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Parma. Processo per stupro

Era il settembre del 2010. In piazza c’era la Festa delle Barricate, nella sede della RAF, la Rete Antifascista, una ragazza appena diciottenne viene ripetutamente violentata da più uomini.

Lei è quasi priva di coscienza. Ha bevuto qualcosa da un bicchiere. La mattina dopo si sveglia sola e nuda nella sede vuota. Si riveste, va in stazione, torna a casa.
Negli anni successivi le viene affibbiato un nomignolo. La chiamano fumogeno. Ci vorranno cinque anni perché “Claudia” capisca il perché.

Nel corso di un indagine su una bomba carta a Casa Pound i carabinieri effettuano numerose perquisizioni. Nel cellulare di un esponente dell’ormai disciolta RAF trovano un video. Il video dello stupro di gruppo di quella lontana notte di settembre.
Il video viene mostrato a Claudia. Sola, in una caserma dei carabinieri, Claudia vede un video, dove lei è oggetto inanimato. Quel video in quei lunghi cinque anni lo avevano visto in tanti a Parma.

Nessuno ha riconosciuto pubblicamente la violenza consumata sul corpo di Claudia nella sede della Raf.
Parte l’inchiesta, scattano gli arresti. In tre, Concari, Cavalca e Pucci sono accusati di stupro di gruppo, altri vengono inquisiti per favoreggiamento.

Vari settori di movimento a Parma assumono un atteggiamento omertoso e “prudente”. Molti puntano il dito su Claudia, accusata di aver fatto i nomi dei suoi stupratori. Claudia viene cacciata da molti luoghi di movimento. Un’appestata, un’infame. La violenza di quella notte la investe in altra forma.
In tribunale, come spesso accade, sul banco degli imputati ci finisce lei. La difesa dei tre uomini accusati di stupro punta a screditarla, con i modi usuali in certi processi. Claudia è una facile, una che va con tutti, una prostituta. Le sue scelte libere diventano la leva sulla quale costruire una tesi difensiva, che non riconosce dignità alle donne stuprate, che abbiano una vita sessualmente libera.
Il nodo è il consenso. Ma non in tribunale.
Claudia è sola, va al processo con l’avvocato d’ufficio.
Questa vicenda era destinata a venire dimenticata presto.
Questa volta capita qualcosa. La strada della libertà delle donne non è stata fatta invano. Claudia incontra compagne e compagni che ascoltano la sua storia e la raccontano in un documento che spezza il velo di omertà che copriva gli stupratori.
Da allora ai processi non è più sola.

Il 9 maggio, dopo mesi di sospensione, il processo è ripreso.
Un gruppo di femministe erano al tribunale per dare sostegno a Claudia. Per la prima volta i sostenitori dei tre stupratori non si fanno vedere.

In aula si consuma un’ulteriore violenza. È il turno di uno psichiatra cui la difesa dei tre uomini ha dato l’incarico di fare una perizia. Lo psichiatra parla ed ogni parola è una pietra scagliata contro Claudia. Le sue parole si incardinano sulla lettura della relazione della psicologa che segue la ragazza: lo psichiatra non ha mai parlato con lei.
Claudia è descritta come bipolare, schizzata, una che nei guai ci entra a capofitto. Una che se l’è cercata. E chi se la cerca, si sa, diventa automaticamente stuprabile.
E, soprattutto diventa poco credibile. Chi entra nel mirino della psichiatria perde la libertà di parola, perché la voce dei “matti” è sempre stonata, fuori dal coro, aliena ed alienata, priva di ragione e di ragioni.
Lo sguardo psichiatrico trasforma chi ne viene investito in persona incapace di intendere e di volere, di capire e di decidere.
Claudia lascia l’aula. Fuori ci sono compagne e compagni pronti a raccoglierne la voce e darle eco.

Anarres ne ha parlato con una delle compagne che ha redatto il documento detto delle “4 crepe”, che per primo ha dato voce a Claudia, rompendo il silenzio intorno a questa vicenda.

Ascolta qui l’approfondimento

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Tunisia. Tra crisi, rivolta sociale e jihad

Le prime elezioni municipali dopo “Rivoluzione dei gelsomini” si svolgeranno entro la fine dell’anno. Lo ha dichiarato la scorsa settimana il presidente della repubblica Beji Caid Essebsi, in discorso alla nazione, che ha toccato i principali nodi problematici emersi dalle piazze. E che ha nel mancato decentramento del potere verso le amministrazioni locali – previsto dalla nuova Costituzione – uno dei suoi nodi.

Rabbia e richieste di «pane e dignità» tornano ad infiammare le zone interne del paese, svantaggiate rispetto alla costa. Una protesta sociale simile a quella che nel 2011 partì da Sidi Bouzid per travolgere il paese e il regime di Ben Ali. Per questo Essebsi nel suo discorso ha annunciato che d’ora in poi ci sarà l’esercito a difesa dei siti industriali e delle principali fonti produttive (fosfato, petrolio, gas), spesso bloccate dalle proteste dei giovani disoccupati.
L’ordine, emanato d’intesa con il Consiglio per la sicurezza nazionale, è destinato a sollevare nuove polemiche.

A fine marzo nel governatorato di Tataouine, nel sud, alcuni giovani disoccupati hanno ostacolato le attività di diverse compagnie petrolifere bloccandone il trasporto stradale.
All’inizio di aprile il Kef, nel nord-ovest, è insorto per la chiusura di una fabbrica di cavi elettrici della società tedesca Coroplast, intenzionata a rilocalizzare la produzione ad Hammamet, lasciando a casa 430 lavoratori (in maggioranza donne). Hammamet è logisticamente meglio connessa.
Il 19 aprile i disoccupati di Jendouba, sempre nel nord-ovest, hanno manifestato domandando a gran voce una soluzione per la cronica mancanza di opportunità di impiego nella zona, mentre il 20 aprile uno sciopero generale è stato indetto a Kef.
Crescono le tensioni intorno al polo siderurgico di El Fouladh, che il governo vorrebbe cedere a investitori esteri, nonostante l’opposizione dei lavoratori.
Il 22 maggio un manifestante di 18 anni è morto in ospedale a Tataouine per le ferite riportate negli scontri con le forze dell’ordine che intendevano sgomberare i manifestanti del sit-in di El Kamour. Il giovane potrebbe essere stato investito da un’autovettura della polizia in manovra. I media locali parlano anche di altri feriti.
A Tataouine la polizia il 23 maggio ha fatto ancora ricorso all’uso di gas lacrimogeni per disperdere la folla di giovani radunati da settimane in sit-in a El Kamour per chiedere misure concrete per l’occupazione e maggiori fondi per lo sviluppo regionale. Una parte dei manifestanti ha accettato nei giorni scorsi le misure proposte dal governo, un’altra parte ha invece deciso di proseguire nelle rivendicazioni.

Il vento della Jihad
Sempre più forti sono invece i segnali di un’offensiva islamista dal sud che spaccherebbe in due il paese, portandolo alla guerra civile.
Sono 27.371 i tunisini aspiranti jihadisti cui le autorità del Paese hanno impedito di raggiungere i territori di combattimento. Lo ha affermato il 20 aprile il ministro dell’Interno di Tunisi, Hedi Mejboub, durante un’audizione al Parlamento del Bardo precisando che dei 3.000 jihadisti di nazionalità tunisina che si trovano ancora nelle zone di conflitto, il 60% è in Siria, il 30% in Libia e il restante 10% disperso in altri paesi. Il 96% di questi combattenti è rappresentato da uomini di età compresa tra i 24 e i 35 anni.

Per quanto riguarda invece i foreign fighters di ritorno Mejdoub ha sottolineato che degli 800 ufficialmente tornati in Tunisia, 190 si trovano attualmente in carcere, 37 in libertà controllata mentre 55 sono stati uccisi dalle forze dell’ordine durante azioni di guerra in Tunisia.

La Tunisia è il paese da cui è partito il maggior numero di combattenti della jihad: è più che un’ipotesi la tesi che, specie al sud le tensioni sociali possano incanalarsi nella guerra santa.

Ascolta l’intervista dell’info di radio Blackout a Karim Metref, blogger, insegnante, scrittore di origine kabila.

