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Gradisca. Fuga e arresti

gradisca2Martedì 3 settembre. Venerdì 30 agosto hanno tentato la fuga dal CIE in dodici. Due ce l’hanno fatta, gli altri quattro sono stati presi. Dei quattro, due si sono ribellati e sono finiti in carcere con l’accusa di resistenza e lesioni.
I detenuti del CIE isontino che continuavano la loro protesta sui tetti sono stati raggiunti in serata da un gruppetto di antirazzisti gradiscani che hanno presidiato per tutta la notte, temendo violenze della polizia dopo le fughe del pomeriggio. La scintilla di quest’ennesima protesta era stata l’ennesimo prolungamento della detenzione per quattro immigrati, chiusi a Gradisca da oltre un anno. Nella notte tra sabato e domenica i senza carte sono scesi dal tetto. Da quel momento sono stati rinchiusi nelle loro stanze senza possibilità di uscire perché la polizia presidia i corridoi. La tensione è molto alta.

Ascolta l’intervista realizzata domenica da radio Blackout con Federico, attivista antirazzista triestino, impegnato nella lotta contro i CIE. Al momento della diretta non era ancora stata diffusa la notizia che i reclusi erano scesi dal tetto.

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No Tav. Un agosto tra resistenza e repressione

1150342_631886746836254_1232111842_nIl mese di agosto è segnato da blocchi, passeggiate, arresti, sabotaggi.
Nella notte del 30 luglio, mentre a Bussoleno centinaia di No Tav riempivano la piazza del municipio in solidarietà agli attivisti accusati di “terrorismo”, alcuni trasporti eccezionali raggiungevano la Clarea con buona parte dei pezzi della mega talpa per scavo del tunnel in Clarea.
Dal giorno dopo è partito un presidio al Vernetto, per monitorare i successivi passaggi di convogli con pezzi della “talpa” diretti in Clarea. Purtroppo i No Tav non riescono ad intercettare altri trasporti. Non sono mancati gli incidenti di percorso come il blocco di un tir olandese che trasportava torri di refrigerazione. Episodio gonfiato ad arte dalla magistratura che il 27 agosto dispone perquisizioni domiciliari per sei No Tav, a cinque dei quali viene imposto l’obbligo di dimora nel proprio comune e coprifuoco notturno. I pm Padalino e Rinaudo li accusano di sequestro di persona, danneggiamento e blocco stradale.
I riconoscimenti effettuati dal camionista olandese ne rivelano la scarsa memoria o, forse, un oculato indirizzamento da parte degli inquirenti. Ben due dei sei indagati non erano al Vernetto quella sera.

Il presidio di sorveglianza va avanti nei giorni successivi. Il 5 agosto i No Tav bloccano l’autostrada sino alla mezzanotte. Il 6 agosto la polizia interviene per sgomberare un blocco: carica i manifestanti e ne porta in questura 21. Tre No Tav di Novate, Treviso e Bologna vengono arrestati con l’accusa di resistenza. Il venerdì successivo il Gip convaliderà gli arresti, imponendo l’obbligo di dimora ai tre compagni che vengono scarcerati.
In serata al Vernetto si svolge un’assemblea di oltre quattrocento persone, che decide di occupare nuovamente l’autostrada, che viene interrotta in entrambi i sensi di marcia per buona parte della notte.
Il 10 agosto si svolge la marcia degli over 50 in Clarea. Il 28 agosto Giuliano, un No Tav del presidio di Vaie, viene perquisito nell’ambito di un’inchiesta per minacce contro ignoti durante la marcia degli over 50.

Il 13 agosto viene arrestato Giobbe, un compagno della provincia di Varese. Le accuse sono gravissime: tentata rapina, sequestro di persona, resistenza aggravata in concorso. Nel mirino un episodio del 16 novembre dello scorso anno, durante un presidio/blocco a Chiomonte ci fu un diverbio con un poliziotto in borghese che scattava fotografie: per quel fatto vennero fermati e poi rilasciati due No Tav.

Dopo due settimane alle Vallette Giobbe esce con obbligo di dimora.
Nel bel mezzo di agosto il governo, imboscandole dentro il provvedimento urgente contro il femminicidio, cambia le regole di ingaggio per i militari in Clarea e fissa una zona rossa oltre la quale è proibito passare.
Nella serata del 30 agosto si svolge una tranquilla passeggiata di studenti in Clarea. Due di loro vengono fermati ed arrestati sulla strada di Giaglione, con l’accusa di detenzione di armi da guerra. Nell’auto la polizia trova copertoni, bottiglie di plastica con benzina, fuochi d’artificio e maschere antigas.
Nella stessa serata, pressoché in contemporanea, alla Geomont, una ditta di Bussoleno che lavora nel cantiere, una trivella e un generatore vanno a fuoco. È uno dei sabotaggi No Tav, che hanno segnato l’estate.
Quest’episodio scatena i media. Il viceministro Fassina, il senatore Esposito e il presidente della Provincia Saitta, promettono al padrone della Geomont Benente e agli altri imprenditori sabotati e boicottati dai No Tav, soldi, assicurazioni, protezione. Il sindacalista Cremaschi e il letterato De Luca, che appoggiano i sabotaggi, vengono definiti “cattivi maestri”.
Politici e media alzano i toni ma tanto gridare mostra che, nonostante gli appoggi, i collaborazionisti sono sempre più soli.

L’8 settembre il ministro Lupi, intervenuto alla festa del PD, promette soldi agli imprenditori Si Tav. Quella stessa notte un sabotaggio colpisce alcuni mezzi della ditta Imprebeton, che fornisce di cemento il cantiere.

Sin qui – pur ridotta all’essenziale – la cronaca.

Il governo ha deciso di alzare il livello dello scontro.
Per la prima volta i provvedimenti della magistratura hanno investito ,oltre ai solidali venuti per l’estate No Tav, anche i resistenti valsusini, colpiti con perquisizioni, limitazioni della libertà ed accuse anche molto gravi come quella di terrorismo.

