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Macchinista unico. Indagine della Procura

treno_sfonda_sospesoI lavoratori delle Ferrovie hanno lottato per anni contro l’introduzione del macchinista unico a guida dei treni, perché ne denunciavano i rischi per la sicurezza. I sindacati di base si sono opposti con forza ad uno dei punti cardine della lunga ristrutturazione che ha reso il trasporto ferroviario più costoso e meno sicuro. Nonostante le lotte durissime il macchinista unico è stato introdotto prima sui treni locali, poi sugli interregionali sino ad arrivare a quelli ad alta velocità. L’ultimo accordo venne siglato due anni fa tra Ferrovie e Cgil, Cils, Uil, Ugl, Fast in cambio di 900 assunzioni.
Il sindacato dei macchinisti Orsa e gli altri sindacati di base non si piegarono al ricatto, rifiutando di firmare. Non solo. L’Orsa raccolse numerosi dossier sulle controindicazioni in materia di sicurezza nel lasciare un solo macchinista alla guida del treno.
Secondo Trenitalia a garantire la sicurezza era il dispositivo Vacma, che i ferrovieri hanno soprannominato “pedale dell’uomo morto”, perchè se il macchinista alla guida del treno smette di tenerlo premuto, scatta l’allarme ed il treno si blocca automaticamente.
La pericolosità di un simile dispositivo, la cui unica ragione è il risparmio degli stipendi del secondo macchinista, è palese.
In tanti anni di lotta contro l’introduzione dell’agente unico, alcuni ferrovieri che si erano opposti sono stati licenziati. Il più noto, ma non il solo, fu Dante De Angelis.
In settembre la Procura di Roma ha delegato alcune verifiche agli esperti dell’azienda Asl A proprio per capire le ripercussioni in termini stress sugli operatori scaturiti dall’adozione del macchinista unico, il cosiddetto ”agente solo”, e dunque le eventuali ripercussioni sulle normative di sicurezza.
In questi mesi si sono moltiplicate le denunce dei ferrovieri, in seguito a guasti e incidenti, peraltro sempre più frequenti, dopo i tagli che hanno inciso sulla manutenzione delle linee e delle motrici.
Di ieri la notizia dell’iscrizione nel registro degli indagati dell’AD di Trenitalia Vincenzo Soprano.
Al manager è stato notificato un invito a comparire ed entro questa settimana sarebbe stato fissato l’interrogatorio negli uffici di piazzale Clodio. L’iscrizione di Soprano ed altri funzionari di Trenitalia, secondo gli inquirenti, è “di pericolo” e non legata ad un evento specifico.
L’accelerazione che ha portato a questi avvisi di garanzia “eccellenti” è dovuta alla revisione delle norme europee di sicurezza dopo il gravissimo incidente avvenuto in estate in Spagna. Il mancato rispetto di un segnale su un treno a macchinista unico ha provocato settanta morti.

Ascolta la diretta realizzata dall’info di Blackout con Pippo, un compagno che ha lavorato per 35 in ferrovie.

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Letta ad Ancona. Cariche e feriti

WCENTER 0WNKBFREPG  -  ( Alessandro Accorroni - CASA GIF PeG borsa db error imgaccorroni151013172005.hdr imgaccorroni151013172005.jpg imgaccorroni151013172026.hdr imgaccorroni151013172026.jpg piemme rpq trasco varie webleggo webphoto webprint webtxt webtxtcol IMG_2852.JPG )Il 15 ottobre si è svolto ad Ancona il vertice bilaterale Italia-Serbia. Nella sede della Regione Marche si sono incontrati i primo ministro Enrico Letta e Ivica Dacic, accompagnati da una nutrita delegazione di ministri dei due governi. Per il governo italiano c’erano anche il viceprimo ministro e ministro dell’Interno, Angelino Alfano, i ministri Emma Bonino, Mario Mauro, Annamaria Cancellieri, Maurizio Lupi e Maria Chiara Carrozza.
L’Italia è il principale sostenitore dell’ingresso della Serbia nell’Unione Europea. Durante i colloqui, il governo italiano ha confermato il proprio sostegno a Belgrado per l’adesione del paese balcanico all’Ue.
Il giorno precedente, sempre ad Ancona c’era stato un incontro per gettare le basi della macroregione Adriatico-Ionica, che avrebbe nelle Marche il proprio centro e della quale farà parte anche la Serbia, oltre agli altri paesi della ex Jugoslavia e la Grecia.
Imponente il dispositivo di sicurezza messo in piedi per il vertice. Militari della Folgore e del battaglione San Marco hanno blindato il porto, nonostante da alcuni anni l’intera area sia inaccessibile agli anconetani, per le reti erette per rendere più difficile l’approdo ai profughi che si infilano sotto i tir in partenza dal porto greco di Patrasso.

L’opposizione sociale anconetana ha deciso di dare il benvenuto a Letta con una manifestazione, che la polizia ha vietato.
Aperto dallo striscione “Licenziamenti, sfratti, precarietà basta austerità”, il corteo è partito dal quartiere Archi tentando di raggiungere la sede della Regione, dove si svolgeva il vertice, ma è stato bloccato dalla polizia in piazzale Italia.
Ad un primo tentativo di forzare lo sbarramento di polizia l’antisommossa ha caricato i circa 300 manifestanti. Una seconda carica, più violenta, è scattata quando il corteo ha provato a passare in un altro punto. Qui però i manifestanti sono riusciti a passare con un corteo che ha attraversato le vie cittadine.
Tre i feriti: due manifestanti colpiti da manganellate ed un terzo contuso ad una gamba, dopo aver schivato al volo la carica di una camionetta della polizia.
Una buona inaugurazione degli accordi bilaterali tra Italia e Serbia, che hanno, tra gli altri, l’obbiettivo di rafforzare la collaborazione militare tra i due paesi.

