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Ventimiglia. Nel fiume e per i boschi, per bucare la frontiera

Quando arriva l’estate a Ventimiglia il flusso di migranti diretti alla frontiera chiusa, più lento in inverno, si fa più fitto.
Ogni anno sorgono gli accampamenti. Posti dove aspettare l’occasione giusta per provare a passare in Francia. C’è anche un campo della Croce Rossa, che può ospitare sino a 300 persone, controllate, schedate, sotto costante minaccia di essere rispedite alla casella di partenza. I più fortunati rischiano di tornare al posto dove sono approdati mesi, a volte anni, prima. Per gli altri c’è la deportazione in Africa, in Asia, in uno dei tanti posti da dove la gente si mette in viaggio.

Quest’anno l’accampamento informale è sorto sulle rive del Roja, sotto i piloni dell’autostrada.
Lontano dalla vista dei turisti. Ma tanta prudenza non è bastata: il sindaco Ioculano, lo stesso del divieto a portare cibo ai ragazzi di passaggio dal suo paese, ha deciso di fare “pulizia”.
I 400 che bivaccavano sotto al viadotto hanno subito capito che non era più aria. Con mossa a sorpresa hanno anticipato le grandi pulizie e si sono messi in marcia.
Quando sono arrivate le ruspe del comune hanno trovato solo venti persone. Si sono affrettati a buttare nel cassonetto sacchi a pelo, vestiti, piccole suppellettili lasciati lì per necessità di viaggiare veloci, senza pesi.
Nella notte tra domenica 25 e lunedì 26 luglio quasi quattrocento ragazzi, in buona parte sudanesi sono partiti, usando il fiume come strada. Quando si sono affacciati sulla statale sono stati gasati ed hanno ripreso la marcia nel fiume, prendendo alla sprovvista la polizia, che li ha persi di vista. Troppo pericoloso seguirli nell’acqua.
Più tardi si sono divisi. Alla frazione Calvo una cinquantina si sono fermati a Torri, la maggior parte ha proseguito verso Olivetta San Michele e il valico di Fanghetto.

Molti hanno bucato la frontiera, circa 150 sono ancora nascosti nei boschi.
Martedì mattina è arrivato dalla Francia un pullman pieno di ragazzi rastrellati oltre l’impalpabile linea che divide il dominio degli uni e degli altri .

Ascolta la diretta dell’info di Blackout con Stefano Bertolino, videomaker freelance collaboratore di Fanpage, che sta seguendo i migranti.

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Turchia. Dal Pride alla marcia per la giustizia

Il Pride in Turchia si fa da 15 anni. Quest’anno, per la seconda volta consecutiva, il governo ha vietato il corteo.
Anche quest’anno il movimento glbti ha sfidato Erdogan scendendo in piazza in barba ai divieti. D’altra parte il primo Pride fu una sommossa, da cui tanti percorsi di libertà presero avvio.

I manifestanti hanno provato ad entrare a Taksim, ma la piazza era chiusa dall’antisommossa, che appena la folla è cresciuta sono entrati in azione.

La polizia ha usato proiettili di gomma e idranti per disperdere il corteo arcobaleno. Diverse decine di attivisti sono stati feriti. 35 le persone, tra cui un giornalista dell’Associated Press, sono state arrestate. Probabilmente potrebbero essere rilasciate nelle prossime ore.

In questi stessi giorni ha preso avvio una marcia per la giustizia e la libertà, diretta a piedi da Ankara a Istanbul.
La marcia è stata promossa dal CHP, il partito socialdemocratico, per protestare per l’arresto di Enis Berberoglu, deputato del partito, arrestato nei giorni scorsi.
Berberoglu è stato rinchiuso in carcere dopo una condanna in primo grado a 25 anni per “rivelazione di segreto di stato”. La sua colpa è aver collaborato all’inchiesta del quotidiano Cumhuriyet che pubblicò un reportage sui tir dei servizi segreti turchi, che, nel 2014, trasportavano armi dirette agli insorti dell’ISIS in Siria.
Con lui salgono a 12 i deputati imprigionati in Turchia nell’ultimo anno. Gli altri 11 fanno parte del Partito Democratico dei Popoli, la formazione che in Turchia ha promosso, dall’interno delle istituzioni, il Confederalismo Democratico, ottenendo sia l’ingresso al Parlamento, sia un buon successo nelle regioni curdofone.
La repressione violentissima scatenata negli ultimi due anni nel sud est del paese, ha portato alla destituzione e all’arresto di numerosi sindaci e cosindaci.

La marcia per la giustizia si sta allargando di tappa in tappa: cresce giorno dopo giorno e raccoglie adesioni ben oltre il bacino di consenso dei socialdemocratici turchi.
Ormai sono migliaia le persone in marcia che hanno affrontato anche il freddo e la neve, attraversando le montagne e poi proseguendo lungo l’autostrada.
Ora è diventata una spina nel fianco di Erdogan, che ha più volte minacciato i partecipanti di passare la parola alla polizia.

Ascolta la diretta di Blackout con Murat Cinar, videomaker, giornalista di origine turca, che vive da molti anni a Torino.

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Dall’attacco allo sciopero nei trasporti al G7 lavoro

La buona riuscita dello sciopero di trasporti e logistica di venerdì 16 giugno ha suscitato un ampio coro di proteste. Ha dato il “la” il segretario del PD Matteo Renzi, che chiede un’ulteriore stretta sul diritto di sciopero nel servizio pubblico, non pago del fitto reticolo normativo che lo imbriglia da anni.
Le ragioni dello sciopero scompaiono di fronte alla canea politica che si è scatenata negli scorsi giorni.
La questione è chiara. Chi lavora nei trasporti e nella logistica può fare davvero male al padrone. Il governo e la sua opposizione in parlamento mirano a dividere il fronte di lotta, moltiplicando le gabbie normative.

L’info di radio Blackout ne ha parlato con Stefano della CUB.
Ascolta la diretta

É stata l’occasione per riflettere sulle prospettive di lotta in un contesto che rende sempre più difficile essere efficaci e rispettare le regole. Spezzare le gabbie imposte dai governi è condizione indispensabile al moltiplicarsi di lotte che obblighino il governo a battere in ritirata.

Il prossimo G7 del lavoro, previsto a Torino dal 26 settembre a 1 ottobre, sarà un interessante banco di prova per il sindacalismo di base, autogestionario e conflittuale. Un appuntamento importante per tutti.
Ieri si è tenuto in Prefettura un vertice sulla sicurezza cui ha preso parte il ministro dell’Interno Marco Minniti. La proposta di spostare altrove il G7 è stata al momento respinta.
Il vertice si svolgerà solo alla reggia di Venaria, mentre la location al Lingotto è stata cancellata. Il timore di una insorgenza sociale spaventa sia il governo del paese, sia quello della città.

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I berberi del Rif come i Cabili?

Sono passati 16 anni dalla rivolta che scosse la Cabilia, la regione algerina abitata da popolazioni di lingua e cultura berbera.

La rivolta scattata nel Rif marocchino da maggio, che qualcuno ha paragonato a quella del 2011 in Tunisia, pare invece l’eco di quella algerina di inizio secolo.

Il Rif è la regione più povera e ribelle del regno del Marocco. All’inizio del secolo scorso Abd-el-Krim al Chattaabi, guidò una rivolta berbera, che tenne in scacco per anni le due Francia e Spagna.

Regione montuosa del nord del paese, è una delle parti più povere del regno di Mohammed VI, dove la rivolta cova sotto le ceneri.

La scintilla della rivolta è stata la morte di un venditore abusivo di pesce, stritolato intenzionalmente nel camion dell’immondizia nel quale era stato gettata la merce che gli era stata sequestrata. L’uomo aveva sfidato le autorità a macinarlo con il pesce ed è stato accontentato.
Le immagini di questa morte crudele e ingiusta hanno innescato una rivolta che dura.

I rivoltosi non hanno un progetto politico e sociale di vasto respiro. Le lotte si dipanano intorno ad alcuni obiettivi precisi: lavoro, centri culturali, scuole, fine della corruzione e della disoccupazione.
Obiettivi che rendono simile questa rivolta del Rif alla lotta dei berberi della Cabilia che, abbandonate aspirazioni stataliste, diedero vita a percorsi di autonomia e federalismo.

L’info di radio Blackout ne ha parlato con Karim Metref, un torinese di origine cabila.