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La vendetta della Procura. Perquisiti quattro anarchici per la solidarietà a Laura

Nella notte tra venerdì e sabato la Digos ha perquisito le abitazioni di quattro compagni e compagne della Federazione Anarchica Torinese. Sono stati sequestrati cellulari, computer, abiti.
Le perquisizioni sono state disposte dal PM Rinaudo, che sta indagando per diffamazione e imbrattamento. Nel mirino di Rinaudo le scritte comparse a fine marzo in solidarietà a “Laura”, una donna stuprata due volte, la prima da un collega di lavoro, Massimo Raccuia, la seconda dal tribunale che lo ha assolto. Un collegio di sole donne, presieduto dalla giudice Diamante Minucci, ha stabilito che Laura non è credibile. Non è credibile perché ha detto solo “no”, “no, basta”, per fermare l’uomo che la stuprava. Per il tribunale di Torino dire “Basta” non è sufficiente. La donna stuprata deve avere sul corpo i segni della violenza, deve urlare, deve essere disposta a morire per essere creduta.
Sono passati vent’anni da quando venne cambiata la legge che considerava lo stupro un “delitto contro la morale”. Lo stupratore non faceva violenza ad una donna, ma al suo “onore” e a quello di tutti i suoi parenti maschi. Nel 1996, dopo decenni di manifestazioni femministe, la violenza sessuale venne ascritta ai “delitti contro la persona”.
Tutto cambiava ma molto rimase come prima. In tanti, troppi processi la donna stuprata siede sul banco degli imputati: la sua vita viene messa a nudo nelle aule dei tribunali. La sua parola non basta. Non basta mai. Il discrimine ovvio, quello del consenso, viene costantemente messo in dubbio. La cultura patriarcale continua a celebrare i propri fasti nei sacrari della giustizia di Stato.

La sentenza di assoluzione di Massimo Raccuia ha suscitato ampia indignazione in tutta Italia.
Tante le manifestazioni di solidarietà a Laura, culminate nella giornata di lotta del 12 aprile, quando, in tantissime città si sono tenuti presidi di fronte ai tribunali.

Le scritte comparse davanti al tribunale di Torino e alla sede della Croce Rossa di via Bologna hanno ripetuto quanto veniva scritto e detto in tante piazze della penisola: “La giudice Minucci protegge chi stupra”, “Raccuia stupratore”.
La storia di Laura è simile a tante altre. Raccuia aveva una buona posizione in Croce Rossa, Laura all’epoca era una precaria, già vittima di violenze durante l”infanzia. Nel nostro paese una donna su tre ha subito molestie o stupri. I violenti giocano sulla paura, sul ricatto del lavoro, dei figli, sulla minaccia di altri, peggiori, soprusi, umiliazioni.
Lo stupro non ha nulla a che fare con la sessualità, la violenza contro le donne, la violenza di genere è esercizio di potere, è la reazione della cultura patriarcale alla libertà che le donne si sono prese, pezzo dopo pezzo. Anche a costo della vita.
“Lo stupratore non è un malato ma il figlio sano del patriarcato” era scritto su uno dei cartelli esposti al tribunale di Torino dalla Rete Non Una di Meno.
La cultura dello stupro si alimenta di sentenze come quella di Diamante Minucci, che ha disposto la trasmissione degli atti alla Procura di Torino, perché proceda per calunnia nei confronti di Laura, la donna violentata da Raccuia. Un’ulteriore violenza.
Le scritte al tribunale e alla Croce Rossa sono state rivendicate dal gruppo anarco-femminista “Emma Goldman” con un comunicato pubblicato su Indymedia Barcellona.
Non possiamo non condividerne le conclusioni.
“Stupratori e giudici ci vorrebbero spaventate e piegate, ma la nostra forza è nella solidarietà, nel mutuo appoggio, nella denuncia di violenze e abusi sui muri della città, nei posti dove viviamo, dove lavoriamo, dove studiamo, dove camminiamo, dove ci divertiamo.
Impariamo a riconoscerci, per lottare insieme contro chi ci vuole vittime e indifese.
Non lo siamo. Abbiamo imparato ad autodifenderci. Le nostre vite valgono.”

Come altre volte la sentenza di assoluzione di uno stupratore poteva restare un trafiletto in cronaca. Le scritte al tribunale hanno rotto il silenzio, dando un segnale forte e chiaro alla giudice Minucci e all’intero apparato giudiziario di Torino.
La sacralità del tribunale è stata infranta: per questa ragione sono scattate perquisizioni e sequestri per qualche scritta su un muro.
In piena sintonia con il “nuovo corso” inaugurato dal governo Gentiloni con le leggi sulla sicurezza urbana.

Il PM Rinaudo ci accusa di imbrattamento e diffamazione. Nel decreto di perquisizione si legge che siamo stati scelti perché anarchici attivi nella rete femminista Non Una di Meno.
Inutile negarlo. Siamo anarchici, anarchiche, femminist*.

Quelle scritte, chiunque le abbia tracciate sul muro, le ha fatte anche a nome nostro.

I compagni e le compagne della Federazione Anarchica Torinese

Leggi il comunicato della Commissione di Corrispondenza della FAI

Il comunicato della rete Non Una di Meno Torino

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Marcia No Tav. Il futuro non si delega!

Sabato 6 maggio il movimento No Tav ha promosso una grande marcia da Bussoleno a San Didero.
Appuntamento ore 12 alla stazione di Bussoleno

Uno spezzone anarchico parteciperà alla marcia con lo striscione “Il futuro non si delega! Azione diretta autogestione”.

Il governo vuole, costi quel che costi, imporre con la forza la realizzazione di una nuova linea ferroviaria inutile, costosissima, nociva per la salute e il territorio.

In ballo c’è molto più di un treno. In ballo c’è la necessità di piegare e disciplinare un movimento che ha saputo resistere e lottare per 25 anni. Nel 2005 un’insurrezione popolare fermò un progetto ormai entrato nella fase esecutiva. Nel 2011, dopo anni di melina, consapevole di aver riportato all’ovile solo il leader istituzionale del movimento, il governo decise di usare nuovamente la forza. La realizzazione di un’opera accessoria, un tunnel di sei chilometri e mezzo a Chiomonte, è costato processi, condanne, ossa spezzate.

Un migliaio di persone sono state inquisite, processate e condannate, per aver partecipato attivamente ad un movimento che non ha mai voluto avere un mero ruolo testimoniale.

Oggi l’eco mediatica intorno al movimento No Tav si è spenta.
Non per caso.
Il momento è cruciale. A gennaio il parlamento italiano ha ratificato il trattato con la Francia sulla Torino Lyon, il CIPE ha approvato il progetto definitivo della tratta internazionale, sono partiti gli espropri e le procedure preliminari per l’inizio dei lavori in Bassa Valle, a Bussoleno, Susa, San Didero e Bruzolo.

La realizzazione della nuova linea ad alta velocità ferroviaria, che consegnerà la Val Susa al destino di corridoio logistico per le merci è ormai giunto al momento dell’apertura dei cantieri.

Cantieri enormi che modificheranno per sempre la vita degli abitanti, mettendo a repentaglio la salute di tutti. Camion carichi di smarino e polveri d’amianto percorreranno la valle a est come a ovest, il dispositivo militare oggi presente solo a Chiomonte investirà anche zone densamente abitate. La perdita di falde acquifere sarà inevitabile e irreversibile.
La lucida profezia fatta 25 anni fa dal movimento No Tav rischia di trasformarsi in dura realtà.

Il governo sta provando a logorarci. Fa conto sulla rassegnazione, sulla difficoltà a fermare cantieri difesi da esercito, polizia, carabinieri blindati.
La ferita nella montagna di Chiomonte è aperta a fa male.
Il movimento No Tav ha sulle spalle il peso della speranza che ha rappresentato per tanta gente di ogni dove.
Il rischio è l’usura dei sentimenti, anestesia del tempo che trascorre, il ripetersi dei passi già fatti, dei sentieri che conducono là dove la ferita si allarga. Forte è tuttavia l’orgoglio di esserci, di tenere duro, di continuare a dare del filo da torcere ai nostri avversari.
Il grande tunnel lo faranno scavando dentro la montagna, partendo dalla galleria di Chiomonte. Una scelta costosa e rischiosa. Una scelta dettata dalla paura di aprire subito un grande cantiere a Susa. Il segno chiaro che, nonostante le dichiarazioni di vittoria, il governo continua a temere il movimento No Tav.

