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Il CIE nella movida

DSCN0034 cSabato 20 aprile. Pioggia e temporali concedono una breve tregua. Ci ritroviamo sotto la tettoia di piazza Madama, perché fuori ancora goccia e non è il caso di rischiare largo Saluzzo.
Un po’ di cose buone da mangiare e poi parte l’assemblea. Ci sono Gilberto e Caterina, un medico e un infermiera della microclinica Fatih, l’ambulatorio di via Revello dove non chiedono i documenti a chi sta male. C’è Stefania Gatti, una procuratrice legale che ci racconta il CIE di corso Brunelleschi, la gente che si taglia, non mangia, fa lo sciopero della fame. Poi ci sono alcuni degli antirazzisti che sono sotto processo per essersi messi di mezzo, per aver cercato di contrastare la militarizzazione delle strade, lo sgombero degli abusivi di Porta Palazzo, per aver solidarizzato con le famiglie rom che si erano prese una casa vuota, lasciandosi alle spalle le baracche nel fango del lungo Stura. Si discute, si confrontano le esperienze, si costruiscono relazioni.
Poi si va.
In giro per le strade della movida di San Salvario, tra la gente che affolla i tanti locali della zona.
In testa la samba, poi la gabbia CIE, e noi tutti. In tutto un centinaio di persone.
Siamo qui per portare il CIE in mezzo alla città, per raccontare la storia di Fatih, morto nel CIE di Torino, tra le grida disperate dei suoi compagni che chiesero inutilmente aiuto.
Dall’altra parte delle gabbie c’erano allora – e oggi ancora sono lì – quelli della Croce Rossa.
Aguzzini ben pagati.
Il colonnello e medico Antonio Baldacci, responsabile del CIE, di fronte ad un uomo lasciato agonizzare nella sua cella accusa i prigionieri di mentire.
Dopo cinque anni Baldacci è ancora al suo posto, gli antirazzisti che lo contestarono sono sotto processo. Un processo che non permetteremo resti chiuso tra le mura di un tribunale, perché nei CIE la violenza, le umiliazioni, i pestaggi, la lotta e la rivolta segnano, oggi come in quel maggio del 2008, la vita dei senza carte che vi sono reclusi.
Da uno dei tanti locali esce un uomo che inveisce: teme di perdere clienti, parla di quattro figli da mantenere. Peccato che ben tre di quei posti siano suoi.
La gente se ne infischia, ascolta, legge i volantini.
Mentre torniamo riprende a piovere. La tregua è finita.

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Gli anarchici, la resistenza, il revisionismo

07_lapide_di_baroni._ricordoAnche quest’anno il 25 aprile si farà la commemorazione alla lapide del partigiano anarchico Ilio Baroni, morto combattendo i nazifascisti il 26 aprile del 1945. La pietra che lo ricorda è nel centro del quartiere operaio di Barriera di Milano, all’angolo tra corso Giulio e corso Novara.
Oggi rimane solo un pezzo di muro con la pietra, il nome, la foto scolorita.
Sino ad una trentina di anni fa quel muro era la spalletta di un ponte su un piccolo canale.
Era una zona di babbriche ed un borgo di operai. Operai combattivi, gli stessi dell’insurrezione contro la guerra e il carovita del 1917, quelli dell’occupazione delle fabbriche, della resistenza al fascismo, gli anarchici che durante gli anni più bui della dittatura mantennero in piedi un gruppo clandestino, la gente degli scioperi del marzo ’43. Continued…

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Lotte nella sanità tra Milano e Torino