Ascolta la diretta

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Cacerolazo contro la guerra ai poveri, i comitati razzisti, gli sgomberi a 5 Stelle

Nelle ultime settimane i “comitati spontanei” di destra hanno lanciato l’offensiva contro le baraccopoli di via Germagnano e strada dell’Aeroporto
Lunedì 19 giugno i fascisti e i comitati si erano dati apppuntamento di fronte al comune per chiedere lo sgombero dei campi rom.
In prima fila Forza Nuova e Casa Pound con i loro alias, “Noi di Barriera” e “Torino ai torinesi”. Dietro il coordinamento Torino Nord, vicino al Movimento Cinque Stelle, il comitato del nuovo assessore all’ambiente Alberto Unia, che ha accompagnato i razzisti quando si sono spostati in Prefettura.
Sull’angolo di una piazza pesantemente militarizzata, un cacerolazo rumoroso di antirazzisti e anarchici ha accolto con slogan, casseruole, fischietti e numerosi interventi chi da settimane sta alimentando la guerra ai poveri, il razzismo e l’aria di pogrom. In prima fila lo striscione “i rom torinesi come noi”. Una verità banale che, scritta su un pezzetto di stoffa, suscita reazioni sdegnate e stizzite tra chi vorrebbe alimentare il mito della irriducibile e criminale differenza dei rom.
Immorali, ladri, rapitori di bambini, da eliminare. Breve è il passo dall’invettiva all’attacco diretto, alla violenza, ai roghi di baracche, ai pestaggi.
Poco importa che i veri ladri di bambini siano le istituzioni che li portano via ai poveri. Poco importa che le irruzioni, controlli, fogli di via segnino le vite dei più piccoli in maniera indelebile.
Poco importa che nessuno scelga la povertà.
Poco importa che lo Stato italiano da decenni abbia puntato sulla finzione dei “campi sosta” per una popolazione che non è più nomade da generazioni. La fine del nomadismo ha coinciso con la fine dei mestieri tradizionali, ormai residuali in una società dell’usa e getta.
Ma c’è anche chi non ci sta, chi si mette di mezzo, chi resiste ai fascisti e ai dispositivi di marginalizzazione istituzionali, che contribuiscono, sotto una leggera maschera

buonista, al perpetuarsi dello stereotipo alle radici dell’antitsiganismo.
Da un balcone qualcuno ha deciso di rinfrescare le idee dei razzisti, tirando qualche secchiata d’acqua sui piccoli duci torinesi e i loro camerati, che, nonostante la calura non hanno gradito la doccia.
Il fragore delle pentole sommerge gli slogan razzisti.

Ascolta la diretta dell’info di Blackout con Emilio, uno dei partecipanti al presidio antirazzista antifascista. Dal suo intervento emerge la difficoltà a superare lo stigma che investe i rom, uno stigma tanto potente, radicato e forte da permeare anche ambiti di movimento che praticano quotidianamente l’opposizione al razzismo, alla pulizia etnica, alla criminalizzazione di interi gruppi sociali ed etnici.

Una chiara lettura di classe fatica ad emergere. Una questione sulla quale è lecito interrogarsi dopo i tanti episodi di violenza fascista e istituzionale contro i rom delle baraccopoli, che si sono susseguiti negli ultimi anni.

Qui il volantino distribuito in piazza dalla Federazione Anarchica Torinese

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I fascisti vogliono la pulizia etnica di rom, immigrati e poveri. Fermiamoli!

Lunedì 19 giugno
ore 15,30 / 18,30
Cacerolazo antifascista antirazzista
in via Garibaldi angolo piazza Palazzo di città contro il presidio dei fascisti di Forza Nuova e dei Comitati razzisti

Sabato 17 giugno
ore 10,30 / 13 punto info itinerante tra il Balon e San Pietro in Vincoli contro sgomberi, razzismo e attacchi fascisti alle baraccopoli di via Germagnano e strada
dell’Aeroporto.

Una Barriera antifascista e antirazzista
Tira una brutta aria a Torino. Nelle ultime settimane i “comitati spontanei” di destra hanno animato presidi ed attacchi contro i rom.
La maggior parte vivono nelle baraccopoli ai margini della città. Quasi sempre in condizioni terribili. Niente acqua, riscaldamento, luce. Lampadine e televisori sono alimentati da generatori di corrente, quando ci sono i soldi per la benzina. Nelle stufe si brucia quel che si trova.
Ogni giorno all’alba dalla baracche esce gente che gira sino al tramonto per trovare nei bidoni dell’immondizia qualcosa da vendere nei mercati del sabato e della domenica. Pochi fortunati hanno un lavoro – elettricista, badante, addetto alle pulizie – ma nessuno affitta loro una casa.
Ogni giorno escono anche bambini e ragazzini con le cartelle per andare a scuola.
I fascisti di Casa Pound, sotto l’esile travestimento di comitato “Noi di Barriera”, provano a cavalcare il disagio della gente della zona per i fuochi che si levano dal campo di via Germagnano.
Nel mirino dei comitati i “fumi” dei falò accesi per liberare dalle loro guaine i fili di rame. Pochi sanno che i rottamatori di rame sono lavoratori in nero sfruttati da italianissimi imprenditori che si arricchiscono con il loro lavoro.
In questa zona ci sono fabbriche che emettono fumi che olezzano di uova marce, ma la destra punta l’indice contro i rom della baraccopoli.
I poveri che vivono riciclando e vendendo quello che trovano tra i rifiuti sono i capri espiatori ideali, in una delle città più inquinate d’Europa.
Sappiamo bene che quei fumi danneggiano la salute. Ma sappiamo guardare la luna e non il dito che la indica. L’inceneritore di Torino ogni giorno brucia immondizia e produce diossina, rifiuti tossici e filtri da smaltire. Il Comune di Torino potrebbe puntare sul riuso, il riciclo, la riduzione a zero dei rifiuti, chiudendo inceneritori e discariche. Ma sceglie il business.
La salute dei torinesi non interessa né al governo cittadino né a quello regionale, che da anni fa tagli alla spesa sanitaria.

I fascisti soffiano sul fuoco per scatenare la guerra tra poveri, perché chi fatica a vivere nelle nostre periferie non trasformi il disagio in guerra sociale, in lotta contro lo sfruttamento, l’oppressione, il dominio. Contro i padroni che ci rubano la vita e la salute ogni giorno della nostra vita.
Sabato scorso i fascisti hanno provato a scendere in via Germagnano. La gente delle baracche e gli anarchici li hanno fermati. La polizia ha spintonato e minacciato le famiglie, i bambini, dando copertura ai fascisti.
La violenza razzista era evidente. La gente non ha mollato. “Vergogna! Vergogna!” gridavano tutti.

I fascisti di Forza Nuova martedì 6 giugno, protetti dalla polizia hanno lanciato fiaccole sulle baracche del campo di strada dell’Aeroporto, facendo scoppiare incendi e seminando il panico tra le famiglie della baraccopoli, fuggite nella notte in mezzo ai rovi. Una bambina di tre anni è stata trovata solo dopo tre ore di affannose ricerche tra il buio e le urla razziste.
Il comitato “Torino ai torinesi” sta facendo leva sulla famiglia di Oreste Gianotto, morto lo scorso anno in un incidente in cui era coinvolta una ragazza del campo. Una vicenda dolorosa che, ad un anno di distanza, viene usata per invocare la pulizia etnica. La ragazza dopo un’ora dall’incidente si costituì alla polizia.
Ai fascisti non basta. Per loro la responsabilità è collettiva, perché gli abitanti del campo sono considerati “naturalmente criminali”. I triangoli neri erano messi sulle giacche dei rom e dei sinti mandati a morire nei lager razzisti. La logica è la stessa. I fascisti vogliono il pogrom, le fiamme, come alla Continassa e in via Vistrorio anni fa.
Appendino non ha – ancora – trovato i soldi per imitare Fassino, che sgomberò il campo di lungo Stura Lazio, spendendo cinque milioni di euro per la sua famelica corte di associazioni e cooperative del “sociale”.

I fascisti puntano il dito sulla giunta pentastellata, colpevole di non aver mantenuto la promessa di sgomberare le baraccopoli rom della città.
In realtà, da diversi mesi, è in corso uno sgombero strisciante dell’area, posta sotto sequestro dalla magistratura, perche dopo decenni di discariche legali ed abusive, la responsabilità dell’inquinamento viene rovesciata sugli ultimi arrivati, i rom immigrati dalla Romania.
Appendino gioca sul ricatto, la divisione, la paura. Ogni due o tre settimane scattano retate improvvise, con fogli di via e deportazioni dei senza documenti: le baracche degli esiliati vengono abbattute.
Agli altri raccontano la favola che se non protestano verranno risparmiati. In questi giorni Appendino ha nominato assessore “all’ambiente” Unia, uomo dei “Comitati”, per gettare in strada uomini, donne e bambini.

I rom sono nostri vicini di casa, gente della Barriera. Sono più poveri di tanti altri ma come tutti vorrebbero una casa e una vita migliore. Non hanno scelto le baracche e i bidoni dell’immondizia. I fascisti vogliono i roghi, vogliono la pulizia etnica. Il prossimo lunedì saranno di nuovo in piazza.

