha frenato la polizia. Due manifestanti sono rimasti sul terreno feriti gravemente, altri sono stati arrestati, mentre il corteo antifascista ripiegava su Monastiraki, dove la polizia ha nuovamente attaccato.
Uno dei due feriti è un rifugiato turco, che viveva in uno squat, occupato da anarchici e altri antifascisti per impedire che fosse abbattuto. Il vecchio edificio era il simbolo della resistenza greca alla divisione in blocchi imposta dal trattato di Yalta. Sui suoi muri ci sono ancora le tracce dei colpi di mortaio e mitragliatrice.
A Monastiraki i manifestanti hanno risposto con lanci di pietre ad altri cinque arresti. Inutile il tentativo di cercare rifugio nella metropolitana, chiusa e sgomberata dalla polizia, che ha sparato lacrimogeni rendendo irrespirabile l’aria.
La coltre di fumo stagnante impediva di vedere: gli agenti hanno rincorso i manifestanti nella sede dei binari, manganellando e arrestando altre persone. Cinque manifestanti hanno riportato gravi lesioni alla testa, due sono stati trovati in un lago di sangue, un altro è stato trasportato d’urgenza all’ospedale, scortato dagli agenti. Diversi testimoni hanno raccontato che mentre  veniva medicato, diversi agenti sorvegliavano la porta: quando i dottori hanno li hanno esortati ad allontanarsi perché intralciavano i soccorsi, li hanno zittiti con grida e insulti.
In questo video diffuso da TV reporter potete vedere l’arresto del manifestante turco, ammanettato mentre due sanitari cercavano di soccorrerlo: lui era a terra privo di sensi.

Gran parte degli arrestati viene rilasciata il giorno successivo, alcuni con obbligo di firma e denunce. I neofascisti, grazie alla copertura della polizia, hanno sfilato indisturbati, tra slogan nazionalisti e razzisti.

Questi episodi dimostrano che il governo, che pure aveva sostenuto gli arresti dei dirigenti di Xrisi Argi dopo l’assassinio di Pavlos Fyssas, mantiene un atteggiamento omertoso nei confronti delle azioni della formazione nazista. Con ogni probabilità Nea Democratia, la formazione di centro destra del primo ministro Antonis Samaras tenta di sottrarre consensi a Xrisi Argi in vista della prossima tornata elettorale, ma continua comunque a dare copertura di piazza ai militanti di estrema destra. Nel frattempo Xrisi Argi, temendo che il partito possa essere messo fuorilegge, ha annunciato la propria trasformazione in Etniki Argi – Alba Nazionale. Un nome meno esoterico, più nazionalista per gli stessi nazisti.

Ascolta la diretta dell’info di blackout con Gheorgo da Atene:

