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Brasile. Il ritmo della rivolta sociale

brasileCosa sta succedendo in Brasile? Sin dal 2001 Goldman Sachs l’ha incluso tra nel novero dei paesi con uno sviluppo economico veloce e travolgente, autentiche nuove potenze globali. Con Russia, India, Cina e Sudafrica contribuisce all’acronimo Brics, che non è solo una sigla ma un fronte economico che all’ultimo vertice si è dotato di una propria banca di investimenti. Con gli altri del gruppo condivide una grande popolazione (duecento milioni di abitanti), un immenso territorio, abbondanti risorse naturali strategiche, sempre più peso nel mercato globale e, cosa più importante, una crescita del PIL travolgente. In queste settimane il Brasile sta vivendo proteste e manifestazioni popolari agite da centinaia di migliaia di persone. Una protesta esplosa dopo le lotte contro l’aumento dei prezzi del trasporto pubblico in alcune città del paese. Quali le ragioni che hanno messo in moto per la prima volta nella storia del Brasile moderno un sì gran numero di persone?
Dilma Rousseff ha dichiarato che negli ultimi 3 anni 40 milioni di cittadini sono entrati a pieno titolo a far parte della classe media. In Brasile c’è una struttura sociale in cui il divario tra classi è ancora abissale: 10 milioni di persone alla fame e una borghesia in crescita che all’apparenza non cerca rappresentanze ma rivendica diritti che mai le sono stati concessi. Una piazza plurale, multicefala che racchiude tutte queste voci diverse, stanca di subire i rapporti di potere di un altro modello sociale e con una forte spinta all’innovazione. Una piazza con la quale il governo non riesce a confrontarsi. La risposta dello Stato, puntuale e inesorabile, si è data su un piano repressivo fortissimo, con perquisizioni e arresti indiscriminati, 8 morti durante gli scontri con le “tropas de choque” della polizia meglio armata e preparata del Sudamerica, centinaia e centinaia di feriti.
Parallelamente altri elementi ci fanno riflettere sugli equilibri di un paese che cambia: la proposta di legge conto i gay avanzata dalla chiesa evangelica (sempre più influente in Brasile), la proposta di modifica costituzionale “Pec-37” che permetterebbe di limitare i poteri di indagine della procura generale e che in molti pensano che otterrebbe l’effetto di ostruire l’azione penale nei confronti dei politici corrotti, una riforma agraria promessa da PT da 20 anni e che ancora non trova risposte concrete, una compagine sindacale e del mondo del lavoro strutturata per corporazioni definite negli anni 40 dagli epigoni populisti di Mussolini (Getulio Vargas). Ed ancora l’aumento del costo della vita, la gentrificazione dettata dagli appetiti speculativi degli ultimi anni (in 5 anni è triplicato il prezzo delle case), che vede ora una evoluzione grazie ai grandi eventi in programma nei prossimi anni, mondiali di calcio (2014) e olimpiadi (2016), per i quali lo stato sta investendo 30 miliardi di dollari e grazie ai quali prevede la possibilità di una ridistribuzione importante di reddito (non memore di tutte le passate edizioni di questi eventi). Ed infine, le infiltrazioni della destra tra i manifestanti e i tentativi di portare le istanze rivendicative su questioni nazionaliste.
Il paese cambia, le contraddizioni emergono in modo sempre più travolgente, vale la pena cercare di capire l’emergere improvviso di movimenti sociali, in paesi dove il ritmo non è quello della crisi ma quello di una crescita che mantiene fuori gli ultimi.
Con un paragone un po’ azzardato potremmo rilevare come in poche settimane violente sollevazioni popolari abbiano scosso la Turchia e il Brasile, due grandi paesi in cui il poderoso sviluppo economico è andato di pari passo con la gigantesche opere pubbliche, processi di espulsione dei più poveri dalle aree investite dalla speculazione edilizia, meccanismi disciplinari violenti contro ogni forma di opposizione politica e sociale. L’aumento della ricchezza che non riduce davvero il divario sociale, ma offre ai nuovi ceti medi e agli strati degli esclusi un terreno di rivendicazione per l’accesso a libertà e risorse disponibili.
Il dibattito è aperto.

Anarres ne ha discusso con Simone, un compagno che conosce bene la realtà brasiliana.
Ascolta la chiacchierata

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Due papi e una banca

viaisoldiNella serata del primo luglio è stata diffusa la notizia delle dimissioni del direttore generale dello IOR Cipriani e del suo vice Lulli.
Le dimissioni sono state accettate dalla Commissione cardinalizia di vigilanza e dal board laico di sovrintendenza, il cui presidente Ernst Von Freyberg ha assunto le funzioni di direttore generale “ad interim”, con effetto immediato. La super commissione nominata la scorsa settimana dal papa si è limitata a prendere atto della decisione dei due uomini ai vertici operativi della banca. Cipriani è da tempo nel mirino della procura di Roma insieme all’ex presidente Ettore Gotti Tedeschi per la vicenda dei 23 milioni di euro sequestrati per sospetta violazione delle norme anti-riciclaggio.
Le dimissioni erano nell’aria sin dall’arresto del vescovo di Salerno, Nunzio Scarano dell’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica (Apsa).
Scarano e i suoi due complici, il broker finanziario Giovanni Carenzio e l’ex sottufficiale dei carabinieri Giovanni Maria Zito, che, all’epoca dei fatti nel luglio 2012, era distaccato agli 007 dell’Aisi, sono finiti in carcere il 28 giugno. Il vescovo è accusato corruzione e di calunnia per il tentativo, naufragato, di far rientrare in Italia 20 milioni di euro, sospettati di essere frutto di un’evasione fiscale degli armatori d’Amico.
Nemmeno due giorni prima papa Bergoglio aveva commissariato lo IOR, l’Istituto per le Opere di Religione, la banca di Dio, con sede nel Torrione di San Nicolò.
Bergoglio con una mossa la cui tempestività lascia pochi dubbi, ha istituito la Pontificia commissione referente sull’Istituto per le Opere Religiose. A capo del nuovo organismo il cardinale salesiano Renato Farina. La dicitura ufficiale con la quale viene designata la commissione è realizzare «una migliore armonizzazione del medesimo con la missione della Chiesa universale e della Sede Apostolica, nel contesto più generale delle riforme che sia opportuno realizzare da parte delle Istituzioni che danno ausilio alla Sede Apostolica».
Lo IOR ha già un organismo di controllo e la mossa di Bergoglio, due giorni prima dell’arresto del vescovo di Salerno, la cui iscrizione nel registro degli indagati risale però all’inizio di giugno, va decodificata al di là della spessa cappa di fumo sparsa nella narrazione della maggior parte dei media.
Anarres ne ha parlato con il proprio vaticanista di riferimento, Paolo Iervese.
Ascolta la diretta
Vale la pena fare un passo indietro per meglio capire la durissima battaglia di potere che si sta giocando da oltre un anno tra le mura vaticane. La violenza dello scontro è tale da bucare la coltre di riservatezza con cui la chiesa cattolica copre i propri affari.
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Turchia. Nascono le assemblee popolari