Fermiamo la guerra ai poveri, ai rom, agli immigrati!

Fermiamo i comitati razzisti!

Fermiamo lo sgombero a Cinque Stelle!

Casseruolata antifascista e antirazzista
in via Garibaldi angolo via Palazzo di città
lunedì 19 giugno
dalle ore 15,30 alle 18,30

Federazione Anarchica Torinese
corso Palermo 46
riunioni, aperte agli interessati, ogni giovedì alle 21

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Aggredito e mutilato. L’Italia vuole espellerlo

Una domenica come tante al parco Lambro. Un giovane salvadoregno con gli zii da cui abita da un anno sta passando lì la giornata. Aggredito da un ubriaco con una bottiglia rotta viene ferito molto gravemente: perde un occhio e dovrebbe sottoporsi a diversi interventi di chirurgia per sostituire il bulbo con una protesi. Lo Stato italiano non è d’accordo. Il ragazzo, entrato in Italia con visto turistico ed ospite dagli zii, è un clandestino senza documenti.
Nei suoi confronti viene disposto l’allontanamento coatto. In attesa del ricorso dei suoi legali, deve firmare due volte al giorno. Se verrà deportato non potrà essere essere operato.

Una vicenda che colpisce per la ferocia burocratica dello Stato che si accanisce contro una persona mutilata, bisognosa di cure.
Un clandestino, un uomo illegale, non ha diritti, né protezione, è solo un vuoto a perdere di cui disfarsi senza esitare.

La sua vicenda tuttavia ci ricorda che non c’è nessun modo legale di vivere nel nostro paese, quando scadono i permessi per studio o vacanza o quando si perde un lavoro regolare. Per molti immigrati la clandestinità è la norma, non l’eccezione.

L’unico modo di entrare in Italia con le carte è avere già in tasca un contratto di lavoro, firmato all’ambasciata italiana del proprio paese. Ovviamente nessuno lo ottiene mai: da anni i decreti flussi – sanatorie mascherate – non vengono fatti. Invece il governo moltiplica i dispositivi di controllo e repressione, fa accordi di rimpatrio, per il trattenimento in prigioni in Ciad, Libia, Niger. È l’esternalizzazione della guerra ai poveri, che rischiano morte, torture, sequestri e stupri. Da mesi si moltiplicano le deportazioni dirette con i paesi con cui l’Italia ha stretto accordi.

L’info di radio Blackout ne ha parlato con Eugenio Losco, avvocato che da anni segue migranti e oppositori sociali.

Un’occasione per fare il punto sull’iter applicativo delle nuove leggi sulla sicurezza urbana e l’immigrazione.
A Milano il sindaco e il prefetto stanno mettendo a punto un piano che fisserà alcune zone rosse urbane, principalmente quelle della movida meneghina, dove la mancanza di “decoro” dei poveri non verrà tollerata.

A Torino Appendino ha calato la sua carta contro la “movida molesta”, un bel regalo ai localini di San Salvario, del quadrilatero e di piazza Vittorio. I negozietti, i kebabbari, le gastronomie non potranno più vendere birra dopo le 20. Chi, senza troppi soldi, si prendeva due birrette da asporto da consumare con gli amici, sarà obbligato a portarsele calde dalle periferie dove il decreto non vale.

Ascolta la diretta con Eugenio

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Fermati i fascisti al campo rom. Cariche e fermi

Torino, 10 giugno. Casa Pound da mesi tenta di sbarcare in Barriera di Milano.
Il comitato “Noi di Barriera” è l’esile travestimento che usano per tentare di guadagnarsi un posto nel pulviscolo dei comitati delle tante anime della destra cittadina.
In autunno ci provarono nella zona del mercato di piazza Foroni ma rimediarono una magra figura e furono obbligati ad andarsene con la coda tra le gambe.

Casa Pound prova ora a cavalcare il disagio della gente di Barriera Nord per i fuochi che ogni tanto si levano dal campo. Da anni, in questa zona dove ci sono numerose fabbriche che emettono fumi che olezzano di uova marce, la destra punta l’indice contro i rom della baraccopoli di via Germagnano.

I poveri che vivono riciclando e vendendo quello che trovano tra i rifiuti sono i capri espiatori ideali, in una delle città più inquinate d’Europa.

Sul ponte sulla Stura intorno alle 16 ci sono una quarantina di fascisti con tricolori.
Dall’altro lato della strada alcuni abitanti del campo monitorano la situazione.
La polizia chiude dai due lati corso Vercelli per consentire ai fascisti di attraversare la strada per scendere in via Germagnano. Il piccolo duce torinese, Racca, si esibisce davanti alla telecamera di un camerata, lamentando un inesistente blocco della polizia. I fascisti cominciano a scendere.

In via Germagnano sale la rabbia degli abitanti che mettono due auto di traverso. Poi un gruppo di anarchici della FAT con lo striscione “I rom: torinesi come noi” si muovono per fermare i fascisti assieme ad alcune famiglie del campo. La celere guidata dalla digos scende di corsa e fa una breve carica. Qualche colpo di scudo, insulti e minacce per anarchici e famiglie. Tantissimi i bambini e i ragazzini.
La violenza razzista è evidente. La gente non molla. “Vergogna! Vergogna!” gridano tutti. La tensione è molto alta. Poi le solite associazioni “amiche dei rom” e finanziate dall’amministrazione cittadina diffondono ad arte la falsa notizia che tutto era a posto e la gente poteva tornare a casa. Qualcuno si allontana, diversi ragazzi invece restano. I fascisti non passano.
Casa Pound, andandosene, ha lasciato lo striscione sul ponte. In un batter d’occhio lo striscione viene strappato. Tre compagni vengono fermati, minacciati dalla polizia che solidarizza con un paio fascisti accorsi nel frattempo. Arriva qualche solidale. I compagni vengono rilasciati.

Casa Pound sta cercando di sottrarre a Fratelli d’Italia l’iniziativa razzista contro i campi rom. Devono fronteggiare la concorrenza di Forza Nuova, che martedì 6 giugno, protetta dalla polizia ha lanciato fiaccole sulle baracche del campo di strada dell’Aeroporto, facendo scoppiare incendi e seminando il panico tra le famiglie della baraccopoli, fuggite nella notte in mezzo ai rovi. Una bambina di tre anni è stata trovata solo dopo tre ore di affannose ricerche tra il buio e le urla razziste.
Il comitato “Torino ai torinesi” sta facendo leva sulla famiglia di Oreste Gianotto, morto lo scorso anno in un incidente probabilmente provocato da un’abitante del campo, poi costituitasi alla polizia.
Una vicenda dolorosa che, ad un anno di distanza, viene usata per invocare la pulizia etnica. La responsabilità è collettiva, perché gli abitanti del campo sono considerati “naturalmente criminali”. I triangoli neri erano messi sulle giacche dei rom e dei sinti mandati a morire nei lager razzisti. La logica è la stessa. I fascisti vogliono il pogrom.

I fascisti puntano il dito sulla giunta Appendino, colpevole di non aver mantenuto la promessa di sgomberare le baraccopoli rom della città.

In realtà, da diversi mesi, è in corso uno sgombero strisciante dell’area, posta sotto sequestro dalla magistratura, perche dopo decenni di discariche legali ed abusive, la responsabilità dell’inquinamento viene rovesciata sugli ultimi arrivati, i rom immigrati dalla Romania.

Appendino attua uno sgombero strisciante, giocando sul ricatto, la divisione, la paura.
Ogni due o tre settimane scattano retate improvvise, vengono distribuiti fogli di via e qualche deportazione, mentre le baracche degli esiliati vengono abbattute.
Agli altri raccontano che se non protestano verranno risparmiati.

Appendino non ha trovato i soldi per imitare Fassino, che sgomberò il campo di lungo Stura Lazio, spendendo cinque milioni di euro per la sua famelica corte di associazioni e cooperative del “sociale”.
Ma ai fascisti non basta. Vogliono i roghi e preparano nuove iniziative.

Lunedì 12 giugno ore 21
assemblea antirazzista e antifascista nei locali di radio Blackout in via Cecchi 21A.

Mercoledì 14 giugno ore 10,30
volantinaggio al mercato di via Porpora

Sabato 17 giugno ore 10,30 / 13 punto info itinerante tra il Balon e San Pietro in Vincoli

www.anarresinfo.noblogs.org

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Vaccini, complotti, salute, soldi

La decisione del governo di imporre la vaccinazione ai bambini con un decreto legge diventato operativo in questi giorni ha il sapore di un intervento a gamba tesa, che ben lungi dallo sconfiggere una delle tante versioni della teoria del complotto, contribuisce paradossalmente a rinforzarla.
Molti, anche tra coloro che non hanno una posizione antivax, hanno puntato il dito sulla ministra Lorenzin, considerata alleata delle Big Pharma nel business dei vaccini.
Come vedremo il core business di Big Pharma sono le malattie e non la prevenzione. Il vaccino contro l’epatite rende tre dollari, i medicinali per curare la malattia tra i 30 e i 40 dollari.
Resta il fatto che la formulazione del decreto è estremamente violenta. Se ogni imposizione di Stato è in se intollerabile, il ricatto sulla scuola e la minaccia di togliere i figli ai genitori inadempienti lo è più del consueto.