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I riti della memoria

???????????????????????????????????????????????????????La memoria può essere ossificata in un rito celebrato dallo Stato? Un rito con tanto di sacerdoti ed officianti, che la infilzino sulla carta assorbente come una farfalla nella teca di un collezionista? Magnifica ed oscena nella rigidità imposta.
Di fronte alla Shoah, al Porrajmos, allo sterminio nazista, ai campi dove il limite della ferocia di Stato pare ineguagliabile, qualcuno ha parlato di crimine assoluto. Ma poi c’é sempre chi si ingegna a fare peggio. Dal Ruanda alla ex Jugoslavia si conferma l’intuizione di Primo Levi in “Se questo è un uomo”. Se è accaduto, potrà accadere ancora. E’ scritto nella carne e nel sangue di un’umanità che trova la propria cifra in gesti che non hanno paragone nella ferinità degli animali non umani. Non è un destino, ma una possibilità sempre in agguato.
Chi sa spesso vorrebbe dimenticare.
Il giorno della memoria è per gli altri. La speranza è che il rito divenga l’antidoto necessario al ritorno del buio. Sappiamo che non funziona.
L’antisemitismo e l’antiziganismo non sono mero patrimonio dei fascisti di ieri e di oggi, ma sono come un virus dimenticato ma mai debellato, pronto a riemergere, infettando la società.
Focolai di infezione di tanto in tanto ce lo ricordano.
La bimba bionda che vive con i rom greci ma non può essere figlia loro. Giorni di indignazione urlata verso i rom che rubano i bambini e ne fanno mercimonio. Quando la madre, una rom ungherese povera, racconta di averla regalata perché non poteva averne cura, si scopre che la bambina bionda ha tanti fratelli e sorelle biondi come lei.
Falso allarme? No. L’allarme suonerà ancora ed ancora, perché, si sa, gli zingari rubano i bambini.
Di questi tempi la gente ha particolarmente in odio la finanza, le banche. Subito tra i chiacchiericci riemerge l’immagine dell’ebreo dedito all’usura, del banchiere senza scrupoli che vuole dominare il mondo. Il grande complotto che giustifica i pogrom torna a far capolino tra di noi.
La memoria è quindi un esercizio inutile? Una fatica che non viene ripagata?
Difficile crederlo. La trasmissione delle testimonianze resta il filo tenue che su cui possiamo tessere una tela robusta, capace di riparare dal vento ghiacciato degli inverni dell’oblio.
Purché sia memoria viva, capace di attraversarci, di farsi com-passione, comune sentire, comune consapevolezza che non c’é sudario più robusto della ragion di Stato perhé l’orrore si ripeta, perché la ferocia trovi le proprie ragioni, perché l’umanità si spezzi in uomini e no.

A pochi giorni dalla “giornata della memoria” ne abbiamo discusso con Paolo Finzi, anarchico di origine ebraica che da tanti anni è impegnato a diffondere la storia dello sterminio nazista di rom e sinti.
Ascolta la diretta

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CIE. Tutto cambia, tutto resta come prima

5183659551_87dc4ea26d_zLo scorso 23 dicembre quotidiani ed agenzie hanno battuto la notizia che il governo avrebbe deciso di ridurre ad un mese il tempo di reclusione nei CIE prima dell’espulsione.
Il primo ministro Enrico Letta, nella conferenza stampa di fine anno, ha dichiarato che “la discussione della Bossi-Fini sarà uno dei temi di gennaio. Gennaio è passato ma il governo Letta non ha fatto seguire alle parole i fatti.
In questo mese l’unico segnale è arrivato dal Senato che ha abolito il reato di “immigrazione clandestina”, limitandolo alla recidiva. Un fiore all’occhiello senza nessuna conseguenza reale, poichè dopo l’adeguamento forzato alla direttiva europea sui rimpatri, non era più
previsto il carcere ma una multa che nessuno pagava.
Di un fatto siamo sicuri. Se davvero venissero cancellati i 18 mesi di CIE questo non sarebbe certo dovuto alla buona volontà del governo, ma alle lotte degli immigrati, che in questi anni li hanno fatti a pezzi, pagando un prezzo durissimo. Botte, umiliazioni, arresti, condanne.

Oggi rimangono aperte solo quattro galere per immigrati senza documenti (Torino, Roma, Pian Del Lago, Bari), le altre, una dopo l’altra, sono state fatte a pezzi e bruciate dai reclusi. Il governo ha dovuto chiudere i CIE di Gradisca, Trapani Vulpitta, Bologna, Modena, Crotone, Milano, Trapani Milo.
Di un mese fa l’annuncio che il CIE di Modena, usato per punire gli immigrati più ribelli, ha chiuso per sempre i battenti.
Gli altri ufficialmente sono tutti in attesa di ristrutturazione, ma non c’é nessuna notizia certa su una possibile riapertura. Si diceva che a gennaio avrebbe riaperto il Centro di Bologna ma il centro di via Mattei è ancora chiuso.
A Santa Maria Capua Vetere (Caserta) e Palazzo San Gervasio (Potenza) potrebbero sorgere due nuovi CIE, dopo l’avventura presto finita dell’emergenza Nordafrica. Il governo ha stanziato 13 milioni di euro ma non si sa se i lavori abbiano preso l’avvio e che punto siano.
Tutti i CIE ancora aperti sono stati a loro volta gravemente danneggiati dalle continue rivolte. In base ai dati, ormai calcolati per difetto, dello stesso Viminale, degli oltre 1800 posti dei CIE ne sarebbero ancora agibili meno della metà ed effettivamente riempiti nemmeno un terzo.
La macchina delle espulsioni è ormai al collasso.
Il governo è in bilico tra Renzi e Berlusconi, gli specialisti della guerra contro i poveri sono alle prese con la rovina dei loro leader, i poliziotti premono perché non vogliono più fare i secondini nei CIE, dove si rischia di incappare nella rabbia di chi, giorno dopo giorno, si vede sfilare via la vita.
Il CIE è un limbo che precede la deportazione, una sala d’aspetto con sbarre e filo spinato in attesa di un viaggio che nessuno vuol fare.
Che qualcosa bollisse nella pentola del governo sul tema immigrazione era chiaro sin dalla strage di Lampedusa del 3 ottobre.