Clashes at protests in IstanbulDue settimane fa, dopo il violento sgombero di Gezi Park e Piazza Taksim ad Istanbul, i media italiani hanno calato il sipario sulla situazione in Turchia.
Il movimento di lotta ha saputo rinnovarsi ed estendersi, senza perdere la sua forza e mantenendo una forte partecipazione popolare.
Dopo giorni di autogestione, di solidarietà, di resistenza e condivisione nelle strade di Istanbul e di molte altre città della Turchia, lo sgombero della “Comune di Gezi Park” da parte della polizia non ha certo fermato le proteste.
Il fatto più interessante è stata la nascita di assemblee aperte in molte città turche. In questo momento ci sono circa 82 assemblee attive in 11 città. Il loro numero è in crescita e costituiscono un importante strumento di autorganizzazione e di autogestione del movimento. Un movimento che ha imparato ad incontrarsi e conoscersi nelle lunghe giornate di resistenza e autogoverno della piazza tra Gezi, Taksim e tanti altri luoghi in Turchia.
In queste settimane il governo ha provato a stroncare il movimento. Oltre alla brutale repressione di piazza e alla sistematica disinformazione dei media ufficiali c’è stata una crescita un aumento degli attacchi fascisti delle squadracce del premier Erdoğan contro le assemblee ed una vera e propria caccia alle streghe che ha portato nelle principali città all’arresto di decine di militanti rivoluzionari.
In queste due settimane, in forme diverse, la rivolta è andata avanti.

Anarres ne ha parlato con Dario, un compagno che è stato diverse volte in Turchia e conosce bene il paese.
Ascolta la diretta

Assemblee, proteste simboliche – uomini in piedi -, cortei duramente repressi, scontri notturni nella capitale Ankara. Martedì 25 giugno migliaia di persone sono tornate in piazza ad Istanbul contro la scarcerazione del poliziotto che ad Ankara aveva ucciso, sparandogli, il lavoratore Ethem Sarısülük. Ma non solo.
Continued…

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Grecia. Anarchici in piazza

2013 06 29 ateneAtene, manifestazione di solidarietà all’anarchico Kostas Sakkas in sciopero della fame
Sabato 29 giugno circa 4.000 anarchici hanno marciato nel centro di Atene per esprimere la loro solidarietà all’anarchico Kostas Sakkas, in sciopero della fame. Sakkas era stato arrestato per possesso di armi ed accusato di coinvolgimento nella organizzazione Cospirazione delle Cellule di Fuoco. Sebbene abbia sempre respinto le accuse è detenuto senza processo da trenta mesi, un altro ostaggio nelle mani dello Stato, che viola la propria stessa legalità. Ha già superato i 25 giorni di sciopero della fame ed in suo appoggio si sono mosse le tante anime del movimento anarchico greco. Anche il principale partito di opposizione, Syriza, ha preso posizione contro l’estensione abnorme della custodia cautelare. Il governo ne ha approfittato per accusarlo di coprire le attività dei “terroristi” e degli “incappucciati”.
foto, altre foto

Patrasso scontri con la polizia e arresti di compagni a Patrasso
Anarchici e antifascisti hanno bloccato l’ingresso dell’hotel dove era in programma un comizio del partito neo-nazista Alba Dorata, sono stati attaccati dalla polizia e hanno risposto. 16 compagni arrestati sono stati, ma il comizio in quell’hotel è stato impedito.

Corinto, Kavala:scontri di anarchici con fascisti
A Corinto, 10 fascisti hanno attaccato e ferito seriamente 2 compagni. Nella città di Kavala – a est di Salonicco, nella Macedonia greca – c’è stato uno scontro tra anarchici e fascisti.
Da una corrispondenza di Georgios del Collettivo dei Comunisti Anarchici di Atene

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Identità erranti

identità erranti colorUna proposta di dibattito che trae spunto da un articolo uscito sull’ultimo numero del mensile A.
Chi fosse interessato ad interloquire può scrivere ad anarres@inventati.org