In questa vicenda si intrecciano più piani di riflessione, che abbiamo tentato di separare sul piano analitico, pur rendendoci conto che l’intrico è difficile da dipanare.

Chi sostiene che in ballo ci sia la libertà di cura non considera che i vaccini vengono fatti a bambini molto piccoli che non possono valutare rischi e vantaggi individuali e collettivi della pratica vaccinale.
Affidare ai genitori o allo Stato la decisione appare la classica scelta tra la padella e la brace.
Non solo. La pratica vaccinale inerisce una nozione i cui confini sono spesso difficili da individuare: la “salute pubblica”.
La libertà di non vaccinare i propri figli non solo li espone al rischio di contrarre gravi malattie ma espone tutti quelli che non possono essere vaccinati allo stesso rischio. Bambini affetti da gravi patologie non possono essere vaccinati, nei due terzi più poveri del pianeta ci sono milioni di bambini e adulti non vaccinati che potrebbero contrarre la malattia.
Risolvere la questione a colpi di decreti e imposizioni non è certo un buon modo per favorire il diffondersi di un’attitudine critica verso le mille teorie del complotto che spiegano tutto, senza farci capire nulla.
Lorenzin è la ministra del fertility day: il suo decreto rischia di avere il solo significativo effetto di far crescere il consenso al partito dei complotti, il M5S. Chi la può ritenere credibile quando impone la vaccinazione obbligatoria? Va da se che nessuno le proporrebbe di fare una seria campagna informativa sui vaccini. Chi ha visto gli spot del fertility day si potrebbe piegare dalle risate.

Resta il fatto che l’informazione è il nodo da sciogliere. Possiamo, grazie ad una rete di medici, ricercatori e studiosi che non si piegano né ai dicktat del governo, né alle pressioni di Big Pharma, né alle fantasie complottiste, costruire dal basso uno sguardo critico sulla nostra salute, sulla necessità di spezzare il legame tra business e benessere, lottare per l’eliminazione della proprietà intellettuale, batterci per un’educazione sanitaria diffusa.

La crescente sfiducia nelle istituzioni sanitarie, scosse da continue inchieste su ruberie, furti, malasanità, contribuisce ad accrescere la diffidenza verso la ricerca scientifica tout court. Questa sfiducia spesso investe anche chi lavora nella ricerca, spesso senza sovvenzioni né pubbliche né private.
La nostra salute, la salute di chi non ha soldi o ne troppo pochi per garantirsela, non interessa ai governi che si sono secceduti in questi anni. I continui tagli che hanno messo in ginocchio il circuito sanitario statale ne sono la prova. La scelta di aumentare la spesa di guerra è invece il segno che le risorse ci sono ma i vari esecutivi hanno preferito impiegarle per le imprese di morte, piuttosto che per la vita di noi tutti.

Il diffondersi della pratica vaccinale ha portato alla scomparsa di una malattia grave e mortale come il vaiolo. Lo stesso risultato è a portata di mano per difterite e poliomelite. Peccato che i movimenti no vax stiano mettendo a rischio questo obiettivo.
Paradossalmente il senso di sicurezza dovuto al successo della vaccinazione di massa, apre le porte al diffondersi di teorie che la suppongono inutile e dannosa.

Il vaccino tutela chi lo fa, perché impedisce l’insorgere della malattia, tutela anche i bambini immunodepressi e quelli che rischiano di sviluppare reazioni autoimmuni, che non possono essere vaccinati. Se i bambini sani sono vaccinati, quelli immunodepressi non rischiano di infettarsi.

Questa verità banale è oggi messa in discussione da un numero crescente di genitori che negli ultimi anni hanno deciso di non vaccinare i propri figli, perché spaventati dalla marea di informazioni diffuse in salsa simil scientifica in rete.
Chi naviga in internet e sceglie di fare un viaggio nel pianeta dei vaccini, scopre che più del 70% dei siti, pagine facebook, blog sono no vax, solo il 30% è favorevole.
É quindi ovvio che proprio chi vuole informarsi il più possibile nell’interesse dei propri figli, incappando in questa vera onda anomala antivax, finisca con il nutrire dubbi sull’opportunità di vaccinare i propri bambini.

Un buon metodo per orientarsi è prestare attenzione al fatto che in genere i no vax trovano spazio nelle pagine gestite dai numerosi complottisti che popolano il web.

Altro buon metodo è parlare con gli studiosi, i ricercatori, che fanno il loro lavoro avendo ben chiaro il ruolo delle Big Pharma, dello Stato e dei complottisti.

L’info di Blackout ne ha parlato con Ennio Carbone, un compagno che in passato è stato sentito più volte sul ruolo delle Big Pharma, il diffondersi delle epidemie, i poveri che muoiono di malattie curabili, la ricerca scientifica nel nostro paese.

Qui altri approfondimenti:

“Big Pharma. Affari o salute?”

“Ebola e Big Pharma”

“Il prezzo della vita. Come si vive e come si muore di sanità”

“Business e salute. Il giallo dei vaccini”

Ennio è Professore Ordinario di Patologia Generale all’Università della Magna Grecia

Adjunct Senior Lecturer presso il Dipartimento di Microbiologia, e Biologia Cellulare e dei Tumori (MTC) Karolinska Institutet, Stoccolma , Svezia.

Fa parte del Consiglio Direttivo Nazionale della Società Italiana di Immunologia, Immunologia Clinica ed Allergologia.

A lui abbiamo rivolto alcune semplici domande.

Come funziona il sistema immunitario?

Quali e quante sono le reazioni avverse ai vaccini?

A chi non devono essere fatti i vaccini? Anche agli immunodepressi o a quelli che sviluppano reazioni atopiche verrà imposta la vaccinazione?

Cos’è l’immunità di comunità?

Perché è calato il grado di vaccinazione in Europa?

Big Pharma e il business dei vaccini. Quali interessi sono in ballo?

Ascolta la diretta con Ennio

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Antimilitaristi in corteo. Cronaca di una giornata di lotta a Torino

Ogni anno il due giugno lo Stato italiano festeggia se stesso con parate e cerimonie militari. Uomini e mezzi sfilano con meccanica precisione, la meccanica precisione delle guerre moderne, tutte lontane, tutte umanitarie, tutte combattute per qualche principio scritto in solenni dichiarazioni sui diritti universali. Ogni due giugno gli antimilitaristi si mettono di mezzo per contrastare la retorica nazionalista, la ferocia bellica messa in mostra tra lustrini e divise tirate a lucido.

A Torino l’appuntamento era in piazza Statuto di fronte al monumento ai costruttori del Frejus, dove, dopo un breve climbing, è stato appeso uno striscione con la scritta “profughi annegati = omicidi di Stato”. Nella fontana sottostante e nel prato i fantocci di bimbi, abiti, scarpe, qualche giocattolo.

Poi si parte alla volta di piazza Castello, dove si terrà la cerimonia militarista. La polizia blocca l’accesso a via Cernaia: gli antimilitaristi imboccano via Garibaldi. Prima di corso Palestro, mentre gli uomini della polizia tentennano, viene immediatamente improvvisato un check point che chiude la strada per qualche decina di minuti.
Musica, interventi e slogan raccontano a chi passa che i militari nelle strade, la caccia ai senza documenti, il daspo per i poveri sono la normalità nella nostra città.
La strada è gremita di gente, che ascolta e legge. Sul furgone ci sono due striscioni “Daspo urbano, fogli di via: il fascismo ha il volto della democrazia”, “No a tutti gli eserciti”. In testa gli antimilitaristi hanno aperto lo striscione “Contro tutti gli eserciti per un mondo senza frontiere”.
Armati di telecamera di cartone e microfono finto alcuni compagni intervistano i passanti sulla guerra, il militarismo, le parate militari. Grande successo di critica e di pubblico: qualcuno fa anche ciao.