sr_1Nov_4bigAncora repressione contro i lavoratori del S. Raffaele. Venerdì la polizia ha nuovamente caricato dentro l’ospedale, dove la lotta era partita il lunedì precedente, all’arrivo delle prime lettere di licenziamento, per eliminare gli esuberi.
Una follia.
Giovedì 18 un lavoratore è stato obbligato a fare un turno doppio per coprire il buco lasciato da un altro lavoratore appena licenziato, perché in esubero.
Venerdì mattina c’è stata un’assemblea dei lavoratori che hanno deciso di fare un corteo interno e bloccare, come già avvenuto lunedì, l’accettazione. Secondo alcune fonti i danni inflitti all’azienda per il mancato pagamento dei ticket ammonta ormai ad un milione di euro.
La polizia ha tentato di bloccare i lavoratori per difendere gli interessi dei padroni. Nella carica è stata travolta una lavoratrice, che è finita al pronto soccorso. Numerosi altri compagni e compagne sono stati ammaccati ma hanno preferito non andare al pronto.
Nonostante le cariche i lavoratori sono riusciti a sfondare lo sbarramento e a bloccare l’accettazione. Anche venerdì visite ed esami sono stati fatti regolarmente. Però nessuno ha pagato.
La solidarietà intorno alla lotta del San Raffaele sta crescendo di giorno in giorno.
Lunedì 22 i lavoratori faranno un’altra assemblea senza chiedere permesso e si annunciano nuovi blocchi.
Sabato 8 maggio i sindacati di base ed autogestionari hanno proclamato lo sciopero nella sanità in sostegno alla lotta dei lavoratori del S. Raffaele e contro le politiche del governo regionale.
Ascolta la testimonianza di Giulio, un lavoratore dell’USI sanità del S. Raffaele

A Torino lo sciopero regionale si è svolto il 18 aprile. Indetto sia dai confederali sia da parte del sindacalismo di base, aveva scopi e piattaforme diversi. Anche il corteo che è partito da Porta Susa, si è diviso lungo il percorso. Mentre CGIL, CISL e UIL hanno raggiunto direttamente il palazzo della Regione in Piazza Castello, il corteo animato da un ampio cartello di settori politici e sociali è passato dal comune, per manifestare contro i tagli e i licenziamenti nel settore dell’assistenza attuati dalla giunta Fassino, prima di convergere in piazza Castello, dove stava terminando la manifestazione di CGIL, CISL e UIL.
Il piano della giunta Cota per coprire i buchi di bilancio si tradurrà in una svendita degli ospedali, che, una volta privatizzati, dovranno essere affittati dalla Regione stessa. Un regalo alle banche, un ulteriore colpo alla tutela della salute di noi tutti.
Questi provvedimenti hanno portato in piazza circa ventimila lavoratori, tra sanità, assistenza, trasporti, pensionati ed altre categorie.
Una risposta importante alle scelte del governo regionale guidato dal leghista Cota. Peccato che ragioni squisitamente politiche abbiano fatto calare il silenzio verso le scelte analoghe fatte dall’ammnistrazione guidata dal democratico Piero Fassino.
Solo l’iniziativa del cartello sindacale e politico di base è riuscita ad allargare il fronte, proseguendo in un percorso di lotta, che nei mesi scorsi era riuscito ad estendere la propria influenza  anche tra lavoratori e lavoratrici ancora legati al carrozzone dei confederali.

Anarres ha chiesto un resoconto e una valutazione della giornata a Stefano della CUB.
Ascolta l’intervista

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CIE. Laboratorio disciplinare