Ascolta la diretta realizzata dall’info di radio Blackout con un compagno di Ancona, Gianfranco:

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I morti di Lampedusa, il vecchio nazista, la danza macabra della Lega Nord

mare nostrumCorpi in eccesso
359 bare allineate in un hangar per dare una parvenza di dignità alle ultime vittime della frontiera sud della Fortezza Europa. I sacchi neri, che a Lampedusa sono sempre pronti, non potevano reggere la prova della telecamera, il ginocchio piegato di Letta, il cordoglio di Barroso e Alfano, il lutto nazionale, l’indignazione degli assassini che hanno deciso di accendere i riflettori su uno dei tanti episodi della guerra ai poveri.

Sullo sfondo i pescatori che fuggono le telecamere perché sanno che chi tira fuori dall’acqua qualcuno rischia l’incriminazione per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e il sequestro della barca, del lavoro, del futuro. Le immagini dei giornalisti a caccia di “eroi” potrebbero essere usate da qualche solerte magistrato. Nei lunghi anni di questa guerra nascosta chi ha teso la mano nell’usuale solidarietà di chi solca il mare spesso è incappato nelle maglie della giustizia.
Amara come fiele l’indignazione di Letta per l’incriminazione dei superstiti, come se i governanti non sapessero che l’ordinamento lo impone.

Anarres ha chiesto un commento a caldo ad Alberto La Via, un antirazzista siciliano, che in questi anni ha visto il Mare di Mezzo farsi sudario per i corpi cui la ferocia delle frontiere avevano sottratto la vita.
Ventimila quelli che qualcuno ha visto partire da uno dei tanti sud e non tornare mai più. Certo di più quelli di cui non si è avuta alcuna notizia.
Ascolta la diretta

La guerra ai poveri è fatta di respingimenti collettivi, è una guerra scritta nelle leggi che rendono impossibile entrare legalmente nel nostro paese per cercare un lavoro o un rifugio, perché la clandestinità non è una scelta ma un’imposizione dello Stato italiano.
Al governo, ai padroni non è mai interessato fermare l’immigrazione, ma avere a disposizione tanti corpi clandestini, anonimi, ricattabili per metterli al lavoro, per piegarli alle esigenze dei padroni. Schiavi senza diritti. Schiavi la cui condizione ha fatto da modello per tritare buona parte del sistema di garanzie strappato in decenni di lotte durissime dai lavoratori italiani.
Nella sua forma più cruda è il modello nazista. Durante la seconda guerra mondiale nelle fabbriche della Germania hitleriana i prigionieri selezionati nei lager venivano sfruttati a morte e poi uccisi. Selezione, sfruttamento, sterminio dei corpi in eccesso, dei più deboli, degli anziani, dei bambini, dei malati. Il nazismo non fu una perversione ma la cruda realizzazione della logica del profitto, l’apoteosi del sistema capitalista, cui veniva fornita manodopera gratuita, sostituibile all’infinito.
Un ideale difficile da eguagliare ma sempre vivo tra chi non ha altra morale che quella dei soldi.

Sulla Turco-Napolitano Bossi-Fini ascolta la diretta con Federico, un antirazzista triestino.

Una morale ragioniera
Qualche giorno dopo la strage di Lampedusa la commissione giustizia del Senato ha votato l’abolizione del reato di immigrazione clandestina. Tra i sì quello dei due senatori grillini. Il giorno dopo è scattata violentissima la reprimenda di Grillo e Casaleggio contro i due parlamentari che si erano discostati dal “programma”, lo scarno vademecum del delegato a Cinque Stelle.
Casaleggio usa argomenti da ragioniere populista, ricordando che nel nostro paese chi non attacca l’immigrazione perde voti. Un chiaro esempio di etica politica, quella che misura la saldezza dei propri principi sui punti che vale nella partita delle poltrone. Niente di nuovo sotto il sole.
Il guru genovese, famoso per le sue dichiarazioni di stampo leghista sugli immigrati, considerati potenziali terroristi, non può che nuotare nel mare caldo della maggioranza rancorosa su cui si sono fondate le fortune della destra xenofoba.
Altre crepe si aprono nella compagine pentastellata, dove il populismo giustizialista macina insieme le vicende giudiziarie di Berlusconi, gli affogati del Mediterraneo, gli affarucci della casta.
Di fatto il reato di immigrazione clandestina è una scatola vuota, che costa ben poco buttare nel bidone della carta da riciclare. Il governo Berlusconi fu obbligato a cancellare la pena detentiva per adeguarsi alle normative che anche l’Italia aveva sottoscritto in sede europea. Oggi chi viola l’ordine di allontanarsi dal territorio nazionale rischia una multa da cinque a dieci mila euro. La sanzione non cancella il reato, anche se l’immigrato paga, resta sempre clandestino. Ne consegue che nessuno paga e nessuno se va spontaneamente dall’Italia.
Abolire il reato di immigrazione clandestina sarebbe un gesto meramente simbolico. Certo anche i simboli contano, ma non vorremmo che qualcuno si salvasse la faccia con poco sforzo.

Nuovi democristiani
Dal canto suo Enrico Letta con raffinatezza democristiana dichiara al direttore di Repubblica Ezio Mauro, che da uomo e da politico, cancellerebbe la Bossi-Fini. Peccato che il governo delle grandi alleanze gli fornisca un buon alibi per fare bella figura senza fare nulla.
I piroscafi stanno portando via le bare da Lampedusa: bisogna fare posto ai morti pescati di fresco. Altre centinaia nella contabilità di morte della Turco-Napolitano Bossi-Fini. La Libia del dopo Gheddafi non garantisce più il servizio delle proprie prigioni/lager. Un servizio pulito, dove gli ordini di Roma venivano eseguiti dall’esecrabile alleato.
Il caos mediatico/politico dei morti di Lampedusa ha uno scopo molto chiaro: ottenere maggiori risorse dall’Europa, una sede di Frontex in Italia e più risorse per pagare i paesi della sponda sud del Mediterraneo perché facciano da gendarmi e carcerieri per migranti e profughi.
Così i corpi in eccesso potranno essere respinti, richiusi, seppelliti lontano dalle nostre sponde. Ancora una volta invisibili.