Si gira in piazza Palazzo di Città, dove di fronte al Comune viene appeso uno striscione con la scritta “L’alternativa è Chiara: polizia, tribunali, sgomberi… guerra ai poveri”. Un messaggio per la giunta a 5 Stelle che sta cementificando e militarizzando la città.
Un aereo e un carro armato vengono donati ad Appendino che si è più volte vantata per l’eccellenza piemontese nell’industria aerospaziale di guerra.
Un nuovo check point chiude l’intera piazza, mentre poco più in là sta per cominciare la cerimonia militarista.
Il corteo prosegue per piazza Castello. La polizia in assetto antisommossa si schiera e blocca tutti i lati di piazza Corpus Domini. Il fronteggiamento dura a lungo. Gli antimilitaristi gridano “Fuoco, fuoco al tricolore!”, “Mio nonno disertore me l’ha insegnato l’uomo finisce dove comincia il soldato”, “Gli unici stranieri, gli sbirri nei quartieri”.
I poliziotti si calano il casco, imbracciano i manganelli. Seguono lunghi minuti di tensione. A lato i compagni di Novara si schierano di fronte alla polizia con lo striscione contro gli F35.
La cerimonia in piazza Castello si chiude in fretta e furia, il corteo approda in piazza Castello, gremita di gente.

Anche quest’anno la cerimonia militarista è stata disturbata dai senzapatria, che con un corteo comunicativo si sono guadagnati la piazza, obbligando i militari a celebrare di corsa i propri riti.

Dopo il corteo gli antimilitaristi hanno raggiunto la Taz al Parco Michelotti, dove un compagno sardo ha raccontato le lotte contro le basi e i poligoni nell’isola. Ne è seguito in vivace dibattito.
In autunno a Torino si svolgerà nuovamente il “Defence and aerospace meeting”, la mostra dell’industria bellica aerospaziale.
Gli antimilitaristi stanno preparando una degna accoglienza ai produttori e ai mercanti di morte.

Di seguito il volantino distribuito al corteo:

“Contro tutti gli eserciti
Per un mondo senza frontiere

L’Italia è in guerra. A pochi passi dalle nostre case si producono e si testano le armi impiegate nelle guerre di ogni dove.

Le usano le truppe italiane nelle missioni di “pace” all’estero, le vendono le industrie italiane ai paesi in guerra. Queste armi hanno ucciso milioni di persone, distrutto città e villaggi, avvelenato irrimediabilmente interi territori.

All’Alenia di Caselle Torinese oltre ad un nuovo lotto di cacciabombardieri Eurofighter, da quest’anno produrranno anche droni da combattimento.

La spesa di guerra è 68 milioni di euro al giorno. Pensateci quando aspettate sei mesi una visita specialistica. Pensateci quando aspettate da decine di minuti l’autobus.

L’Italia è in guerra. Truppe italiane sono in Afganistan, in Iraq, in Val Susa, nel Mediterraneo e nelle strade delle nostre periferie, dove i nemici sono i poveri, gli immigrati, i senza casa, chi si oppone ad un ordine sociale feroce.
Il ministro dell’Interno Minniti ha promosso una legge sulla sicurezza urbana che prevede il daspo, il divieto ai senza casa, senza lavoro, senza documenti di vivere in certi quartieri. Un nuovo capitolo della guerra ai poveri, che saranno puniti perché dormono su una panchina o occupano una casa.

Ogni giorno qualcuno muore nel Mediterraneo. Nei prossimi mesi ne moriranno di più: il governo ha deciso di mettere sotto controllo le navi dei volontari che assistono i migranti sui barconi. Presto guardia costiera e militari imporranno la loro presenza sulle imbarcazioni. A chi non ci sta verrà vietato di approdare in Italia.

L’Italia è in guerra. Ma il silenzio è assordante.
La retorica sulla sicurezza alimenta l’identificazione del nemico con il povero, mira a spezzare la solidarietà tra gli oppressi, perché non si alleino contro chi li opprime.
La retorica della sicurezza alimenta l’immaginario della guerra di civiltà, della paura della Jihad globale, mentre il governo italiano è alleato di paesi che finanziano chi semina il terrore.

Chi promuove guerre in nome dell’umanità paga il governo libico e quello turco, e presto anche quelli di Niger e Ciad, perché i profughi vengano respinti e deportati.

Il silenzio è assordante. Il pensiero sulla sicurezza – lo stesso a destra come a sinistra – sembra aver paralizzato l’opposizione alla guerra, al militarismo, alla solidarietà a chi fugge persecuzioni e bombe.

Nel silenzio dei più c’è chi decide di mettersi di traverso, di sabotare le antenne assassine di Niscemi, di battersi contro le fabbriche d’armi, di fermare le esercitazioni di guerra, di aprire ed abbattere le frontiere, di gridare forte il proprio disgusto per la patria e il nazionalismo.

Per fermare la guerra non basta un no. Occorre incepparne i meccanismi, partendo dalle nostre città, dal territorio in cui viviamo, dove ci sono caserme, basi militari, aeroporti, fabbriche d’armi, soldati per le strade.

assemblea antimilitarista”

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Il grande complotto. Ebraico

Prendete un pizzico di paura, la convinzione che qualcuno abbia interesse a distruggere la vostra vita, mescolate con i fantasmi che vi offrono tv e tabloid, mescolate con cura e cuocete a fuoco lento. Se la ricetta funziona vi sarete costruiti un piccolo inferno personale. Capita a tante persone. Alcune finiscono drogate di farmaci e segregate nei repartini, altre se la cavano e riprendono a vivere, altre ancora riempiranno le pagine della cronaca nera.
La nostra cultura bolla con lo stigma della follia chi si sente perseguitato, controllato, manipolato.
Vivere con agio la propria vita non è sempre facile.
Se la stessa ricetta viene assunta collettivamente da interi gruppi umani, poiché la follia non può essere contagiosa, diventa evidente l’esistenza di un complotto.
Ogni “prova” che confuti il complotto ne dimostra l’esistenza. I complottisti sono impermeabili a qualunque argomentazione: nulla intacca la convinzione che qualcuno trami per far scomparire sia loro sia il loro mondo. La cospirazione è la chiave che apre tutte le porte, che mette ordine nel caos. Credere che tutto quello che succede faccia parte di un piano terribile è al contempo spaventoso e rassicurante. Le teorie del complotto danno ordine al caos, danno senso alla paura, offrono un nemico da combattere e annientare.
Chiunque neghi il complotto fa ovviamente parte del complotto. Nel migliore dei casi è un fantoccio mosso da fili invisibili.
Chi ordisce un complotto disegna la trama di un tappeto che altri tesserano per lui. Nell’iconografia complottista alcuni simboli sono ricorrenti: c’è il burattinaio, la figura invisibile che muove i fili delle vite altrui, l’ombra che regge le sorti del mondo. Anche l’occhio massonico è molto gettonato.

Il complottismo non è frutto di una banale infatuazione per la letteratura fantastica. Le teorie del complotto si basano quasi sempre su elementi reali, ma irrealizzati in una narrazione che trae alimento da una virtuale cassetta degli attrezzi dove è depositato un universo simbolico da usare ed adattare al momento.

La maggioranza delle persone non riesce né a conoscere né a controllare i fatti che ne decidono la vita. I complotti sono come le religioni: spiegano tutto e indicano la via della salvezza.
Morire di tumore perché si mangiano cibi pieni di pesticidi, perché si beve acqua e si respira aria inquinata è un fatto.
Armi chimiche uccidono le popolazioni di paesi nemici. Anche questo è un fatto.
Sostenere che gli scarichi degli aerei civili siano scie chimiche prodotte per ucciderci ne è la declinazione complottista.

Il mondo virtuale dell’economia finanziaria ha effetti enormi nelle vite di miliardi di persone. È innegabile.
L’idea che le banche e chi le controlla abbiano il progetto di dominare il mondo assoggettandolo al potere di una ristretta elite intrinsecamente perversa ed etnicamente coesa è alla radice di un filone complottista che ha giustificato pogrom e campi di sterminio.