L’imposizione violenta dei nuovi cantieri non è l’unico pericolo. Il pericolo maggiore è l’illusione della delega, la seduzione a 5Stelle che ha colpito tanta parte di un movimento, che pure è consapevole, che la strada percorsa sinora è stata fatta appoggiandosi saldamente sulle due gambe di tutti.

L’azione repressiva lungi dal dividere il movimento lo ha rinforzato nell’azione solidale, nell’appoggio ai carcerati, ai condannati. Ma ha scavato nel profondo. Non si sono scalfite le convinzioni, si è tuttavia allargata la distanza tra chi fa e chi applaude, ri-aprendo la strada a percorsi istituzionali e di delega.

La delega istituzionale rilegittima la macchina di chi si arroga il diritto di decidere per noi, di chi giocherà la sua partita ad un tavolo dove il banco vince sempre e prende tutto. Per prima la nostra libertà.

Troppe volte la febbre elettorale ha attraversato la Val Susa assorbendo energie enormi, sottratte alla quotidianità della lotta.

Qualche crepa comincia a vedersi. La “sindaca No Tav” di Torino ha preso le distanze dai “pochi violenti” giustificando così le violente cariche contro gli spezzoni degli anarchici, dei centri sociali e dei No Tav al corteo del Primo Maggio.
Lo stesso giorno si era congratulata con il PM Rinaudo e con la polizia per gli arresti di sei anarchici attivi nelle lotte a Torino e in Valle. Lo stesso Rinaudo protagonista di tante inchieste contro i No Tav.
Le parole di Appendino sono destinate a lasciare il segno.
Troppe volte politici “amici” le hanno usate per spingere alla rinuncia ad ogni resistenza attiva.

Tante volte la grande favola della democrazia si è sciolta come neve al sole. Ogni volta che libertà, solidarietà, uguaglianza vengono intese e praticate nella loro costitutiva, radicale alterità con un assetto sociale basato sul dominio, la diseguaglianza, lo sfruttamento, la competizione più feroce, la democrazia mostra il suo vero volto.
La democrazia reale ammette il dissenso, purché resti opinione ineffettuale, mero esercizio di eloquenza, semplice gioco di parola. Se il dissenso diviene attivo, se si fa azione diretta, se rischia di far saltare le regole di un gioco feroce, la democrazia si fa discorso del potere che nega legittimità ad ogni parola altra. Ad ogni ordine che spezzi quello attuale.

È importante che la memoria non vacilli: i No Tav hanno sostenuto ed appoggiato la pratica dell’azione diretta contro il cantiere e le ditte collaborazioniste, i blocchi delle strade e delle ferrovie, lo sciopero generale, le grandi marce e i sabotaggi.
Fermare il Tav, costringere il governo a tornare su una decisione mai condivisa dalla popolazione locale è la ragion d’essere del movimento No Tav.
L’8 dicembre 2005 fu il culmine della rivolta contro il TAV. Ma già allora non era c’era in ballo molto di più: la libertà e la dignità di chi non tollerava l’imposizione con la forza di una scelta non condivisa.
Nessuno lo pianificò ma accadde. I primi a stupirci fummo noi. Le barricate, i tronchi in mezzo alla strada, il blocco delle strade furono la risposta all’occupazione militare.
La Valle divenne ingovernabile.
La Valle deve tornare ad essere ingovernabile.

Lunghi anni di azione diretta, confronto orizzontale, costruzione di percorsi decisionali condivisi sono stati una straordinaria palestra di libertà. Tutti noi portiamo nei nostri cuori, nella memoria viva del nostro movimento Venaus e la Maddalena. Libere Rebubbliche, vere comuni libertarie, dove la gerarchia si è spezzata facendo vivere un tempo altro.

Il futuro non si delega: oggi come allora solo l’azione diretta, senza passi indietro, può creare le condizioni per fermare ancora una volta la corsa folle, di chi antepone il profitto alla vita e alla libertà di tutti.

Vi aspettiamo numerosi.

I compagni e le compagne della Federazione Anarchica Torinese

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Torino. Primo Maggio al manganello

Piove a dirotto. La piazza del Primo Maggio si stringe sotto ai portici, si affolla al bar. I compagni lavorano alacremente per allestire il camion per lo spezzone anarchico. Un uomo ci dice. “Piove, ma sono qui lo stesso. Che ci facevo a casa? Ho 54 anni e ho perso il lavoro. Un altro posto non lo trovo più. Per me è finita.” La piccola storia di uno è lo specchio del nostro vivere sempre più gramo. Due giorni dopo sui quotidiani i dati Istat sulla disoccupazione segnalano una lieve riduzione della disoccupazione giovanile nella fascia tra i 18 e 24 anni, mentre si allarga la schiera dei disoccupati ultracinquantenni. È la fine di una parabola iniziata decenni fa. Quando la precarietà diventa l’orizzonte normale, i dinosauri della stagione delle tutele e dei diritti vengono spremuti e gettati via, i giovani educati sin dalla scuola alla flessibilità, campano di “lavoretti” ed escono dalle statistiche. In ogni caso oltre il 34 % dei giovani che lo cercano, non trovano un lavoro. Chi lo trova sente ogni giorno il sapore amaro della servitù salariata, grazie ad un ordine sociale dove le nostre vite non valgono nulla.
Sempre più uomini e donne sono diventati vuoti a perdere e lo resteranno. Non servono, sono eccedenze inutili. Scarti.

La piazza non si riempie, quelli del PD temono contestazioni e non si fanno nemmeno vedere, si piazzano avanti.
Nei fatti la frattura simbolica e reale è netta. Sindacati di Stato, il PD e poco altro in testa, dietro lo spezzone di post-autonomi e post-disobba, poi quello anarchico e gli striscioni della diaspora rifondata.

Il corteo avanza veloce. Tanta pioggia, poca gente. Quando la parte finale del corteo raggiunge via Roma la Questura schiera l’antisommossa. In piazza San Carlo i comizi sono appena cominciati, i settori più radicali del corteo non devono entrare in piazza.
La polizia carica quattro volte. Teste e braccia rotte, lividi e contusioni. Tre manifestanti sono fermati e condotti in Questura, da dove saranno rilasciati in serata.
Dopo le cariche il corteo si ricompatta e raggiunge la piazza deserta e spazzata dalla pioggia. Le immagini delle cariche attraversano il web. Nel pomeriggio un paio di consiglieri pentastellati parlano di cariche ingiustificate. La sindaca Appendino il tre maggio “condanna le violenze”, con un discorso triste e legalitario che non accontenta nessuno. Appendino è stata eletta drenando molti voti a destra e a sinistra. Deve pagare dazio a tutto il proprio elettorato senza perdere troppi consensi. Vorrebbe essere la sindaca di tutti, dalla polizia agli antagonisti.
In quest’occasione, dopo le dichiarazioni della consigliera a 5Stelle Daniela Albano che chiedeva che fosse vietata ai sindacati la manifestazione dell’anno prossimo, Appendino ha concesso ben poco, stigmatizzando le “violenze di pochi” che avrebbero impedito alla maggioranza pacifica di manifestare il proprio dissenso.
Un’operazione di fine equilibrismo politico che finora le è riuscita abbastanza bene, anche se è lecito supporre che qualche malumore serpeggi nel sottobosco che circonda la politica di palazzo.
Una desolante pantomima di fronte alla violenza che il ministero dell’Interno e i suoi bracci armati scatenano ogni anno a Torino, per pacificare la piazza, per far sì che la storia cominciata ad Haymarket nel 1886 venga sepolta e dimenticata. Il segretario della CISL-FIM Chiarle vorrebbe trasformare il primo maggio in una festa di paese, con salsicce alla brace, stand e musica.
Non ci preoccupa. Se i sindacati di Stato e i partiti istituzionali abbandoneranno la piazza, sapremo riempirla con un altro Primo Maggio di lotta e sciopero generale.
Lo spezzone anarchico quest’anno è sceso in piazza “per un mondo senza servi né padroni per un Primo Maggio di lotta nel Luna Park a 5 Stelle”.
Sul furgone erano appesi due striscioni “Stop deportazioni” e “Cgil, Cisl, Uil nemici dei lavoratori”. In apertura lo striscione “Contro Stato e padroni azione diretta”
Segnali forti e chiari per sindacati di Stato, governo del paese e della città.