Il corpo del nazista e il corpo politico
Sin troppo visibile è il corpo dell’anziano nazista Priebke. Nessuno lo vuole. In questo paese senza memoria un nazista morto crea imbarazzo. Come se una tomba al Verano fosse un eccesso di pietas, quella pietas che certo l’ufficiale delle SS non ebbe mai per le proprie vittime.
Così si assiste al paradosso che la strage di Stato di Lampedusa, i corpi in eccesso selezionati dal mare per conto del governo italiano hanno esequie di Stato, mentre il corpo del nazista ospitato per anni a Roma crea imbarazzo. Questione di identità. Gli italiani brava gente seppelliscono le vittime delle loro leggi, negano la sepoltura a chi, nel nome di una legge analoga, ha fatto fucilare 335 inermi. Per una singolare corrispondenza il numero delle vittime è quasi lo stesso.

DSC_2591Danza macabra
A Torino, senza pudore, i leghisti hanno compiuto la loro danza macabra nel centro cittadino. Qualche centinaio di metri di corteo, poche migliaia di persone hanno sfilato in un verde metallico che nulla ha della tenerezza dell’erba. Intorno a loro un dispositivo militare senza pari. Centinaia di poliziotti e carabinieri hanno paralizzato il centro, chiudendo in una morsa d’acciaio la manifestazione leghista.
Nonostante l’imponente dispositivo la manifestazione è stata contestata da più parti: non violenti in piazza CLN, No Tav in via Nizza, un migliaio di antirazzisti in corteo hanno assediato per ore i tristi padani. Gli antirazzisti hanno attraversato il centro cittadino, cercando di raggiungere la stazione. La polizia ha fatto leggere ma frequenti cariche per impedire al corteo di avvicinarsi ai leghisti.
Per loro i morti di Lampedusa sono una festa. Come dimenticare i manifesti, che incitavano a fermare l’invasione? Come dimenticare la presidente leghista della Camera Irene Pivetti che nel 1997 esortava la Marina Militare a speronare le barche degli immigrati? Il 28 marzo la corvetta Sibilla mandò a picco la Kater i Rades piena di albanesi. Vennero recuperati solo 81 corpi. Gli altri restarono tra le braccia del Mediterraneo.
Il figlio del Senatur qualche anno dopo è andato proprio in Albania ad acquisire una laurea.
La presidente ultracattolica della Camera passò dal modello Vandea a quello sado maso, restando così coerente con se stessa.
I democratici, da vent’anni al governo della città, hanno scelto di stare al coperto. Un silenzio fragoroso.
Nelle stesse ore a Roma i sinceri democratici sfilavano per la Costituzione, come se l’astrattezza dei principi potesse fare argine alla concreta ferocia del nostro tempo.
Il boia delle Ardeatine ha sempre negato le camere a gas, i forni che smaltivano quel che restava dei corpi in eccesso.
I boia democratici rendono omaggio alle loro vittime.

(questo articolo uscità sul prossimo numero del settimanale Umanità Nova)

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Decomposizione della politica

buffoneIn questi anni abbiamo assistito ad un processo di decomposizione della politica persino sorprendente nei suoi modi. E’ come assistere alla messa in scena di ciò che normalmente è fuori dai riflettori, affidato agli specialisti delle camere mortuarie, che preparano il cadavere per l’ultima esposizione pubblica prima della sepoltura.
L’oscenità in senso etimologico, ossia l’esposizione del disordine dietro i fondali, della confusione dei camerini, dei volti senza trucco. Se dovessimo trovare una formula per questa nostra epoca potremmo dire di essere passati dalla politica spettacolo allo spettacolo della politica. Farsesco, impudico, esibito sino all’estremo. Eppure insuperabile.
Intorno alla questione della decadenza da senatore di Silvio Berlusconi e alla crisi di governo abortita in extremis, il gioco delle alleanze, delle amicizie, delle poltrone, degli interessi si è mostrato senza infingimenti. Nudo. Una nudità senza vergogne di sorta. Scilipoti che inveisce contro i traditori che abbandonano la barca che affonda è l’immagine più emblematica della politica che da spettacolo, mostrando la propria trama senza esitazioni né traumi.
Se il berlusconismo ha segnato il passaggio dalla politica ideologica alla politica dell’immagine, il tramonto del vecchio leader pare segnare il passaggio all’avanspettacolo, alla farsa, all’operetta.
Il buffone diventa re e recita la parte con la stessa ferocia del proprio modello.
La distanza tra il buffone che si fa re, i continui “scandali” che rendono pubblica la corruzione profonda della politica (e della società), allargano la distanza tra l’apparato istituzionale e le vite concrete di quanti vivono esistenze precarie, prive di prospettive, ancorate a scelte appannaggio di una governance transnazionale che detta la propria agenda alle istituzioni nazionali. Oggi la politica ha visto erodere il proprio potere di controllo dell’economia e, quindi, di presa sulla società, se non nella forma più squisitamente disciplinare.

Anarres ne ha discusso due settimane fa, prima della pantomima della mancata crisi di governo, con Salvo Vaccaro, che insegna filosofia politica all’università di Palermo.
Ascolta la diretta

La settimana successiva il rientro della crisi di governo, l’IVA è aumentata, l’IMU per i ricchi non è passata, la “manovrina” da 1,6 miliardi è stata approntata.