Hitler è morto nel 1945 nel bunker della Cancelleria a Berlino ma la credenza in un complotto giudaico per dominare il mondo (ri)vive nel complottismo contemporaneo. Per evitare l’accusa di antisemitismo tutto resta sottotraccia. Non detto, sussurrato. Detto e poi negato.
La demonizzazione dei ebrei è opera della religione cristiana nelle sue varie confessioni. La chiesa cattolica condannava l’usura e prometteva l’inferno agli usurai. Questo stigma ha fatto sì che gli ebrei, cui era vietato in Italia e in vari altri paesi possedere e coltivare la terra, facessero i mestieri loro consentiti, tra cui il prestare denaro per interesse.
La diffidenza cattolica per la finanza si mescola con il pregiudizio antiebraico sino a divenire un amalgama indistinguibile.
I “Protocolli dei Savi di Sion”, un documento fabbricato in Russia nel 1903, riconosciuto come falso già nel 1921, ha avuto uno straordinario successo internazionale. I “Protocolli” hanno continuato a girare per decenni. Quel testo, il cui nucleo era il complotto ebraico per prendere il controllo del mondo, era la “prova” di convinzioni molto profonde.
Un cortocircuito logico che è alla base di ogni teoria del complotto, che, come un uroboro, si morde la coda avvolgendosi all’infinito su se stesso.
Gli ebrei erano perfetti per il ruolo che veniva (e viene ancora) loro attribuito. Strani e stranieri in tutti i luoghi dove hanno vissuto erano il nemico per eccellenza, quello che vive accanto a te e cospira per farti fuori. I ghetti, i roghi, le persecuzioni, i campi di sterminio sono stati pulizia etnico religiosa preventiva.
La nascita dello Stato di Israele, nella striscia di terra tra il fiume Giordano e il Mediterraneo a sud del Libano, ha segnato un forte distacco culturale dall’ebraismo della diaspora, perché ha fondato un nazionalismo ebraico con un legame con la terra e i suoi mestieri, oltre alla rinascita di una lingua quasi morta.
Questo fatto di portata epocale non ha scalfito le convinzioni dei complottisti. Anzi! È stata loro offerta l’occasione di dare un luogo, una testa, un cervello ad una cospirazione i cui tentacoli sono diffusi ovunque in Europa e negli Stati Uniti.
Occorre tuttavia riconoscere che Israele è anche investito di una profonda ambivalenza simbolica, perché offre un luogo per mantenere la “tradizione”, per cancellare il cosmopolitismo di tanta parte delle comunità sparse per il mondo.

Si potrebbe pensare che il complotto ebraico sia un attrezzo spuntato, roba da vecchi fascisti. Invece no.
Le teorie della cospirazione trovano ogni giorno nuovi adepti, il virus complottista si diffonde nel web e si moltiplica e rafforza di click in click.

Non è certo un caso che nel nostro paese il grande complotto raccolga consensi soprattutto tra gli esponenti del Movimento 5 Stelle, che giustificano ogni aporia, ogni fallimento, ogni contraddizione con la grande cospirazione delle banche, dei media e dei partiti contro la monarchia ereditaria virtuale di Grillo e Casaleggio. Il comico si è distinto in numerose occasioni per le proprie uscite antisemite e razziste.
Dopo la morte di Rothschild, gli orfani dell’uomo simbolo di ogni cospirazione pluto-giudaico-massonica avevano perso la pietra miliare dei complotti del secolo.
Morto un Paperone ebreo, se ne trova subito un altro. È il turno di George Soros.

Il giornalista Del Grande, in vacanza nelle prigioni turche per un paio di settimane, non ha mai nascosto la propria avversione per la dinastia Assad. È stato attaccato dalla “sinistra” filo russa e filo siriana perché un suo progetto sarebbe stato finanziato proprio da Soros, il Paperone statunitense di origine ungherese.
Altri giornalisti, finiti nei guai lavorando in zone di guerra, pur pagati da capitalisti e banchieri, proprietari di radio, TV e giornali, non sono entrati nel mirino delle falangi rosse e rosso brune, nostalgiche dell’Unione Sovietica.

Grillo, seguito a ruota dal procuratore capo di Catania Zuccaro, ha sparato a zero sulle ONG, che raccolgono naufraghi nel Mediterraneo, accusandole di essere colluse con gli scafisti.

Salvini ha fatto di meglio alzando la posta. Il 2 maggio ha dichiarato: “Sono sempre più convinto che sia in corso un chiaro tentativo di sostituzione etnica di popoli con altri popoli. Questa non è un’immigrazione emergenziale ma organizzata che tende a sostituire etnicamente il popolo italiano con altri popoli, lavoratori italiani con altri lavoratori. È un’immigrazione che tende a scardinare economicamente il sistema italiano ed europeo”. I flussi migratori innescati da guerre, desertificazione, povertà sono sempre stati il babau leghista. In queste affermazioni c’è tuttavia un salto di qualità. Un grande complotto per eliminare gli italiani, per sostituirli con altri. Gli immigrati poveri sono i le pedine di un grande burattinaio intenzionato a distruggere l’Italia dall’interno con un esercito di immigrati.
Salvini fa il nome del burattinaio. È George Soros. “Non c’entrano guerre, diritti umani e disperazione. È semplicemente un’operazione economica e commerciale finanziata da gente come Soros. Per quanto mi riguarda metterei fuorilegge tutte le istituzioni finanziate anche con un solo euro da gente come Soros. Non dovrebbero poter mettere piede in Italia né loro, né le associazioni da gente come lui finanziate”. Gente come lui. Cosa significa? Salvini, prudente, non dice la parola che apre tutte le porte, la parola che spiega tutto, la chiave che rende credibile ogni cospirazione.
Lo farà qualche giorno dopo il Fatto Quotidiano, il giornale più vicino alla galassia pentastellata.
La pubblicazione di un pacco di mail hackerate alla “Open Society Foundation” del magnate statunitense è l’occasione buona. Il Fatto cita Dc Leaks che giustifica la pubblicazione delle mail sottratte dal database dell’organizzazione filantropica perché “Soros è l’architetto di ogni colpo di Stato degli ultimi 25 anni”. Con un titolo così ti aspetteresti rivelazioni bomba. Niente di tutto questo. C’è un elenco di dossier sui finanziamenti elargiti, sulle politiche di questo o di quello, sulla posizione dei paesi europei di fronte alla crisi in Ucraina. Dc Leaks scrive che Soros è di origine ebraica. Quelli del Fatto evidenziano in neretto.
Non servono prove, il Paperone è ebreo. Basta la parola. Nei commenti qualcuno si indigna, molti alzano ancora di più il tiro. L’ebreo continua ad essere il nemico. Sempre straniero, estraneo, pericoloso, aspira come il diavolo a controllare il mondo.
Siamo all’eterno ritorno dell’eguale. I fantasmi del Novecento non sono stati seppelliti ad Auschwitz.
La lunga fila di morti nei lager non è stata un orrendo rito di espiazione. Il coltello sacrificale affondato in corpi umani trattati come capri da offrire per placare le ire di un dio iracondo è un’immagine suggestiva, ma estranea alla logica complottista.

Lo scorso maggio l’incendio doloso di una roulotte dove viveva una famiglia rom è stata spiegata dai media come affare “interno” alla comunità. Un po’ di falsità mal condite ha liquidato con leggerezza l’omicidio di due bambine e di una ragazza. Sui social media le incitazioni al genocidio sono diventate normali. Quasi banali.
I nazisti giustificarono lo sterminio dei rom, perché, pur ariani, avevano contaminato i loro geni, viaggiando e mescolandosi con altri. Il razzismo del terzo Reich era sostanzialista, si basava sulla convinzione che vi siano gruppi umani naturalmente inferiori. I rom, diversamente dagli ebrei che sono costitutivamente perversi, sono diventati mostri perché hanno tradito la loro natura.
Follia? Si è folli da soli, quando la “follia” è condivisa diventa un movimento politico. É come l’omicidio. Se a uccidere è uno solo l’omicidio resta un crimine gravissimo, se benedetto da una bandiera e da una divisa, si trasforma in eroismo.

Il razzismo differenzialista oggi è molto più raffinato e, quindi, pervasivo, grazie ad un sapiente utilizzo di attrezzi teorici che attingono ad un patrimonio culturale più ampio.
Teorici come Alain De Benoist, esplicitamente schierati a destra, sono riusciti a fare breccia anche in ambienti apparentemente molto distanti.
De Benoist è attento alle questioni ambientali, critico dell’industrialismo, fautore di un razzismo differenzialista su base culturale.
Sul Fatto Quotidiano scrive regolarmente Massimo Fini, il fondatore di Movimento Zero, una formazione che raccoglie vecchi attrezzi della destra profonda, cercando audience nei movimenti ambientalisti, facendo leva sulla critica alla modernità e sul ritorno al primitivo.
Il nocciolo del pensiero di De Benoist ne spiega il crescente successo, la capacità di dar vita ad una corrente rosso-bruna al passo con i tempi. Al centro è la tradizione. Non una tradizione, ma tutte. Tutte buone, tutte positive, purché restino integre. I flussi migratori spezzano le tradizioni, le meticciano e annullano nel grande mondo della merce tutta eguale ad ogni latitudine. Le migrazioni, nel pensiero della Nuova Destra, vanno bloccate e respinte, nell’interesse di tutti, migranti compresi.
Non serve più costruire lager nel cuore dell’Europa, allo sterminio provvederanno guerre, fame, carestie, desertificazione.