Nessuno stupore che la polizia abbia fermato e poi caricato il corteo, nessuno stupore che sindacati di Stato, PD e amministrazione comunale volessero impedirci di attraversare con le nostre voci e i nostri corpi la piazza del Primo Maggio.
Abbiamo resistito, ci siamo ricompattati dopo le cariche, abbiamo finito il corteo.
Ma la nostra giornata non è finita lì.
Abbiamo raggiunto Milano, piazzale Loreto, dove abbiamo partecipato alla manifestazione organizzata da sindacati di base, anarchici, centri sociali, che ha attraversato la periferia. Alcune migliaia di lavoratori hanno risposto all’appello per un corteo anticapitalista, internazionalista.
Anche a Milano piove a dirotto. Il corteo che attraversa la zona tra via Padova e viale Monza è vivace e combattivo.
C’erano i lavoratori della logistica, dei servizi, della sanità, dei trasporti che hanno scelto la strada dell’autorganizzazione e della lotta.
Una piazza ben diversa da quella del mattino a Milano, dove sindacati di stato e partiti governativi, sono stati lo specchio di un ceto burocratico, che, ormai inutile persino a sopire le lotte, è divenuto totalmente dipendente dai finanziamenti statali.
Nelle strade dell’immigrazione milanese si sono udite le voci di chi fa picchetti e rischia, di chi non piega la testa, di chi ha scelto la lotta quotidiana.

Noi sfiliamo con lo striscione “Daspo urbano, fogli di via, il fascismo ha il volto della democrazia” all’interno dello spezzone della Federazione Anarchica Milanese, che per prima ha lanciato l’appello per il corteo.

In serata i fattorini di Deliveroo di Torino, in turno e fuori turno, si collegano alla centrale e, uno dopo l’altro, rifiutano le corse. Intorno alle 20,30 sul sito di Deliveroo appare l’annuncio della sospensione del servizio. Tutto bloccato, nessuna consegna. Da tempo in lotta per ottenere tutti un minimo di ore lavorate e per decidere i propri turni, i rider sono riusciti ad inceppare la macchina, a scioperare.
Un buon sapore di Primo Maggio anche a Torino.
Nonostante la cura al manganello la mattina siamo arrivati nella piazza del Primo Maggio, nel segno della lotta per un mondo senza Stati, padroni, eserciti, frontiere.
E continueremo a farlo.

i compagni e le compagne della federazione anarchica torinese

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Muri invisibili. Quando il decoro diventa sicurezza

“Ritenuta la straordinaria necessità ed urgenza di introdurre strumenti volti a rafforzare la sicurezza delle città e la vivibilità dei territori e di promuovere interventi volti al mantenimento del decoro urbano”

Il decreto legge sulla sicurezza urbana del ministro dell’Interno Minniti comincia così.
Ogni parola ricalca la logica con cui da quarant’anni in Italia vengono affrontate le questioni sociali e i movimenti di lotta anti istituzionali.
Tutto è racchiuso nei tre termini chiave dell’incipit, sapientemente incardinati gli uni negli altri per rendere indispensabili, indifferibili, immodificabili le nuove norme.
“Straordinaria necessità ed urgenza”.
Siamo in costante stato di emergenza, pressati da urgenze e necessità che urlano. Urlano sulle pagine dei quotidiani del governo e delle opposizioni.
L’emergenza ha giustificato, governo dopo governo, misure repressive che hanno allargato la linea di cesura tra le classi, eretto muri, trasformato il Mediterraneo in un cimitero di guerra.
Poveri, immigrati, senza casa, profughi sono nel mirino. È la loro stessa esistenza ad essere messa in discussione.

L’Italia non è l’Africa, né gli Stati Uniti. I poveri non vivono in ghetti e slum separati, lontani dal centro, dai mezzi di comunicazione, controllabili da apparati polizieschi che sorvegliano che nessuno si avventuri fuori. Distanza, mancanza di mezzi pubblici o privati, persino barriere fisiche separano il mondo di sopra da quello di sotto. Cosa succeda lì non importa a nessuno. Gli scarti, gli inutili, quelli che vivono sul margine e “del” margine, sono stipati in aree che sono enormi discariche umane. In certe megalopoli africane o asiatiche la discarica è ben più di una metafora, è il luogo dove sorgono le baracche, costruite con i rifiuti da gente che vive di rifiuti.
In Italia campano di raccolta, riuso e vendita di rifiuti solo i rom rumeni e slavi.
I braccianti stagionali immigrati delle nostre campagne abitano in ghetti tra tende, plasticoni e accrocchi di lamiera.
Gli altri poveri, quelli delle città, italiani ed immigrati, stanno accanto ai meno poveri, non lontani dai ricchi.

I nuovi poveri
La povertà sta aggredendo anche chi, sino ad un paio di decenni fa, credeva di essere al sicuro. Casa di proprietà, lavoro, pensione, qualche soldo da parte, i figli all’università. Oggi tante delle certezze che facevano sentire al riparo il piccolo ceto medio sono scomparse, frantumate. Il futuro non è più quello di una volta.
In questi settori pesca a mani nude la destra sociale nelle sue varie incarnazioni, da quelle più brutali a quelle più paludate. A fare il miglior raccolto sono i pentastellati, che mescolano la retorica partecipativa con le seduzioni di una leadership carismatica puntellata da un pizzico di partito/azienda ereditario.
Tra bancarellari e tassisti, piccoli commercianti e impiegati alligna l’illusione che sicurezza e decoro siano due facce della medesima medaglia.
A Torino la sindaca a Cinquestelle ha promesso ai comitati spontanei di quartiere, tutti o quasi promossi dall’estrema destra xenofoba e razzista, la possibilità di cogestire le scelte sul decoro delle periferie. In cambio i comitati dovranno reperire i fondi necessari per la manutenzione degli spazi pubblici. Va da se che al decoro potrebbe contribuire una certa pulizia etnica e sociale.
Anche in periferia lo spazio pubblico ambisce a diventare vetrina, per affrontare le sfide di una città che si candida a snodo nevralgico in un reticolo di strade, commerci reali e virtuali dove il successo dipende dalla capacità di attrarre eventi, centri direzionali, spazi espositivi. La concorrenza è spietata e le pulizie vanno fatte in fretta.
Avviene a Torino, una città che, senza rottura di continuità, dopo decenni di governo di centro-sinistra, è oggi targata 5 stelle. La ridefinizione dello spazio urbano per una sua messa a valore che escluda la povertà è una scelta che oltrepassa i confini del capoluogo piemontese.

Smaltire le eccedenze
I decreti sicurezza di Minniti hanno inaugurato la campagna elettorale del PD contro Lega e 5 Stelle, ma sarebbe miope non cogliere che la partita elettorale è solo un tassello nel mosaico del governo.
Il disegno sotteso alle norme sulla sicurezza urbana, ha un chiaro valore strategico.
Isolare, allontanare, ghettizzare i poveri implica la presa d’atto che un numero crescente di esseri umani sono vuoti a perdere, non riciclabili, né riassorbibili.
Per chi non ha in tasca un passaporto della Repubblica Italiana ed è privo di permesso di soggiorno Minniti ha solo affinato le tecniche elaborate nei decenni dai suoi predecessori. Nuove galere amministrative, accordi per respingimenti ed espulsioni, riduzione secca degli scarni diritti dei richiedenti asilo. Minniti ha dato un tocco di classe, introducendo il lavoro non retribuito per i profughi.
Il governo, che taglia i fondi per la sanità, la scuola, il trasporto pubblico, offre ai sindaci e ai prefetti strumenti che non miglioreranno le liste di attesa negli ospedali, né aumenteranno le corse di tram e bus, ma potrebbero far crescere la sicurezza percepita dai ceti medi impoveriti, che si sono accorti che la rete sospesa sotto il trapezio delle loro vite è stata tagliata.
Non potendo fugare lo spettro della povertà viene loro offerta la possibilità di allontanare i più poveri da stazioni, aeroporti, case occupate, giardini pubblici.
Difficile sopravvivere per chi fa accattonaggio o piccoli commerci, se viene imposto il divieto di usare gli spazi urbani e di muoversi liberamente.

