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Dal Rinaudo muratore al Rinaudo furioso

rinaudo 2La seconda parte dell’inchiesta sul PM Antonio Rinaudo, pubblicata il 2 maggio dal sito Notavinfo mette a nudo l’ampiezza delle amicizie pericolose di questo PM di secondo piano, divenuto in poco tempo protagonista dei processi ai No Tav. Fedele al un proprio vecchio principio, quello di sparare grosso, è l’uomo che ha confezionato un’accusa di terrorismo per un compressore bruciato.
Qui potete rileggere la prima puntata “Rinaudo, Moggi e l’ndrangheta.
In questa seconda puntata vengono raccontate le amicizie di cemento e la stagione della grande furia contro il movimento No Tav. La stagione che stiamo vivendo.
Buona lettura.

Rinaudo muratore

L’amico di certi amici all’attacco del movimento

(2012-2013)

Nuovi affari per Procopio, Lazzaro e Martina – La caduta di Luca – Ponte, Zancan e Numa – Attentati contro i No Tav – Le minacce a Perino – Petronzi fu ferito – Porchietto vs i No Tav – Operazione Hunter – Il movimento svela chi c’è nel cantiere: silenzio dei giornalisti – Occupazione della Geovalsusa – Osvaldo Napoli difende il Consorzio – Rinaudo pure: sette arresti – Il giudice Salerno firma altri due arresti – Salerno trasferito per appalti al suocero – Numa a processo – Rinaudo e i giornalisti amici – Rinaudo e i giornalisti nemici – Rinaudo e Padalino – Padalino e il caso Caneschi – Rinaudo sequestra il materiale della difesa – La Cancellieri difende Rinaudo e poi Ligresti – Caselli scagiona la Cancellieri – Militarizzazione dei processi No Tav (e l’autista di Rinaudo)

Amici degli amici

Il 27 febbraio 2012, a un mese dalla gragnuola di arresti di No Tav ordinata da Rinaudo, le ruspe di Lazzaro e Martina sono nuovamente in azione, scortate da polizia e carabinieri, per un allargamento decisivo delle recinzioni: il governo ed Ltf vogliono (con un atto arbitrario anche sotto il profilo legale) inglobare nell’area fortificata alcuni terreni acquistati anni prima da valsusini, situati sul punto in cui dovrebbe essere scavato il tunnel, attorno alla baita in pietra costruita un anno e mezzo prima. La polizia, inseguendo un contadino del Cels proprietario di uno dei terreni, che stava protestando, su un traliccio dell’alta tensione – Luca – ne provoca la caduta e il coma gravissimo. I mezzi delle ditte continuano indifferenti il loro lavoro anche mentre il ragazzo è a terra esanime e tutti sono convinti che sia morto. Per sette giorni[1] la valle, da Chianocco a Salbertrand, è bloccata e attraversata dalla rivolta. In questi giorni il livello di disinformazione e denigrazione sistematica degli oppositori all’alta velocità da parte della stampa raggiunge il suo apice: neanche la figura di Luca, che ha rischiato la vita in modo totalmente disinteressato per difendere la sua terra, viene risparmiata da insulti e calunnie. I manifestanti che occupano l’autostrada vengono “schedati” da giornalisti come Niccolò Zancan, e i loro sforzi vengono ridicolizzati dai suoi colleghi Meo Ponte e Massimo Numa.

Meo Ponte e Niccolò Zancan firmarono nel 2006 gli articoli riguardanti le inchieste su Tonino Esposito, l’amico di Rinaudo, e la mafia valsusina di cui era rappresentante nel torinese: ebbero quindi accesso agli atti dove compariva il nome di Rinaudo, e proprio il loro giornale non esitò a scrivere il nome del magistrato accostandolo a quello del pericoloso criminale. Ma ora, nel 2012, quando Rinaudo è impegnato nella lotta contro gli oppositori al Tav in Val Susa, non ritengono doveroso raccontarlo nei loro articoli, tutti intrisi di richiami ai “precedenti penali” del tale o talaltro No Tav, o alle violenze “subite” dalla polizia; proprio mentre tutta Italia vede (in rete) le immagini dei poliziotti che sfondano le vetrate di un bar sulla statale 25 alla ricerca di No Tav da arrestare. Nella notte tra il primo e il 2 marzo tre automobili di No Tav vengono incendiate da ignoti; i tg, scandalosamente, ammiccano al gesto sostenendo che esso è segno dell’ostilità della popolazione (e non dei ben noti mafiosi che vivono in valle) verso il movimento. Alberto Perino riceve una busta contenente un messaggio: “Gli incendi delle stalle erano un avvertimento. Vi diamo tutti in pasto ai maiali e vi sciogliamo nell’acido”.

È in questo clima che una troupe di giornalisti dall’aria molto ambigua (nascosti in un veicolo dotato di sirena ed equipaggiato con microfoni) vengono allontanati dai presidi nel timore che siano poliziotti infiltrati. La procura interviene prontamente in difesa del suo multicefalo comitato di propaganda e avvia indagini, di concerto con la Digos, che porteranno per quest’episodio all’arresto di due persone dopo alcuni mesi. All’apice della sollevazione della valle per Luca, il 2 marzo (mentre in tutta Italia persone solidali con i valligiani occupano stazioni ferroviarie e autostrade) il presidente del consiglio Monti convoca un consiglio dei ministri straordinario sulla Torino-Lione, dove conferma il carattere irrinunciabile dell’opera nel programma di governo: “Non saranno consentite forme di illegalità e sarà contrastata ogni forma di violenza” dice, riferendosi al movimento.