Il modo in cui venne trattata la vicenda, le dichiarazioni di Letta sulla volontà di superare la Bossi-Fini, erano i primi segnali di un campagna politico mediatica che preparava il terreno ad un mutamento di rotta.
L’apparato mediatico messo in piedi la diceva lunga sulla volontà di fare leva sulla commozione suscitata dal racconto della strage per preparare il terreno a qualche dichiarazione ad affetto.
Per contrasto è interessante rilevare come da mesi le notizie sulla situazione al limite del collasso nei CIE fossero tenute in sordina, probabilmente perché il governo non sapeva che pesci prendere di fronte ad una questione che, come la pietra di Sisifo, continuava a rotolargli addosso.
In questo mese e mezzo non si è certo placato il fuoco delle rivolte nei CIE, come dimostra la breve cronologia in coda a quest’articolo.
Diificile dire ora se il governo metterà davvero mano alla normativa sui CIE riportanto la detenzione ad un mese, tuttavia numerosi segnali indicano che la ricetta individuata dal governo potrebbe essere decisamente più complessa del “semplice” riattamento dei CIE distrutti e dell’eventuale apertura di nuove strutture.
Vediamo come.

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Forconi. La Grande Paura

567448_369555_resize_526_394Era la fine di luglio del 1789, pochi giorni dopo la caduta della Bastiglia. Le campagne francesi, piegate dalla carestia, vennero attraversate da un’ondata di panico. Tra i contadini si diffuse la convinzione che l’aristocrazia avesse ordito un complotto ai loro danni. Questa convinzione non aveva reale fondamento, tuttavia il diffondersi di questa voce, che passando di paese in paese, si amplificò, fu all’origine di un moto insurrezionale molto ampio.

Un vecchio ma importante studio dello storico francese Georges Lefevre “La grande paura del 1789” ricostruisce i fatti di quell’estate. Lo storico rilevò che la carestia ingigantiva il timore di attacchi di briganti. La rivoluzione aveva suscitato grandi speranze: nel timore che venissero frustrate dalle resistenze nobiliari, briganti e vagabondi venivano considerati strumenti di un complotto aristocratico la cui reale consistenza e pericolosità fu sopravvalutata dai contadini.

La “grande paura” fu, quindi, un fenomeno di suggestione collettiva destinato ad amplificarsi via via che si propagava. Con una ricerca minuziosa Lefebvre dimostrò il carattere spontaneo e non premeditato della sollevazione. I contadini, armatisi in un primo tempo contro un pericolo illusorio, si spostarono poi su un fronte di lotta di classe ben più reale assaltando i castelli dei nobili e distruggendone gli archivi. La “grande paura” si trasformò così in una reazione punitiva contro l’aristocrazia, che portò all’abolizione dei diritti feudali.

Lessi il libro di Lefevre diversi anni fa e, contrariamente ad altre letture presto dimenticate, le suggestioni che me ne derivarono sono rimaste molto forti.