Il lungo addio dal novecento che stiamo attraversando finirà probabilmente con il declinare in modo altro le questioni che hanno segnato il secolo appena trascorso, sino a riporne alcune nella cassetta degli attrezzi di un passato che non torna.
Il tempo dell’attraversamento che stiamo vivendo nel suo porsi all’intersezione di tempi e modi dell’agire politico e sociale è come un guado tra due sponde su cui non sappiamo se finirà con l’insistere un ponte.
Forse non c’è né guado né ponte per i più giovani, perché sono già stabilmente oltre.
Tuttavia lo sguardo che tenta di collegare le due sponde vede come i percorsi che segnano l’agire politico degli attivisti radicali degli anni dieci si ancorino saldamente alla negazione del passato più che all’affermazione del presente.
Le identità che segnano questa nostra epoca sono costitutivamente erranti, in moto, disponibili alla sperimentazione più che all’impegno, interessate al viaggio più che all’approdo.
Sono i figli e i nipoti di illusioni e sconfitte, sono figli e nipoti di percorsi di libertà che si sono dipanati nonostante le illusioni e le sconfitte.
Un viaggiatore che approdasse nel nostro paese direttamente dagli anni Sessanta coglierebbe immediatamente due dati. La rivoluzione della vita quotidiana come percorso in parte compiuto, in parte dimenticato; la trasformazione sociale come orizzonte remoto, rarefatto, quasi impalpabile.
Lo stesso viaggiatore coglierebbe altresì la ricchezza delle esperienze di autogestione territoriale che aprono crepe nell’omologazione della merce e la contestuale rarefazione dello scontro di classe, la difficoltà nel costruire percorsi di lotta capaci di mettere in difficoltà l’avversario.
Da un lato la spinta alla sottrazione dall’ordine che imbriglia le vite, dall’altro la difficoltà di immaginare un percorso che spezzi quest’ordine.
Viviamo un’epoca di rivoluzionari senza rivoluzione. Colpisce che lo stesso persistere di una mitologia rivoluzionaria è spesso più rappresentazione rituale, che fonte viva cui attingere.
Se il capitalismo trionfante ha seppellito le rivoluzioni del secolo scorso, tuttavia la cecità, l’assenza di prospettive che oltrepassino l’eterno ritorno dell’oggi, l’impossibilità a far fronte alla crisi ecologica, l’evidenza che una crescita inarrestabile è insostenibile e distruttiva, aprono vistose crepe in un’impalcatura che divora se stessa. Il capitalismo continua a promettere a ciascuno la propria chance ma l’immagine che lo riflette è una clessidra strettissima al centro, appena più larga poco sopra, molto ampia alla base.
Chi sceglie di voler spezzare questa clessidra non trova a soccorrerlo una teoria sociale solida, solo alcune grandi idee di riferimento, come l’abolizione della proprietà privata, la messa in comune delle risorse fondamentali, la promozione di stili di vita più sobri, la riduzione degli sprechi, l’eliminazione della merce e la sensibile riduzione degli scambi. Non solo. La transizione e finanche la rottura rivoluzionaria si perdono in un futuro remoto.
L’estinguersi felice del grande meccano sociale che fa girare le storia, con il suo triste corollario di esegeti di come starci dentro, come interpretarne il modo, come sollecitarne l’ingranaggio ha donato la libertà della sperimentazione, la vertigine di un domani che non offre promesse ma non impone itinerari.
La consapevolezza che l’incastro tra i molti luoghi dell’agire cosciente, nella loro multiforme agilità, si scontra con un magma violento, distruttivo, perfettamente anomico, non offre troppi margini all’ottimismo.
I processi di finanziarizzazione dell’economia capaci di ingoiare milioni di vite con un colpo di tastiera agito in automatico da un programma educato a reagire in quel modo, rendono più impalpabile l’avversario, al punto che gli stessi attori privilegiati del piano alto della clessidra perdono di fisicità.
Questo favorisce la strategia della sottrazione rispetto a quella del conflitto, spesso senza cogliere che non c’è fuga, non c’è luogo, che possa vivere se non nello scontro. Qualsiasi spazio liberato, anche se sopravvive ai periodici assedi, muore comunque d’asfissia se non mira a crescere, allargarsi, moltiplicando le lotte.
Nella melma dei piani bassi della clessidra la durezza dello sfruttamento più bestiale ci consegna la violenza di classe nella sua cruda nudità. Non ci sono orpelli, ammortizzatori, finto cordoglio per le vittime. È la giungla sociale. Ci lavoravano in tremila in quella fabbrica di Dacca, dove si stava piegati sulle macchine da cucire mentre i muri scricchiolavano, mentre il pavimento si spaccava, mentre la vita se ne andava tra le macerie. Mille cadaveri li hanno tirati fuori, per gli altri la fabbrica è stata anche la tomba. Qui, nel nostro nord, terrorizzato dal sud che avanza a ci ingoia, qualcuno ha pianto, le ditte più astute hanno annunciato maggiore attenzione per chi morendo rischia di sporcare di sangue i loro marchi.
Poi si volta pagina e si dimentica.
Chi governa il mondo ha saputo creare i luoghi dove mediare tra i diversi interessi e, insieme costruire i meccanismi di una governance sovranazionale che imponga le proprie regole. Non senza crepe, non senza scontri, non senza guerre.
Rompere quest’ordine folle senza essere travolti dalle macerie è la scommessa che ci attraversa, ma resta sullo sfondo, nello spazio di un domani che non riusciamo a immaginare.
L’opacità degli anni che viviamo è il nostro peggiore nemico, perché conduce le nostre identità erranti a intrecciare percorsi che vivono un presente senza domani.
Intendiamoci. Nessuno rimpiange il sole dell’avvenire che illumina il futuro consegnandogli il presente. Resta il fatto che diventa difficile costruire un buon presente se non si immagina di impastarvi il futuro.
Nella concretezza dei percorsi politici questo secondo decennio del secolo ci consegna una sempre più marcata attitudine ad una liquefazione delle relazioni. Il senso di appartenenza, la relazione diretta all’interno di gruppi specifici, lascia il passo ad un ampio nomadismo, ad un viaggiare che passa da un luogo all’altro dell’agire politico e sociale, spesso senza trovare approdi definitivi.
La stessa dimensione tribale che aveva segnato gli anni Novanta si stempera sia nella materialità del vivere al tempo della crisi, sia nel disfarsi delle culture che l’avevano animata.
Quest’attitudine ha segnato la fine dei partiti della sinistra novecentesca. E fin qui nessuno si lamenta. Investe tuttavia anche l’area libertaria, al punto da rendere obsoleto il dibattito tra organizzatori ed antiorganizzatori, tra chi preferisce un’organizzazione stabile e di sintesi e chi sceglie gruppi di affinità la cui relazione non sia formalizzata.
Gli uni e gli altri devono fare i conti con il moltiplicarsi di percorsi individuali che si intrecciano e non si fermano, che spesso si raggrumano intorno a luoghi o lotte specifiche, per poi disperdersi altrove, in altre lotte, in altri luoghi.
Un nomadismo che è anche fisico, ma più spesso rimanda al rifiuto cosciente di un ancoraggio, al concedersi l’agio della leggerezza, del movimento. Sul piano dell’analisi questa attitudine porta all’intreccio tra spunti e culture politiche diverse, con esiti a volte spuri, altre interessanti.
Immaginate che il novecento sia stato smontato in tutti i vari pezzi che l’hanno costituito e messo in tante diverse cassette. Nel guado tra i due secoli c’è chi prende un pezzo da una parte ed uno dall’altra, per mescolarli, nelle convinzione – o illusione – che l’incastro vada “oltre” il secolo breve.
Mi pare difficile che questo puzzle possa trovare una propria forma, tuttavia il dato più interessante è che l’orizzonte libertario, sia pure stemperato a talora banalizzato, sia divenuto spazio comune. Anche chi resta ancorato ad una prospettiva autoritaria è obbligato a farci i conti, a mascherare la propria attitudine gerarchica con il pretesto dell’efficienza o altri orpelli un po’ stantii.
L’anarchismo “classico”, quello che punta sull’organizzazione di sintesi, come quello che gioca la carta dell’affinità, si trova di fronte ad una vittoria del proprio orizzonte culturale e insieme ad una sfida ai propri percorsi.
Il guado è molto lungo e difficile. Forse alla fine non ci sarà un ponte solido ma solo un’esile passaggio di corde intrecciate.