Quattro giorni dopo, mentre l’attenzione mediatica sulla Val Susa è al massimo, Roberto Saviano scrive un articolo su La Repubblica in cui (pur dicendo, ponziopilatescamente, di non volersi schierare nella contesa) ricorda come tutte le linee ad alta velocità già costruite (Roma-Napoli, Torino-Milano, ecc.) siano state oggetto di “infiltrazioni di stampo mafioso”. L’imprevista denuncia di un autore molto vicino all’arma dei carabinieri sorprende Monti che, il giorno successivo, assicura alla stampa – in coro con i vertici di Ltf – che non c’è alcun pericolo di infiltrazione mafiosa nell’area recintata alla Maddalena.

È ormai aprile quando Ltf notifica ai proprietari dei terreni recintati il 27 febbraio le pratiche scritte di esproprio, alla presenza dell’ufficiale giudiziario. Un’anziana signora di Chiomonte si ammanetta alle recinzioni che Martina e Lazzaro hanno messo in piedi due mesi prima attorno alla baita No Tav, mentre Luca era per terra agonizzante, a pochi metri dai loro mezzi al lavoro. Nelle stesse ore gli studenti delle scuole della valle occupano l’A32: gli agenti della Digos segnalano prontamente gli studenti al tribunale dei minori e alcuni di loro saranno per questo spediti in “rieducazione” presso cooperative sociali. Il cantiere non è ancora in funzione, il tunnel non è stato ancora iniziato ma, grazie agli espropri, Lazzaro, e Martina possono aggiudicarsi nuovi lotti di lavoro senza appalto: le gare non si fanno neanche, grazie alla legge sul carattere “straordinario” delle grandi opere.

Il 21 luglio centinaia di No Tav attaccano il “cantiere” fortificato. Resta ferito Giuseppe Petronzi, che finisce in ospedale. Gli va in soccorso Claudia Porchietto, ancora sotto choc per la brutta notizia del suicidio, pochi giorni prima, del boss Giuseppe Catalano che l’assessore visitò al bar di via Veglia (si è gettato dal balcone appena è stato traferito ai domiciliari). L’assessore regionale risponde alla “violenza No Tav” con quella sulla lingua italiana: “Il ferimento del capo della Digos, Giuseppe Petronzi e di altri agenti la scorsa notte dimostra che ormai abbia superato il limite del democraticamente accettabile”. La questura, in seguito allo sbandieratissimo ferimento di Petronzi, tenta senza successo una sostanziale sospensione del diritto a manifestare in tutta la valle: il movimento riuscirà, nonostante questo, a raggiungere il cantiere in più occasioni, e anche a danneggiare le recinzioni fino ad abbattere le barriere dell’area archeologica la notte del 31 agosto. Gli assalti notturni al cantiere non piacciono a Rinaudo e al suo agente di polizia giudiziaria Dino Paradiso, impegnato nel confezionamento di foto e immagini per il riconoscimento dei “colpevoli”: l’oscurità impedisce all’uomo di Caselli e a quello di Petronzi di effettuare riconoscimenti mirati, e quindi di addossare ai No Tav più “attivi” mesi di carcere e anni di processi.

Rinaudo non gradisce neanche le campagne che il movimento ha fatto partire in primavera: tra esse c’è l’Operazione Hunter, presentata il 23 marzo 2012, che lo chiama direttamente in causa. Attraverso un’analisi di fotografie e filmati il movimento rende identificabili gli autori del pestaggio contro gli arrestati del 3 luglio 2011 (pestaggio che la procura non ha mai perseguito) e annuncia ai giornalisti la provocatoria consegna del dossier alla procura. La campagna del movimento che più spiace al pm Rinaudo, tuttavia, si chiama “C’è lavoro e lavoro”, e riguarda le ditte impegnate nel cantiere. Il movimento pubblica il risultato di indagini autonome su cosa accade dietro le reti, compreso uno studio delle visure camerali delle ditte coinvolte. Il dossier dimostra come molte delle aziende che ricevono milioni di euro pubblici a Chiomonte, difese da un dispositivo di polizia ed esercito che costa 90.000 euro al giorno agli italiani, siano plurindagate e/o pluricondannate per corruzione, associazione a delinquere finalizzata alla truffa e all’evasione fiscale, bancarotta fraudolenta, abuso d’ufficio, turbativa d’asta e altri reati. Viene pubblicata anche parte della documentazione giornalistica che dimostra perché alcune di esse siano accusate di essere vicine all’organizzazione criminale ad oggi più potente d’Italia e tra le più potenti al mondo.

I giornalisti censurano completamente i contenuti del dossier pubblicato dal movimento. Quando il movimento, poi, decide di occupare per alcuni minuti una delle ditte del Consorzio messo in piedi da Procopio e Lazzaro per incassare i soldi del Tav (ad essere occupata è la Geovalsusa di Michele Accattino, indagato a suo tempo per falso in bilancio) i giornalisti, anziché spiegare qualcosa, se non su Esposito e Rinaudo, quantomeno su Lazzaro e Procopio, scrivono che il movimento si è reso responsabile di una “intimidazione mafiosa” nei confronti del Consorzio: il senso dell’umorismo, non c’è che dire, non gli manca. Roberto Cota, presidente della giunta regionale di Claudia Porchietto, dice che i No Tav, occupando la Geovalsusa, hanno “attaccato i lavoratori”. Interviene anche il parlamentare Pdl Osvaldo Napoli, che avevamo trovato nel 2002 nell’inchiesta sulla sua soffiata al cartello che i Lazzaro avevano messo in piedi per controllare gli appalti pubblici tra Torino e la Val di Susa. Contro i nemici dei suoi amici dichiara: “Le intimidazioni di questi professionisti dell’anti-istituzione [i No Tav, ndr] sono ormai un vero attacco allo Stato”.