La rivoluzione delle campagne francesi, dove certo nessuno aveva letto né Voltaire né Rousseau, fu un fenomeno reattivo. La miseria delle campagne non sarebbe bastata a fare da detonatore, mentre la diceria di un complotto aristocratico per affamare i contadini, vendendo all’estero il grano, portò all’assalto di castelli e abbazie. In assenza di un immaginario utopico, la paura del peggio diventa esplosiva.
Il timore che la ferocia dell’oppressione nelle campagne potesse peggiorare, il timore della reazione, fece scattare la rivoluzione.

L’idea di un complotto per realizzare obiettivi abietti, come impadronirsi del mondo, non importa che sia vera, conta invece che sia credibile, che dia senso, all’interno di un orizzonte culturale dato, ad una situazione ritenuta intollerabile e passibile di ulteriore peggioramento.
Quando sei o credi di essere sull’orlo del baratro hai ancora qualcosa da perdere e temi la spinta che ti butterà giù.

Mi è capitato di ripensare alle pagine di Lefevre nei giorni immediatamente successivi alla settimana dei “forconi”.

La paura mi è parsa il detonatore potente che ha portato in strada gente che non c’era mai stata né mai aveva pensato di andarci.

La paura di perdere lo spicchio di futuro al quale si pensava di avere diritto, la paura di un moloch che ingoia tutto, un blob amorale e affamato. Un grande complotto dove le banche e la casta politica sono i nemici del popolo, il popolo inteso come insieme delle persone perbene, dove non c’é distinzione tra sfruttati e sfruttatori. Chi lavora e chi sfrutta il lavoro stanno sulla stessa barca.

Nella sinistra torinese si è sviluppato un dibattito molto ampio, spesso anche aspro.

Diversamente ad altre città italiane a Torino era difficile che il mestolo stesse in mano alla destra cittadina. A Torino sia la destra istituzionale – Fratelli d’Italia – sia chi – come Forza Nuova e Casa Pound – vive nel limbo tra istituzioni e velleità rivoluzionarie – non avrebbero un peso ed una capacità organizzativa tali da poterlo fare.

Un fatto è certo: nelle piazze di Torino e dintorni i fascisti si sono fatti vedere più volte accolti dagli applausi della gente. Come è certo che buona parte delle tifoserie torinesi, ben presenti nei giorni più caldi, siano ormai da lunghi anni egemonizzate dall’estrema destra.

Da che ho memoria le piazze di Torino pavesate di tricolori le avevo viste solo per le partite della nazionale di calcio.

Vedere studenti, disoccupati e mercatari con la bandiera tricolore, non era cosa di tutti i giorni. Non solo. Le serrate dei mercati e dei negozi, i blocchi delle strade e dei mercati generali, l’occupazione delle stazioni, la sassaiola al Palazzo della Regione avevano un carattere esplicitamente eversivo. Sui siti del “coordinamento 9 dicembre” si parlava di “rivoluzione”, “tutti a casa”, “via il governo”, “fase di transizione con militari al timone”. Roba forte.

La protesta contro la pressione fiscale, che aveva segnato qualche settimana prima le lotte dei mercatari, resta sullo sfondo: chi scende in piazza non si accontenta di uno sconto sulle tasse, vuole dare il giro a tutto, farla finita con la “casta” politica che si ingrassa sulle fatiche di chi lavora.

Il governo aveva intuito che in pentola c’era un minestrone molto piccante. La settimana precedente quella del 9 dicembre l’esecutivo guidato da Enrico Letta ha concesso tutto quello che volevano alle organizzazioni degli autotrasportatori, che avevano proclamato una settimana di sciopero e blocchi per protestare contro l’aumento delle accise e delle tasse. Dal canto suo la Coldiretti ha organizzato la manifestazione al Brennero, dove venivano bloccati e perquisiti i camion con la benedizione del ministro.

Queste mosse hanno tagliato le gambe alla protesta del “Coordinamento 9 dicembre”, allontanando lo spettro di un blocco nazionale analogo a quello che l’anno precedente aveva paralizzato la Sicilia.