Una scelta che rivela la convinzione di poter colpire duro senza rischiare un’insurrezione popolare. Il fantasma della rivolta del dicembre 2005 ha a lungo condizionato le scelte dei fautori della Torino Lyon. In quell’occasione l’azione diretta popolare mise in difficoltà il governo, sino ad obbligarlo a fare una precipitosa marcia indietro.
Non fu una vittoria militare, perché se il governo avesse voluto impiegare tutta la propria forza, avrebbe avuto il sopravvento. I No Tav vinsero perché i responsabili dell’esecutivo compresero che la Valsusa era divenuta ingovernabile, che ulteriori violenze avrebbero reso impossibile frenare il moto insurrezionale scaturito dal violento sgombero della Libera Repubblica di Venaus.

Dalla primavera del 2011 sino all’estate del 2013, temendo che potessero crearsi le condizioni per una nuova rivolta popolare, i governi che si sono succeduti (Berlusconi, Monti, Letta) hanno proceduto con estrema cautela, calibrando con attenzione le proprie mosse, moltiplicando gradualmente i dispositivi disciplinari, lavorando per dividere e criminalizzare, per spezzare la fiducia e spaventare. Non sono riusciti a dividere in buoni e cattivi ma sono riusciti, complici alcune scelte errate, a dividere tra una minoranza agente e una maggioranza plaudente.
La materialità dello scontro divide chi pure resta unito sia sugli obiettivi sia sui mezzi per perseguirli.

La sfida difficile che il movimento No Tav deve affrontare è rimettere in pista tutti quanti. Qualcuno in prima fila, qualcun altro più indietro, altri ancora in fondo, ma insieme per far nuovamente lievitare la miscela di radicalità e radicamento che è la ricetta vincente di questo movimento.

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Siria. Le tentazioni pericolose di Obama

Siria, due anni di conflittoLa situazione in Siria ed il possibile intervento armato degli Stati Uniti sono stati al centro del dibattito politico dell’ultima settimana. L’attacco, già dato per certo giovedì scorso, potrebbe avvenire tra poche ore o essere ancora rimandato.

Anarres ne ha parlato con Stefano, un compagno che segue con attenzione le questioni geopolitiche.
Ascolta il suo intervento

L’unico dato certo è la difficoltà dell’amministrazione statunitense a mettere insieme una coalizione che lo appoggi nella scelta di bombardare. Solo la Francia di Hollande pare entusiasta della prospettiva di partecipare all’ennesima avventura bellica. Nemmeno gli scarsi risultati dell’attacco alla Libia hanno convinto i francesi che l’epoca della grandeur coloniale è definitivamente tramontata per loro. L’ambizione a (ri)mettere mano sugli antichi domini in medio oriente è forte al punto che Hollande ha dichiarato che l’attacco potrebbe avvenire persino prima del pronunciamento del parlamento subalpino.
Si è invece sfilata la Gran Bretagna dopo la bocciatura in parlamento. Evidentemente le relazioni con la Russia, madrina del regime di Assad, devono aver avuto il loro peso nell’allargare la distanza tra le due sponde dell’Atlantico.
L’Italia, nonostante il ministro Bonino sia tradizionalmente sbilanciata verso gli Stati Uniti, mantiene un profilo bassissimo, reclamando un improbabile quadro di legalità nel quale inserire la missione come precondizione persino per la concessione delle basi. Ovviamente, vista la presenza di importanti basi militari statunitensi e Nato nel nostro paese, quella di Bonino è una foglia di fico, che tuttavia segnala una scarsa propensione ad un impegno diretto contro la Siria. È bene ricordare che militari italiani sono schierati con la forza di “pace” in Libano: un eventuale coinvolgimento in Siria del governo italiano difficilmente resterebbe senza risposta da parte degli hezbollah shiti libanesi, che in Siria combattono a fianco degli alauiti di Basher Assad. Gli hezbollah hanno stretti rapporti con l’Iran, paese con il quale l’Italia ha intensi scambi commerciali.
È significativo che, diversamente dalla copertura unanime alla fandonia sulle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein, la grande stampa italiana non si sia sbilanciata nell’accreditare la strage al gas nervino a Damasco.
Leggete per esempio l’articolo di Francesca Borri su La Stampa – peraltro molto interessante sia per la cronaca che per l’analisi. Oppure quello di Giuseppe Ferrari – molto esplicito nel supporre una montatura – sul Corriere della Sera.
Una guerra per la Siria non sarebbe certo un buon affare per gli interessi dell’Italia. Ben diversa era la situazione in Libia, dove gli attacchi francesi, inglesi e statunitensi rischiavano di compromettere seriamente gli interessi dell’ENI nel paese, nonché di far saltare i preziosi accordi di outsourcing della gestione dei flussi migratori. Una esternalizzazione preziosa perché affidata ad un regime che non doveva piegarsi ai fastidiosi limiti imposti dalla formale adesione ad accordi sui diritti umani o di asilo. L’intervento contro l’amico Gheddafi ha consentito all’Italia di mantenere le proficue relazioni commerciali con il paese.

L’altro importante attore in campo, la Turchia, ha invece un grosso interesse ad una vittoria dell’esercito libero sostenuta da Ankara, che nella prospettiva neo ottomana di Erdogan, si candida da tempo a potenza regionale in campo sunnita. Se a questo si aggiunge che nelle regioni curde del nord est siriano si è rafforzata la fazione vicina al PKK, che di fatto lavorano per un’autonomia territoriale dei villaggi, proteggendoli dagli attacchi dei due contendenti in campo, l’interesse turco alla guerra è molto chiaro.