L’amico di certi amici

Contro i nemici che hanno toccato interessi intoccabili scende in campo, con mirabile tempismo, anche l’amico di certi amici, Antonio Rinaudo. Iscrive nel registro degli indagati una ventina di persone accusate di aver partecipato all’occupazione della Geovalsusa. Il 29 novembre 2012, poi, ordina l’arresto per sette di loro, che resteranno detenuti ai domiciliari, anche con il divieto di qualsiasi comunicazione con l’esterno, per periodi che andranno dai venti giorni ai tre mesi. Il gip che accoglie le richieste di arresto annovera tra le giustificazioni di tale privazione della libertà il fatto che i No Tav “stazionavano fuori dall’edificio, gridavano slogan con il megafono e distribuivano volantini” (N. 17907/12 R. Gip). Inoltre il tribunale, nell’ordinare gli arresti, conferma la neutralità e serenità della magistratura torinese in merito all’alta velocità: “Un semplice presidio [le migliaia di uomini in divisa presenti quotidianamente in Val Clarea da un anno e mezzo, ndr] a tutela di un cantiere installato per eseguire opere legittime (sic), in quanto volute e deliberate dalle competenti autorità europee e nazionali (sic), viene indicato con termini enfatici e strumentali (sic) come zona militarizzata e preso a pretesto per giustificare azioni delittuose” (Ibidem). Affermazioni che da vent’anni sono oggetto di un’aspra contesa politica, tecnica e giuridica diventano all’improvviso ovvietà in grado di giustificare gli arresti degli oppositori, con una goffa intromissione del tribunale sul terreno politicamente più controverso della questione.

Dieci giorni dopo, su ordine di Rinaudo, scatta ancora un’operazione che coinvolge il movimento No Tav. Le accuse riguardano la contestazione al comune di Torino e al suo sindaco Fassino il 1 maggio, portate avanti da giovani torinesi, maestre senza stipendio, precari delle cooperative, studenti senza borsa di studio e molti No Tav contro la svendita di Torino a San Paolo Intesa e Unicredit e alle lobby degli appalti del Tav e delle infrastrutture. I contestatori avevano rinfacciato l’accumulo del debito pubblico (versato in massima parte ai Catalano, agli Iaria, ai Lazzaro, ai Varacalli, e alle altre ditte amiche dei partiti) che viene esibito come giustificazione naturale per tagli alle scuole, alla sanità e agli stipendi dei precari esternalizzati. Avevano contestato il sindaco in piazza e poi assaltato il comune. L’irreprensibile Roberto Salerno, che aveva tenuto in carcere Nina e Marianna con accuse ridicole un anno prima, avalla la richiesta di Rinaudo di arrestare due No Tav e imporre a una ventina di loro pesanti limitazioni della libertà personale (obbligo di firma quotidiano presso i carabinieri, obbligo di dimora nel comune di residenza, ecc.). Qualche mese dopo Salerno arriverà a vietare a uno dei No Tav, colpito da obbligo di dimora a Torino, di ricongiungersi alcune ore al giorno con la compagna in procinto di partorire. Dopo alcune settimane sarà trasferito e sottoposto a procedimento penale a Milano per aver appaltato, con soldi pubblici, una consulenza giuridica a suo suocero.

 

Diffamazione sì, critiche no

 

Torniamo ai giorni in cui proprio lui, Salerno, aveva fatto incarcerare Nina e Marianna nel 2011. Il giornalista de La Stampa Massimo Numa, il più accanito denigratore a mezzo stampa del movimento No Tav, superò in un articolo ogni decenza nell’insulto agli oppositori del Tav travalicando nella diffamazione. Oltre ad essere noto ai lettori torinesi per aver pubblicato un pamphlet con in calce una dedica a un battaglione di fascisti repubblichini, Numa era già noto per aver tentato, nell’estate del 2011, di infiltrarsi sotto falso nome tra i contatti mail di un No Tav colpito al volto da un lacrimogeno (che aveva ricavato una frattura scomposta maxillo-facciale) per fargli “confessare”, fingendosi un No Tav, di essersi inventato tutto. Sennonché l’uomo non si era inventato un bel niente e, grazie a un grossolano errore del giornalista (che fece partire una delle sue mail dal suo vero indirizzo di posta) lo riconobbe e denunciò pubblicamente l’accaduto.

Quando Nina e Marianna erano in carcere per le ridicole accuse di Rinaudo e Salerno, Numa tentò prima di attribuire alle due donne inesistenti precedenti penali, poi si concentrò (molto professionalmente) sull’ex marito di una delle due, scrivendo, in modo del tutto fasullo, che questi era parente di un “noto attivista No Tav”. In realtà l’uomo, un consigliere comunale che gestisce un agriturismo in valle, aveva semplicemente un cognome molto diffuso dalle sue parti. Non contento, Numa volle insistere e scrisse che la sera dell’arresto lui e la donna “erano partiti insieme dalla baita abusiva del presidio Clarea per attaccare le recinzioni del cantiere Ltf”. Eppure l’uomo si trovava da venti giorni dall’altra parte del pianeta, in vacanza con i figli, e decise di sporgere querela contro il giornalista per diffamazione. La querela, cosa piuttosto strana, venne affidata dalla procura proprio alla squadretta anti-No Tav di Rinaudo: in particolare alla figura sottomessa e incolore della pm Nicoletta Quaglino che, naturalmente, la lasciò giacere due anni senza far nulla, così rendendo probabile la prescrizione del reato.

Poi, nel gennaio 2013, si svolse finalmente l’udienza per decidere il rinvio a giudizio, ma la Quaglino – che pure rappresentava l’accusa a fronte di un fatto assolutamente incontrovertibile – chiese l’archiviazione del procedimento; secondo il pm il processo non si doveva neanche fare, nonostante la diffamazione fosse inoppugnabile in termini di legge. Il giudice non riuscì ad accettare una prova di parzialità così sfacciata e rinviò a giudizio Massimo Numa e Mario Calabresi (anche lui querelato dall’uomo, in quanto direttore de La Stampa). Calabresi scrisse allora, il 3 maggio, un editoriale su La Stampa dove sostenne che “un giornalista”, al giorno d’oggi, può correre pericoli tanto nel “fare inchieste sulla ‘Ndrangheta o la camorra” quanto per “avere spirito critico ad una manifestazione contro la Tav” (come se inventarsi sguaiatamente responsabilità penali a carico di qualcuno consista nell’avere “spirito critico”); e aggiunse, con implicito riferimento al caso suo e di Numa, che “L’Italia ha la variante giudiziaria [della violenza contro i giornalisti, nrd]: […] l’arma delle querele come minaccia”.