PrigioneLa situazione nel CIE ‬sta‭ ‬mutando.‭
‬Dopo la lunga stagione di lotte culminata con la distruzione pressoché totale del CIE di Gradisca nel dicembre del‭ ‬2011,‭ ‬le politiche verso i CIE sono lentamente cambiate.‭ ‬I Centri sono ancora la punta dell’iceberg legislativo costruito per mantenere sotto costante ricatto gli immigrati nel nostro paese,‭ ‬tuttavia rappresentano sempre di più un problema sia economico che di immagine per i governi di turno.
Chi lotta viene duramente represso:‭ ‬i prigionieri che protestano possono essere arrestati,‭ ‬rinchiusi in isolamento,‭ ‬espulsi immediatamente o semplicemente obbligati a dormire in terra.‭
In questi stessi anni è cambiato,‭ ‬complice l’obbligatorio recepimento della direttiva europea sui rimpatri,‭ ‬entrata in vigore il‭ ‬24‭ ‬dicembre‭ ‬2011,‭ ‬ma recepita in modo parziale e restrittivo dall’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni,‭ ‬anche il quadro legislativo.‭ ‬La reclusione massima dentro ai centri è passata da sei mesi ad un anno e mezzo,‭ ‬nel contempo avrebbero dovuto applicare la prigionia come estrema ratio,‭ ‬ma di fatto le norme che tutelano chi ha parenti o problemi di salute sono rimaste in buona parte inapplicate.‭
‬In questo contesto sono mutate le forme di resistenza‭ ‬dei reclusi:‭ ‬le lotte‭ ‬hanno perso il carattere rivendicativo rispetto alle condizioni di vita nei Centri,‭ ‬per trasformarsi in rivolte miranti alla fuga collettiva.‭
Il governo sta puntando a colpire i prigionieri più attivi, isolandoli dagli altri in celle di punizione.
Le lotte nei CIE non sono mai venute meno, ma la vita della gran parte degli immigrati è altrove: il lavoro, il pezzo di carta, la casa. Su questi terreni lotte anche molto radicali si sono moltiplicate, segnando un’inversione di tendenza rispetto al recente passato.
Nei legami di solidarietà che si creano nelle lotte cominciano ad aprirsi delle possibilità di creare un terreno di conflitto comune tra sfruttati, che pareva impossibile sino a pochi anni fa.
Il CIE resta sullo sfondo: è un rischio che ogni immigrato senza carte corre ma è meno assillante dei mille inghippi della vita quotidiana.
Le lotte degli antirazzisti non hanno saputo essere abbastanza incisive da bucare il silenzio che circonda questi luoghi.‭ L’indignazione che attraversa settori della società civile non sa farsi azione: l’azione è ancora patrimonio di pochi attivisti.
‬La scommessa è quella di allargare il fronte,‭ ‬portando la realtà del CIE per le strade e per le piazze delle nostre città.‭ ‬
Oggi più che mai la lotta contro i Centri investe direttamente soprattutto gli italiani. E’ un’urgenza morale non chiudere gli occhi di fronte a uomini e donne rinchiusi solo perché privi di un documento.
Ma non solo.
I CIE sono sempre più una sorta di laboratorio dove si sperimentano forme di reclusione diverse dal carcere e molto più simile al manicomio criminale. Luoghi dove si entra per un arbitrio che può essere prolungato con la semplice firma di uno psichiatra o di un giudice di pace.
Nei CIE si sperimentano forme di controllo sociale che presto potrebbero essere applicate anche ad altri, sul modello dei vecchi ospizi per i poveri. Luoghi dove rinchiudere chi ha perso nella routette russa della vita sotto il capitalismo.

Anarres ne ha parlato con Federico, un compagno di Trieste molto attivo nella lotta contro il CIE di Gradisca.
Ascolta il suo intervento

Ascolta anche la chiacchierata fatta con Simone sulla rivolta e le fughe dal CIE di Modena

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Da Torino a Istanbul. Solidarietà senza confini

DSCN0029Mercoledì 17 aprile. Via Roma con la sua architettura anni ’30 e le sue boutique di lusso è blindata dalla polizia. Due camionette riversano il loro contenuto di uomini dell’antisommossa che si uniscono ai dieci della squadra politica per dare un segnale chiaro agli anarchici che hanno organizzato un presidio di solidarietà con i lavoratori che in Turchia cuciono il 65% delle camicie che vengono vendute con il marchio Ermenegildo Zegna.
Lo stabilimento in cui lavorano è gestito da Francesco Lasorte, un manager italiano che lavora per conto di Zegna.
Ognuna della camicie di Zegna, esposte nella vetrina della boutique Scotland, che alla ditta biellese dedica due vetrine, costano 155 euro l’una. I lavoratori che le cuciono quei soldi li guadagnano in un mese.
Chi ha provato ad aprire una vertenza su salario e orario di lavoro, costituendo un sindacato, è stato licenziato e resiste fuori dai cancelli della fabbrica da oltre quattro mesi.
I poliziotti circondano i primi arrivati chiedendo le nostre intenzioni. Rispondiamo che siamo qui in solidarietà con i lavoratori sfruttati di Istanbul. Poi apriamo il nostro striscione e cominciamo tranquillamente a volantinare.
Alcuni si fermano, esprimono solidarietà, chiedono cosa possono fare. Suggeriamo di far circolare “sudare sette camicie”, il volantino informativo sulla vicenda. Siamo sicuri che il messaggio arriverà forte e chiaro ai dirigenti di Zegna sia in Italia, sia in Turchia.
I marchi vivono di immagine.
Oggi quella della impeccabile e seriosa Ermenegildo Zegna ne è uscita un po’ appannata.