Anarres ha ripreso il filo della discussione con Stefano Boni, antropologo dell’università di Modena e Reggio, collaboratore di Libertaria.
Ne emerge un’immagine della politica come una sorta di reality show, affidato a logiche di merketing. Ogni aspetto della comunicazione politica diviene sempre più simile alla pubblicità dei prodotti. Secondo un recente sondaggio la fiducia nei partiti è all’8%, l’astensionismo, che alla fine degli anni 70′ si attestava intorno al 10% oggi è cresciuto sino a sfiorare il 50% nelle ultime ammnistrative: uno su cinque di quelli che avevano votato la volta precendente non ha più votato alla recente tornata elettorale. Secondo Boni tra i motivi di disaffezione dalla politica è la constatazione della sua perdita di potere a favore delle istutuzioni finanziarie, che dettano l’agenda ai governi, impongono nuove tasse, arrivando, come in Grecia e in Italia, ad imporre lo spesso presidente del consiglio. L’altro cuneo che allarga la frattura tra i cittadini e le istituzioni è la constatazione degli enormi privilegi dei politici di professione, la cui moralità è tanto bassa da lucrare persino sulle calamità nazionali. Ne consegue che il ruolo della politica è mantenere il consenso e la pace sociale, attraverso la delega ad un qualche partito, a qualsiasi partito. Il gioco tuttavia funziona sempre meno. Tanta parte dei movimenti che si sono sviluppati nelle diverse latitudini del pianeta ha costruito – almeno nella propria fase aurorale – relazioni egualitarie e libertarie, mettendo in campo una critica radicale alla delega politica. Il fulcro di questi movimenti è l’assemblea dove si decide con il metodo del consenso, riffuggendo quindi metodi basati sul principio di maggioranza.
Il nocciolo politico è la messa in discussione della sovranità, del diritto dello Stato ad imporre le proprie decisioni, un nodo che ovviamente non si scioglie a livello istituzionale, ma in una pratica che si oppone alla dimensione istituita. La Costituzione italiana è intrinsecamente ipocrita, poiché affida la sovranità al popolo ma nei fatti gliela sottrae stabilendo che i modi del suo esercizio sono definiti all’interno di istituzioni date, ossia affidate ai palazzi.

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Shutdown. Crepe nell’impero americano

congress-meets-government-shutdown-looms-20130930-133303-510Il braccio di ferro tra l’amministrazione Obama e l’ala dura del partito democratico ha portato allo shutdown, ossia alla chiusura per mancanza di fondi di numerosi servizi e strutture dello Stato federale.
Sul piatto il cosiddetto Obamacare, la riforma sanitaria che dovrebbe garantire un’estensione dell’accesso alle cure per migliaia di statunitensi che ne sono esclusi.
Non si tratta, bene inteso, di una forma di tutela simile a quelle delle vecchie socialdemocrazie europee, poiché il principio che l’accesso alle cure è garantito in base ad un’assicurazione sanitaria individuale, non viene scalfito. Obama si limita a mettere a disposizione fondi pubblici per consentire ad un maggior numero di persone di accedere alle cure. Inoltre vengono modificate alcune regole per impedire alle assicurazioni di rifiutare la copertura sanitaria a soggetti a “rischio” perché obesi, fumatori, senza un lavoro regolare.
I repubblicani avrebbero voluto uno slittamento di un anno del provvedimento, Obama, che su questo tema si è giocato l’immagine della propria presidenza, ha deciso di non cedere alle pressioni del Tea Party, che ha reagito provocando lo shutdown.
Sebbene Obama sia riuscito in extremis a trovare la copertura per garantire il funzionamento del Pentagono, la situazione resta critica.
Se il 17 ottobre Obama non riuscisse a stringere un accordo con i repubblicani e questi mantenessero la linea dura, il rischio, ben più grave sarebbe quello del deafult, un fallimento che trascinerebbe nella propria rovina l’intero pianeta.
Il nocciolo che questa vicenda ci consente di enucleare è che l’impero americano è un impero a credito. Gran parte del gigantesco debito estero degli Stati Uniti è nelle mani della Cina, del Giappone, degli stessi stati europei, che, se da un lato hanno in mano una gigantesca arma di pressione sugli Stati Uniti, dall’altro però rischiano a loro volta il tracollo. Un grosso debito inesigibile fa fallire il creditore non meno del debitore. La corda al collo degli Stati Uniti stringe anche chi ne detiene il credito, rischiando di soffocare entrambi. Continued…

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Nuovo Brasile, antiche esclusioni

brasil2Negli ultimi due mesi si sono moltiplicate le lotte della classe media brasiliana. Il Brasile sta cambiando: la crescita economica che in termini di Pil significa un più 2,6% per quest’anno, l’estendersi della produzione industriale, l’aprirsi di un mercato interno più vasto, ha dato slancio al protagonismo di categorie come gli insegnanti e i bancari che ambiscono a consolidare una più solida posizione di classe.
D’altro canto poco o nulla è cambiato per le classi più povere, quelle che crescono e fanno crescere le favelas, quelle dei contadini senza terra, dei braccianti e degli operai. L’incapacità – o non volontà – dei governi di sinistra da Lula e Rousseff di attuare una riforma agraria ha mantenuto intatti i privilegi dei latifondisti verde e oro.
Rispetto alle grandi lotte trasversali che avevano scosso il paese in giugno, gli scioperi, pur durissimi, dei lavoratori della scuola e delle banche non coinvolgono i settori più poveri della società.
I media puntano a dividere i buoni dai cattivi, i pacifici insegnanti dagli anarchici, subito etichettati come Black Bloc, una sigla buona per ogni latitudine, comprese quelle dove questa tattica non ha mai attecchito, sebbene la radicalità delle piazze sia molto forte.
In questo contesto si moltiplicano le operazioni di “pulizia” territoriale in vista della coppa del mondo di calcio: sgomberi di baraccopoli, operazioni di polizia contro gli oppositori politici, nuove leggi antiterrorismo.
Nelle ultime settimane si sono moltiplicate le perquisizioni, gli arresti e le violenze della polizia, che ha fatto più volte irruzione nelle sedi anarchiche di Rio e altre città brasiliane.
Le nuove leggi contro il terrorismo mirano a colpire i movimenti urbani degli occupanti di case e quelli dei contadini senza terra.
L’info di radio Blackout ha intervistato Simone, un compagno che conosce bene il Brasile.