In quanto all’intervento statunitense è probabile che manterrà le caratteristiche indicate da Obama, di azione punitiva di breve durata. Sebbene per gli interessi statunitensi la caduta di un alleato forte della Russia e dell’Iran sarebbe del tutto auspicabile, l’affermarsi di una coalizione eterogenea dominata da Al Quaeda e dalle forze salafite appoggiate dall’Arabia Saudita e dai Fratelli Musulmani sostenuti da Qatar e Turchia, non è certo una prospettiva che favorirebbe gli interessi degli Stati Uniti e di Israele, pur sempre un importante alleato nell’area.
L’analisi del politologo statunitense Edward Luttwak ci pare la più credibile. Luttwak, in un articolo uscito il 24 agosto sul New York Times, sostiene che la prospettiva migliore per gli Stati Uniti sia il prolungarsi di una guerra che riduca in macerie la Siria, indebolendo enormemente Assad, senza tuttavia abbatterne il regime. Luttwak suggerisce quindi ad Obama di non intervenire.
Interessante in merito anche l’editoriale odierno di Panebianco sul Corriere.
D’altra parte, proprio nella prospettiva indicata da Luttwak, se gli Stati Uniti non intervengono Assad potrebbe riprendere il controllo del paese: alcuni bombardamenti mirati potrebbero indebolirlo, garantendo il prolungarsi della guerra. E dei morti. Bruciati dalle bombe all’uranio impoverito di cui sono dotate le portaerei statunitensi, sparati dai fucili dell’esercito libero o da quelli di Assad. Gasati o smembrati dalle bombe. Che differenza fa?

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Crotone, Gradisca, Torino. La mappa della rivolta nei CIE

gradiscaUn agosto incandescente nei CIE della penisola. Quello di Sant’Anna di Capo Rizzuto ha chiuso i battenti. Il 10 agosto muore Moustapha Anaki, un immigrato marocchino approdato al CIE da un mese. Con grande ritardo l’ente gestore, la Misericordia, e la polizia sostengono la tesi del malore.
Il vicepresidente nazionale della Misericordia Leonardo Sacco parla di “una morte naturale, Anaki soffriva di cardiopatia.” Secondo Sacco la protesta sarebbe stata “legata ai tempi di permanenza”.
La morte dell’immigrato è il detonatore di una rivolta devastante: il 12 agosto del CIE non restano che macerie. Alla prefettura non resta che prenderne atto e chiudere, per la seconda volta in tre anni, la struttura calabrese. Nel limitrofo CARA ci sono ben 1700 persone, il doppio della capienza massima, perché la prefettura vi ha stipato uomini e donne sbarcati a Lampedusa.
Il 20 agosto sono scesi in strada, bloccando per due ore la statale 106, contro il sovraffollamento e l’infinita burocrazia che imbriglia le loro vite.
Le condizioni di vita nel CIE erano durissime: materassi, coperte e gabinetti luridi. Le condizioni erano tanto indecenti che a nel dicembre del 2012 il tribunale di Crotone assolse tre immigrati dall’accusa di aver danneggiato il CIE, perché il loro comportamento venne definito una legittima difesa.
È la seconda volta che il fuoco delle rivolte chiude il CIE di Sant’Anna. Aperto per la prima volta nel 2009, nel 2010 era in condizioni tali da dover essere chiuso. Riaperto nel 2012, un anno dopo i prigionieri l’anno nuovamente dato alle fiamme.
Dopo Bologna e Modena è il terzo CIE chiuso per le rivolte.

A Torino, dopo la rivolta di fine luglio, agosto è stato segnato da episodi di resistenza individuale alle espulsioni, pestaggi, tentativi falliti di fuga, atti di autolesionismo. Nella notte tra il 26 e il 27 luglio due reclusi provano a scappare: uno ci riesce, l’altro viene pestato duramente.

Sempre incandescente la situazione a Gradisca di Isonzo. Tutto inizia nella notte dell’8 agosto. Dopo la preghiera per il Ramadan un gruppo di reclusi chiede di restare nel cortile per caldo torrido: la polizia risponde con lacrimogeni e manganellate. I reclusi devono spaccare una lastra di plexigas per non restare asfissiati. È l’innesco di un mese di lotte. Tra il 10 e il 12 agosto i reclusi salgono per due volte sui tetti per reclamare il rispetto della loro dignità.

Ascolta la cronaca su radio blackout di Federico, un compagno di Trieste, da anni impegnato nella lotta per la chiusura del CIE 

Due prigionieri cadono dal tetto: uno dei due si ferisce gravemente ed è ancora oggi in prognosi riservata all’ospedale.
Nelle prime fasi della rivolta gli attivisti della Tenda della Pace e i Diritti di Monfalcone si ritrovano davanti al CIE, chiedendo l’intervento di parlamentari ed altre figure istituzionali per fare pressioni sulla prefettura.
I vari gruppi antirazzisti della zona si danno appuntamento per sabato 17 agosto di fronte al CIE.
Ad accogliere i manifestanti ci sono decine di carabinieri e poliziotti in assetto antisommossa. Sin qui nulla di nuovo o inaspettato. La novità sono i reclusi che si trovano sul tetto dopo aver nuovamente spaccato le lastre per salire.
Per la prima volta da quanto è stato aperto il CIE vi è un contatto diretto fra antirazzisti e prigionieri durante una manifestazione. I circa 200 presenti (pacifisti, centri sociali del nordest e anarchici) per tre ore urlano, battono sul guard rail, parlano coi migranti sul tetto. Numerosi anche gli esponenti istituzionali a vario livello che non mancano mai quando ci sono le telecamere.
Gli antirazzisti bloccano la statale e fanno delle scritte a pennello sulla strada e sul muro del CIE con la parola “libertà” scritta in più lingue. La polizia guarda ma non interviene: dopo il can can mediatico dei giorni precedenti hanno l’ordine di tenere la tensione bassa. I racconti dei reclusi sono gli stessi di ogni CIE: psicofarmaci, restrizioni assurde e violenze quotidiane. Il presidio si scioglie verso le 8 ma gruppi di compagni fanno a turno per restare coi reclusi che resistono sul tetto.
Nei giorni successivi il Prefetto è obbligato ad accogliere una delle richieste degli immigrati, che ottengono la restituzione dei cellulari, riaprendo così un canale di comunicazione diretta con i propri affetti e con gli antirazzisti.