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L’Italia come la Grecia? Il buco nero dei derivati

roulette russaArriva dal Financial Times l’ennesima doccia fredda sui conti pubblici italiani: l’Italia, scrive il quotidiano della City, rischia pedite per complessivi 8,1 miliardi di euro da operazioni, nate a fine ’90 e poi ristrutturate, sui derivati.
I contratti originali – scrive il Financial Times citando un documento del Tesoro, trasmesso alla Corte dei Conti – risalgono alla fine degli anni ’90, ovvero al periodo “precedente o subito successivo all’ingresso dell’Italia nell’euro”. Allora, “Mario Draghi, attuale presidente della Bce, era direttore generale del Tesoro” ricorda il FT, sottolineando che il rapporto di 29 pagine non specifica le potenziali perdite dell’Italia sui derivati ristrutturati.
A Draghi successe Grilli, attuale ministro del Tesoro.
Tre esperti indipendenti consultati dal quotidiano calcolano le perdite, sulla base dei prezzi di mercato al 20 giugno, a circa 8 miliardi di euro.
Il rapporto – mette in evidenza il Financial Times – si riferisce solo alle “transazioni e all’esposizione sul debito nella prima metà del 2012, inclusa la ristrutturazione di otto contratti derivati con banche straniere dal valore nozionale di 31,7 miliardi di euro. Il rapporto lascia fuori dettagli cruciali e non fornisce un quadro completo delle perdite potenziali dell’Italia. Ma gli esperti che lo hanno esaminato – aggiunge il Financial Times – hanno detto che la ristrutturazione ha consentito al Tesoro di scaglionare i pagamenti dovuti alle banche straniere su un periodo piu’ lungo”. Il guaio è che questo tempo guadagnato è stato pagato “in alcuni casi, con termini più svantaggiosi per l’Italia”.
Il documento non nomina le banche ne’ fornisce i dettagli sui contratti originali “ma gli esperti ritengono che risalgano alla fine degli anni Novanta. In quel periodo Roma aggiustava i conti con pagamenti in anticipo dalle banche per centrare gli obiettivi di deficit fissati dall’Unione Europea per i primi 11 paesi che volevano aderire all’euro. Nel 1995 l’Italia aveva un un deficit di bilancio del 7,7%. Nel 1998, l’anno cruciale per l’approvazione del suo ingresso nell’euro, il deficit si era ridotto al 2,7%”.
Sul rapporto del Tesoro è intervenuta anche la Guardia di Finanza – riporta il Financial Times – con perquisizioni lo scorso aprile negli uffici di Via XX Settembre. In particolare, le Fiamme Gialle avrebbero chiesto informazioni e documenti sui contratti originari in derivati a Maria Cannata, responsabile dell’Ufficio Gestione Debito del Tesoro. “Solo una manciata di funzionari italiani, del passato e del presente, sono a conoscenza del quadro completo”, scrive FT e gli esperti consultati dal quotidiano hanno confermato che si tratta di impegni sottoscritti dall’Italia negli anni ’90 e ristrutturati nel 2012.
L’anno scorso, ricorda FT, l’Italia ha rivelato di aver pagato 2,57 miliardi a Morgan Stanley che per ridurre l’esposizione al rischio italiano aveva esercitato il ricorso a una clauusola rescissoria prevista negli accordi sui derivati stipulati nel’94. La banca americana è stata l’unica, ad oggi, a voler uscire da contratti in essere con l’Italia.
La documentazione fornita al Parlamento nel 2012, ricroda il FT, stimava nel 10% dell’intero ammontare di titoli del debito pubblico italiano il valore dei contratti su derivati stipulati dal Tesoro italiano.

Per capire l’entità del buco è sufficiente fare un paragone. L’aumento di un punto dell’IVA, previsto a luglio ma rimandato a settembre, dovrebbe far entrare in cassa circa sei miliardi in un anno. Per pareggiare gli 8 miliardi di debiti contratti con le banche per garantirsi l’ingresso nell’euro, oggi l’Italia dovrebbe aumentare l’IVA di un punto e mezzo percentuale.
La crisi che ha mezzo in ginocchio dieci milioni di greci è partita con un debito sui derivati di soli 3 miliardi.

L’informazione di radio Blackout ne ha parlato con Francesco, un economista che ci ha aiutato a districarci tra cifre e percentuali. Ci ha anche spiegato cosa siano i derivati: una scommessa su una possibilità. Meno di nulla. Peccato che su questo nulla si brucino le vite di miliardi di esseri umani.