Diritto amministrativo del nemico
I poveri vanno puniti perché sono poveri.
I giovani dei quartieri popolari, i disoccupati, i mendicanti, i senzatetto, i migranti vanno allontanati, nascosti, privati delle loro risibili libertà e diritti. Continued…

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25 aprile. Il filo delle lotte

Nello spazio urbano le tracce del passato sono anche snodi di una memoria che si alimenta grazie alle lotte che ri-attaversano le strade, le piazze, i posti dove si lavora, si studia, ci si incontra per fare nulla.
Oggi la spalletta del ponticello su un canale ormai interrato da decenni è naturale luogo di incontro per i nuovi abitanti del quartiere, che si affacciano curiosi ogni 25 aprile, quando gli anarchici della FAT si ritrovano per intrecciare i fili rossi e neri che legano le lotte di ieri a quelle di oggi.
La sera precedente una veloce contestazione alla fiaccolata istituzionale ha messo al centro la campagna di lotta al fascismo che ritorna nelle leggi sulla sicurezza urbana e i migranti.
Un anziano senegalese si avvicina e chiede della storia della città dove vive da qualche tempo, dopo lunghi anni in Lombardia. Si parla dell’Italia e della memoria che non c’è, quella di un colonialismo feroce. Lui racconta della Franc’Afrique e ci offre una memoria in grigio, mentre parla del padre, che ha combattuto per difendere dai nazisti la Francia, sebbene desiderasse la fine della dominazione della Republique.
Si avvicina a osserva la lapide che ricorda il partigiano Ilio Baroni, operaio alle ferriere, morto lì combattendo i nazisti. Ci saluta dicendo che vuole saperne di più, passerà a trovarci.
La gente prende e legge i volantini.
Siamo in tanti. Poi una giovane compagna ricostruisce la storia di Baroni, la giovinezza in Toscana, le persecuzioni dei fascisti, l’approdo in Barriera, l’attività clandestina, il confino, la lotta partigiana, i sabotaggi e gli scioperi, il giorno dell’insurrezione. Una compagna più anziana parla dell’oggi, della vita grama, delle lotte che, oggi come allora, attraversano il quartiere.
La memoria è cosa viva finché resta qualcuno che la fa propria. Ogni anno in quest’angolo di Barriera si rinnova un impegno di lotta che ciascuno deve a se stesso, a chi c’era prima e a chi ci sarà dopo.

Qui il volantino distribuito in piazza

Il sabato successivo gli anarchici della FAT sono al Balon contro il Daspo urbano, le deportazioni, i morti in mare. Qui puoi vedere qualche foto

Il sabato precedente erano al corteo antifascista che da piazza Graf ha raggiunto il Valentino. Qui qualche immagine

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25 aprile. Oggi come ieri: per un mondo senza stati, eserciti, padroni

Ilio Baroni, operaio toscano emigrato a Torino negli anni venti, era comandante della VII brigata Sap delle Ferriere.
Le Sap, Squadre di Azione Patriottica sabotavano la produzione, diffondevano clandestinamente volantini antifascisti e si preparavano all’insurrezione. Molti, tra il ’43 e il ’45, sono stati arrestati, torturati, fucilati o deportati. Ilio, nome di battaglia ”il Moro”, è protagonista di azioni di guerriglia.
Il 25 aprile 1945 Torino è paralizzata dallo sciopero generale, scoppia l’insurrezione, la città diventa in breve un campo di battaglia.
Baroni e i suoi attaccano la stazione Dora e si guadagnano un successo. Giunge una richiesta d’aiuto dalla Grandi Motori. Il Moro non esita ad aiutare i compagni nel mezzo di una battaglia furiosa, e cade sotto il fuoco. È il 26 aprile.
Ilio Baroni non potrà vedere il momento per cui ha lottato duramente tutta la vita…

Ma il fascismo non è morto il quell’aprile…
Sfruttamento, lavori precari e pericolosi, morti in mare, leggi razziste, militari per le strade, guerra sono i tasselli del puzzle che disegna il nostro vivere. Oggi come nel 1945 la democrazia è un’illusione di libertà e giustizia, che somiglia sempre più al fascismo.
Anche quest’anno il 25 aprile ci incontriamo alla lapide di Ilio Baroni, lì nel posto dove è caduto combattendo. La pietra che lo ricorda è nel centro del quartiere operaio di Barriera di Milano, all’angolo tra corso Giulio e corso Novara.
Oggi rimane solo un pezzo di muro con la pietra, il nome, la foto scolorita.
Sino ad una trentina di anni fa quel muro era la spalletta di un ponte su un piccolo canale.
Era una zona di fabbriche ed un borgo di operai. Operai combattivi, gli stessi dell’insurrezione contro la guerra e il carovita del 1917, quelli dell’occupazione delle fabbriche, della resistenza al fascismo, gli anarchici che durante gli anni più bui della dittatura mantennero in piedi un gruppo clandestino, la gente degli scioperi del marzo ’43.
Oggi sono quasi del tutto scomparsi anche i ruderi di quelle fabbriche. Delle ferriere, dove lavorava Baroni, restano solo gli imponenti travoni di acciaio in mezzo ad un improbabile parco urbano tra ipermercati e multisale.
Il cuore del quartiere è cambiato. La Barriera aveva resistito agli anni dell’immigrazione dal sud, facendosi teatro di grandi lotte tra fabbrica, scuola, quartiere, eludendo il rischio della guerra tra poveri e del razzismo per costruire un orizzonte comune tra gli sfruttati, gli oppressi. Quegli anni ormai trascolorano nella memoria di chi li ha vissuti, come un’avventura ricca di promesse. Promesse mai mantenute, perché troppa era la fiducia nell’illusione che il partito comunista potesse prendere il potere e cambiare tutto. Gli eredi di quella storia, affogata nei gulag staliniani, impallidita nelle coop rosse diventate imprese come tante, oggi governano il paese in nome del liberismo e all’insegna del manganello.
La gente delle periferie sente in bocca il sapore agre di una vita sempre più precaria.
Oggi vivere qui è più difficile che in passato: non è solo questione dei soldi che mancano e del lavoro che non c’è, e, se c’è è sempre più nero, pericoloso, precario. C’è un disagio diffuso che non sempre si fa percorso di lotta, ci sono fascisti, leghisti e comitati spontanei, che soffiano sul fuoco cercando di alimentare la guerra tra poveri, puntando il dito contro i tanti immigrati africani, magrebini, cinesi, rumeni, peruviani che ci abitano.
Il governo della città è stato per decenni nelle mani degli eredi di Togliatti, il comunista che ha graziato i fascisti, i repubblichini torturatori ed assassini, e seppellito in galera gli anarchici che hanno combattuto il fascismo prima e dopo le date ufficiali della resistenza. Gli stessi che hanno imbalsamato la Resistenza, rinchiudendola in una teca avvolta nel tricolore.
Oggi governano i Cinque Stelle. Bisognava che tutto cambiasse perché ogni cosa restasse come prima. La nuova sindaca è apprezzata dalle banche e dai padroni. Qualcuno ha creduto alle sue promesse di partecipazione, ma sta scoprendo che per i poveri non è cambiato nulla. La sindaca a Cinquestelle ha promesso ai comitati spontanei di quartiere, tutti o quasi promossi dall’estrema destra xenofoba e razzista, la possibilità di cogestire le scelte sul decoro delle periferie. In cambio i comitati dovranno reperire i fondi necessari per la manutenzione degli spazi pubblici. L’idea di decoro dei 5Stelle è identica a quella del governo Gentiloni, che ha fatto una legge sulla sicurezza urbana, che prevede il daspo, il divieto ai poveri di vivere in certi quartieri.

Torino si è trasformata da città dell’auto a vetrina di grandi eventi, un grande Luna Park per turisti, mentre le periferie sono in bilico tra riqualificazioni escludenti e un parco giochi per carabinieri, alpini e poliziotti.
Da qualche anno il vento sta cambiando anche se per ora è solo una brezza lieve.
Noi ogni 25 aprile ci ritroviamo alla lapide: si parla, si brinda, si chiacchiera con chi passa. Non è solo una commemorazione. È la scelta tenace per i tanti di noi che in questo quartiere sono nati e continuano a vivere, di alimentare il venticello che segnala il mutare dei tempi.
Annodiamo i fili della memoria di ieri con le lotte di oggi.
Le lotte che vedono in prima fila altri partigiani, quelli che si battono contro i militari nelle strade, che lottano contro i padroni che si fanno ricchi su chi lavora, che cercano di impedire sfratti e deportazioni, che vanno in strada contro il razzismo e il fascismo.
Oggi come allora i partigiani sono trattati da banditi, terroristi, delinquenti. Oggi come allora la gente delle periferie sta imparando da che parte stare.
I partigiani di Barriera in quel lontano aprile hanno combattuto perché volevano un mondo libero, senza schiavitù salariata.
Il loro sogno continua ogni giorno nella lotta per una società di liberi ed eguali. Senza Stato né padroni.

federazione anarchica torinese
corso palermo 46 – riunioni- aperte agli interessati – ogni giovedì alle 21

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Torino. Contestazione alla fiaccolata del 25 aprile

La sindaca penta stellata Appendino e il governatore democratico Chiamparino hanno aperto la fiaccolata istituzionale del 25 aprile. Quest’anno i No Tav più moderati si sono accodati al corteo, paghi della formale opposizione all’opera della sindaca, del “vorrei ma non posso”.
Un gruppo di anarchici ha aperto uno striscione di fronte al corteo che sfilava, con la scritta “Daspo urbano, fogli di via. Il fascismo ha il volto della democrazia”.