Il 20 agosto, dopo 65 ore di permanenza sui tetti la polizia chiude il varco da cui salivano i migranti in lotta approfittando che in quel momento solo uno era rimasto sul tetto. Quel buco era diventato un simbolo di libertà al punto che uno dei reclusi per la disperazione ingoia una lametta e altri oggetti. Portato al pronto soccorso di Gorizia, di fronte alle ennesime prepotenze degli aguzzini di scorta, ha rifiuta le cure e torna al CIE. Nel frattempo una ventina di immigrati tenta la fuga durante il cambio turno e sei riescono a darsi alla macchia.

Il 21 agosto i migranti continuano ad essere chiusi nelle loro stanze. L’uomo che aveva ingoiato la lametta entra in sciopero della fame. Lo hanno messo in infermeria dove gli sarebbe stato somministrato dell’olio per agevolare l’espulsione della lama. Un altro uomo, di 46 anni di origine algerina è in sciopero della fame dalla notte del Bairam, quando i festeggiamenti per la fine del Ramadan sono stati impediti e la protesta è stata soffocata nei lacrimogeni al CS.
L’uomo ha perso 17 chili in 10 giorni e ci ha detto di aver tentato il suicidio 3 volte nei 6 mesi in cui è rinchiuso al CIE.
Due giorni fa ha ingoiato una ingente quantità di psicofarmaci e ha poi rifiutato ogni tipo di intervento medico.
Soffre di problemi alla tiroide e ha interrotto anche le cure mediche per questi.
Chiede di parlare con qualcuno (al telefono la nomina come “commissione”) che si occupi di verificare le ingiuste e disumane condizioni di detenzione all’interno del CIE.

Il 29 agosto un immigrato algerino ha rotto il naso con un pugno ad un operatore del consorzio Connecting People, che gestisce la struttura isontina. Al momento dell’arresto ha dichiarato «Meglio andare in carcere che stare in questo inferno».
In serata è ripartita la rivolta. Una ventina di reclusi sono saliti sul tetto gridando “libertà”. Uno è scivolato ed è stato portato via con l’ambulanza. Sembra tuttavia che sia ferito in modo lieve.

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Errico Malatesta. Vita Activa

ErricoMalatesta colorIl 22 luglio era l’anniversario della morte di Errico Malatesta, morto a Roma nel 1932. Con il pretesto della ricorrenza ne abbiamo profittato per ripercorrere le tappe di una vita, in cui il fare e la riflessione su quel che si fa si intrecciano in modo indissolubile, dando la cifra di quella che Hanna Harendt avrebbe definito una “vita activa”, una vita in cui l’impegno politico e sociale, mai inteso come attività separata, si è dipanato a cavallo dei due secoli e di tre continenti, pur con vari anni sequestrato in galera, e pur sempre nel mezzo della concreta prospettiva della rivoluzione sociale in Italia.
Malatesta è stato ed è l’attivista che più ha influenzato il movimento anarchico in Italia, ma non solo.
Abbiamo ripercorso il suo itineario biografico con Massimo Varengo delle edizioni Zero in Condotta, che, con La Fiaccola stanno editando le opere complete di Malatesta.
Ascolta la diretta

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Diamo i numeri.‭ ‬Le cifre della povertà

lottadiclasse_371x228La materialità dello sfruttamento, il peggioramento delle condizioni di vita, la fatica della vita quotidiana non abbiamo bisogno di farcela raccontare da nessun sociologo.

Tuttavia le cifre fornite da alcuni rapporti – quello dell’OCSE sull’occupazione, quello dell’Istat sulla povertà e quello del Ministero del lavoro sull’immigrazione – ci aiutano a fotografare con il grand’angolo la realtà che ci circonda. E, che, secondo le ricette della governance transnazionale e dei governi, è modificabile solo rafforzando le politiche che hanno provocato il disastro odierno. Riduzione della spesa pubblica – ma non di quella militare – polverizzazione dei diritti di chi lavora, sostegno all’impresa.
Ovviamente non possiamo che essere d’accordo. Finché l’orizzonte politico e culturale resta quello del capitalismo, più o meno accudito dalle tenere ed armate mani dello Stato, è difficile che la prospettiva si modifichi. Sebbene i riformisti si attacchino al mantra del rilancio del welfare per rianimare l’esausta domanda interna, questa prospettiva appare del tutto inadeguata ai ritmi della roulette russa innescata dalla finanziarizzazione dell’economia.
La domanda vera è una sola: l’orizzonte disegnato dal capitalismo è davvero l’unico possibile?

Con l’aiuto di Francesco abbiamo provato a districarci tra le cifre e le analisi fornite dagli statistici e, insieme, provare a pensare – nell’esodo e nel conflitto – le prospettive dell’oltre.