Ascolta la diretta

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Governo ed F35. Decollo difficile

f35Pare calare la tensione nel governo e nella maggioranza sul tema caldo degli F35, pomo della discordia tra i ministri degli Affari Regionali, Graziano Delrio e della Difesa, Mario Mauro. Ieri ad accendere la miccia era stata una dichiarazione del primo, in quota Pd, favorevole ad “un’istruttoria” per “rimodulare la spesa” sui cacciabombardieri.
Il voto sulla mozione Sel-M5S – sostenuta anche da un gruppo di deputati del Pd – che chiede la sospensione del programma militare è slittato da ieri ad oggi.
La spesa prevista dall’Italia è di 12 miliardi di euro, da sostenere in 12 anni per l’acquisto totale di 90 cacciabombardieri. Ogni apparecchio costa 200 milioni e l’Italia, finora, ne ha materialmente ordinati tre.
Nella riunione del gruppo parlamentare del PD svoltasi questa mattina è stato trovato l’accordo su un testo che prevede che non vi sia «Nessuna fase di acquisizione» degli F35 «senza che il Parlamento si sia espresso nel merito». La mozione del Pd sugli F35 è stata approvata con 4 voti contrari e 6 astenuti. Chiesta anche un’indagine sulle reali necessità della difesa.
Con ogni probabilità il PD punta all’acquisizione di una trentina di velivoli, da destinare alle portaerei italiane, che possono trasportare solo aerei a decollo verticale. Nessuna delle portaerei della Marina militare italiana è abbastanza lunga da ospitare velivoli con decollo breve e atterraggio frenato. In questo momento la versione “navale” dell’F35, prevista a decollo verticale, è l’unica in grado di soddisfare i requisiti per il rinnovo della flotta aeronavale del Belpaese.
Sul piatto ci sono però gli interessi nella commessa del maggiore colosso dell’industria armiera italiana, Finmeccanica. A Cameri, dove verranno assemblati il cassone e le ali del cacciabombardiere, prodotti dall’Alenia, una consociata di Finmeccanica.
In giornata è arrivato l’annuncio che la maggioranza avrebbe raggiunto un accordo per una mozione unitaria che disinnescherebbe la bomba F35. Dopo la riunione della maggioranza il capogruppo di Scelta civica Lorenzo Dellai, ha dichiarato che la mozione di maggioranza “salva le decisioni assunte, che sono irreversibili, e non pone l’obiettivo di uscire dal progetto ma di aprire una fase di verifica e impegna il governo a ‘non procedere a ulteriori fasi operative’ se non dopo essere tornato in Parlamento a riferire”.
Resta, quindi, la verifica sugli strumenti di difesa da parte delle commissioni parlamentari competenti in vista del Consiglio europeo sulla Difesa convocato per dicembre.
In giornata probabilmente sapremo l’esito della votazione sugli F35.
Di certo sappiamo che solo l’azione diretta antimilitarista è in grado di gettare sabbia in questo ingranaggio di morte.
L’info di Blackout ne ha parlato con Walter del Movimento contro gli F35. Gli antimilitaristi stanno preparando una notte bianca davanti all’aeroporto militare di Cameri, dove è ormai terminata la costruzione per l’assemblamento degli F35.
Tra il 13 e il 14 luglio manifestaranno contro l’inizio dei lavori previsto il 18 luglio.

Ascolta la diretta con Walter

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Terzo valico. Verso una calda estate

terzovalicoLa notizia che il governo ha deciso di stornare momentaneamente i fondi per la realizzazione della linea ad alta velocità tra Genova e Tortona ha innescato la dura reazione delle forze politiche al governo nella città della Lanterna. Il 25 giugno era stato fissato il dibattito in consiglio comunale. Non potevano mancare i No Tav che hanno contestato lanciando volantini in sala.
In realtà, vista la decisione di realizzare l’opera, dividendola in lotti costruttivi e non funzionali, lo storno riguarda solo il secondo lotto, mentre i lavori per il primo, pur sostanzialmente fermi da tempo, sono destinati a continuare. Va rilevato che l’amministratore delegato di Trenitalia Moretti aveva già fatto uno storno di 240 milioni di euro dal secondo lotto, destinandolo ad opere di manutenzione delle linee esistenti.

L’informazione di radio Blackout ha realizzato un’intervista con Toni, del movimento contro il terzo valico.
E’ stata una buona occasione per fare il punto sulla lotta e sull’avanzamento dei lavori.  Nel genovese molti espropri sono stati bloccati dai No Tav, altri, specie quelli più vicini al mare, sono stati realizzati con il benestare dei proprietari. A Genova dopo aver scavato qualche metro per un paio di gallerie di servizio dell’opera i lavori sono fermi. A Trasta l’avvio del cantiere è stato bloccato dalle lotte. In Val Lemme sono stati riaperti in modo solo formale i cantieri di due gallerie, fatte molti anni fa e poi abbandonate.
Il movimento contro il terzo valico si sta preparando ad un’estate molto calda. In luglio è prevista un’altra tornata di espropri e l’avvio del cantiere per la finestra della Polcevera.
Ascolta la diretta con Toni

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Il Qatar nel grande gioco afgano

A-Glance-at-Qatar_internal_header_imageLe ultime notizie provenienti dallo scenario afgano avranno probabilmente fatto rizzare i capelli a qualcuno dei più giovani e meno smaliziati sostenitori del dovere morale d’intervento americano nel globo. E’ stato reso noto, ed ovviamente subito smentito, ma in tali faccende l’importante è l’aver dato l’annuncio, che sono iniziati contatti diretti tra la struttura politica Taleban (con a capo il fino adesso dimenticato Mullah Omar) e l’amministrazione americana. Tali contatti sarebbero iniziati in Qatar e, se la prima notizia è la più succosa per la stampa internazionale, la seconda è di gran lunga più importante.
L’apertura di un ufficio di rappresentanza Taleban in Qatar e l’avvio di colloqui tra questo ufficio e l’amministrazione Obama sono due fatti che non possono essere slegati tra di loro. Con questa azione protesa a costituirsi come il principale polo di mediazione tra gli Stati Uniti e la galassia conservatrice e integralista islamica sannita, il Qatar si pone al centro dello scenario internazionale più di quanto esso non sia stato in questi anni. Indipendente dalla Gran Bretagna dal 1971 il Qatar ha sempre mantenuto fermo il collegamento tra i propri capitali e lo Stock Exchange di Londra dove, tra l’altro, studiano da sempre i rampolli della classe dominante del piccolo paese. Il Qatar si trova su di un lago di gas che in questi anni si è trasformato in un fiume di dollari, euro, yen e renmimbi. Inizialmente la classe dominante ha investito tali capitali nelle grandi costruzioni e nel lusso. Ancora oggi i grattacieli della capitale Doha competono con quelli di Dubai e Singapore e i grandi marchi della moda francese ed italiana sopravvivono grazie alle iniezioni di dollari qatarini; con il tempo però a Doha hanno iniziato a voler contare nel campo della politica internazionale e, in particolar modo in quella dell’area islamica attorno al Medio oriente.