Queste abili giocate non sono bastate ad impedire che la protesta avviluppasse Torino, con un’eco profonda che ha scosso la città.

I protagonisti delle giornate di dicembre sono i figli del deserto sociale degli ultimi trent’anni. Gente che credeva di avere ancoraggi e certezze e oggi si trova sospesa sul nulla.

Con i compagni a me più vicini abbiamo tentato un’analisi di questo movimento, della sua natura popolare, periferica, perché avvertivamo forte la necessità di capire ed intervenire per poter fermare l’onda lunga di destra che ha messo a loro disposizione un lessico comune, una chiave di lettura ed un orizzonte progettuale.
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Terrorismo di Stato

2014 01 23 terronotav color azzurrroLa Procura torinese ha attuato un ulteriore salto di qualità nella repressione degli attivisti No Tav.
L’accusa di terrorismo per atti di mero sabotaggio non violento, la detenzione in regime di isolamento, il trattenimento e la censura della posta, e, da ultimo, il blocco dei colloqui con amici e parenti sono il segno di un irrigidimento disciplinare da tempi di guerra.
D’altra parte, quando c’é il filo spinato, l’occupazione militare, i blindati, i lacrimogeni, i reduci dell’Afganistan, la guerra c’é già. In guerra è normale che la popolazione venga oppressa e chi resiste sia trattato da terrorista.

Il testo di seguito è stato discusso e condiviso tra i compagni e le compagne della Federazione Anarchica di Torino.

Lunedì 13 gennaio il Riesame ha confermato gli arresti per i quattro anarchici arrestati il 9 dicembre con l’accusa di aver partecipato all’azione di sabotaggio del cantiere della Maddalena della notte tra il 12 e il 13 maggio dello scorso anno. Accolto interamente l’impianto accusatorio del Gip Giampieri e dei PM Rinaudo e Padalino, che, oltre all’imputazione di uso di armi da guerra, avevano formulato l’accusa di attentato per fini di terrorismo.
Gli articoli del codice sono il 280 e il 280 bis.
L’articolo 280 contempla il reato di “attentato per finalità terroristiche o di eversione”. Ed è così formulato: “Chiunque per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico attenta alla vita od alla incolumità di una persona, è punito, nel primo caso, con la reclusione non inferiore ad anni venti e, nel secondo caso, con la reclusione non inferiore ad anni sei.”
L’articolo 280 bis, “Atto di terrorismo con ordigni micidiali o esplosivi” prevede che “salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque per finalità di terrorismo compie qualsiasi atto diretto a danneggiare cose mobili o immobili altrui, mediante l’uso di dispositivi esplosivi o comunque micidiali, è punito con la reclusione da due a cinque anni”.
Quella notte venne danneggiato un compressore. Nonostante non sia stato ferito nessuno, gli attivisti sono stati accusati di aver tentato di colpire gli operai del cantiere e i militari di guardia. Una follia. una lucida follia.

Come si configura il terrorismo? Qual è la differenza tra un danneggiamento e l’attentato terrorista? Come si trasforma un’azione di sabotaggio in un atto terrorista?
L’ordinamento mette a disposizione delle procure l’articolo 270 sexies, l’ultima incarnazione del famigerato 270, l’articolo che descrive i reati associativi di natura politica. Il 270 sexies fu frutto dell’onda emotiva seguita ai sanguinosi attentati di Londra e Madrid, delle bombe su treni e metropolitane che fecero centinaia di morti nelle due capitali europee, l’ennesimo episodio nella guerra di Al Quaeda agli infedeli. La Jihad del secondo millennio.
Dal 270 sexies i PM torinesi hanno desunto la definizione di terrorismo sulla quale hanno incardinato l’imputazione contro i quattro No Tav arrestati il 9 dicembre. Per questa norma “sono considerate con finalità di terrorismo le condotte che, per la loro natura o contesto, possono arrecare grave danno ad un Paese o ad un’organizzazione internazionale e sono compiute allo scopo di intimidire la popolazione o costringere i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto (…)”.
Nelle motivazioni della decisione del riesame di mantenere in carcere i quattro attivisti No Tav si legge: “È ravvisabile la finalità di terrorismo tenuto conto che l’azione è idonea, per contesto e natura, a cagionare grave danno al Paese, ed è stata posta in essere allo scopo di costringere i pubblici poteri ad astenersi dalla realizzazione di un’opera pubblica di rilevanza internazionale”.