Ascolta la diretta

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Da Black Bloc a terroristi

TERROR~1Lunedì 29 luglio. Alle prime ore dell’alba scattano una dozzina di perquisizioni, tra Torino e la Val Susa, nelle abitazioni di attivisti dell’area autonoma che fanno riferimento al Comitato di lotta popolare di Bussoleno.
L’accusa è gravissima: associazione con finalità di terrorismo.
Nel mirino la passeggiata notturna al cantiere di Chiomonte del 10 luglio. Una serata come altre negli ultimi due anni di resistenza all’occupazione militare.
Già i commenti di politici e media dopo quella notte preludevano ad un possibile cambio di rotta nelle strategie repressive della Procura di Torino.
Sabato 27 luglio alcune migliaia di No Tav hanno aggirato i blocchi al ponte sul Clarea, guadando più in alto per raggiungere l’area della Centrale a Chiomonte.
C’erano tutti: giovani ed anziani, attivisti di tutti i giorni e sostenitori delle grandi occasioni. Il popolo No Tav unito sulle stesse strade dove il 19 luglio c’era stato l’accerchiamento della polizia, le botte, le torture, gli arresti. L’ambiguità nelle dichiarazioni del gruppo di amministratori che hanno partecipato alla marcia, ha consentito a Repubblica di titolare “I sindaci No Tav la spuntano. Marcia senza incidenti”. In questo modo i fautori del Tav hanno potuto buttare sul tavolo la carta comunicativa della divisione tra buoni e cattivi, facendo aleggiare il sospetto che l’anima moderata avesse sconfitto quella radicale. Nei fatti la passeggiata notturna del 19 luglio e la marcia diurna del 27 erano state indette dal movimento nel suo complesso e pubblicizzate nella medesima locandina
Due giorni dopo la manifestazione popolare di sabato 27, la Procura replica con le perquisizioni: in quasi tutte le case vengono sequestrati computer, telefonini, vestiti scuri, lampade frontali. L’accusa di terrorismo consentirebbe, in caso di arresti – per ora siamo ancora alle indagini – di ottenere lunghe carcerazioni preventive.
Nella conferenza stampa svoltasi nel pomeriggio nella sede della Comunità montana, il presidente, il democratico Sandro Plano, ha preso le distanze da ogni atto violento ed illegale dei No Tav, ma giudicato eccessiva l’accusa di terrorismo.
Il fronte istituzionale sta giocando da qualche giorno la carta della moratoria dei lavori per far ripartire un tavolo di trattativa sull’opera, alla luce delle titubanze francesi e del diverso quadro di priorità che la crisi imporrebbe.
Il movimento, riunito in serata al campeggio di Venaus, ha deciso di partecipare al presidio indetto dai No Tav di Bussoleno per martedì 30 alle 21 nella piazza del municipio della cittadina.

Non si può dire che l’indagine, coordinata dai PM Andrea Padalino e Antonio Rinaudo, arrivi inaspettata. Le dichiarazioni fatte ai media sin da maggio, facevano presagire che la Procura giocasse la carta di un’accusa pesante come l’associazione con finalità di terrorismo. Un’accusa che potenzialmente potrebbe investire qualsiasi No Tav, al di là delle condotte specifiche che la Procura fosse in grado di provare. Come tutti i reati associativi, la consistenza del dolo non è data dall’aver partecipato direttamente a questa o quell’azione considerate “terroriste” ma dal mero appartenere ad un gruppo considerato tale.
Visto l’appoggio formale del movimento alle azioni notturne in Clarea, ai sabotaggi, ai blocchi, all’autodifesa, chiunque si dica No Tav e partecipi a Comitati, assemblee, campeggi, potrebbe essere accusato di associazione con finalità di terrorismo.
In Val Susa chi prova a seminare “terrore” tra la popolazione per spezzarne la resistenza è l’esercito occupante.
Sarà interessante verificare se questa svolta della Procura otterrà l’effetto voluto o finirà con il rivelarsi un boomerang.

Aggiornamento al 30 luglio. Nella piazza del municipio di Bussoleno c’é la folla delle grandi occasioni: centinaia di No Tav, dalla valle e da Torino per respingere al mittente l’accusa di “terrorismo” e dimostrare che le iniziative delle procura non spaventano il movimento.

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No Tav. Sangue, gas e torture. Cronaca e riflessioni dopo il 19 luglio

no-tav-filo_spinato19 luglio. L’estate No Tav, partita in sordina, sta entrando nel vivo. Alcune decine di tende sono piantate nella piana di Venaus.
Circa 400 No Tav partono da Giaglione lungo la strada delle Gorge per una notte di lotta al cantiere. Da alcuni giorni la Prefettura ha fissato i confini di una nuova zona rossa intorno alle recinzioni. I divieti non hanno mai fermato i No Tav, non lo fanno nemmeno questa volta. Protagonisti della serata sono soprattutto i solidali che, come ogni estate, sono accorsi in Val Susa. Alcuni percorrono di notte i sentieri per la prima volta: la serata è molto scura, le nubi coprono la luna quasi piena.
La polizia è fuori dalle recinzioni, schierata oltre il ponte sul torrente Clarea: all’arrivo dei primi No Tav partono le cariche. La A32 anche questa volta è stata chiusa. Dieci blindati la percorrono con i lampeggianti spenti e si fermano sul viadotto nei pressi del cancello che immette sulla strada delle gorge. Altre volte i militari avevano scelto questa posizione per sparare dall’alto lacrimogeni sui manifestanti imbucati nel sottopasso della A32. Questa volta, dopo i gas avanzano le truppe, che spezzano in due in manifestanti, intrappolandone circa 150 nella zona dei Mulini. Un punto molto pericoloso per una manovra che non lascia vie di fuga: da un lato la gorgia scende brusca, dall’altro c’é una zona di vigne abbandonate, franosissima.
Nel buio piovono le manganellate, il gas soffoca ed acceca, molti gridano in preda al panico, cercando di inerpicarsi sul costone, scivolando in mezzo alle pietre che rotolano.
La polizia fa il suo bottino: 9 no tav vengono presi e portati nel cantiere. Lungo il tragitto botte, insulti, colpi di manganello. Un’attivista pisana, Marta, viene colpita in faccia da una manganellata che le spacca il labbro superiore, mentre gli eroi dell’antisommossa la palpeggiano tra le gambe, le toccano i seni, la insultano. Un ragazzo di 17 anni sviene per le botte e si ritrova nel fortino con fratture e la faccia piena di sangue. Gli uomini in divisa mirano sempre al volto, per nascondere sotto un velo rosso lo sguardo e l’umanità di chi lotta perchè immagina un mondo diverso da quello in cui siamo tutti forzati a vivere.
Gli arrestati vengono tutti percossi con violenza anche dopo l’arresto: trascorreranno ore prima di essere portati in ospedale e, di lì, alle Vallette. Le loro storie, raccolte nelle ore e nei giorni successivi, sono normali storie di tortura.
Per chi riesce ad allontanarsi comincia una lunga marcia notturna, nel silenzio dei boschi che nascondono i No Tav dalla caccia dei poliziotti che li braccano. Chi era riuscito a sfuggire alla trappola torna a Giaglione. Qualcuno si massaggia un braccio, altri hanno la testa che sanguina, altri ancora una commozione cerebrale e una caviglia rotta. Comincia la spola per portare i feriti più gravi all’ospedale. Il lento e duro ritorno dei No Tav termina all’alba. Chi arriva, sfinito, trova i propri compagni che attendono da ore. I primi racconti descrivono la violenza della polizia e la solidarietà che prevale dopo il panico, nel mutuo appoggio tra i boschi: un goccio d’acqua, qualcosa da mangiare che viene condiviso tra tutti.
Il giorno dopo il campeggio di Venaus sembra un ospedale da campo: chi zoppica e chi esibisce vistose fasciature, bende in testa, cerottoni, ingessature. Il bilancio finale è di 63 attivisti feriti. Anche la polizia sostiene che sarebbero una quindicina gli uomini e le donne in divisa feriti e contusi.
La questura nella sua conferenza stampa recita un copione ormai consolidato. Vengono esibite maschere antigas, qualche petardo, qualche bastone, il solito “mortaio”. In bella mostra c’é il bottino di una guerra in cui non vengono mai mostrati i manganelli insanguinati, i fucili che sparano i gas, le maschere dei poliziotti e dei carabinieri, i bossoli dei lacrimogeni. Nei confronti degli arrestati vengono formulate accuse durissime: resistenza, violenza, porto di armi da guerra.