Ascolta la diretta

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Re Giorgio e l’amnistia

san-vittoreLo scorso 8 gennaio l’Italia è stata condannata dalla Corte Europea per i Diritti Umani per i trattamenti inumani e degradanti inflitti ad alcuni detenuti rinchiusi nelle carceri di Busto Arsizio e Piacenza. Questi prigionieri erano stati obbligati a condividere con altri carcerati una cella di 9 metri quadrati, senza acqua calda e priva di una decente illuminazione.
La cifra di 14.000 euro è il prezzo fissato dalla corte per le torture subite dai detenuti.
Ma non solo. I giudici hanno stabilito l’obbligo per l’Italia di porre rimedio al sofraffollamento carcerario entro un anno. Il governo italiano, già numerose volte nel mirino della corte, ha immediatamente fatto ricorso. Il ricorso è stato respinto lo scorso 27 maggio.
Questa decisione apre la possibilità che tanti altri detenuti si appellino alla corte, oltre ad obbligare l’Italia a porre fine alle terribili condizioni di vita nelle carceri del Bel Paese.
Nei giorni immediatamente successivi al respingimento del ricorso parlamentari di quasi tutti gli schieramenti, nonché lo stesso ministro della giustizia Cancellieri, fecero dichiarazioni altisonanti. Dichiarazioni che stridevano con il silenzio e l’immobilità di tutte le forze politiche istituzionali di fronte ad una situazione che dura ormai da anni. Dichiarazioni rimaste lettera morta, perché l’estensione degli arresti domiciliari voluta da Cancellieri è stata una mera misura balneare per sopire i clamori dopo la condanna di Strasburgo.
Era sin da allora evidente che solo un’immediata amnistia potrebbe ridurre per qualche tempo il sovraffollamento. Poi, piano piano si tornerebbe all’emergenza. L’amnistia o l’indulto sarebbero solo una boccata d’aria prima della prossima crisi. Sono bastati meno di sei anni per riempire nuovamente all’inverosimile le carceri svuotate dall’indulto del 2006.
Leggi carcerogene come la Fini-Giovanardi sulle droghe, la Bossi-Fini sull’immigrazione, la Cirielli sulla recidiva hanno contribuito a chiudere le porte delle prigioni alle spalle di migliaia di persone. Se si tiene conto che i reati più frequentemente perseguiti nel nostro paese sono quelli contro il patrimonio e questi reati sono puniti spesso in modo più grave di quelli contro la persona, si ha l’esatta dimensione della natura intrinsecamente classista del codice penale italiano.

Il messaggio di Giorgio Napolitano alle Camere dell’otto ottobre ha riaperto il dibattito politico sulle carceri, mettendo per la prima volta all’ordine del giorno la questione dell’amnistia e dell’indulto.
Sullo sfondo le polemiche di chi crede che i tempi scelti dal presidente della Repubblica coincidano con la condanna definitiva di Berlusconi e il rischio che il Cavaliere debba scontare, sia pure ai domiciliari o ai servizi sociali, la pena che gli è stata inflitta.
D’altro canto i corpi ammassati, torturati, schiacciati in ogni buco dei 64 mila prigionieri che affollano le galere del Bel Paese sono una questione che solo l’ottuso giustizialismo a Cinque Stelle può ignorare.
Sebbene un’amnistia imposta dal basso avrebbe un sapore meno agre, tuttavia la possibilità concreta che qualcuno possa scivolare fuori da quella immensa discarica sociale sarebbe comunque un fatto positivo.

Ascolta la diretta fatta dall’info di radio Blackout con Francesco di “bello come una prigione che brucia”.

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No Tav. Presidio a Venaria

manifesto.NoTavWatching5 (2)Ieri mattina c’è stato un presidio No Tav a Venaria, in via dell’Industria 20, dove ha sede una delle aziende che collaborano con la CMC nella perforazione della montagna a Chiomonte.
Il presidio a sorpresa ha preso alla sprovvista le forze dell’ordine, che si preparavano a scortare un macchinario al cantiere fortino di Chiomonte.
Il lavoro di Tav Watching del movimento ha dato i suoi frutti.
Nonostante la criminalizzazione del monitoraggio del cantiere culminata nell’accusa di istigazione a delinquere ad Alberto Perino, la rete di osservatori No Tav sul territorio si infittisce sempre più.
E’ uscito in questi giorni un manifesto del movimento No Tav, che ribadendo la solidarietà a Perino e a tutte le vittime della repressione, rivendica la libertà di sapere cosa accade sul proprio territorio.