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Thatcher, o del capitalismo trionfante

Britain Thatcher FuneralIl fusto di cannone, gli onori militari, la sfilata davanti alla regina. Come Winston Churchill, come Wellington. Alla notizia della morte hanno fatto festa nei sobborghi operai inglesi, hannno brindato i vecchi sindacalisti cui Maggie ha spezzato la schiena, i ragazzi delle periferie e i nazionalisti irlandesi.
Hanno brindato alla notizia che “Catlina”, come la chiamano i piemontesi, non si era dimenticata di bussare alla porta del primo ministro che aveva cambiato – in peggio – la vita degli inglesi.
Ma non solo. Thatcher è divenuta l’icona di un’epoca, quella del regolamento di conti con le classi lavoratrici. Quelle inglesi e, poi, a ruota, quelle dell’intera Europa.
Lacrime e sangue e giù la testa.
Il mondo in cui viviamo lo hanno disegnato quelli come lei.
Ma tutto quanto non sarebbe avvenuto se l’orizzonte del capitalismo non fosse divenuto il solo possibile, il solo pensabile, il solo desiderabile. Se la prospettiva di un tempo altro non fosse tramontata nell’immaginario sociale.
Forse è da qui che occorre ripartire, perché i conflitti di oggi superino la dimensione tristemente resistenziale per impastarsi di una pratica che nel conflitto costruisce, nel fare lotta.
Ascolta la chiacchierata che abbiamo fatto con Pietro

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Da Tunisi a Sidi Bouzid

tunisiaI media hanno dato grande risalto al Word Social Forum di Tunisi. Un’occasione per attraversare dall’interno le tante anime della primavera tunisina in un momento cruciale per il paese.
Ma, in fondo, anche uno specchio deformante rispetto alla realtà sociale di un paese messo in ginocchio dalla crisi economica, spaccato in due dalla contrapposizione tra Hennada e formazioni laiche, dove qua e là fa capolino la nostalgia per un regime duro ma stabile.
Karim Metref, scrittore, insegnante, blogger kabilo che vive da molti anni nel nostro paese non si è limitato al WSF tunisino ma ha fatto un viaggio nella Tunisia profonda, nel sud che i turisti delle spiagge del nord non vedono mai.
Ha fatto tappa anche là dove tutto era cominciato, a Sidi Bouzid, dove il giovane Mohamed Bouazizi si diede fuoco. Da quel rogo si scatenò il fuoco della protesta che portò alla caduta del dittatore Ben Alì.
Oggi la povertà affonda i denti nelle vite della gente più a fondo che allora, la percezione di insicurezza, amplificata dai media crea una allarme sociale diffuso.
Eppure in quel sud dove oggi prevale la paura è il germe di una rivolta che affonda le radici nelle lotte durissime dei minatori di Gafsa, repressi nel sangue e nella galera nel silenzio assordante dell’Occidente. Troppo radicali quei lavorari tunisini che agivano il conflitto nello scenario della lotta di classe nella sua rappresentazione più cruda.
Gli scenari possibili – al di là del permanere dell’attuale situazione di stallo – sono inquietanti. C’è chi teme un’accelerazione dei salafiti ed una possibile alleanza con Hennada, chi invece prefigura uno scenario simile a quello algerino, con un colpo di Stato militare in Tunisia appaggiato e garantito proprio da Algeri.
La Tunisia, secondo Karim Metref, è oggi il paese più interessante del Nordafrica, un laboratorio vivo di sperimentazione sociale e politica, dove, nonostante i rischi di involuzioni autoritarie di vario segno, il dibattito politico è ampio è e vivace.

Ascolta la chiacchierata con Karim 

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Sanità e assistenza. Sciopero generale a Torino

chiuso per scioperoGiovedì 18 aprile incroceranno le braccia i lavoratori della sanità, dell’assistenza e del pubblico impiego in Piemonte. Lo sciopero è stato indetto sia da CGIL CISL e UIL sia da parte del sindacalismo di base. Le ragioni e gli obiettivi sono tuttavia differenti.