Ricordiamo alcune iniziative prese dal Qatar in questi anni:
– 1 sostegno ai Fratelli musulmani in Egitto ad Ennhada in Tunisia, all’AKP di Erdogan in Turchia e ad Hamas in Palestina. In generale vengono sostenuti i gruppi ed i partiti islamici integralisti in quanto ispirati all’applicazione della svaria, ma lontani dal fondamentalismo di marca saudita, ispirato dalla corrente wahabita, sostenitrice a partire dal XVIII secolo di un “ritorno al Corano” che non sembra invece interessare i qatarini. In contro luce si nota il tentativo di smarcarsi dalla politica estera saudita sostenitrice in Cecenia come nel Mali, in Somalia come in Libia, di tutte le esperienze centrate sul fondamentalismo e che riconoscono alla casa reale di Rihad una certa qual supremazia in campo musulmano.

– 2 Sostegno pieno al principale partito integralista siriano nella guerra civile in corso nel paese; finanziamento militare ed economico a tutta l’area che si contrappone non solo alla dittatura laica degli Assad ma anche all’opposizione laica occidentalista e a quella fondamentalista finanziata dall’Arabia Saudita

– 3 Sostegno all’opera di contenimento compiuta dagli americani nel Golfo ai danni dell’Iran ma svolgendo un’opera di moderazione e mediazione tra Washington e Teheran. Ricordiamo che l’Iran sciita è un nemico religioso per il Qatar sannita ma un alleato importante per il Qatar esportatore di gas. Autorevoli commentatori sostengono che, se fino ad adesso gli Stati Uniti hanno impedito a Israele di attaccare l’Iran, questo è dovuto all’opera di Doha. Insomma in Qatar si mantengono amicizie (per quanto relative) con l’Iran, ma si ospita la più grande base aereonavale USA in tutto il Vicino Oriente. In altre parole il ruolo di mediatore in certi contesti è sempre benvenuto.

– 4 L’azione di avvicinamento ai Taleban afgani viene coronata dall’apertura dell’ufficio di rappresentanza a Doha, cosa che permette le trattative con gli Stati Uniti. Così l’Arabia Saudita, storica protettrice dei talebani, viene messa fuori gioco e perde parecchi punti nella capacità di intromissione nei paesi islamici del subcontinente indiano. La stessa stretta collaborazione Arabia Saudita-Pakistan, attiva fin dall’invasione sovietica dell’Afganistan del 1979, viene messa in crisi da questa mossa.

Ma, tornando all’Afganistan, cosa spinge gli Stati Uniti all’avvio di trattative più o meno dirette con quello che venne dichiarato come nemico totale? I costi umani e finanziari dell’operazione americana nel paese asiatico sono oramai diventati insostenibili anche per la prima superpotenza mondiale e lo scopo dichiarato di riuscire a controllare un paese strategico nel centro di quell’area che da millenni presiede agli scambi tra Oriente ed Occidente sfuma sempre di più in una situazione dove l’uomo prescelto dagli americani riesce al più a controllare la capitale Kabul e, senza le truppe occidentali, non controllerebbe neanche quella. Gli Stati Uniti hanno necessità di uscire dall’angolo dove un decennio e più di politica di potenza ottusa e incapace di comprendere culturalmente le popolazioni e le classi dominanti dei paesi che sono stati invasi, attaccati o distrutti; non possono uscirne con la forza perché il tempo e le risorse necessarie sarebbero troppe, non possono uscirne utilizzando politicanti locali corrotti ed invisi alla popolazione. Possono uscirne solamente trattando con quelle forze che hanno dimostrato in anni di guerra e di guerriglia il loro radicamento tra la popolazione. In Afganistan non possono che trattare con i Talebani come in Iraq hanno dovuto fare con la leadership sciita filo iraniana. Una lezione in più per quello che sarebbe dovuto diventare l’impero del XXI secolo e che invece sta declinando in modo sempre più evidente e deciso.

Anarres ne ha parlato con Stefano, esperto di geopolitica.
Ascolta il suo intervento

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No Muos. Il balcone del console Moore