Di seguito il volantino distribuito al corteo.
Il 25 aprile del 1945 Torino insorse. Nelle periferie si combatteva contro la dittatura e l’occupazione militare, per farla finita con i padroni e chi li serviva.
Gli operai delle fabbriche torinesi misero in gioco la vita perché i loro pronipoti non dovessero fare i conti con sfruttamento selvaggio, disoccupazione, precarietà.
I volontari delle Sap non protessero gli stabilimenti per riconsegnarli ai padroni. A decine morirono combattendo strada per strada per impedire ai fascisti e ai nazisti in ritirata di farli saltare. Il loro sogno lo stringevano tra le mani: le fabbriche, come nel 1920, erano di chi ci lavorava.

Oggi come nel 1945 in questa città, capitale degli sfratti e della disoccupazione, la democrazia è un’illusione di libertà e giustizia, che somiglia sempre più al fascismo.
Sfruttamento, lavori precari e pericolosi, morti in mare, leggi razziste, militari per le strade, guerra sono i tasselli del puzzle che disegna il nostro vivere.
La gente delle periferie sente in bocca il sapore agre di una vita sempre più precaria.
Il governo della città è stato per decenni nelle mani degli eredi di Togliatti, il comunista che ha graziato i fascisti, i repubblichini torturatori ed assassini, e seppellito in galera tanti partigiani. Sono gli stessi che hanno imbalsamato la Resistenza, rinchiudendola in una teca avvolta nel tricolore.
Oggi governano i Cinque Stelle. Bisognava che tutto cambiasse perché ogni cosa restasse come prima. La nuova sindaca è apprezzata dalle banche e dai padroni.
Appendino sta imitando Fassino, facendo la guerra ai rom delle baracche lungo la Stura.
Qualcuno ha creduto alle sue promesse di partecipazione, ma sta scoprendo che per i poveri non è cambiato nulla. La sindaca a Cinquestelle ha promesso ai comitati spontanei di quartiere, tutti o quasi promossi dall’estrema destra xenofoba e razzista, la possibilità di cogestire le scelte sul decoro delle periferie.
Torino si è trasformata da città dell’auto a vetrina di grandi eventi, un grande Luna Park per turisti, mentre le periferie sono in bilico tra riqualificazioni escludenti e un parco giochi per carabinieri, alpini e poliziotti.

L’idea di decoro dei 5Stelle è identica a quella del governo Gentiloni, che ha fatto una legge sulla sicurezza urbana, che prevede il daspo, il divieto ai poveri di vivere in certi quartieri. Le nuove leggi scrivono un nuovo capitolo della guerra ai poveri.
Hai perso la casa, vivi in strada, ti arrangi con qualche lavoretto? Cerchi riparo alla stazione, ti siedi sulle panchine, ti infili nella sala d’aspetto di un ospedale? Il sindaco e il prefetto possono multarti e cacciarti dal tuo quartiere, dalla tua città, dall’angolo dove dormi, perché sei un problema per il decoro cittadino. Se sei povero la responsabilità è tua, non di chi si arricchisce sul lavoro altrui, non di un sistema politico e sociale che nega una vita decorosa alla maggior parte della popolazione del pianeta.

Ci raccontano che viviamo nel migliore dei mondi possibili, che liberismo e democrazia garantiscono pace, libertà, benessere. Ci raccontano le favole e pretendono che ci crediamo.

Per il governo chi occupa una casa vuota offende il decoro, i proprietari che affittano a prezzi altissimi sono invece bravi cittadini.
Per la nuova legge chi occupa, oltre alle solite denunce, rischia di essere allontanato dal proprio quartiere, o dalla propria città.
Il sindaco e il prefetto possono importi il Daspo, il divieto ad andare in quei posti. Se ci torni rischi l’arresto.

In questo 25 aprile vogliamo annodare i fili della memoria di ieri con le lotte di oggi.
Le lotte che vedono in prima fila altri partigiani, quelli che si battono contro i militari nelle strade, che lottano contro i padroni che si fanno ricchi su chi lavora, che cercano di impedire sfratti e deportazioni, che vanno in strada contro il razzismo e il fascismo.
Oggi come allora i partigiani sono trattati da banditi, terroristi, delinquenti.
I partigiani in quel lontano aprile hanno combattuto perché volevano un mondo libero, senza schiavitù salariata.
Il loro sogno continua ogni giorno nella lotta per una società di liberi ed eguali. Senza Stato né padroni.

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Turchia: Erdogan eletto dittatore. Con brogli

Erdogan ha vinto il referendum costituzionale del 16 aprile. Il si ha prevalso sul no di stretta misura, il 51,3 contro il 48,7. Secondo la Rete dei giornalisti indipendenti, la BIA-NET, al voto si sono recati circa l’84% degli aventi diritto. Sin dalle prime ore l’opposizione ha denunciato brogli e irregolarità: video che mostrano schede timbrate a pacchi, seggi chiusi per gli osservatori indipendenti, polizia nei pressi dei seggi nonostante la legge lo vieti.
La decisione più clamorosa è stata presa proprio dall’Ente Superiore per le Elezioni (YSK). Durante la giornata elettorale si sono moltiplicate le segnalazioni di schede prive di timbro ufficiale dell’Ente. Con ogni probabilità un lavoro di copisteria improvvisato all’ultimo momento. Dopo le denunce lo YSK ha deciso di contare comunque anche le schede non ufficiali.

Per la prima volta l’OSCE ha denunciato brogli e sollevato dubbi sulla regolarità del voto. Secondo l’OSCE ci sarebbero almeno due milioni e mezzo di schede dubbie. Se si calcola che lo scarto ufficiale tra il si e il no è di un milione e 300mila voti, ne consegue che il risultato potrebbe essere capovolto.
Inutile dire che difficilmente l’uomo forte della Turchia, da domenica 16 aprile, uomo solo al comando, lo permetterà.
Secondo gli osservatori dell’OSCE il voto per il referendum turco non è stato all’altezza degli standard internazionali e la campagna elettorale non si è svolta in un clima di equità.
Sono migliaia gli oppositori politici in carcere, che stanno attuando un durissimo sciopero della fame. Decine di giornali, tv, radio e siti di opposizione sono stati chiusi. Nelle zone curdofone molti abitanti, che avevano abbandonato città e quartieri distrutti dalla guerra civile, non sono stati iscritti al registro dei votanti e non hanno potuto partecipare al voto.
Gli anarchici del DAF hanno invece fatto campagna astensionista, denunciando un gioco che, anche quando è regolare, è fatto con carte truccate.

Ascolta la diretta dell’info di radio Blackout con Murat Cinar, giornalista torinese di origine turca, che, oltre ad una disamina dei numerosi indizi che consentono di parlare apertamente di brogli, ci ha illustrato la riforma e ha fatto una prima analisi del voto, che appare meno scontato di quanto ci si aspettasse.

Più del 50% del paese è contro questa costituzione, un numero di cittadini che non è composto solo dall’elettorato del Chp e dell’Hdp. I no sono composti anche dagli elettori di Erdogan che lo voterebbero anche domani, ma che non vogliono che abbia tanto potere. E poi ci sono la maggior parte degli elettori dei nazionalisti del Mhp.