A questo editoriale rispose il collettivo dei giovani valsusini contro il Tav (Kgn) con queste parole, dal sito notav.info: “Certo, lei e il suo collega Massimo Numa siete stati rinviati a giudizio per diffamazione a seguito di un articolo riguardante un’iniziativa No Tav, ma quell’articolo raccontava il falso: sebbene si tratti di un reato molto delicato, da valutare e per certi versi anche rischioso, perché può degenerare nella censura, richiedere l’impunità per i giornalisti anche se scrivono il falso significa sminuire il ruolo stesso del giornalismo”. Ai ragazzi della valle era risultato ostico anche il parallelo tra No Tav e ‘Ndrangheta: “Quando poi di pericoli si tratta, nessun giornalista impegnato così a fondo nella lotta ai No Tav dovrebbe temere i pericoli che lei paventa. Un giornalista come Numa non verrebbe mai minacciato dalla mafia, perché delegittimando il Movimento No Tav lui gli affari della mafia li cura. Nessuna censura governativa lo toccherebbe mai, perché sminuendo il Movimento preserva gli interessi di questi governi-imprenditori”.

Di fronte a questa risposta, Numa decise di sporgere querela, ed ecco che, immediatamente, la macchina giudiziaria si mise in moto a pieno ritmo: meno di una settimana dopo, l’11 maggio 2013, la questura già trasmetteva la querela di Numa alla procura; poi, in pochi giorni, la Digos confezionò la relativa “notizia di reato” e denunciò due redattori del sito su cui gli studenti avevano pubblicato la risposta a Calabresi; e il 4 novembre una new entry della squadretta, il pm Andrea Padalino, chiese il rinvio a giudizio per i due No Tav. Il 15 novembre – soltanto undici giorni dopo – il tribunale fissò la prima udienza (3 febbraio 2014). Quando è necessario, i famosi “tempi lunghi della giustizia” si accorciano…

Rinaudo decise allora che correre in soccorso ai giornalisti che difendono il suo operato, tacciono le sue relazioni pericolose e denigrano il movimento No Tav poteva diventare uno dei suoi compiti del suo piccolo team. Nel settembre 2013 fece arrestare altre tre persone, colpevoli di aver chiesto verbalmente spiegazioni a una giornalista de La Repubblica, Erica De Blasi, che aveva partecipato a una marcia alle reti organizzata dal movimento il 10 agosto tentando di nascondere la propria identità di giornalista, probabilmente alla ricerca di qualche “scoop” (ovviamente da usare contro il movimento, secondo la linea editoriale del suo giornale) da ottenere attraverso l’anonimato. I tre arrestati scrissero una lettera pubblica in cui contestarono le accuse mosse nei loro confronti e denunciarono il comportamento anomalo della giornalista durante la manifestazione, che era apparso rivolto più ad atti ostili ai manifestanti (attraverso una schedatura fotografica dei manifestanti) che al desiderio di informare in modo equilibrato su ciò che stava avvenendo:

 

il quotidiano La Repubblica manda allo sbaraglio una giovane giornalista che si infiltra nel corteo come manifestante per fare foto durante i danneggiamenti. Quella foto e quei filmati, però, non le pubblicherà mai sul giornale per portarle direttamente in procura. Evidentemente l’inviata è servitor di due padroni…

 

I tre arrestati, però, intendono soprattutto denunciare il carattere consapevolmente politico dell’impianto accusatorio elaborato da Rinaudo:

 

[…] rileviamo ancora una volta che il teorema Caselli di “non colpire il movimento ma singoli reati” è smentito nei fatti. A parte l’insussistenza dei reati, perché non si capisce in cosa codesta aspirante giornalista sia stata offesa, è evidente agli stessi pm che le misure cautelari sono spropositate ma ci vengono appioppate comunque, ben al di là delle condotte individuali, proprio in virtù “del contesto della lotta no tav” come ha chiosato senza alcuna esitazione il pm Rinaudo. […] Nel ragionamento di Rinaudo di fronte al Riesame sta il senso profondo dei nostri arresti e della gran parte delle inchieste che colpiscono il movimento. Per Rinaudo i No Tav sarebbero dei “paranoici” che vedono ormai all’esterno solo nemici. Sarebbero “usurpatori” delle prerogative di controllo del territorio che spettano allo Stato, perché si premurano di controllare chi devasta il territorio, chi si adopera perché questo disastro che si chiama Tav vada avanti. Infine i No Tav sarebbero responsabili di una “pressione ambientale ben nota in altri contesti criminosi”. Cioè scimmiotterebbero un controllo mafioso del territorio e in questo senso i fatti vengono riletti dalla procura. Per questo agli inquisiti va vietato ogni contatto con gli altri No Tav, applicando il massimo delle restrizioni. Nella teatrale arringa di Rinaudo non abbiamo sentito un solo riferimento alle nostre condotte. Semplicemente ha citato un paio di episodi di attrito con le forze dell’ordine o con altri giornalisti per inventare un contesto in cui i No Tav spadroneggiano indisturbati prefigurando un controllo del territorio criminale e criminogeno… Noi? Il mondo alla rovescia, insomma.