Martedì 23 luglio il GIP convaliderà gli arresti e disporrà i domiciliari per sei No Tav e l’obbligo di firma quotidiano per il settimo. Gli altri due fermati nella notte del 19 erano stati denunciati e rilasciati a piede libero all’alba del 20 luglio.
Il giorno dopo il senatore democratico Stefano Esposito scriverà sul suo blog indicando un esponente del comitato No Tav di Bussoleno come mandante del tentato assalto al cantiere. Già nei giorni precedenti aveva accusato il settimanale anarchico Umanità Nova di incitare alla violenza, per un articolo scritto da Maria Matteo, titolato «soldi e sabotaggi». Non pago Esposito arriverà a sostenere che l’attivista pisana molestata pesantemente durante l’arresto aveva mentito e si era meritata gli otto punti necessari a rattopparle il labbro spaccato.
La mattina del 20 luglio tra chi tornava alla propria vita dopo la notte in Clarea, qualcuno avrà ricordato che 12 anni prima, in luglio sin troppo assolato, un carabiniere aveva sparato in faccia ad un ragazzo di 23 anni.

Continued…

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No Tav. Dopo il manganello, il tribunale

notav_torino3Si è svolta ieri l’udienza di convalida degli arresti dei sette attivisti No Tav fermati nella notte del 19 luglio durante una manifestazione di lotta al cantiere di Chiomonte. L’unico fatto positivo è la decisione di applicare la misura cautelare ai domiciliari per sei No Tav e l’imposizione dell’obbligo di firma quotidiano per il più giovane.
La Procura, nelle persone dei PM Rinaudo e Padalino, gli stessi che, fuori da ogni norma e consuetudine, si trovavano all’interno del cantiere la notte degli arresti e delle violente cariche della polizia, aveva chiesto il carcere per tutti.
Per il resto il GIP ha accolto in pieno la tesi dell’accusa che il mero possesso di limoni, malox, maschere antigas dimostrerrebbe la volontà di tutti i partecipanti alla manifestazione di voler attaccare le forze dell’ordine. Il ritrovamento di bastoni, cesoie e due bottiglie molotov completerebbe il quadro. In questo modo non solo si formulano accuse gravi come la resistenza e la violenza a pubblico ufficiale, ma anche quella di possesso di armi da guerra. Grazie all’uso abnorme ma ormai abituale del concorso morale, diviene automatico che ciascuno sia responsabile di tutto quello che accade.
Nei fatti quella che si combatte in Val Susa è una vera guerra con impiego massiccio di gas velenosi, pestaggi, torture e molestie sessuali. Chi la conduce possiede legalmente armi da guerra: pistole, manganelli, fucili per sparare i gas, oltre ad essere dotato delle migliori difese come scudi, caschi, maschere antigas.
Gli avvocati del legal team No Tav decideranno nei prossimi giorni se presentare istanza di riesame, ma è probabile che i sette attivisti mantengano le restrizioni loro imposte sin dopo la pausa agostana.

L’info di radio Blackout ne ha parlato con Eugenio Losco, avvocato del Team No Tav, difensore di uno degli arrestati, che ha annunciato la decisione del ragazzo di 17 anni ferocemente pestato nella notte del 19 luglio di sporgere denuncia contro i propri aguzzini.
Le ultime parole sentite dal giovanissimo attivista prima di svenire sono state “smettiamola altrimenti lo ammazziamo”. Dai referti emerge che gli hanno spezzato la mandibola e il naso, che ha il segno di uno scarpone sullo sterno e numerose altre ferite ed escoriazioni.
Ascolta la diretta con Eugenio

Nonostante la repressione, nonostante il persistente tentativo di dividere i buoni dai cattivi, la risposta del movimento contro la Torino Lyon non si è fatta attendere.
Circa duemila No Tav, in maggioranza valligiani, hanno preso parte alla fiaccolata che si è snodata ieri sera per le strade di Susa. Il corteo era aperto dalle donne solidali con Marta, la No Tav pisana ferita e molestata sessualmente da alcuni poliziotti dei reparti antisommossa durante la serata di lotta al cantiere di Chiomonte. I No Tav hanno sostato lungamente di fronte all’hotel Napoleon, che ospita carabinieri di stanza alla Maddalena, invitandoli ad andare via. Passando per le vie del centro si è fermato sia davanti ad una pizzeria che ha stipulato un contratto con gli occupanti, sia di fronte al comune, schierato con la Lobby del Tav. La manifestazione si è conclusa di fronte alla villetta del sindaco Gemma Amprino, che, come d’abitudine, non si è fatta vedere.

Sabato 27 ci sarà la marcia popolare No Tav in Clarea. L’appuntamento è per le 14 al campo Sportivo di Giaglione, da dove si raggiungerà Chiomonte.