Chi vuole collaborare al Tav Watching può scrivere a monitoraggiotav@autistici.org oppure partecipare alle riunioni che si tengono ogni lunedì alle 21 al presidio di Venaus.

scarica il manifesto

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Telecom. Dai capitani coraggiosi ai conquistadores

2347774-telecom3Telecom tra non molto parlerà spagnolo. Il controllo di Telco che a sua volta controlla Telecom è passato alla spagnola telefonica. E’ l’ultimo esito delle privatizzazioni all’italiana, che prevedono lo spolpamento e poi la dismissione dei gioielli di famiglia.
Telecom venne privatizzata ai tempi di Prodi, ricomprata ai tempi di D’Alema, da quelli che l’allora presidente del consiglio definì “capitani coraggiosi”, tanto coraggiosi che la acquisirono con i suoi stessi soldi. Le ovvie conseguenze furono che Telecom si caricò di un debito miliardario dal quale non è mai riuscita a liberarsi.
Telecom, a differenza delle altre public company privatizzate, non è stata sottoposta allo scorporo delle reti, consentendo di mantenere in mani pubbliche la parte “strategica”, pur privatizzando i servizi. E’ il caso del gas, dove la rete è gestita da Snam, dell’elettricità dove è gestita da Terna, delle ferrovie, dove RFI controlla le linee.
Il rapporto tra la politica e la gestione di Telecom è sempre stato molto stretto, perché le telecomunicazioni sono un settore nevralgico sul quale gli occhi e le mani dei governi di turno sono sempre stati saldamente piantati. Va da se che sia Letta sia l’AD di Telecom Bernabé hanno mentito affermando di non aver saputo niente dell’operazione che ha portato al controllo di Telco da parte di Telefonica. Telco è la società che venne costituita quando a Pirelli mancarono i fondi per mantenere Telecom. Nelle public company, ossia le società ad azionariato diffuso non è necessario avere la maggioranza assoluta per governare la società. A Telco basta il 23% per essere socio di maggioranza. In Telco avevano quote Generali, Mediobanca e Banca Intesa. Queste società erano in crisi di liquidità ed hanno venduto le loro quote a Telefonica, la società spagnola leader della telefonia iberica. E’ probabile che l’interesse di Telefonica per Telecom non sia tanto per le reti e gli utenti italiani quanto per le consociate di Telecom in America latina, Telecom Brasile e Telecom Argentina che sono leader in quei paesi, dove la società spagnola ha grandi interessi che vorrebbe rafforzare.
Una possibile conseguenza di questa acquisizione potrebbe essere un minore investimento in campo tecnologico e quindi un peggioramento del servizio in Italia, dove difficilmente verrà dato impulso alla fibra ottica e alla banda larga.
Non solo. In questo tipico inghippo all’italiana si sono già levate le proteste dei servizi segreti che considerano il controllo delle reti di telefonia fissa una questione di sicurezza nazionale. Non è difficile prevedere che prima del prossimo anno, quando Telefonica potrà assumere realmente il comando, qualcuno proporrà di ricomperare da Telefonica le reti fisse, pagandole a carissimo prezzo. Con soldi pubblici, ovviamente. In questo modo le spie di Stato potranno continuare a intercettare chi vogliono.
Ne abbiamo parlato con Francesco, un economista che ci ha aiutato a districarci tra le maglie dei tecnicismi, per andare alla polpèa della questione.
Ascolta la diretta

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Lavoro. Futuro remoto

teschioI dati dell’Istat fotografano un quadro occupazionale sempre più drammatico. Il tasso di disoccupazione ad agosto è salito al 12,2%. I senza lavoro sono 3 milioni 127 mila, per la prima volta sono più del 40%.
Una doccia fredda che arriva lo stesso giorno che il Cnel delinea il suo ritratto del mercato del lavoro italiano. Un ritratto crudo, che non lascia spazio ad illusioni di miglioramento. Il rapporto dello Cnel giunge alla conclusione che parte della disoccupazione generata nella crisi sia ormai da ritenersi strutturale.
Negli anni della crisi dal 2008 al 2012 il Pil è sceso dell’8%, i posti di lavoro persi sono 750.000, cui andrebbero aggiunti i 270.000 cassaintegrati di lungo corso, destinati presto ad allungare le file dei senza lavoro.
Se ai senza lavoro ufficiali si sommano i tanti lavoratori obbligati al part time, gli inoccupati non iscritti alle liste, gli scoraggiati che non cercano più, i precari che lavorano pochi giorni al mese il numero dei disoccupati reali arriva al 30%, ossia circa 3 milioni e centomila persone prive di lavoro e di reddito.
Un giovane su quattro nella fascia tra i 15 e i 29 anni non ha né lavoro né percorsi educativi. Ne consegue un significativo e duraturo aumento della sofferenza sociale.
Secondo il Cnel è molto forte la possibilità che molti di coloro che sono stati espulsi dal mercato, o non sono neanche riusciti ad entrarvi, restino tanto a lungo fuori dal processo produttivo, da rischiare di restarvi esclusi per sempre, andando “fuori mercato senza esserci mai entrati”.
Lo Cnel parla di capitale umano come di una risorsa deteriorabile, come se a deteriorarsi non fossero le vite di uomini e donne ma pedine nel gioco del profitto.
Le risorse investite per il lavoro sono imponenti: circa ottocento milioni di euro, che tuttavia sono impiegate non per produrre posti di lavoro ma per garantire incentivi alle imprese, che sinora non hanno funzionato. Se a ciò si aggiunge che la politica del governo in materia occupazionale è a dir poco contraddittoria, si ha un quadro in cui la disoccupazione giovanile, vista la scelta di prolungare l’età pensionabile non può che aumentare.

Ascolta la diretta dell’info di Blackout con Renato Strumia, un compagno che studia le dinamiche economiche e ne è preciso analista.