Rinaudo non apprezza queste critiche del suo operato, benché espresse da indagati cui la legge dà tutto il diritto di difendersi, e il 20 febbraio 2014, con l’ausilio del suo nuovo collaboratore Padalino, denuncia i tre (un redattore del sito notav.info) per diffamazione appoggiandosi ancora sulla giornalista: nella motivazione del nuovo procedimento è infatti scritto che i tre arrestati, con la loro lettera, “offendevano la reputazione della giornalista Di Blasi Enrica Adele (sic)”. Controllare i flussi d’informazione sul Tav e la Val Susa fa parte, ormai, dei compiti primari della procura della repubblica (compiti assunti dalla squadretta del pm sulle cui amicizie scottanti, guarda caso, i mezzi d’informazione hanno sempre taciuto).

Rinaudo decide a questo punto di tentare il grande salto. È tentato dal non limitarsi a perseguire le idee dei No Tav, mandandoli a processo per le loro analisi e le loro denunce sul mondo dell’informazione, ma dal mettere addirittura in riga gli stessi giornalisti che denunciano ciò su cui lui ritiene sia meglio che tacciano: ad esempio comportamenti poco consoni da parte della polizia. Il 3 marzo 2014 convoca per un interrogatorio un giornalista dell’Huffington Post, Andrea Doi, lasciandogli intendere che rischia una denuncia per calunnia. La colpa di Doi è aver scritto, il 15 febbraio 2013, un articolo intitolato Cronaca di una carica mancata ai No Tav, in cui riferiva un dialogo tra alcuni poliziotti in servizio di ordine pubblico durante una manifestazione in via Pietro Micca a Torino: “Un sottoufficiale viene chiamato da un graduato. Parlottano quasi all’orecchio. Alla fine del dialogo sommesso il sottoufficiale si avvicina alla truppa, fa alzare le visiere a tutti quanti e con fare molto simile al sergente maggiore Hartman di Full Metal Jacket urla: ‘Fate attenzione, mi raccomando, stanno arrivando quelli della Val di Susa. Oggi dobbiamo rompergli il c…!’. Dopodiché si volta, guarda l’ufficiale quasi volesse un cenno di assenso, riguarda i suoi uomini uno a uno, scorre con il dito i loro volti e poi continua: ‘Avete capito? Sono quelli della Valsusa, oggi la pagano per tutto’”. Cose che il mondo, ovviamente, non deve sapere.

Nuovi amici

A partire da questo momento, l’iniziale accoppiata Rinaudo-Pedrotta lascia definitivamente il passo al nuovo duo, Rinaudo-Padalino, che imboccherà la strada dell’attacco giudiziario più violento all’opposizione al Tav in Val Susa. Il criterio con cui è stato scelto il pm Andrea Padalino è ignoto; quel che è noto è che era stato a un passo dal candidarsi alle elezioni con la Lega Nord, quindi lui e Rinaudo, che ha da sempre coltivato amicizie e contatti nell’estrema destra (sua figlia è tra l’altro candidata in Sicilia per le liste di Fratelli d’Italia, il partito degli eredi di Ugo Martinat), si trovano subito d’accordo; condividono qualcosa in più del semplice cameratismo sul lavoro: quel che li accomuna è l’indole. Nel 1994, quando era giudice per indagini preliminari a Milano, Andrea Padalino firmò l’ordine di revoca degli arresti domiciliari, e ordinò la detenzione in carcere, per un uomo (Sergio Caneschi) malato di tumore, che si trovava in quel momento in ospedale (secondo ciò che denuncia la moglie, e di cui danno testimonianza i giornali dell’epoca) a seguito di un intervento chirurgico dovuto alle sue gravi condizioni di salute. Padalino contestò all’uomo di non essere rientrato ai domiciliari nell’orario stabilito. L’uomo morì. Il procuratore generale della Cassazione firmò il 22 gennaio 1995, contro Padalino, un avviso di incolpazione per aver leso, provocando questa tragedia, il “prestigio della magistratura”. I colleghi sollevarono però il futuro nuovo amico di Rinaudo da ogni responsabilità.

I metodi del duo Rinaudo-Padalino danno un ritmo serrato alle denunce, alle udienze, agli arresti e alle perquisizioni contro i No Tav, che raggiungono livelli tali da provocare interrogazioni parlamentari, a causa dell’indifferenza della coppia verso ogni principio di garanzia del diritto delle difese. Il 27 giugno 2013 la Digos perquisisce, su ordine di Rinaudo e Padalino, la casa di un consulente legale della difesa nel maxiprocesso contro i No Tav, sequestrandogli computer, cellulari, tablet e supporti informatici che vengono consegnati ai pm. Sequestrare quel materiale significa, per la procura (e in particolare per Rinaudo, che rappresenta l’accusa nel maxiprocesso e in molti altri procedimenti) appropriarsi di centinaia di documenti della parte legale degli imputati, ledendo drammaticamente il diritto delle difese. Il cosiddetto “pool” anti-No Tav trattiene, nonostante questo, e senza alcuna opposizione da parte del procuratore Caselli, il materiale in procura diversi giorni, con tutto l’agio di poterlo consultare e soprattutto copiare e conservare, invalidando definitivamente ogni presupposto di correttezza formale nel processone contro i No Tav.

Alcuni deputati del movimento 5stelle rivolgono un’interrogazione parlamentare al ministro della giustizia Anna Maria Cancellieri, individuando nel sequestro una lesione “dell’articolo 111 della Costituzione, contro l’articolo 6, comma 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti e delle libertà, contro l’articolo 256 e contro i commi 2 e 5 dell’articolo 103 del codice di procedura penale”; ma il ministro risponde candidamente che, se le autorità di polizia hanno ritenuto di sequestrare, l’atto è perciò stesso legittimo. Il ministro, d’altra parte, quando la valle si era sollevata in solidarietà a Luca, aveva definito il movimento No Tav “madre di tutte le preoccupazioni”; è evidentemente ben contenta se la procura si occupa di distruggere con il sistematico abuso giuridico un fenomeno politico in grado di “preoccupare” la sua casta politica.