Questo è il profilo dell’elettore no: repubblicani, sinistra e un 15-20% dell’elettorato di Erdogan. Ovvero le coste dell’Egeo (roccaforte Chp), una parte del sud-est che è fortezza dell’Hdp con alcune perdite (Maras, Urfa, Antep, Adiyaman, Mus, Kars che teoricamente dovrebbero seguire la linea Hdp ma hanno votato sì), la costa mediterranea che, se ha delle municipalità in mano all’Akp, ha votato per lo più no.
Inoltre nel Kurdistan turco è molto forte un partito tradizionalista, islamista curdo, che ha votato massicciamente per la riforma. Sono gli stessi che durante le proteste durante l’assedio dell’Isis a Kobane, attaccarono le manifestazioni di protesta, lasciando sul terreno quasi 60 morti.

Per il sì hanno votato conservatori, nazionalisti radicali, zone rurali, ma anche una parte dei kurdi: le città più politicizzate a sud est hanno votato no, ma quelle più conservatrici vivono una frattura. Forse hanno voluto mandare un messaggio a Erdogan: ti sosteniamo se molli l’alleanza con i nazionalisti.

Tredici su 58 paesi all’estero hanno detto sì. Significa che in 45 ha prevalso il no: in Cina, Russia, Usa, Australia, penisola araba e nella maggior parte dei paesi europei.

In Germania, Austria, Belgio, Olanda, Belgio, dove ha prevalso il sì, operano associazioni conservatrici e fondamentaliste. Da anni lavorano per conto di Erdogan e dell’Akp all’estero. Stiamo parlando di sistemi di fraternità, comunità religiose, reti di imprenditori che hanno la sua stessa ideologia, la stessa cosa che in Turchia fanno da più di 30 anni le comunità religiose. Non accade a Smirne e Istanbul, ma nelle zone rurali è così: una tradizione feudale e conservatrice che si è trasferita all’estero.
Anche i comizi vietati hanno favorito il si, rinforzando il messaggio “tutti ci vogliono male, siamo in pieno sviluppo e provano a fermarci”. Un sapiente cocktail tra i richiami all’impero Ottomano e ai suoi nemici di un tempo con la spinta modernista e cementificatrice che è la cifra dell’era Erdogan.

Secondo un sondaggio effettuato prima del referendum, moltissimi cittadini non conoscevano il pacchetto di riforme, su cui era stata indetta la consultazione referendaria.
Si tratta di 18 punti, la maggior parte dei quali concerneva l’aumento del potere del Presidente della Repubblica dal punto di vista legislativo, giuridico ed amministrativo.

La riforma è stata proposta dal partito al governo, l’AKP, Partito dello Sviluppo e della Giustizia) ma fortemente appoggiata dal secondo partito all’opposizione, il MHP (Partito del Movimento Nazionalista).
Nelle elezioni del 2015 Erdogan puntava alla maggioranza assoluta per attuare la sua riforma senza intralci. Erdogan, pur vincendo le elezioni, non aveva i parlamentari necessari ad avere mano libera. Ha quindi stretto alleanza con il MHP.

L’11 ottobre del 2016 il Presidente Generale del MHP, Devlet Bahceli, durante l’intervento nel suo gruppo parlamentare, ha dichiarato che avrebbe appoggiato il partito di governo per una ridefinizione in senso presidenzialista della Repubblica turca. Questa scelta ha finito con lo spaccare in due il partito nazionalista.
L’alleanza tra AKP e MHP, nonostante molte tensioni interne ai due schieramenti e numerosi franchi tiratori, ha raggiunto il quorum necessario all’approvazione delle nuove norme.
Quindici giorni dopo la votazione parlamentare del 10 febbraio, il presidente della Repubblica, Erdogan, ha fissato il referendum che si sarebbe svolto il 16 aprile.

I cambiamenti più rilevanti riguardano la trasformazione della Turchia in una Repubblica presidenziale, con un forte accentramento di poteri non bilanciati né dal parlamento, né dagli organi giudiziari.
Vediamoli nel dettaglio:

– É stata abbassata da 25 a 18 anni l’età necessaria per essere eletti in parlamento. Ne consegue, che in un paese dove non è prevista l’obiezione di coscienza, i parlamentari diventeranno esenti dall’obbligo di fare il militare.

– Il Presidente della Repubblica da solo potrà nominare e revocare i Ministri oppure sopprimere un Ministero. Non ci sarà più bisogno del voto di fiducia per dare legittimità al governo, che sarà espressione diretta del presidente. Anche l’indizione di elezioni anticipate diventerà molto difficile.

– Il Presidente della Repubblica ha il diritto di non riconoscere il Parlamento eletto e di far ripetere le elezioni.

– Il Presidente della Repubblica può presentare ed emanare i decreti di legge senza chiedere il parere del Parlamento.

– Il Presidente della Repubblica ha il comando supremo delle forze militari del Paese.

– Il Presidente della Repubblica può dichiarare lo stato d’emergenza senza chiedere il parere del governo o del parlamento e senza limiti per la proroga dello stato di emergenza.

– Il Presidente della Repubblica potrà nominare e licenziare gli amministratori e i dirigenti di diversi enti pubblici, quindi avrà un potere decisionale nell’istruzione, arte, economia, media, sicurezza nazionale, previdenza sociale.

– Il Consiglio Superiore dei Giudici e dei Pubblici Ministeri (HSYK-HSK) sarà presieduto dal Ministro della Giustizia ed un suo membro apparterrà allo stesso Ministero, tre altri membri saranno nominati dal Presidente della Repubblica e gli altri membri dalla maggioranza del Parlamento.

– Il bilancio sarà preparato e presentato al Parlamento dal Presidente della Repubblica che potrà porre il veto sulla sua approvazione.

– Se il Presidente della Repubblica fosse sotto indagine, l’unico luogo in cui dovrà presentarsi, dopo una lunga e difficile fase di votazione parlamentare, sarebbe la Corte Costituzionale, ossia l’organismo i cui membri sono per la maggior parte nominati dallo stesso Presidente della Repubblica.

La Turchia da domenica è una dittatura elettiva. Come la Germania ai tempi di Adolf Hitler.

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Riforma del processo penale. Avvocati in sciopero

Nuovo sciopero degli avvocati penalisti, dal 10 al 14 aprile, contro il progetto di riforma del processo penale e contro la decisione di porre la fiducia anche alla camera.
Oggi a Bologna è prevista una manifestazione che percorrerà il centro cittadino. A Milano i penalisti in toga manifesteranno sulla scalinata del Palagiustizia del capoluogo meneghino.

Nel pacchetto preparato dal titolare del dicastero della Giustizia Orlando c’è un insieme composito di norme, che riducono il diritto alla difesa di chi finisce alla sbarra.
L’estensione della prescrizione per i reati minori da sette anni e mezzo a dieci anni ha il chiaro sapore della risposta alle pulsioni giustizialiste che attraversano alcuni settori sociali, che fanno le fortune elettorali di pentastellati, leghisti e fascisti. Dopo i decreti legge sulla sicurezza urbana e l’immigrazione il governo gioca una nuova carta in vista delle prossime elezioni.
Il test delle amministrative avrà un certo peso per la durata del governo Gentiloni.

Al prolungamento di tre anni della prescrizione si aggiungono gli inasprimenti delle pene per i reati dei poveri, come furti e rapine, la riduzione dei margini per presentare appello alle sentenze, l’estensione a numerose tipologie di reato del processo in video conferenza, la cui attuazione passa dalla discrezionalità del giudice all’applicazione automatica.

I penalisti in sciopero denunciano la distorsione autoritaria del processo, in cui vengono meno importanti forme di tutela delle persone sottoposte a giudizio nei tribunali.
Per chi è alla sbarra è importante la presenza dell’avvocato, ma anche la possibilità di avere un ruolo attivo, di difendersi personalmente, di presentarsi al processo e fare dichiarazioni spontanee.
Il pretesto del “risparmio” sulle spese di traduzione dal carcere al tribunale è una foglia di fico, perché i processi in videoconferenza necessitano che nelle carceri vengano installate costosi apparecchiature.

L’info di Blackout ne ha parlato con Eugenio Losco, avvocato in sciopero.

Ascolta la diretta

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Bombe in Siria e licenziamento di Bannon. Trump cambia passo?