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Torino e Trapani. Rivolta e fuga dal CIE

imagesTorino. Un’estate molto calda nei CIE d’Italia. Dopo la rivolta che ha scosso il CIE di Modena venerdì 19, nella notte tra domenica 21 lunedì 22 è scoppiata una rivolta nel Cie di corso Brunelleschi. I primi segnali vengono dall’area bianca, ristrutturata di recente e considerata molto sicura per i tavoli e i letti cementati al suolo, I prigionieri incendiano i materassi. La rivolta si estende nell’area gialla, nella rossa e nella blu. La rottura della normalità favorisce le fughe: alcuni reclusi ci provano. I più vengono subito ripresi, un altro cade e si ferisce, ma uno forse ce l’ha fatta ed è avaso. Martedì mattina i reclusi erano ancora accampati nei cortili, a causa dei danni inferti alla struttura.

Trapani. Notte movimentata anche al Cie di Trapani Milo. Un gruppo di migranti ha tentato la fuga il 22 luglio. In quattro sono riusciti a scappare. Pare che negli scontri, tre militari sono rimasti feriti.
Il 24 luglio l’Unione delle camere penali ha visitato il Cie di Trapani, “il più preoccupante e quello con maggiori tensioni”.
“La vita all’interno del centro è disumana, con una persistente violazione della dignità della persona, non solo dei diritti umani”. La metà degli internati dell’ultimo anno è riuscita a fuggire.
Anarres ne ha parlato con Alberto, un compagno di Trapani attivo nelle lotte antirazziste.
Ascolta la diretta

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Articolo 19. La sentenza della consulta

Fiat.t.W320.H200.M4Soddisfazione per la sentenza è stata espressa anche dal collegio dei difensori della FIOM: che suggerisce al legislatore di ispirarsi al recente accordo sulla rappresentanza firmato da Cgil, Cisl, Uil e Confindustria.
(Il Manifesto, 24 luglio 2013)

Ieri sono state rese note le motivazioni della sentenza della Corte Costituzionale che ha abolito l’articolo 19 dello statuto dei lavoratori, quello sulla cui base la Fiat aveva escluso dalla contrattazione la Fiom.
Secondo le valutazioni della Consulta la rappresentanza ai soli sindacati firmatari del contratto contrasta coi “valori del pluralismo e libertà di azione della organizzazione sindacale”. Il Lingotto risponde minacciando di andarsene dall’Italia.
Ne abbiamo parlato con Cosimo della CUB
Ascolta l’intervista

A suo parere la sentenza della Corte Costituzionale sull’art. 19 va valutata con freddezza e senza limitarsi al compiacimento, pur comprensibilissimo, per l’ira di Marchionne.
Cosa stabilsce, nella pratica, la Consulta?
In primo luogo un banale, ma non scontato, principio liberaldemocratico per il quale la titolarità alla rappresentanza di un soggetto sindacale non può essere vincolata alla firma di un contratto,
specie se a perdere per i lavoratori, ma va basata sulla consistenza dell’organizzazione stessa e l’esclusione di un sindacato maggioritario come la FIOM dai diritti sindacali è, nei fatti, un attacco alle libertà ed al pluralismo sindacale.
La FIAT si trova di fronte ad un limite alla sua pretesa di essere svincolata da ogni norma ed, anzi, in grado di dettare essa stessa le norme e su questo fronte si apre una partita importante
fra FIAT e FIOM, fra FIOM e FIM, UILM, UGL .

Non se deve tuttavia dedurre che da questa sentenza scaturisca un’estensione delle libertà sindacali.
Una lettura della sentenza dice tutt’altro. Nei fatti la Corte Costituzionale afferma che l’art. 19 dello Statuto dei Lavoratori come mutilato dal referendum che ha ridotto alla firma dei contratti l’unico criterio per il riconoscimento della rappresentatività è anticostituzionale e che serve una legge sull’argomento ma nulla aggiunge sui caratteri che questa legge dovrebbe avere.
Nei fatti possiamo immaginare, e già lo hanno detto gli avvocati della FIOM, che caratteri potrebbe ragionevolmente avere questa legge e se lo dicono gli avvocati della FIOM possiamo
immaginare cosa proporranno CISL, UIL e Confindustria.
La via giudiziaria al sindacalismo è solo un’illusione
Questa sentenza può essere un’occasione per riaprire il confronto e l’iniziativa sul tema delle libertà sindacali ma, appunto, un’occasione e non un risultato.

Ne abbiamo profittato per parlare della notizia che i tre maggiori sindacati hanno sottoscritto con la società che gestirà l’Expo del 2015 a Milano un accordo che allargherà i già amplissimi margini di flessibilità di cui godono gli imprenditori.

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Fukushima. La centrale è fuori controllo

fukushima-daichi-satelliteA due anni e mezzo dal terremoto e dallo stumani che ha colpito il Giappone, danneggiando gravemente la centrale nucleare di Fukushima, la situazione è ancora fuori controllo.
Nell’ultima settimana si sono verificate ben due fuoriuscite di vapore dasll’impianto numero 3: inizialmente Tepco, la società che gestisce l’ex centrale ed è responsabile del suo smantellamento, ha minimizzato. Presto ha dovuto ammettere che c’é stata una fuoriuscita di acqua radiattiva che si è infiltrata nelle falde, riversandosi poi in mare.
Dopo tanto tempo dal disastro non è ancora possibile per gli esseri umani avvicinarsi alle aree interne della centrale.
Non è facile, nel muro di silenzio omertoso che circonda la centrale Daichi, fare il punto della situazione. L’info di blackout ci ha provato con Marco, un attivista no nuke che segue da tempo la vicenda del disastro in Giappone.