Che il criterio di giudizio del ministero della giustizia sia questo, lo dimostra del resto la vicenda che la coinvolgerà pochi giorni più tardi, in occasione della quale (ohibò) non mostrerà lo stesso ossequio per l’operato della magistratura, ma troverà comunque nella procura di Torino un valido e obiettivo alleato (forse Caselli e il suo sottoposto Rinaudo devono restituire il favore?). Il 17 luglio 2013 l’imprenditore multimiliardario Ligresti (coinvolto, tra l’altro, in diversi appalti Tav nel nord Italia) viene arrestato per un crack finanziario da mezzo miliardo di euro. Il ministro Cancellieri si attiva al telefono con Gabriella Fragni, compagna di Salvatore Ligresti:

 

Fragni: la persona, guarda, più buona.

Cancellieri: eh lo so, lo so, lo so, povero figlio (fonetico), lo so, lo so.

Fragni: ha sempre fatto quello che poteva per tutti, guarda che fine.

Cancellieri: lo so, lo so, lo so, lo so.

Fragni: ma io non è che ammetto che non fatto errori, Annamaria, ma per l’amor di Dio.

Cancellieri: noooo però…!

Fragni: Annamaria l’hanno fatto però c’è modo e modo anche di fare.

Cancellieri: C’è modo e modo. Poi sono (inc.) […]

Fragni: Sembrano loro che devono ripulire il mondo, non lo so. Poi lui, lui soprattutto…

Cancellieri: Lui, lui, sì sì…

Fragni: Lui non se lo meritava, ha lavorato tutta la vita come una bestia, non ha mai fatto il milionario, non ha mai fatto vacanza, non ha mai fatto niente…

Cancellieri: Lo so, lo so.

Fragni: niente, ecco almeno fosse stato un filibustiero, nel bene e nel male ha dato da mangiare a 20-30 mila famiglie non so io, non lo so…

Cancellieri: no, so di essere in un Paese (inc.)…

 

La famiglia Ligresti, con la sua bancarotta, ha mandato in rovina migliaia di persone e di dipendenti che avevano lavorato una vita nelle loro aziende, e con la loro fatica avevano reso possibile il loro arricchimento personale. La bancarotta del sistema di società riferibili ai Ligresti è stata causata, tra l’altro, da conti in rosso causati, tra il 2002 e il 2011, da spese per 10,5 milioni di euro in pelletteria e borsette di lusso e, tra il 2006 e il 2009, 6,1 milioni di euro per quattro cavalli di razza. Dal 2009 una delle società di famiglia è stata mandata in rosso per poter affittare appartamenti a Firenze con vista sulla Cattedrale di Santa Maria del Fiore che, oltre allo chef a domicilio, prevedevano anche gite in mongolfiera. Niente male per essere il tipo di persona che, come dice la moglie del capostipite Salvatore alla Cancellieri, riferendosi al marito, “ha lavorato tutta la vita come una bestia, non ha mai fatto il milionario, non ha mai fatto vacanza, non ha mai fatto niente…”. Un santo, verrebbe da dire, anzi, come dice la Cancellieri nella telefonata, un “povero figlio”. E i poveri figli si aiutano:

 

Cancellieri: comunque guarda qualsiasi cosa io possa fare conta su di me, non lo so cosa possa fare però guarda son veramente dispiaciuta. […]

Fragni: (piange)

Cancellieri: eh vabbè… io non so se quando mai rientrerò a Milano ma appena riesco ad arrivarci, ormai fino a tutto settembre, ti vengo subito a trovare. Però qualsiasi cosa, veramente, con tutto l’affetto di sempre… con tutto l’affetto di sempre, guarda, non …

Fragni: va bene va bene. Quando vieni t’aspetto.

Cancellieri: se tu vieni a Roma, proprio qualsiasi cosa adesso serva, non fate complimenti guarda non, non è giusto, guarda non è giusto.

 

Stavolta l’operato della procura di Torino “non è giusto”; tant’è che in un’altra telefonata la Cancellieri dice di essersi attivata per far uscire dal carcere la figlia dell’imprenditore, Giulia Ligresti, detenuta a Torino; e infatti la donna fu scarcerata, qualche giorno dopo, per ordine della procura di Torino. I Ligresti, in effetti, non sono No Tav: con loro non è necessario usare il pugno duro. I giornalisti si rivolgono a Caselli per avere spiegazioni sull’accaduto, ma lui assolve sé stesso e la Cancellieri dicendo che la scarcerazione è avvenuta senza interferenze da parte del ministro; e i giornalisti se ne vanno soddisfatti.

Eppure c’è un problema: anche se il telefono del ministro non era sotto controllo in quei giorni, i suoi tabulati testimoniano due chiamate ad Antonino Ligresti, il 19 e il 20 agosto; la seconda, in particolare, dura sei minuti. Stranamente, il 22 agosto 2013), il direttore del carcere di Vercelli Tullia Ardito, che detiene Ligresti, spedisce un fax al ministero della giustizia presieduto da Cancellieri. Vi scrive: “In data 13 agosto è stata inviata al gip e alla Procura una relazione redatta dalla dottoressa Emanuela Ghisalberti, psicologa, che si allega in copia dalla quale si evincono le attuali condizioni psicofisiche della detenuta. Le assicuro che questa direzione continuerà a porre in essere gli interventi di sostegno ritenuti necessari”. Il 21 agosto la Cancellieri aveva poi chiamato nuovamente Ligresti. L’attenzione dei media si sposta nuovamente su Caselli: il procuratore potrebbe a questo punto decidere di indagare il ministro per abuso d’ufficio, ma il procuratore soprassiede e invia il fascicolo a Roma.