Se lo sciopero dei confederali ha nel mirino solo la gestione della sanità regionale, quello del sindacalismo di base punta l’indice sulla politica di tagli dell’amministrazione cittadina nel settore cruciale dell’assistenza.

L’appuntamento è alle 8,30 da piazza XVIII dicembre – vecchia stazione di Porta Susa.

Di seguito alcuni stralci dell’appello diffuso da un ampio cartello di gruppi politici e sindacali per un corteo di lotta che attraversi la città.

“Siamo di fronte, e non da oggi, ad un radicale processo di espropriazione della ricchezza sociale da parte delle classi dominanti.
Formazione, sanità, trasporti, sistema previdenziale vengono, per un verso, impoveriti e, per l’altro, consegnati, a prezzo di favore, a gruppi di speculatori legati al ceto politico istituzionale.
Sul terreno della lotta per i servizi sociali a Torino, nel corso dell’ultimo anno abbiamo avuto l’irruzione nella lotta di nuove soggettività. (…)
Il 18 aprile sciopereremo e saremo nuovamente in piazza per continuare, rafforzare, allargare questo percorso.”

Ascolta la presentazione che Cosimo Scarinzi della CUB ha fatto per l’informazione di radio Blackout

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Blocchi, cariche al San Raffaele. I lavoratori non cedono ai ricatti, puntando sulla lotta

san raffaeleLa lunga vertenza dei lavoratori del San Raffaele di Milano è giunta ad una svolta. La nuova proprietà, subentrata nel grande ospedale dopo la gestione all’insegna del malaffare che aveva aperto un buco di un miliardo e mezzo di euro, è decisa a far pagare il prezzo ai lavoratori.
Sin dallo scorso anno vennero annunciati circa 400 esuberi. In realtà al San Raffaele ci sarebbe bisogno di nuove assunzione, poiché amministrativi, infermieri e medici lavorano al di sotto dell’organico.
La lunga trattativa si è conclusa con un ricatto: significative e durature riduzioni di salario in cambio della rinuncia ai 244 licenziamenti annunciati un paio di mesi fa.
I lavoratori, respingendo al mittente una proposta appoggiata da CGIL CISL e UIL, hanno optato per la lotta, opponendosi sia ai licenziamenti sia alle riduzioni di salario.
Lunedì scorso sono arrivate le prime lettere di licenziamento. La risposta è stata immediata: l’assemblea non autorizzata di circa 500 lavoratori ha deciso il blocco delle accettazioni.
Niente ticket per i malati ma accesso diretto alle visite ed agli esami.
Nel tardo pomeriggio un corteo è uscito dall’ospedale per bloccare il traffico della padana.
Martedì 16 un imponente dispiegamento di polizia ha bloccato gli ingressi dell’accettazione. Appena i lavoratori si sono avvicinati i poliziotti hanno caricato, spedendo al pronto soccorso due lavoratori.
In risposta alcuni sono saliti sul tetto, mentre gli altri hanno fatto cortei interni all’ospedale. Nel pomeriggio una nuova carica ha fatto un altro ferito.
La repressione non ha fatto che rendere più decisi i lavoratori. La mattinata successiva hanno reagito ad un licenziamento, accompagnando sul lavoro una lavoratrice appena licenziata. Gli applausi di colleghi e pazienti hanno accolto l’iniziativa.

Ascolta il racconto di Giulio, lavoratore dell’USI Sanità del San Raffaele, realizzata dall’informazione di radio Blackout

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No Tav. Un alterco con un poliziotto spione? E’ rapina aggravata!