Ascolta la diretta

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CIE di Modena, rivolta, fuoco e arresti

modena-tettiVenerdì 19 luglio. Nel pomeriggio i 40 reclusi – tutti tunisini – bruciano i materassi e spaccano tutto in due blocchi. La scintilla è la scarsa igiene. Nella notte la protesta diventa azione collettiva: le fiamme divampano per quattro ore tra mezzanotte e le quattro del mattino. Una dozzina di reclusi sale sul tetto e lancia tegole contro le forze dell’ordine.
le rivendicazioni sono sparite: resta la voglia di libertà, la speranza che si apra uno spiraglio per saltare il muro.
Polizia, carabinieri, guardia di finanza e vigili del fuoco lo capiscono e si schierano dentro e fuori dalla struttura per impedire una fuga di massa.
Finirà con nove arresti e 70mila euro di danni.
Da mesi le notizie che filtrano dal CIE: i racconti dei pochi che escono, i report di parlamentari e giornalisti descrivono una struttura fatiscente, sporca, priva di ogni servizio. La cooperativa Oasi, che ha sostituito la Misericordia vincendo un appalto in cui chiedeva 28 euro contro i 72 della concorrente è stata di recente perquisita dalla guardia di finanza, perché i dipendenti non vengono pagati da mesi.
Il Siulp, il sindacato di polizia della CGIL, chiede rinforzi, investimnenti per aumentare il numero degli uomini in divisa e, in caso contrario la chiusura del CIE.
Evidentemente le tegolate in testa modificano l’orizzonte di chi ne è colpito.

Ascolta l’intervista fatta dall’indfo di Blackout a Simone, un compagno che segue da tempo le vicende della prigione modenese.
Ne è scaturita una riflessione più ampia sui CIE, , sulle prospettive di lotta, sulle rivolte scoppiate in queste settimane, perché dopo Modena è stata la volta di Torino e Trapani.
Ascolta la diretta

Aggiornamento al 2 agosto: il CIE chiude. Il Prefetto di Modena Michele di Bari ha deciso di chiudere la struttura, ordinando il trasferimento dei primi 23 reclusi, per lavori di ristrutturazione, che potrebbero essere il preludio alla definitiva chiusura della struttura modenese.
Aggiurnamento al 13 agosto. Il CIE di Modena è completamente vuoto, i lavoratori della cooperativa Oasi sono stati posti in cassa integrazione.

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Lega Nord. Agonia o nuovo corso?

razzisti-VauroGli insulti razzisti del vicepresidente del senato Calderoli al ministro per l’integrazione Cecile Kiyenge hanno innescato lunghe polemiche ed hanno riacceso i riflettori dei media sulla Lega Nord. I leghisti ci hanno assuefatti da anni ad un linguaggio politico che attige a piene mani nella cultura patriarcale e razzista. Tipico del bestiario razzista il riferimento ad altri primati per descrivere popolazioni non pienamente umane, e, quindi, immeritevoli di accedere ai diritti concessi a chi a pieno titolo è riconosciuto parte dell’umanità.
Non ci stupiamo quindi delle parole di Calderoli, non sembra tuttavia credibile che il vicepresidente del Senato si sia fatto trascinare dalla foga oratoria. Più probabile che la mossa sia stata studiata a tavolino proprio per ottenere l’attenzione dei media e, tramite loro, di quelle ampie fette di elettorato leghista traghettate su altri a lidi alle recenti elezioni politiche ed amministrative.
Il partito fondato da Umberto Bossi è in difficoltà. Probabilmente ha patito più del PDL le malefatte del padre e vate padano e della sua famiglia, per non dire del progressivo sfilamento delle componenti più “moderate del partito” il cui esponente di maggior rilievo è il sindaco di Verona Tosi. In un tempo segnato dall’immagine dei leader, il venir meno di una personalità carismatica come Bossi ha ridotto il collante identitario del partito, sparpagliandone l’elettorato tra PDL, estrema destra e Movimento 5 stelle e, fors’anche, nel PD, con il quale, a livello locale ha anche stretto accordi.
Oggi, finchè dura la legislatura, la Lega prova a giocarsi l’unica carta che ha sempre funzionato, quella della guerra ai poveri, della chiusura razzista, della negazione dello jus soli. Gli insulti di Calderoli sono stati il volano per la manifestazione leghista annunciata per il 7 settembre a Torino.

Anarres ne ha discusso con Pietro Stara, autore, tra gli altri, del libro uscito per i i tipi di Zero in Condotta, “La Comunità escludente”

Ascolta la chiacchierata con Pietro

Vale anche la pena ascoltare l’intervista, realizzata dall’info di Blackout con Giobbe, un compagno della provincia di Varese, dove resiste lo zoccolo duro leghista. Giobbe fa parte del collettivo che ha realizzato la festa antileghista e un opuscolo di approfondimento.

Ascolta diretta con Giobbe

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Spagna 1936. Al bivio tra guerra e rivoluzione

spagna36 blu19 luglio. Nell’anniversario dell’insurrezione contro il tentato golpe dei generali spagnoli, abbiamo continuato la riflessione intrapresa la scorsa settimana con Claudio Venza, docente di storia della Spagna contemporanea all’università di Trieste e autore, tra gli altri, del libro, uscito un paio di anni fa per i tipi di Eleuthera, “Anarchia e potere nella guerra civile spagnola”.
Nel contesto di una feroce guerra civile tra fascismo e antifascismo, che prelude alla seconda guerra mondiale, un forte e radicato movimento libertario cerca di realizzare una società di liberi e uguali. Dopo aver contribuito in modo rilevante alla sconfitta del golpe, anarchici e anarcosindacalisti provano a mettere in pratica le loro aspirazioni autogestionarie attraverso migliaia di collettivizzazioni urbane e rurali, innovative sperimentazioni in campo sociale e culturale, e una «guerra antimilitarista» basata sul modello delle milizie volontarie. In una situazione così complessa, agli anarchici si pone subito il lacerante dilemma del potere. Questo libro racconta quell’epocale esperimento rivoluzionario con i tentativi pragmatici (e le resistenze) dei libertari di venire a patti con una realtà ostile.
Ascolta la diretta con Claudio Venza

Di seguito il capitolo conclusivo del suo libro. Un’occasione per aprire una riflessione, oggi più che mai attuale, su guerra e rivoluzione, nella difficile dialettica tra etica della convinzione ed etica della responsabilità. Continued…

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