Chiunque si opponga concretamente ad una decisione dello Stato italiano o dell’Unione Europea rischia di incappare nell’accusa di terrorismo.
Il meccanismo che ha portato in galera i quattro No Tav potrebbe essere in ogni momento esteso a chiunque lotti contro le scelte del governo non condivise. In questo caso la lotta tocca una vasta parte della popolazione valsusina e di quanti negli anni ne hanno condiviso motivazioni e percorsi.
Un fatto gravissimo.
Non è “soltanto” in gioco la libertà di quattro attivisti ma quella di tutti. Se il teorema che equipara le lotte al terrorismo dovesse passare, la possibilità di opporsi sarebbe negata in modo drastico.
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Libano. Bombe e campi profughi

Libano_17_12Gli scenari libanesi sembrano delineare una nuova guerra civile, lunga e feroce come quella che scosse il paese dal 1975 al 1990. Nella zona di Tripoli si moltiplicano gli scontri tra sunniti da una parte, sciiti e alawiti dall’altra, una sorta di prolungamento del conflitto sempre più feroce che scuote la vicina Siria da oltre due anni.
Il paese dei cedri è come una mappa miniaturizzata delle crescenti tensioni che segnano il quadro geopolico dall’Iran all’Arabia Saudita.
Uno scacchiere sempre più confuso nel quale alcuni attori giocano su più piani.
L’Iran e il vicino Iraq, a sua volta scosso da un’impressionante serie di attentati dinamitardi, sono alleati della Siria di Bashar el Hassad a sua volta appoggiata dagli hezbollah sciiti libanesi. Il campo sunnita, che sostiene attivamente le formazioni salafite che hanno da tempo preso il controllo dell’esercito libero di Siria, sono a loro volta divise tra quelle vicine al Qatar e alla Turchia nello stile della Fratellanza musulmana, e le formazioni wahabite quaediste, sostenute dall’Arabia Saudita. Sullo sfondo, ma certo di gran peso, lo scontro tra Stati Uniti e Russia per garantirsi il controllo di un’area strategica per l’approvigionamento e la distribuzione energetica.

Nei campi profughi del paese la situazione è durissima. Migliaia di persone vivono in tende leggere, senza protezione dalla pioggia e dalla neve, che, anche qui, cade copiosa in montagna. Spesso non c’é né acqua corrente, né elettricità, ne bagni.
La maggior parte dei profughi fugge le persecuzioni di Hassad: una minoranza fa parte dei lealisti, ancor meno sono i laici democratici nemici sia di Hassad sia delle formazioni islamiste.
Si sentono abbandonati, dimenticati e hanno voglia di far sapere all’esterno quello che hanno subito.

Giacomo, un compagno livornese, è tornato dal Libano martedì 21 gennaio, dopo ha fatto un lungo giro per capire e toccare con mano la situazione. Dopo una breve visita a Beirut, è stato nella zona di Tripoli e in alcuni campi profughi, dove le condizioni di vita sono terribili. Tanti, sfuggiti a bombe e torture, muoiono di freddo e malattie.

Vi proponiamo di seguito un suo articolo nel quale ci racconta la situazione di un paese.