Il nemico per De Benoist è la mescolanza, il confronto, che annacqua le varie culture, le annienta di fronte alla pervasività anomica della finanza, del mondialismo, della fine del rapporto identitario tra popolo e terra.
L’economia finanziaria diventa il nemico per eccellenza, perché recide le radici, perché globalizza l’economia, quella buona, quella che produce.
Facile cogliere l’assonanza con i temi di certa sinistra, orfana dello Stato, padre, madre, nazione. Poco importa che la delocalizzazione delle produzioni abbia volatilizzato anche la produzione manufatturiera. Il nemico sono le banche, non i padroni che producono, rubando la vita di chi lavora, senza nessuna attenzione al colore della pelle o al suono della lingua.
L’antisemitismo riprende forza grazie alla sottigliezza di una destra, che articola il razzismo in modo più sottile, abile, intrigante.
Il populismo di destra e di sinistra si abbevera alla stessa fonte. La grande cospirazione della finanza è il tratto che accomuna le formazioni che in Europa, ma non solo in Europa, si battono contro la moneta unica, l’apertura delle frontiere, la libera circolazione di uomini e capitali.
Fanno leva sulla paura, sull’incertezza per il futuro, sulla fine delle tutele e delle garanzie. E trovano un nemico. L’immigrato povero che sbarca sulle nostre coste. Il magnate ebreo che usa l’immigrazione per distruggere le tradizioni, per governare il mondo.

M. M. (quest’articolo è uscito sull’ultimo numero di Arivista)

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Contro tutte le gabbie. Per uno spazio pubblico non statale. No Zoo(m), no privatizzazione

Lo zoo a Torino venne chiuso 30 anni fa. Torino fu tra le prime città a mettere la parola fine ad una terribile storia di reclusione e sofferenza.
Una storia che potrebbe ricominciare tra breve. La giunta a Cinque Stelle, che governa la città da un anno, ha confermato la scelta dell’amministrazione targata PD di trasformare l’area del parco Michelotti in un nuovo zoo. Uno zoo al passo con i tempi, dove accanto ad alcuni animali “esotici” avremo una “fattoria didattica”, il mulino bianco con animali vivi a recitare su un canovaccio da favoletta disney. La realtà degli allevamenti veri è molto diversa: sono luoghi di tortura e morte, per produrre carne, uova, pelle, piume, latte, salumi.

Il progetto della società Zoo(m) consentirà al comune di fare cassa. Il business è business. I soldi non puzzano. Poco importa che poco più di un anno fa Appendino avesse fatto grandi promesse pur di ottenere una manciata di voti in più.

Noi non abbiamo votato nessuno e non abbiamo nulla da recriminare.
Ci spiace tuttavia che tante persone si siano illuse che qualcosa in città sarebbe cambiato.
Oggi sappiamo che occorreva che tutto cambiasse perché tutto restasse come prima.

Nelle periferie ci sono ovunque divieti e posti di blocco. Le retate a caccia di immigrati senza documenti, per cacciare chi non ha casa né reddito sono diventate normali.
Nuove gabbie per uomini, donne e altri animali si moltiplicano. Il ministro dell’Interno Minniti ha dichiarato guerra ai poveri. Le leggi approvate dal parlamento prescrivono il moltiplicarsi delle prigioni per migranti senza documenti. I sindaci hanno ora il potere di vietare ai poveri di vivere in certe zone della città. In difesa del “decoro”. Quando la sicurezza coincide con il decoro crescono le zone rosse e i divieti.

Lungo le rive del Po c’è un’area cintata, chiusa con un lucchetto, dove vivono senza chiedere il permesso uomini, piante e animali.
Non basta dire no allo Zoo(m). Occorre riprendersi la libertà di decidere senza deleghe né padrini politici.
Occorre mettersi di mezzo, bloccare i lavori, occupare il parco e farne un luogo di resistenza. Non è facile? Senza dubbio!
La logica della pressione istituzionale è comunque perdente. Carte bollate e ricorsi respinti dimostrano che non si può giocare una partita con le carte truccate. Ormai dovrebbe essere evidente a tutti.

Al parco Michelotti e in tutta la città possiamo trasformare le zone rosse in luoghi liberi, battendo la logica del business e la città vetrina. La smart city, al centro di un reticolo comunicativo e di un’offerta di “svago” redditizio, mette a valore l’immagine, nascondendo la violenza delle relazioni sociali, dello sfruttamento umano e animale.
Noi crediamo che la liberazione animale e quella umana vadano di pari passo. La liberazione animale scissa da un percorso di lotta antifascista, antirazzista, antisessista non ci interessa.
Due anni fa eravamo nel campo rom di via Germagnano mentre fascisti con le fiaccole e certi animalisti sfilavano per chiedere lo sgombero e la distruzione delle baracche dove vivono uomini, donne e bambini.
Eravamo al campo rom di Lungo Stura Lazio quando si è consumata l’ultima fase dello sgombero e della demolizione delle casette di tanta povera gente. Dopo la polizia sono arrivati quelli del canile armati di gabbie per deportare i cani e i gatti che abitavano lì. Siamo orgogliosi di esserci messi di mezzo anche in quell’occasione.

Al Parco Michelotti abbiamo la possibilità di trasformare la finzione partecipativa in realtà.
Dipende solo da noi. Possiamo abbattere le recinzioni e decidere insieme come vivere e attraversare questo luogo nel rispetto di quello che c’è, offrendo a tutti la possibilità di aprire uno spazio veramente pubblico. Pubblico e non statale. Autogestito da chi è interessato ad averne cura.

Federazione Anarchica Torinese

Corso Palermo 46 – le riunioni, aperte agli interessati, sono ogni giovedì alle 21

(questo volantino è stato distribuito a Torino in queste settimane)

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G7. Vertice freddo, clima bollente

Niente di nuovo al vertice dei G7 svoltosi il 26 e 27 maggio a Taormina.
Trump questa volta non si è smentito, ribadendo la propria decisione di rigettare l’accordo per il clima, siglato a Parigi nell’autunno del 2015. Erano passate poche settimane dagli attentati al Bataclan, allo stadio e in alcuni ristoranti. Parigi era militarizzata, gli attivisti che si diedero appuntamento per una manifestazione in occasione dell’apertura della conferenza sui cambiamenti climatici, ebbero un primo assaggio dello stato di emergenza proclamato da Hollande.

Chi analizzò quegli accordi non potè che constatare quanto esili e poco efficaci erano le misure concrete che i partecipanti all’incontro avevano deciso di adottare.
Gli effetti del Climate change sono ormai tanto forti da essere percepiti come normali da tanta gente. C’era una volta l’inverno… è una favola che i più giovani sentono raccontare sempre più spesso.

Quegli accordi, se anche Donald Trump non fosse Doanld Trump non erano certo in grado di invertire la rotta. Forse neppure di fermare la discesa sempre più rapida e ripida. Più probabile un mero rallentamento.
La logica del profitto, la logica capitalista da valore solo a quello che rende. Per questa ragione i privilegiati del mondo hanno da qualche anno a disposizione i prodotti della Green Economy. Per gli altri, quelli da meno di un dollaro al giorno, resta il privilegio di cercare nell’immondizia qualcosa con cui sopravvivere.

L’allora primo ministro francese Laurent Fabius a sigillo della COP 21 dichiarò solennemente che “L’accordo di Parigi permette ad ogni delegazione di ritornare al proprio paese a testa alta.‭ ‬Il nostro impegno collettivo vale di più della somma di quelli singoli.‭ ‬La nostra responsabilità verso la storia è immensa.‭” ‬

Una retorica vuota che si è infranta definitivamente a Taormina, con il mancato accordo sulle questioni climatiche, che qualcuno sperava ancora possibile.

La consapevolezza‭ ‬che qualcosa si stia modificando a livello climatico è ormai diffusa non solo tra gli addetti che analizzano i dati scientifici ma anche tra coloro che delegano ai rappresentanti istituzionali la soluzione dei problemi del vivere quotidiano.‭

Per questo nessun governante due anni fa volle rimanere fuori dall’inquadratura festante‭ “‬dell’accordo mediatico‭”‬.‭ ‬Le aspettative dell’opinione pubblica non potevano essere deluse‭ …‬.‭ ‬un fattore che ha certamente pesato sull’allineamento di ben‭ ‬195‭ ‬nazioni.‭ ‬A tutti è chiaro che il‭ “‬problema clima‭”‬,‭ ‬con gli eventi atmosferici che di volta in volta lo caratterizzano,‭ ‬ha dimensioni globali ed è altrettanto indubitabile che le scelte di questi decenni influenzaranno la‭ “‬storia‭” ‬futura.‭

Trump ha costruito la propria immagine sul rigetto della dimensione universalista tipica della governance mondiale, facendosi paladino degli americani “rovinati dalla globalizzazione”, la gente della Rust Belt che sogna la vecchia Detroit come i melanesiani sognvano i loro Cargo della salvezza pieni di divinità.
Poco importa che lo stesso Trump sia un Paperone come tanti, una via di mezzo tra Donald Duck e Silvio Berlusconi. Quello che importa è l’immaginario che rappresenta. Un immaginario che relega le questioni climatiche tra i passatempi dei ricchi sinistri, indifferenti alle sorti dei bianchi impoveriti e spaventati degli Stati Uniti.
Una storia, che nella sua diversa declinazione peninsulare, conosciamo sin troppo bene.