no tavMartedì 16 aprile. 4 solerti poliziotti sono andati a dare la sveglia ad Andrea di Vaie e attivista del locale comitato No Tav. Perquisizione in casa e in macchina, sequestro di  telefono, agende, computer e notifica di obbligo di firma giornaliero alla stazione dei cc di Borgone.
Cinque mesi prima – era il 16 novembre – Andrea era stato fermato durante un blocco ai cancelli di Chiomonte e aveva trascorso l’intera giornata in stato di fermo.
I fatti?
Quel giorno c’è stato un vivace alterco  tra un poliziotto in borghese che faceva foto e alcuni No Tav che presidiavano via dell’Avanà. Andrea si trova davanti al cancello della centrale, mentre la discussione era sulla strada a parecchi metri di distanza.
Non importa. Le forze dell’ordine, infastidite dall’episodio, decidono di prendere i primi due che trovano. nelle mani della polizia, oltre ad Andrea, finisce anche Claudio.
Le indagini vengono chiuse cinque mesi dopo: il PM richiede l’arresto per Andrea per “rapina aggravata”.
Il fatto curioso è che persino l’ordinanza del tribunale di Torino consegnata ad Andrea racconta un’altra storia: “La natura della sua partecipazione è, però da individuare in termini di mera assistenza all’altrui condotta… ” il poliziotto in questione dichiara:
“Non hanno proferito alcuna parola o minaccia né attuato nessun comportamento violento nei miei confronti. Si sono limitati a rimanere sul posto e ad assistere all’accaduto”
Poi c’è l’operaio che tentava di entrare al cantiere che nega che Andrea e Claudio avessero un comportamento minaccioso.
Andrea, secondo le carte del PM, non ha fatto nulla. Nonostante ciò il PM ministero chiede l’arresto, il giudice rigetta la richiesta ma impone comunque l’obbligo di firma.

Una storia di ordinaria repressione ai tempi del Tav.

Ascolta la testimonianza di Andrea per l’informazione di radio Blackout

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Sudare sette camicie

haber2 pMercoledì 17 aprile ore 17,30
Presidio di fronte al negozio Scotland di via Roma 38 a Torino dove si vendono le camice di Zegna a 155 euro l’una

155 euro. Questo il prezzo di una sola camicia della pregiata ditta Ermenegildo Zegna. Un tempo specializzata in tessuti di pregio, da qualche tempo la Zegna ha esteso la sua attività alla sartoria di lusso per uomo.
Abiti, cinture, accessori, cravatte, camicie.
Non tutti sanno che le camicie le produce la ISMACO – società controllata dalla Zegna in Turchia. Un lavoratore guadagna intorno a 150 euro al mese, con ritmi forsennati e orari infiniti.
Alla ISMACO, che si trova a Tuzla, un sobborgo di Istanbul, i lavoratori hanno provato a costituire un sindacato e hanno avanzato richieste di aumenti salariali e miglioramenti delle condizioni di lavoro.
Francesco Lasorte, general manager per la Zegna in Turchia, ha risposto licenziando i lavoratori più attivi. La Zegna è venuta in Turchia per avere lavoratori sottomessi e non sindacalizzati e non intende certo tollerare che la situazione cambi.
La risposta dei lavoratori non si è fatta attendere: la loro lotta va avanti da ormai 4 mesi. Lo scorso 14 marzo, in occasione di una visita di Lasorte nello stabilimento, hanno deciso di contestarlo. Al loro fianco gli anarchici di Azione Anarchica Rivoluzionaria (Devrimci Anarşist Faaliyet), che hanno esposto uno striscione scritto in italiano perché il padrone potesse leggerlo bene. “Sfruttamento. Padroni ladri!”.
La Ermenegildo Zegna, come tante altre ditte italiane, porta la produzione in paesi dove le tutele per i lavoratori sono quasi inesistenti, dove il lavoro costa poco e lo sfruttamento può essere massimo.
Qui in Italia ricattano i lavoratori, minacciando di chiudere e spostare la produzione all’estero se non piegano la testa, accettando di peggiorare ulteriormente la propria condizione.
I lavoratori turchi che stanno lottando contro la Zegna, lottano anche per i quelli italiani, perché se riusciranno a strappare condizioni di lavoro e salari migliori in Turchia, questo indebolirà le minacce dei padroni anche in Italia. La pressione su chi per vivere deve vendere le proprie capacità ad un padrone, diminuirà, aprendo nuove prospettive. Continued…