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Il tramonto di Alba Dorata?

alba dorataGli arresti di numerosi esponenti di Xrisi Argi – Alba Dorata – dopo l’assassinio di Pavlos Fyssas, il rapper antifascista accoltellato a morte da una squadraccia ad Atene, parrebbe porre fine alla luna di miele tra la formazione dell’estrema destra e Nea Demokratia, il partito del primo ministro Antonis Samaras. Il governo ha a lungo coperto ed appoggiato le azioni squadriste della formazione guidata da Nikos Mihaloliakos, oggi accusato di associazione a delinquere, omicidio, aggressione e riciclaggio.
I sondaggi che attribuivano crescenti consensi a Xrisi Argi potrebbero essere all’origine del brusco cambiamento di politica di Samaras, timoroso di perdere voti nei prossimi appuntamenti elettorali, non ultimo quello per la poltrona di sindaco di Atene, nel quale il candidato nazista era dato al 20%. Samaras tenterebbe di accreditare un’immagine di partito moderato e responsabile, alternativo sia agli estremisti di Xrisi Argi sia a quelli della sinistra radicale di Syriza.
Di oggi la notizia che tre dei sei deputati di Alba Dorata arrestati nel fine settimana sono stati rimessi in libertà dal giudice. Ai tre è stato imposto l’obbligo di non lasciare il Paese. Si tratta del portavoce del partito Ilias Kasidiaris, Ilias Panayotaros e Nikos Michos. Il quarto, Yannis Lagos, rimane invece in carcere. Tutti sono stati rinviati a giudizio.
Oggi comparirà davanti al giudice il leader del partito Nikos Mihaloliakos.
Sempre oggi è stato arrestato con l’accusa di essere un collaboratore di Xrisi Argi, l’ex capo del commissariato di polizia di Agios Panteleimonas, quartiere centrale di Atene abitato da numerosi immigrati. Gli immigrati che andavano al commissariato per denunciare aggressioni dei neo-nazisti venivano minacciati e cacciati con la violenza.
In questi anni le aggressioni nei confronti di immigrati, gli attacchi ai negozi gestiti da stranieri, pur quasi quotidiani, hanno goduto della copertura e dell’omertà della polizia. I poliziotti hanno difeso i nazisti anche in occasione delle numerosissime manifestazioni antifasciste seguite all’assassionio di Pavlos Fyssas.

Ascolta la diretta realizzata dall’info di Blackout con Iannis, un compagno greco, che ha ricostruito le vicende delle ultime settimane.

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Origgio. Le lotte alla sbarra

origgioIl prossimo 7 ottobre avrà inizio al tribunale di Busto Arsizio il dibattimento del processo contro 20 attivisti, che appoggiarono le lotte dei lavoratori delle cooperative in appalto ai magazzini Bennet di Origgio. La lotta, iniziata nel luglio del 2008, durò diversi mesi e fu molto dura, ma alla fine ci furono significativi miglioramenti delle condizioni di lavoro, del salario, dell’accesso alle libertà sindacali
Venne rotta la condizione di sfruttamento e schiavitù tipica degli appalti della logistica, costringendo la cooperativa a reintegrare un operaio licenziato per l’adesione al sindacalismo di base.
I 20 solidali sono stati rinviati a giudizio per violenza privata, un reato molto inflazionato negli ultimi anni da parte delle Procure del Bel Paese. Secondo quanto stabilito dall’articolo 610 del codice penale la violenza privata si configura quando “chiunque, con violenza o minaccia costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa”. Senza le eventuali aggravanti questo reato comporta una pena sino a quattro anni di reclusione.
Si tratta, è evidente sin dalla formulazione, di una fattispecie molto vischiosa, poiché la determinazione della sussistenza stessa del reato dipende in modo significativo da una valutazione del tutto soggettiva. Applicarla a chi effettua un picchetto, un blocco di strade o merci significa entrare in diretta collisione con un diritto costituzionalemnte garantito, quello di sciopero.
Se a ciò si aggiunge la costituzione di parte civile di Bennet, dell’Italtrans e delle cooperative appaltatrici con richieste di risarcimento del mancato guadagno durante gli scioperi, diviene chiaro che quella che viene messa in discussione davanti al giudice è la libertà stessa di scioperare, poiché è nella natura dello sciopero procurare danni ai padroni per obbligarli a cedere alle richieste dei lavoratori.
Lunedì 7 ottobre ci sarà un presidio solidale davanti al tribunale di Busto Arsizio.

Ascolta l’intervista realizzata dall’info di radio Blackout con Mauro Straini, uno degli avvocati che difendono i 20 attivisti sotto processo.

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La carica dei No Muos a Palermo

no muosI No Muos, dopo un’estate di lotta intensa, si sono dati appuntamento il 28 settembre a Palermo per un corteo nazionale.
Il corteo terminerà di fronte al parlamento dell’isola, il cui governatore, Crocetta, dopo una campagna elettorale demagogica, ha infine tirato i remi in barca, decidendo alla fine di luglio di revocare la revoca dei permessi per la realizzazione dell’impianto satellitare.
Il movimento popolare ne è uscito rafforzato, consapevole che solo la lotta può fermare l’ennesima installazione militare nel nostro paese. In agosto migliaia di persone hanno abbattuto le recinzioni ed invaso la base statunitense di Niscemi.
Ne abbiamo parlato con Alberto dei Comitati No Muos del capoluogo siciliano.
Ne è scaturita una discussione a tutto campo, sulle convulsioni della politica istituzionale e sulle prospettive di un movimento che sta crescendo.
Ascolta la diretta

Aggiornamenti. Nel tardo pomeriggio di venerdì 27 una ventina di attivisti No Muos hanno occupato sala D’Ercole a Palazzo dei Normanni, la Sede dell’Assemblea Regionale Siciliana.
Di seguito il comunicato emesso dagli occupanti:
“Il MUOS è uno strumento di sopraffazione militarista e di insensibilità verso la salute delle persone.
Serve a fare la guerra, a pilotare i droni per neutralizzare il rischio dell’obiezione di coscienza, ferire la carne viva del popolo niscemese.