Il Libano, una piccola striscia di terra che si affaccia sul mediterraneo, stretta tra la Siria ed Israele.
Un paese che, dopo l’indipendenza del 1943, ha conosciuto un forte squilibrio politico e sociale a causa delle conflittualità tra le diverse entità politiche locali, legate al variegato e complesso quadro di comunità religiose presenti nel paese, in particolar modo componenti cristiane e musulmane. Uno scontro che si è aggravato negli anni 70′ con le continue rappresaglie israeliane all’interno del paese, dovute alla presenza massiccia nel territorio di profughi palestinesi; violenze che hanno prodotto ulteriori divisioni in un contesto già di per sé fragile, trascinando il paese in una violenta guerra civile, protrattasi per più di trent’anni. Un territorio che ha sempre visto l’ingerenza estera come fattore di alta destabilizzazione interna, riflesso di vari tornaconti religiosi Medio orientali e terreno fertile per giochi politici internazionali.
Ad oggi infatti il paese dei cedri, dopo tre invasioni Israeliane ed i continui sussulti interni, non conosce alcuna tregua per la vicinanza della Siria, lacerata da una sanguinosa guerra civile dal 2011. Una guerra che travalicato i confini da ormai più di un anno, riproducendovi lo storico scontro tra sciiti, oggi sostenitori del presidente siriano Assad, e sunniti, legati alla variegata galassia dell’opposizione al governo di Damasco.
Nel 2012, quando misi piede per la prima volta in Libano, nella città di Beirut ed in prossimità dei confini con la Siria, si notavano i primi esodi di siriani in fuga dalla guerra civile. La situazione di precaria tranquillità del paese dopo la crisi politica del 2006, venne quasi di colpo interrotta dalle prime avvisaglie di scontri al nord direttamente legati al conflitto siriano. Questo fu  l’inizio ad un escalation di violenze sino alla tragica crisi odierna tra autobombe e cecchini delle varie milizie. In questa mia seconda visita in Libano per osservare la situazione da vicino, il numero dei profughi siriani in fuga dalla guerra verso il territorio libanese è aumentato vertiginosamente.
L’esercito è stato chiamato in causa da un governo fantasma per intervenire militarmente nella città di Tripoli per sedare l’inasprimento del conflitto tra la comunità alawita (legata alla galassia sciita di cui fa parte anche il presidente siriano Assad) e quella sunnita. La città è in preda alle violenze settarie che non si placano neanche con l’occupazione delle forze militari governative, con il rischio che esse aprano un terzo fronte per la loro posizione politica all’interno della città settentrionale. Dall’appartamento a Tripoli dove sono stato ospitato, il frastuono delle granate ed il continuo “scambio di favori” tra le due fazioni si sentono con insistenza, soprattutto durante le ore notturne, mentre in alcune zone della città fortissimo è il rischio di finire sotto il fuoco dei cecchini o di essere colpiti da proiettili vaganti.
Non migliore è la situazione dei campi profughi siriani che ho deciso di visitare: quello di Arsal, nella valle della Beqaa al confine nord orientale con la Siria e quello di Akkar, sul fronte settentrionale.
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Colpo di spugna al reato. La clandestinità resta

ufficio immigrazioneIeri al Senato è stato approvato l’emendamento presentato dal governo per limitare il reato di clandestinità ai casi di recidiva. Il ddl dovrà tornare alla Camera per l’approvazione definitiva.
Il provvedimento prevede che l’immigrazione clandestina non sia più reato e torni a essere un illecito amministrativo: mantiene tuttavia valenza penale ogni violazione di provvedimenti amministrativi emessi in materia di immigrazione (come rientrare in Italia una volta espulsi).
A illustrare l’emendamento al Senato è stato il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri. “Da un lato il reato viene abrogato – ha spiegato – dall’altro viene trasformato in illecito amministrativo”. Ciò significa “che chi per la prima volta” entra clandestinamente nel nostro paese “non verrà sottoposto a procedimento penale, ma verrà espulso”. Ma, se rientrasse, a quel punto “commetterebbe reato”.