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Fughe e rivolte al CIE di Modena

immagine-per-cieLa scintilla della rivolta è scattata domenica 7 aprile. Un ragazzo diabetico  è stato preso, identificato come clandestino e internato nel CIE.
Un sopruso intollerabile al quele molti prigionieri hanno reagito con forza.
Le prime proteste sono scoppiate nel cortile. Poi molti immigrati a sono saliti sui tetti continuando a gran voce a chiedere la liberazione del ragazzo malato. Le prime cariche non sono bastate a reprimere la rivolta, tanto che le guardie hanno chiesto l’intervento di rinforzi dall’esterno.
Sono entrati in azione di militari dell’esercito, della finanza e i carabinieri in assetto antisommossa: molti detenuti sono stati feriti.
All’esterno un gruppo di solidali hanno sparato fuochi d’artificio a sostegno della rivolta, mentre la voce di quel che accadeva che si diffondeva rapidamente.
Il lunedì successivo due parlamentari sono entrati al CIE per un controllo della situazione.
Lo stesso giorno due detenuti, dopo aver ingurgitato lamette da barba, venivano portati in ospedale per accertamenti. Entrambi sono riusciti a fuggire: il primo lunedì, il secondo martedì.
La situazione al CIE di Modena è sempre più tesa: i 45 detenuti attuali – la capienza massima è di 60 – sanno che con ogni probabilità  verranno rimpatriati.
Il CIE di Modena è quello dal quale vengono fatte più deportazioni.
Il 70% degli immigrati espulsi coattivamente lo scorso anno erano rinchiusi nel Centro modenese.
La detenzione media a Modena non supera i due mesi, perché in questo CIE, che nasce come una sorta di struttura punitiva, le condizioni di vita sono tali che molti optano per il rimpatrio volontario.
Chi fa questa scelta viene “premiato” perché riduce da cinque a due anni il periodo in cui gli è vietato tornare in Italia.

Anarres ne ha parlato con Simone, un compagno di Reggio Emilia. Ascolta il suo intervento

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I carabinieri, i profughi e la democrazia

10042013540“In Libia non c’era la libertà ma avevamo un lavoro, qui c’è la libertà ma niente lavoro”. Queste le parole di un giovane profugo, durante il corteo di ieri dei profughi dell’ex villaggio olimpico. Di lì ad un paio d’ore avrebbe appreso quanto agre fosse il sapore della libertà nel nostro paese.
Quel ragazzo è uno dei tanti rimasti in strada dopo la fine dell’emergenza nord africa, sancita con decreto ministeriale lo scorso 28 febbraio.
Sono alcune migliaia gli uomini, donne, bambini arrivati in Italia durante la guerra per la Libia. Nessuno di loro è libico. La Libia è un paese ricco, un paese nel quale approdano i sub sahariani per trovare lavoro. La guerra e le persecuzioni del nuovo regime che li considerava complici di Gheddafi li hanno obbligati alla fuga.
Spesso sono stati gli stessi soldati di Gheddafi e obbligarli a salire sui barconi. L’ultima zampata del tiranno di Tripoli all’Italia, che, dopo aver stretto trattati di amicizia con la Libia, ha rotto ogni accordo usando i propri bombardieri contro l’ex alleato.
Grazie agli accordi tra Roma e Tripoli, la Libia era diventata il gendarme che garantiva le frontiere italiane contro migranti e profughi dalle guerre africane. Nelle tante prigioni/lager i prigionieri subivano violenze, torture, stupri, ricatti. Molti, abbandonati nel deserto, vi morivano di fame e di sete. Un lavoro sporco, che l’Italia democratica aveva appaltato al tiranno di Tripoli.
La guerra ha fatto nuovi profughi e riaperto le frontiere.
Il governo italiano, costretto a fare buon viso a cattivo gioco, ha approntato un piano di accoglienza che è servito ad arricchire le tante associazioni del terzo settore, che hanno ampiamente lucrato sulle vite dei rifugiati non garantendo nulla di quanto previsto per loro sulla carta.

Un miliardo e 300 milioni di euro dissipati nelle tasche degli avvoltoi, che oggi piangono lacrime di coccodrillo perché hanno perso la gallina dalle uova d’oro.

La speranza del governo era una rapida diaspora dei profughi. Peccato che il permesso di un anno per ragioni umanitarie non valga nel resto dell’Europa. I profughi sono rimasti intrappolati in Italia, senza casa, senza prospettive reali di lavoro, senza possibilità di cercare fortuna altrove.
Una gabbia. Perché tutto fosse legale hanno dovuto firmare un pezzo di carta nel quale “liberavano” lo Stato italiano da ogni obbligo verso di loro in cambio di 500 euro.