no muosMercoledì 19 l’operazione “balcone pulito” – come l’ha definita il movimento No Muos – messa in moto dall’ambasciata americana, ha organizzato una nuova tappa: la visita di un battaglione di giornalisti alle basi di Sigonella e Niscemi. Guidati dal console Moore, i giornalisti, giunti nella base catanese su un velivolo dell’aviazione militare italiana, sono stati poi condotti su un pullman, sempre dell’aviazione militare italiana, presso la base NRTF n. 8 di Niscemi, ove è in costruzione il Muos.
Gli attivisti del coordinamento dei comitati non si sono fatti cogliere di sorpresa e hanno atteso i gitanti davanti al cancello della base dove hanno anche attivato un blocco. Ma è stato all’uscita del pullman che la determinazione degli attivisti ha costretto il mezzo a fermarsi, dopo che alcuni compagni vi si sono infilati sotto; ne è nata una mezzora di tensione, e anche un breve incontro tra due attivisti (uno era Massimo Coraddu, ricercatore del Politecnico di Torino) e i giornalisti, che hanno così dovuto ascoltare le ragioni del movimento che si oppone al Muos.
Dopo il grande successo dello sciopero generale del 31 maggio, una scommessa su cui il movimento aveva puntato sino in fondo, la popolazione dimostra sempre più di essere schierata in questa lotta. Il 31 maggio il 95% dei negozi di Niscemi sono rimasti chiusi, così come le scuole e parecchi posti di lavoro; cinquemila persone hanno attraversato in corteo la città, in quello che era il primo sciopero generale autorganizzato della storia di questo territorio. La popolazione è ormai parte integrante del movimento, e dimostra ad ogni occasione di gradirne le proposte e di voler essere protagonista.
È vero che il tema della salute è centrale per tanta gente, ed è l’unico sollevato dalla regione siciliana e dalla sua revoca; questo è un tema scivoloso, come dimostra la relazione dell’Istituto Superiore di Sanità, consegnata in questi giorni, che dichiara che il Muos non provocherà nessun danno alla salute. Ma tra la gente il nesso causa-effetto è chiaro: i tumori, le morti, le tante patologie che hanno colpito la popolazione di Niscemi per le onde elettromagnetiche delle 46 antenne della base, e che con il Muos non potranno che incrementarsi, hanno origine nella presenza della base della Marina militare americana e nei processi di militarizzazione del territorio, in atto. C’è sempre stato e c’è ancora qualcuno che cerca di ridimensionare la lotta di Niscemi a una lotta per la salute; ma la presa di coscienza della necessità di smantellare gli impianti militari e di porre il tema della smilitarizzazione della Sicilia, acquista ogni giorno che passa maggiore spessore.
Nel giro di pochi mesi la lotta contro il Muos è riuscita a creare seri problemi all’impero americano, inceppando i programmi del sistema Muos, diventando la lotta di tutto un popolo che vuole riappropriarsi del proprio territorio e del proprio futuro. E anche se la repressione ha subito un’impennata, non c’è alcuna intenzione si mollare, e i prossimi mesi estivi si preannunciano ricchi di iniziative.

Anarres ne ha parlato con Pippo Gurrieri, attivista No Muos.
Ascolta la diretta

Ascolta anche l’intervista rilasciata poche ore prima dallo stesso Pippo all’informazione di Blackout

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Una testimonianza dalle barricate di Taksim

169783584-594x350In queste settimane l’informazione di Blackout ha cercato di fare la cronaca della rivolta che ha scosso la Turchia, cercando nel contempo di coglierne le radici.
In una lunga intervista, Cenk, un compagno di Istanbul, che ha preso parte alla lotta in piazza Taksim, ha raccontato della piazza e di chi l’anima. Ne è uscito lo spaccato di un paese dai tanti volti, spesso diversi, che hanno costruito il mosaico di una resistenza che continua nonostante la durissima repressione. Anzi. Per molti piazza Taksim e il parco Gezi sono stati la prova della democrazia reale e la consapevolezza che l’azione collettiva e l’insurrezione possono far traballare qualsiasi governo.

Ascolta l’intervista a Cenk

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Porcellum sindacale: quelli che non ci stanno

porcellum1I sindacati concertativi sono indeboliti dalla crescita della disoccupazione e dalla riduzione dei salari alle quali nulla possono opporre per la loro stessa natura concertativa. La crisi politica ne ha peraltro ridotto la pervasività sociale. In questa situazione si sono ricompattati ed hanno lavorato ad un sistema di regole sulla rappresentanza tale da garantire il loro monopolio ed il loro stesso ruolo negli anni a venire.
Non vi sono novità sostanziali rispetto ad un processo che ha visto, ormai da decenni, i sindacati concertativi cercare la legittimazione del loro ruolo da parte del padronato e del governo mentre perdevano quella da parte dei lavoratori.
Tuttavia l’accordo sulla rappresentanza tra CGIL CISL UIL e Confindustria è volto a rendere sempre più impraticabile l’azione dei lavoratori fuori e contro la gabbia di ferro corporativa che hanno costruito negli anni.
L’attuale accordo sulla rappresentanza ha le sue radici nell’accordo del 28 giugno 2011 che autorizza le deroghe, cioè i peggioramenti, dei contratti nazionali. L’articolo 8 della legge Sacconi autorizza anche a fare accordi che peggiorano la legge, compreso lo Statuto dei lavoratori. Questa intesa non mette alcun limite a ciò che imprese e maggioranze sindacali possono concordare. Le convenzioni con gli enti pubblici coinvolti, INPS e CNEL, implicano soldi pubblici e quindi leggi che ne autorizzino la spesa. Quindi l’accordo vale solo per i firmatari, ma la legge usa i soldi di tutti per finanziarlo. In sintesi il trucco di fondo è che questo è un accordo che dovrebbe impegnare solo CGIL CISL UIL e Confindustria, ma si applica a tutti e vincola tutti anche per quanto riguarda deroghe a leggi e contratti.

Per essere al tavolo dei contratti devi contare le deleghe certificate presso l’INPS, ma per avere il diritto a raccogliere le deleghe devi essere già firmatario di contratti. Quindi i non firmatari di contratti e di questo accordo sono esclusi in partenza dal tavolo.
Per partecipare alle elezioni delle RSU, bisogna aderire alla intesa e quindi accettare i vincoli di esigibilità.
Il contratto è valido quando lo sottoscrive la maggioranza dei sindacati di CGIL CISL UIL e viene confermato dalla maggioranza semplice dei lavoratori.
Basta la maggioranza semplice, quindi in una categoria di centomila addetti se votano solo diecimila persone vale la maggioranza tra queste. Una volta approvato, l’accordo è esigibile, cioè vincolante per tutti i firmatari e si applica anche a chi non è iscritto a CGIL CISL UIL. Chi non firma non può fare azioni di contrasto. L’accordo si conclude con l’annuncio del sistema di polizia che sarà realizzato per rendere effettiva l’esigibilità.
Chi non ci sta incorre in sanzioni. CGIL CISL UIL hanno il compito di esercitare il controllo politico sulle strutture nazionali di categoria, che controlleranno allo stesso modo le strutture sindacali territoriali, che faranno lo stesso con i delegati di fabbrica.
Prima si accetta di non scioperare e di obbedire e poi si hanno i diritti sindacali. La maggioranza dei sindacati firmatari decide sui contratti e la minoranza può solo piegarsi.

Giovedì 20 alle 10 un cartello di sindacati di base ha indetto un presidio di fronte alla camera del lavoro in via Pedrotti: un occasione per dare un saluto al segretario della Fiom Landini in visita a Torino.