È risaputo che il vecchio adagio, secondo cui la legge è uguale per tutti, è un’assurdità, come anche le vicende appena ricordate confermano. Se mai ci fosse bisogno di ulteriori conferme, Rinaudo le ha date nel corso del maxiprocesso contro i cinquantasei No Tav accusati di aver resistito all’occupazione della Val Clarea il 27 giugno e il 3 luglio 2011. Tra gli episodi più eclatanti, oltre al rifiuto di rendere noti i teste d’accusa alle difese prima delle udienze, come è norma in ogni processo, e l’indifferenza verso le plateali “dimenticanze” o imprecisioni dei testimoni dell’accusa (decine di poliziotti i cui referti medici hanno suscitato non poche obiezioni e sospetti, senza contare la difficoltà di molti di loro a spiegare esattamente l’origine delle proprie “ferite”), l’atteggiamento verso gli avvocati difensori (oggetto di continue offese e frasi di scherno da parte dei pm) e verso i testimoni della difesa.

Si pensi al caso del portavoce storico del movimento Alberto Perino, un pensionato di Condove rispettato in tutta la valle, cui i pm si sono rifiutati di rivolgere domande considerandolo non attendibile (“ha accumulato decine di procedimenti”, hanno detto: tutti intentati da loro!); oppure al senatore del movimento5stelle Marco Scibona, che i pm hanno minacciato di denunciare per falsa testimonianza (perché la sua versione non collima con i loro teoremi sulla giornata) e al consigliere regionale dello stesso movimento Davide Bono, a sua volta oggetto di risatine e frasi di scherno. Più in generale, la scelta di confinare le udienze nell’aula bunker del carcere delle Vallette (destinata finora ai procedimenti per mafia) ha reso evidente la volontà di dare all’opinione pubblica l’immagine del movimento della Val Susa come nemico pubblico, elemento di tale pericolo sociale da non poter essere trattato al pari degli altri fenomeni della città, neanche dal punto di vista processuale.

Le frequenti contestazioni del pubblico, in occasioni di processi dal chiaro tenore politico, celebrati attorno a una contesa politica e sociale che dura da vent’anni, cono state accolte sovente dai giudici come episodi gravissimi, facendo sgomberare l’aula, e gli stessi organi di stampa si rifiutano di contestualizzarli e darne una lettura realistica, descrivendoli come mere intemperanze da parte di soggetti socialmente pericolosi perché contrari alla nuova linea ferroviaria in Val Susa. Lo stesso Antonio Rinaudo, nell’aprile 2014, si è reso protagonista di scene imbarazzanti quando si è letteralmente gettato verso il pubblico di un processo contro tre No Tav, a stento trattenuto dagli uomini della sua scorta; ed ecco che, a distanza di poche ore, il tribunale dà notizia della militarizzazione del processo in programma dal 22 maggio contro quattro No Tav accusati di terrorismo: scorte non soltanto ai pm, ma anche ai giudici del collegio e ai dodici giurati popolari, che si recheranno al palagiustizia tutti assieme in pulmino, come in gita scolastica, scortati dalla polizia, ovviamente a spese dei contribuenti, al solo fine di intensificare l’aura di terrore e paura attorno al movimento No Tav, che non ha mai attaccato le persone.

Pochi giorni dopo, guarda caso, i giornali locali hanno riportato un altro misterioso episodio, quello della presunta aggressione notturna all“autista” di Rinaudo (un ex carabiniere) il 12 aprile 2014, che non trova conferma in nessuna testimonianza diretta e in nessuna ripresa audiovisiva. Come nel caso dell’operaio della Martina Service vittima di “Stalking”, siamo di fronte alla parola di un individuo che racconta (come analizzato dal sito notav.info, che ha dichiarato di non credere a una parola di ciò che ha riferito l’autista di Rinaudo) un episodio poco credibile subito ingigantito dalla stampa. Lo stesso era accaduto con lo strano ritrovamento, da parte di un parlamentare in prima fila nella difesa degli interessi del Tav (e alla continua ricerca degli onori delle cronache: si distinse per aver affermato – non si sa a che titolo – che Marta, la No Tav molestata dalla polizia, si era inventata tutto), di “quattro bottiglie molotov” sullo zerbino di casa.

L’improbabile reperto fu immediatamente offerto ai flash dei fotografi e alla solidarietà dell’europarlamentare Fabrizio Bertot (quello protagonista dell’incontro con i boss nel bar di via Veglia, e ciononostante mai indagato da Caselli e soci). Bertot colse la palla al balzo dell’ennesima bufala orchestrata per gettare discredito sul movimento No Tav e dichiarò all’agenzia Asca: “Sostegno e solidarietà all’amico Stefano per l’ennesimo e grave atto intimidatorio di cui è stato oggetto. La Tav è un’opera importante, strategica e prioritaria per il Piemonte, per l’Italia e l’Europa, per questo saremo sempre in prima fila con lui per difendere e sostenere questa grande opera pubblica”. Più modesto il pm Rinaudo che, dopo la presunta aggressione al suo autista ha dichiarato: “C’è sempre un’ora zero. Un momento in cui accade qualcosa di diverso che cambia il corso della storia”.

Nota

Sulla vicenda seguita alla caduta di Luca Abbà dal traliccio vd. i film Fermarci è impossibile, a c. del csoa Askatasuna e La valle è mia, Servizio Pubblico del 5 marzo 2012; cfr. anche il libro A sara dura. Storie di vita e militanza No Tav, a c. del csoa Askatasuna, DeriveApprodi, 2013.Sulle minacce ricevute da Perino cfr. No Tav, il leader Alberto Perino denuncia: “Minacciato dalla ‘ndrangheta”, Linkiesta, 1 marzo 2012; sull’intervento dell’assessore Porchietto in favore di Petronzi cfr. Tav: Porchietto, situazione intollerabile, cosi’ si uccide la Val Susa, La Repubblica, 22 luglio 2012; sull’occupazione della Geovalsusa I No Tav occupano la Geovalsusa Srl, notav.info, 24 agosto 2012; sugli arresti Io ero con i No Tav arrestati. Vi racconto come sono andate davvero le cose, Agoravox, 29 novembre 2012; sulle contestazioni del 1 maggio 2012 Torino: arresti e misure cautelari per il 1 maggio, infoaut.org, 17 dicembre 2012.