Ascolta la diretta dell’info di radio Blackout con Marco Tafel, esperto di questioni ambientali, autore di numerosi articoli sul climate change.

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Sicilia. Il flop del vertice, il corteo dei No G7

Il G7 di Taormina è stato un sostanziale fallimento. Gli Stati Uniti non hanno voluto cercare una mediazione su temi cuciali come l’ambiente, le politiche protezionistiche, immigrazione. Trump mira a fare accordi bilaterali, evitando di impegnare gli Stati Uniti su tavoli più ampi e complessi.
L’unico punto su cui tutti sono d’accordo è il contrasto al terrorismo. La chiave che apre le porte di ogni politica di guerra, chiusura delle frontiere, controllo capillare e stretta in materia di sicurezza. Pazienza se nel gioco delle alleanze ci finiscano anche Stati noti per finanziare i nemici pubblici come Al Quaeda e Isis.

Il G7 in Sicilia conferma il ruolo fondamentale dell’isola per le guerre di oggi e di domani. Taormina è stata scelta, oltre che per la cornice che offriva ai grandi della terra, per ragioni squisitamente simboliche. Fu l’unica località siciliana a sfuggire alla conquista araba, perché, arroccata in alto sullo Jonio, potè godere di una posizione privilegiata.
Il dibattito sul G7 in Sicilia ha coinvolto tutte le realtà politiche e sociali isolane sin dallo scorso autunno.
Analisi simili ma divergenti strategie hanno portato ad una divaricazione di percorsi, specie nelle tappe di avvicinamento all’appuntamento, che le realtà in prima fila nella lotta contro le installazioni militari, le basi di guerra e il militarismo avrebbero voluto a Niscemi.
La scelta di convergere a Taormina non era scontata.
Per molti comunque il G7 era un fatto con cui fare i conti, utile a rinforzare la lotta conrtro la militarizzazione dell’isola, non certo una vetrina che facesse da specchio a quella più grande e lustra riservata ai potenti.
Il G7, al di là della due giorni di iniziative territoriali, è stato occasione preziosa per allargare l’informazione, nell’auspicio che possa aprirsi una nuova stagione di conflitto.

A Niscemi il 23 aprile c’era stata un’assemblea antimilitarista, il 25 maggio ci è passata la carovana migranti. Taormina è stata teatro di un’iniziativa in una piazza periferica e blindata il 13 maggio. Il 20 maggio altra iniziativa ad Augusta, cittadina sede dell’approdo della VI Flotta americana e sede di uno dei più importanti depositi militari NATO e USA.
Tre settimane prima del G7, non sono arrivati i soldi promessi dal governo ma 10.000 tra militari e varie forze di polizia. Aeroporti e coste sono stati militarizzati, moltiplicando divieti e limitazioni persino per gli abitanti, obbligati a limitazioni e badge, negozi chiusi e controlli ossessivi. Sono stati fatti numerosi fogli di via a manifestanti diretti in Sicilia.
A Taormina sono state vietate tutte le manifestazioni. Solo a Giardini Naxos è stato autorizzato un corteo.
Il 26 maggio a Giardini c’è stata un’assemblea, a Catania il “controverrtice dei popoli, con interventi di attivisti guatemaltechi, messicani, africani, oltre a relatà antirazziste, femministe, no muos. In serata presidio e corteo sino alla sede di Frontex.

Sabato 27 maggio Giardini Naxos ha un aspetto spettrale. In terra, in mare e nel cielo c’erano militari di guardia. I negozi e le scuole sono stati chiusi con ordinanza del sindaco, le vetrine sono state coperte con lamierini e truciolato, mentre tra slogan, cartelli e striscioni, sfilava il corteo dei No G7.
Gli abitanti, arroccati sui balconi e sul lungomare hanno osservato curiosi il passaggio di manifestanti, tra i due e i tremila. I mass media avevano descritto a tinte fosche il corteo per scoraggiare la partecipazione popolare.
Nonostante gli strettissimi controlli lungo le strade dell’isola e al casello autostradale di Giardini, alla fine una decina di pullman e centinaia di auto sono riusciti ad entrare nella cittadina ionica.
Il corteo ha lasciato un segno positivo con il suo passaggio su un territorio che ha subito il peso di una macchina organizzativa opprimente, che ha svuotato alberghi e ristoranti e le attività che ruotano attorno al turismo, rendendo difficile la vita degli abitanti.
A fine corteo c’è stato un breve contatto tra la testa del corteo e il blocco della celere, finito con qualche manganellata e il consueto aerosol di lacrimogeni.
Spenti i riflettori già si profilano all’orizzonte nuovi appuntamenti.
Il primo luglio a Niscemi con una nuova manifestazione nazionale contro le antenne assassine e l’occupazione militare.
Ascolta la diretta dell’info di radio Blackout con Pippo Gurrieri dei comitati No Muos.

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Alessandria. Corteo contro le cave e il terzo valico

Alessandria 27 maggio. Un migliaio di attivisti hanno attraversato il centro cittadino contro le cave di Sezzadio e di Alessandria e contro i lavori per la realizzazione della nuova linea ad alta velocità tra Alessandria e Tortona. Una linea costruita attraverso una zona ricca di amianto, con grave rischio per chi lavora e per chi vive lungo i tragitto e nei posti di conferimento dello smarino.
Folta la delegazione di cittadini e comitati della Valle Bormida, da anni in prima fila contro le nuove discariche. Discariche che la lobby del terzo valico vuole aperte in fretta perché quelle esistenti, pur lavorando a pieno regime, stanno scoppiando.
Le cave già aperte funzionano a pieno regime: nella cava “ Clara e buona” di Alessandria vengono scaricati da cento a duecento camion che viaggiano quotidianamente senza protezione.
Il Cociv e la Regione hanno fretta di approvare l’aggiornamento del Piano cave del Terzo valico per gli 11 milioni di metri cubi di roccia e terra scavate nell’Appennino.
Il piano prevede due cave in piccolo paese dell’acquese, Sezzadio. Oltre alla discarica di rifiuti industriali della Riccoboni già autorizzata dalla Provincia sulla falda acquifera, il consorzio vuole portare da 355 mila a 666 mila metri cubi di smarino nella cava di cascina Opera Pia 2.

Anche la cava di Voltaggio è arrivata al limite. 900 mila metri cubi di smarino finiranno nella cave di pianura intasando la provinciale 160 della Val Lemme con i camion, e di lì la Valle Scrivia tra Arquata e Vignole Borbera, dove sono attivi due cantieri del Terzo valico. Il Cociv intende trasportare il materiale di scavo a Cerano e Romentino nel novarese, ad Alessandria, Frugarolo, Bosco Marengo, Pozzolo, Novi.
Secondo l’Arpa il metodo utilizzato per valutare la presenza di amianto ha un margine d’errore del 98%.

La scelta della data, a dieci giorni dalle elezioni, non era delle più felici. Nel mirino di molti manifestanti era la sindaca a candidata alla rielezione al Comune di Alessandria Rita Rossa. Rossa, come presidente delle provincia ha presto accantonato ogni riserva su amianto e salute di fronte ad un piatto di 11 milioni di compensazioni.
Post disobbedienti e alcuni comitati hanno dato al corteo il sapore agre del referendum su Rossa. Per la lista pentastallata e per quella di sinistra è stata un’occasione di propaganda gratuita, che il movimento contro Tav-terzo valico e discariche avrebbe potuto e dovuto dribblare.
D’altra parte l’esperienza disastrosa della lista No Tav di Arquata, che lo scorso anno trascinò nella sua sconfitta anche i comitati di lotta, avrebbe dovuto suggerire una certa prudenza, anche a chi si fa sedurre dalle sirene istutuzionali.
Importante la presenza di uno spezzone rosso e nero, che ha portato in piazza le ragioni dell’autogestione e dell’azione diretta.

Il corteo, ampio e popolare, è stato un’occasione importante per il movimento di lotta. C’erano 30 trattori, moltissimi agricoltori. Dopo lo spezzone anarchico che era poco distante dalla testa del corteo, c’erano il sindacato di base e le associazioni ambientaliste, oltre ai comitati contro il terzo valico piemontesi e liguri e una delegazione di No Tav da Torino e Val Susa.
I comitati popolari hanno ribadito la volontà mettersi di mezzo, contro chi mette a repentaglio acqua, vita e salute, per realizzare una piattaforma logistica per la ditta Gavio. Un matrimonio di interesse tra la gomma e il ferro, tra il porto di Genova e i piazzali della logistica tortonese. Un’opera inutile e dannosa per chi vive nel basso Piemonte. Molti, lo hanno dimostrato il 27 maggio, non sono disposti a chinare la testa.

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