Il reato di “ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato” era stato introdotto nel Testo Unico sull’immigrazione con l’approvazione del “pacchetto sicurezza” (legge n. 94 del 2009). In origine comportava la reclusione da un minimo di un anno ad un massimo di cinque. Questa legge rimase nell’ordinamento ben oltre il 24 dicembre 2010, quando entrò in vigore la “direttiva rimpatri”, la legge quadro dell’UE, sottoscritta anche dall’Italia, che è incompatibile con il reato di clandestinità. Per lunghi mesi i tribunali italiani hanno continuato a emettere condanne riempiendo le carceri di immigrati senza permesso di soggiorno.
Quando il governo si rassegnò a cancellare il carcere per i clandestini “recidivi”, mantenne tuttavia la contravvenzione da cinque a diecimila euro per chi, violando un ordine di rimpatrio, si fosse rimasto ugualmente nel nostro paese.
Vale la pena rilevare che il pagamento non estingueva il reato, che si poteva cancellare solo andandosene spontanemente.
Va da se che nessun immigrato si è mai curato molto di questa norma: perché pagare se in ogni caso si rischiava la deportazione coatta?
Se la Camera confermerà il voto del Senato la contravvenzione verrà fatta solo ai recidivi, a chi  deciderà di restare in Italia, dopo il decreto di espulsione.
La cancellazione del reato di clandestinità è certo un gesto di forte rilevanza simbolica, ma, nei fatti, poco cambierà se non verrà cancellata la Turco-Napolitano Bossi-Fini, la legge che rende impossibile entrare nel nostro paese per cercarsi un lavoro, la legge che ha reso stabile la clandestinità, offrendo ai padroni lavoratori sempre sotto pressione, perchè costitutivamente fuorilegge.
Va da se che le gabbie normative, sono lo specchio delle relazioni sociali. Le leggi ultrarepressive sono servite ad alimentare l’isteria securitaria che ha fatto il successo della destra di governo. Da sempre gli imprenditori chiedono maggiore flessibilità, mani libere, nessun laccio che impedisca di licenziare. Paradossalmente un approccio eccessivamente disciplinare alla regolamentazione dell’ingresso in Italia di lavoratori stranieri, diventa  a sua volta un intralcio. Un governo più “confindustriale” come quello guidato da Enrico Letta non poteva certo mantenere un impianto le cui ragioni sono essenzialmente ideologiche.
Ai padroni servono lavoratori ricattabili, non periferie in fiamme e rivolte nei CIE.

Ascolta l’intervista realizzata dall’info di radio blackout ad Mauro Straino, avvocato milanese da sempre in prima fila nella difesa degli immigrati in lotta.

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Terrorista è lo Stato

TERROR~1La Procura di Torino ha ulteriormente innalzato il livello repressivo contro il movimento No Tav con gli arresti per terrorismo dello scorso 9 dicembre.
Il teorema che ha portato in carcere quattro attivist* No Tav per un’azione di sabotaggio del cantiere in Clarea è di una gravità inaudita. Se dovesse passare potrebbe essere applicato a qualunque lotta sociale.
Infatti la finalità di terrorismo di cui all’articolo 280 bis viene desunta dalla definizione che il legislatore ne diede inserendo nel nostro ordinamento il 270 sexties. In base a questo articolo la finalità di terrorismo è insita in ogni condotta di opposizione concreta ad una decisione legittimamente presa dalle istituzioni preposte.
Il 270 sexties venne introdotto nel nostro ordinamento nel 2005 dopo i sanguinosi attentati di Madrid e Londra: oggi viene applicato ad un’azione non violenta di sabotaggio. Domani potrebbe colpire ogni forma poco più che simbolica di lotta.
Per fronteggiare questa nuova offensiva repressiva nell’assemblea dei comitati dell’8 gennaio il movimento No Tav ha convocato una giornata nazionale di lotta contro il Tav e la repressione per il 22 febbraio.
Il convegno nazionale della FAI riunito a Roma il 12 gennaio ribadisce che terrorista è lo Stato che devasta e saccheggia il territorio e reprime chi vi si oppone. Esprime la propria solidarietà ai compagni e alle compagne incarcerat* e a tutt* gli attivisti inquisiti per la lotta No Tav. Invita tutte le realtà federate a partecipare attivamente alla giornata di lotta del 22 febbraio, facendosene promotrici ove fosse necessario.
Chiara, Claudio, Mattia, Nicolò liberi subito!

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