Il movimento NO MUOS, si oppone al fatalismo rassegnato con cui qualcuno vorrebbe farci  credere che tutto questo sia inevitabile, che la soggezione del Presidente Crocetta verso le autorità statunitensi sia l’unico abito che il popolo siciliano può indossare in questo momento cruciale della nostra vita collettiva.

Gli attivisti e le attiviste che in spirito sinfonico con il corteo di domani hanno occupato  oggi l’ARS, sentono con forza che è necessaria una ribellione in grado di sprigionare la forza d’urto che cova nel petto di ogni persona libera.

Non ci limitiamo a dirlo: pratichiamo questa convinzione con la tenacia dei nostri corpi disposti a resistere ad oltranza, fino a che la prese di coscienza del popolo siciliano determinerà lo smantellamento della base NRTF di Niscemi e verrà liberata la Sughereta.

Attivisti NO MUOS dalla sala d’Ercole Occupata”

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Grecia. Aria di golpe?

scontri-grecia-2Nell’ultima settimana diversi media nostrani hanno sostenuto che la Grecia sarebbe sull’orlo di un colpo di Stato Militare. L’alleanza tra ampi settori delle forze dell’ordine e la destra nazista di Xrisi Argi, l’inaspettato e repentino cambio dei vertici della polizia ellenica, deciso in in una notte dal ministro degli interni Dendias, il mutato atteggiamento del governo conservatore di Antonis Samaras verso Xrisi Argi dopo l’assassinio del rapper Pavlos Fyssas, alcuni annunci incendiari apparsi sui blog e le pagine facebook di autorevoli esponenti del partito sono gli elementi che hanno indotto alcuni commentatori ad ipotizzare che un colpo di stato potesse essere imminente.
I compagni greci sono tuttavia scettici sull’ipotesi, che pur restando nel novero delle possibilità, parrebbe in questo momento improbabile.
Secondo Georgo, un compagno del gruppo dei Comunisti libertari di Atene, il goverbo Samaras, che pure ha protetto e coperto Xrisi Argi, oggi Nea Democratia teme una affermazione elettorale della formazione guidata da Nicolaos Michaloliákos. L’assassinio di Fyssas ha fornito il pretesto per operazioni di smarcamento dagli ingombranti nazisti.
In questi giorni la Grecia è stata attraversata da una raffica di scioperi fenerali nel pubblico impiego dove Samaras ha annunciato oltre ventitremila licenziamenti.
Nella penisola Calcidica, dove la popolazione è da anni in lotta contro le cave d’oro, che inquinano e devastano il territorio, la scorsa settimana è scoppiata un rivolta innescata dal ribaltamento in mezzo ad un paese di un camion che trasportava arsenico destinato ad una cava aurifera. La polizia ha caricato con violenza i manifestanti: pochi giorni dopo sono scattati alcuni arresti. Gli attivisti sono accusati di alcuni atti di sabotaggio verso le cave.
La lotta antifascista non si è mai fermata dopo l’assassinio di Fyssas. Mercoledì ad Atene un corteo di circa diecimila persone si è scontrato per ore con la polizia schierata a difesa della sede di Xrisi Argi.
Ascolta la diretta con Georgo

Ascolta anche la diretta della scorsa settimana sull’assassinio di Pavlos Fyssas

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Kenia. Sangue nel tempio della merce

Kenya-Attack-5Il violento attacco contro il centro commerciale Westgate ha portato la guerra nel centro di Nairobi, in un luogo simbolo dell’identità occidentale, che trova la propria sublimazione nei templi della merce.
La memoria torna agli attacchi dei guerriglieri ceceni nel cuore di Mosca, dei quaedisti nel centri di New York, Londra, Madrid. L’obiettivo è semplice e feroce: attaccare la popolazione civile, fare strage tra gente comune che si sente al sicuro. Seminare il terrore per cercare di piegare un nemico di cui non si riconosce l’umanità, che si colpisce in modo indiscriminato, perché l’unico discrimine che conta è tra fedeli e infedeli.
Gli shabaab, letteralmente “i giovani”, provengono dalla Somalia decomposta da decenni di guerra civile, frantumata dai postumi di un colonialismo che sino agli anni ottanta aveva il volto di Bettino Craxi. Il flusso di profughi da quella guerra infinita è continuo, anche se fuori dal cono di luce dei media.
In questa partita quel che colpisce è la paralisi degli Stati Uniti, alleati del Kenia attaccato dagli shabaab somali, parimenti alleato dell’Arabia Saudita, che da anni foraggia e sostiene le formazioni islamiche radicali sunnite. Sebbene l’islam somalo sia diverso dal wahabismo saudita, il sostegno della dinastia Saud alle Corti Islamiche prima e agli shabaab poi, si può ben cogliere nel salto di qualità militare dell’attacco al Westgate come nella probabile composizione “internazionale” del commando che ha colpito il mall.
Un ulteriore segno dell’incapacità statunitense – ben chiara nella recente rapida retromarcia sull’attacco alla Siria – di controllare i mostri che ha contribuito a creare sin dai tempi dell’invasione sovietica dell’Afganistan.
Non solo. Un segnale – se mai ce ne fosse stato bisogno – che la retorica sui diritti umani, la democrazia, la libertà non basta più a coprire un’afasia politica frutto di un imperialismo incapace di tessere rapporti di subordinazione collaborativa con i paesi dove impone la propria influenza.
L’orizzonte di senso – banale, feroce ma solido – che offre l’islam radicale riesce invece a permeare di se vaste aree del mondo. Nel sud povero, ma non solo. Lo dimostrano i tanti combattenti e kamikaze che abbandonano esistenze tranquille e borghesi in Inghilterra o in Italia, per ricomparire imbottiti di tritolo in mimemtica e kalashinikov in un centro commerciale del tutto simile a quelli di casa loro.

Ascolta la diretta con Stefano Capello realizzata dall’info di Blackout

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