Il bombardamento statunitense della base dell’aeronautica siriana da cui sarebbero partiti gli attacchi chimici contro la popolazione di un’area controllata dai ribelli si inserisce nel complesso quadro dei rapporti russo-americani.
Nei fatti la Siria di Assad è diventata un protettorato di Mosca e lo stesso Cremlino ha probabilmente dato il suo assenso a un attacco americano limitato e simbolico. Le difese
antiearee/antimissile stanziate dai russi in Siria sarebbero state in grado di bloccare, o comunque di mitigare fortemente, l’attacco statunitense ma non sono intervenute.
È quindi ipotizzabile che sia in corso un gioco delle tre carte in cui gli USA rimarcano il proprio ruolo di vigilanza contro l’uso di armi non convenzionali e Putin ricorda al
regime di Assad che è il legame tra Damasco e Mosca che consente al
despota di rimanere in carica.

L’evento riflette, comunque, un parziale, ma non sappiamo se temporaneo
o meno, cambio di passo dell’amministrazione Trump: se fino a una settimana fa si escludevano ulteriori interventi in Siria se non contro l’ISIS ora gli USA rientrano, seppure più limitatamente rispetto alla volontà di spodestare Assad della prima fase del conflitto, in campo nella definizione degli assetti siriani. Contemporaneamente si apre anche una crepa nei rapporti tra Trump e l’alt-right che pure tanto peso ha avuto nell’elezione dello stesso: Steve Bannon viene escluso dal gabinetto presidenziale sulla sicurezza nazionale e pare esservi un riavvicinamento tra l’amministrazione Trump e la componente NeoCon del Partito Repubblicano. Ma il peso dell’alt right non diminuirà specie in politica interna: rapporti con le “minoranza razziali”, questioni di genere, assetti economici.
La partita è complessa e aperta.

Ascolta la diretta dell’info di Blackout con Lorenzo, autore di numerosi articoli sulla politica statunitense.

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Torino. In piazza contro la violenza dei tribunali

Domenica 1 aprile un cacerolazo rumoroso ha attraversato il centro di Torino. Cartelli, pentole, coperchi, un piccolo amplificatore per raccontare la storia di Laura.
Una storia come tante. Laura sette anni fa era una precaria della Croce Rossa. Stuprata più volte da Massimo Raccuia, un collega più anziano e più potente, che la minacciava di ritorsioni, trasferimenti al CIE, ha trovato la forza di dire no. No, Basta. Grazie all’appoggio di colleghi ed amici ha deciso di denunciare la violenza subita.
In tribunale è stata umiliata da un interrogatorio che ne frugava la vita, perché in tribunale le donne stuprate sono messe sul banco degli imputati.
Il 15 febbraio di quest’anno Raccuia è stato assolto con formula piena.
Diamente Minucci, la giudice che presiedeva il collegio che lo ha assolto ha disposto la trasmissione degli atti alla Procura di Torino, perché proceda per calunnia nei confronti di Laura..
La giudice Minucci ha deciso che Laura non è credibile. Non è credibile perché ha detto solo no. “No, Basta”, cercando di allontanare da se l’uomo che la stava stuprando. Per Diamante Minucci e le altre due giudici del collegio, dire “Basta” non è sufficiente. Bisogna gridare, correre a farsi fare un test di gravidanza, farsi lacerare la carne e suon di botte.
Il discrimine per Minucci è il martirio. Se lo stupratore non lascia il segno, se la donna non grida aiuto, allora è chiaro che ci stava.
Raccuia è un dirigente, Laura una precaria, già vittima delle violenze durante l”infanzia. Una storia che somiglia a tante altre: in Italia una donna su tre ha subito molestie o stupri. I violenti giocano sulla paura, sul ricatto del lavoro, dei figli, sulla giusta reticenza delle donne a rivolgersi ai tribunali, dove le loro vite sono frugate ed indagate, dove la loro libertà è sempre sul banco degli accusati.
Stupratori e giudici ci vorrebbero spaventate e piegate, ma la nostra forza è nella solidarietà, nel mutuo appoggio.
Raccontare per le strade di Torino la storia di Laura serve a far si che la paura cambi di campo.

Mercoledì 12 aprile in oltre venti città italiane si sono svolti presidi davanti ai palazzi di giustizia contro la violenza dei tribunali.
La giornata di lotta, lanciata dalle rete “Non Una di Meno” di Torino e fatta propria da tante attiviste della penisola, ed è stata un’occasione per esprimere solidarietà femminista alle vittime della cultura dello stupro, legittimata e amplificata dagli stessi tribunali che sulla carta le dovrebbero tutelare.
A Torino la Questura ha provato a bloccare l’iniziativa, minacciando divieti e sanzioni, ma non è riuscita a fermarci.
In tante ci siamo ritrovate davanti al tribunale con cartelli, striscioni e slogan. Poi il presidio si è trasformato in un breve corteo che si è guadagnato il mercato, dove tanti si sono fermati ad ascoltare i brevi comizi.

Qui alcune foto

Qui un video

Qui un altro video

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Polizia etnica in Francia. La rivolta dei giovani cinesi

Negli ultimi 10 giorni la polizia francese ha sparato e ucciso due volte. Entrambe le vittime erano immigrati.
Domenica 26 marzo la polizia ha fatto irruzione nell’abitazione di un uomo di 56 anni di origine cinese, per verificare una denuncia per schiamazzi. Liu Shaoyao stava pulendo il pesce con le forbici, i poliziotti sostengono di essere stati aggrediti, la figlia nega e testimonia che l’uomo è stato colpito a sangue freddo.
Qualche giorno dopo i gendarmi sorprendono in una cascina del marsigliese un
detenuto evaso dal carcere durante un permesso. L’uomo è disarmato ma viene crivellato di colpi e ucciso. L’eco della vicenda si spegne presto, perché i due gendarmi vengono arrestati. Un fatto decisamente inusuale in Francia. L’uomo ucciso faceva parte della locale comunità rom. È possibile che l’arresto sia stato deciso per sopire le proteste dei rom, che in passato per episodi analoghi erano sfociate in aperta rivolta.

La domenica successiva in place de La Republique a Parigi era stato da tempo fissato un appuntamento nell’anniversario della Nuit Debout. La piazza si è rapidamente riempita di cinesi con ampio palco e potente amplificazione. Sui cartelli e negli interventi vengono ripetuti due slogan. “Verità giustizia dignità”, “Per la pace e la giustizia, contro la violenza”
Gli inviti alla calma dei maggiorenti della comunità cinese cadono nel vuoto. Dopo pochi minuti i giovani cinesi, come tanti loro coetanei, hanno più volte ingaggiato scontri con la polizia, che ha risposto facendo un massiccio uso di gas lacrimogeni.
Sin qui la cronaca.

Questi episodi riflettono la crescente insofferenza nei confronti della violenza della polizia, che sempre più agisce da polizia etnica. Nel contempo la licenza di uccidere ottenuta dopo le proteste dello scorso autunno rinvigorisce il radicato e più che giustificato senso di impunità di cui godono le forze dell’ordine francesi.

Intanto la campagna per le presidenziali francesi è sempre più incandescente, mentre sui luoghi di lavoro si moltiplicano le lotte.

Ascolta la diretta dell’info di Blackout con Gianni Carrozza di radio Frequence Plurielle di Parigi.

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Corrispondenza dal fronte di Raqqa

Continua l’offensiva verso Raqqa delle formazioni provenienti dall’area del confederalismo democratico in Rojava, che nelle ultime settimane hanno liberato numerosi villaggi e sventato un attacco alla diga di Tabqa, oro sotto controllo delle formazioni del Rojava.
Scarsa la resistenza di Daesh nei villaggi nel perimetro di Raqqa, che parrebbe alludere alla decisione di concentrare la resistenza nella capitale dello Stato Islamico.
La presa di Tabqa, una quarantina di chilometri da Raqqa, sarà il prossimo obiettivo delle milizie che combattono contro l’ISIS. Tra loro c’è anche l’AIT, il battaglione antifascista internazionale, di cui fa parte anche un anarchico torinese, Paolo, con cui l’info di Blackout ha fatto una diretta.

Paolo ci ha raccontato dell’accoglienza della gente dei villaggi arabi, dove hanno incontrato tante donne che non portavano il velo integrale. In ogni villaggio di lingua araba le relazioni sono tenute da combattenti della stessa lingua. Spesso le prime ad entrare sono le combattenti delle formazioni femminili, che rappresentano, in senso simbolico e reale, la testa di ponte di una rivoluzione che ha fatto della lotta al patriarcato uno dei suoi pilastri.

Ascolta la diretta di Blackout con Paolo, appena tornato dal fronte

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