A Torino il 30 marzo circa duecento uomini e donne hanno deciso di fare da se, occupando due palazzine dell’ex villaggio olimpico. Domenica scorsa, dopo la casa blu e quella gialla, è stata occupata anche la casa grigia, così altre 130 persone hanno trovato casa.

Il 10 febbraio i profughi hanno deciso di andare in centro città.
Al teatro Regio la nuova presidente della camera, nonché ex rappresentante dell’alto commissariato dell’ONU per i rifugiati, Laura Boldrini, inaugurava la Biennale della democrazia.
Partiti in corteo da Porta Nuova, raggiunta in treno dalla stazione Lingotto, profughi e solidali hanno percorso via Roma per giungere in piazza Castello.

La piazza era interamente blindata dalla polizia, che ha imposto al corteo di passare tra due ali di poliziotti, ingabbiando tutti i partecipanti tra transenne sorvegliate da carabinieri in assetto antisommossa e file di blindati che chiudevano il passaggio alle auto.
Le porte del Regio, nel giorno dell’inaugurazione della biennale della democrazia, erano chiuse e sorvegliate da uomini in armi.


Finita la kermesse Laura Boldrini ha accettato di incontrare un gruppetto di profughi e una manciata di solidali. Ha riconosciuto le loro ragioni e fatto tante promesse. Pare che ne parlerà con il ministro dell’Interno. Persino il sindaco Fassino ha pronunciato parole di comprensione a favore delle telecamere.
I profughi sono usciti con in mano un pugno di mosche, che sono subito volate via.
In compenso hanno avuto una lectio magistralis di democrazia reale. Di questo potranno essere grati a Laura Boldrini, che ha offerto loro la possibilità di capire che dignità e la libertà si prendono e non si mendicano. Continued…

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B&B. Il gatto, la volpe e il grillo parlante

bbbbbbLa politica istituzionale e le convulsioni che la attraversano dopo le elezioni mostrano in modo sempre più chiaro la trama dei giochi di potere che la attraversano.
L’incontro di ieri tra Berlusconi e Bersani è solo una tappa della lunga trattativa per le definizione di un nuovo equilibrio.
Il primo gradino è la partita per l’elezione del nuovo presidente della Repubblica, un ruolo che Napolitano ha interpretato andando ben oltre la mera funzione di garanzia affidata dalla carta costituzionale al capo di Stato.
Mentre il giaguaro e lo smacchiatore si incontravano, la compagine grillina occupava per qualche ora il parlamento esigendo la costituzione delle commissioni, senza una maggioranza di governo che consentisse la ripartizione “classica” dei ruoli.
In questo contesto il governo Monti continua il proprio lavoro, ben al di là della mera gestione degli affari ordinari. Con buona pace di chi crede sia possibile aprire una scatola di tonno dall’interno.

Ascolta l’intervista a Massimo Varengo realizzata dall’informazione di Blackout

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Meno soldi, meno lavoro, meno vita

IstatI dati fotografati dall’Istat ci consegnano un paese, sempre più piegato dalla crisi. Nell’ultimo anno è stato perso il 4,8% della capacità di spesa. Il dato peggiore dal 1995.
Sempre ieri sono stati diffusi i dati sulla netta riduzione dei dipendenti pubblici.
Tra il 2006 e il 2011 i dipendenti pubblici sono diminuiti di 230.000 unità (oltre il 6%), passando, compresi i lavoratori flessibili, da 3.627.000 occupati a 3.396.000. Un ulteriore calo dell’1% è stimato per il 2012, anno per il quale non si hanno ancora i dati definitivi.
Al di là delle cifre è chiara l’immagine di un paese impoverito, dove la diminuzione dei dipendenti pubblici riflette i tagli nella sanità, nella scuola, nei trasporti.
Nonostante la durezza della situazione non si innescano conflitti capaci di mettere in difficoltà governo e padroni. La durezza delle cifre e un’attenta analisi dell’anomalia italiana ci conducono nel cuore delle questioni che attraversano i movimenti di opposizione sociale.

Ascolta l’intervista realizzata dall’informazione di radio Blackout a Simone Bisacca, avvocato del lavoro.

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