Ascolta la diretta con Cosimo Scarinzi realizzata dall’info di Blackout

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Letta. “Fare” regali alle imprese

regali_di_natale__il_riciclo_si_fa_online_615Il governo del “fare” ha adottato numerose misure in materia economica, che, al di là di un po’ di fumo e demagogia, si riducono all’ennesimo regalo alle imprese per favorire la ripresa e, “quindi”, l’occupazione.
La stessa decisione di escludere dal pignoramento la prima casa dovrà essere verificata sulla base dei decreti attuativi, che verranno emessi nei prossimi mesi.
La sostanza dei provvedimenti adottati venerdì dal governo è nel garantire maggior credito agli imprenditori, destinando inoltre ampi fondi per l’expo del 2015 a Milano.
In particolare i padroni potranno godere di tariffe energetiche ridotte e dei vantaggi derivanti dall’elisione di alcuni vincoli sulla sicurezza. A farne le spese la salute e la vita stessa dei lavoratori, che perdono altre tutele, sacrificate sull’altare dei profitto.

Ascolta l’intervista realizzata dall’info di Blackout a Renato Strumia, un compagno che ben si districa nelle questioni economiche.

Ne è scaturita anche una prima analisi del G8 appena concluso in Irlanda, il cui documento economico è estremamente prudente sulle prospettive di ripresa economica a breve termine. Nel testo c’è anche, per la prima volta, la presa d’atto del fallimento delle politiche di austerità sia sotto il profilo della “crescita” che su quello del contenimento del debito pubblico.
Partirà l’8 luglio un lungo negoziato tra Stati Uniti ed Europa per l’abbassamento delle barriere doganali tra le due sponde dell’Atlantico.

Ascolta la diretta

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Valdese a pezzi, malati senza cure

OspedaleValdese1Dicembre-430x247Restano solo la radiologia e l’oncologia: ma anche quest’ultima rischia di essere smantellata a giorni per una “presunta mancanza di sicurezza”, nonostante il Tar abbia sospeso la chiusura del presidio di via Silvio Pellico fino al 30 settembre 2013. Resta ben poco dell’ospedale, già centro di eccellenza per la diagnosi precoce e la cura del tumore al seno, dopo la riorganizzazione decisa dalla Regione Piemonte che, in attesa delle decisioni definitive della magistratura, ha già portato al trasferimento di quasi tutti i dipendenti e alla dismissione della maggior parte dei reparti.
I servizi forniti dal Valdese non sono stati spostati in altre strutture come dimostrano le liste di attesa per alcune prestazioni specialistiche e per gli interventi chirurgici. Chi deve subire un intervento per tumore alla mammella deve attendere un tempo doppio: prima della chiusura del reparto bastavano 22 giorni, oggi ne occorrono 37. I lavoratori e i malati del Valdese faranno un’assemblea la prossima settimana per fare una proposta che consenta il ripristino delle attività mediche fatte al Valdese e non trasferite altrove.

Ascolta l’intervista realizzata dall’info di Blackout a con Roberto Dosio, primario di radiologia al Valdese.

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Kyenge, la Lega e il retaggio coloniale

clip_image0014Le brutali dichiarazioni dell’esponente leghista Dolores Valandro, che augurava al ministro Kyenge di essere stuprata perché potesse capire cosa “provavano le vittime di stupro”, postata su un sito specializzato in “crimini degli immigrati” hanno suscitato un’indignazione indignazione tale da indurre i dirigenti del suo partito ad espellerla. D’altra parte Valandro era già in odore di eresia per essersi schierata con il potente padre della formazione padana Umberto Bossi.
Colpisce che, nonostante la presa di distanza dei vertici del suo partito Valandro abbia numerosi sostenitori: il gruppo facebook fatto in sua difesa ha raccolto in poche ore 3.625 iscritti.
Inutile sottolineare il razzismo insito nel frequentare un sito che si occupa in esclusiva dei reati commessi da immigrati, come se vi fosse in questo una particolarità genetica evidente. Il razzismo fa parte del DNA della Lega, un partito che si pasce delle ceneri dei tanti autonomismi del nord, ma costruisce la propria identità nella creazione di una piccola patria assediata da una decadenza inarrestabile.
I nemici iniziali della Lega furono i meridionali, al punto che all’epoca della promulgazione della prima legge che ne limitava l’accesso nel nostro paese, legge firmata dal socialista Claudio Martelli, i leghisti si opposero perché ritenevano che l’ingresso di lavoratori stranieri avrebbe ridotto il numero di indolenti lavoratori meridionali.
La vicenda di cui è stata protagonista Dolores Valandro, pur pienamente inscrivibile negli stereotipi del razzismo in salsa padana, rimanda ad un razzismo più profondo, quello maturato durante l’era feroce del colonialismo italiano nel corno d’Africa.
Le popolazioni colonizzate erano descritte in modo da renderne pressoché inattingibile l’umanità. Pavidi, feroci, stupratori gli uomini, animalesche e disponibili le donne. Il nostro paese non ha mai fatto i conti con la cultura che lo ha permeato negli anni della conquista coloniale prima e dell’Impero poi.
L’utilizzo di gas nervini contro le truppe indigene, gli stupri delle donne, indicate come posta in palio della conquista, ne sono il segno distintivo. Le nuove terre da coltivare erano rappresentate con corpi di donne discinte, la colonna sonora era “Faccetta nera”, le icone erano le cartoline di donne nude scattate a beneficio delle truppe.
Dopo la conquista la propaganda muta di segno: il mito della venere nera, selvaggia, animalesca ma desiderabile, cede il passo ad un’immagine disgustosa, ripugnante, quasi deforme, veicolata dalla rivista “La difesa della razza”.
In questa ambivalenza è la radice del razzismo verso gli africani e le africane, che riemerge potente nell’invettiva di Dolly Valandro. Una donna può augurare ad un’altra donna lo stupro solo se quell’altra donna viene esclusa dall’umanità, inscritta in un immaginario feroce di esclusione. Bestia, prostituta, ripugnante.

Anarres ne ha discusso con un compagno di Pisa Roberto.
Ascolta la diretta

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