Sull’interventismo di Rinaudo circa le narrazioni giornalistiche della vicenda Tav cfr. No Tav e bugie: Calabresi e Numa de ‘La Stampa’ a giudizio due anni dopo la diffamazione, squer.it, 23 gennaio 2013; su Massimo Numa cfr. Il “giornalista” de “La Stampa” e il movimento No Tav, Carmilla On Line, 21 dicembre 2011 e Pubblicazione neofascista di Massimo Numa, cronista de La Stampa di Torino, infoaut.org, 19 settembre 2013; sulla polemica tra notav.info e La Stampa Ancora un rinvio a giudizio per Massimo Numa e Mario Calabresi, notav.info, 13 marzo 2013; Quella libertà di stampa diversa a ogni latitudine, la Stampa, 3 maggio 2013 e Quella libertà di stampa, talvolta un po’ fraintesa, notav.info, 3 maggio 2013. Sul coinvolgimento di Padalino nel caso Caneschi cfr. L’ imputato mori’ , giudici indagati, Il Corriere della Sera, 6 febbraio 1996.

Il sito notav.info ha documentato le vicende giudiziarie del consulente del maxiprocesso cui sono stati sottratti i materiali della difesa in Perquisiti 4 notav…per stalking!, notav.info, 26 giugno 2013; Il min. Cancellieri: legittime le perquisizioni ai consulenti notav, notav.info, 12 settembre 2013. Sulla vicenda Cancellieri: Il caso Fonsai: cavalli, borse e suite, gli hobby dei figli «costati» 13 milioni a papà, Il Sole24Ore, 17 luglio 2013; Caso Ligresti: la telefonata Cancellieri-Fragni. Il testo dell’intercettazione tra il Guardasigilli e la compagna di Salvatore Ligresti, La Repubblica, 1 novembre 2013; Cancellieri-Ligresti, un’altra telefonata. E ora spuntano i colloqui del marito, La Repubblica, 14 novembre 2013; Cancellieri, il carcere risponde alle raccomandazioni sulla Ligresti. Ecco il fax, Il Fatto Quotidiano, 19 novembre 2013; Caso Ligresti. Gian Carlo Caselli difende Anna Maria Cancellieri, Huffington Post, 1 novembre 2013; Cancellieri in bilico. La procura di Torino: non è indagata, atti a Roma, Il Sole24Ore, 18 novembre 2013.

Gli abusi giudiziari e le tensioni ricorrenti al maxiprocesso contro i cinquantasei No Tav imputati della resitenza del giugno-luglio 2011, si vedano i report e le trascrizioni al sito tgmaddalena.it. Sull’episodio del presunto ritrovamento di molotov sullo zerbino del senatore Esposito cfr. Torino: Bertot (Ppe), sostegno e solidarieta’ ad Esposito, Asca, 13 gennaio 2014; Esposito: “Mandanti morali delle molotov anche il giudice Pepino e la Mannoia”, La Repubblica, 14 gennaio 2014; La fiction torinese contro i No Tav, contropiano.org, 14 gennaio 2014; Esposito in delirio: i mandanti sono la Mannoia, Caparezza, Pepino e Civati, notav.info, 14 gennaio 2014. Sull’episodio della presunta aggressione all’autista di Rinaudo cfr. “Il mio autista aggredito per intimidire i giudici”, La Stampa, 12 aprile 2014 e Lo strano caso dell’autista di Rinaudo… sembra quello di Belpietro!, infoaut.org, 12 aprile 2014.

 

PARTE V

Rinaudo Furioso

Terrorismo contro il movimento No Tav

(2013-2014)

Rinaudo&Padalino al tutto per tutto – Legambiente e Pronatura temono frane sul cantiere: indagati – Vattimo visita un No Tav in carcere: indagato – Erri De Luca sostiene il sabotaggio: indagato – Grillo entra nella baita: condannato – Carabinieri pestano: archiviati – Poliziotti pestano: archiviati – La caduta di Luca: archiviata – Diffamazione a Luca: archiviata – “Stalking”sull’operaio: quattro indagati – Padalino&Rinaudo nel cantiere con la polizia – Gli abusi sessuali della polizia su Marta – Padalino&Rinaudo e le violenze a Marta – Luglio 2013: i No Tav sono “terroristi” – Gli arresti di Mattia, Chiara, Niccolò e Claudio – Alta sorveglianza in carcere – Forgi e Paolo condannati per “detenzione di armi da guerra” – Chi è terrorista?

Opere…

Il concetto più volte espresso dall’ex procuratore Caselli, secondo cui il principio seguito dalla sua procura, sotto la sua direzione, era che la legge fosse uguale per tutti (e dunque occorreva perseguire i reati dei No Tav esattamente comeogni altro reato) non appare credibile se si confronta l’operato della procura contro il movimento con quello rivolto contro le irregolarità o i reati commessi dalle istituzioni, dalle imprese e dalla forze di polizia coinvolte nell’opera. Si pensi alle lesioni contro il diritto di difesa, con l’inedito sequestro dei materiali dei difensori da parte della procura; o l’atteggiamento compiacente nei confronti di un ministro della giustizia che aveva indignato il paese con abusi d’autorità (che sottolineavano come la legge fosse tanto clemente con i potenti quanto spietata contro i senza potere), che pochi mesi prima aveva diretto, in qualità di ministro dell’Interno, la repressione delle proteste in Val Susa. La parzialità sfacciata della procura, tanto più inquietante se si considerano le passate frequentazioni del magistrato di punta al lavoro contro il movimento, Antonio Rinaudo, emerge poi con chiarezza cristallina nella continua applicazione di due pesi e due misure nelle controversie legali sull’opera, sui cantieri, sulle proteste e sul diritto alla circolazione e alla manifestazione del dissenso in valle. Due pesi e due misure che hanno condotto a una gestione opposta dei procedimenti penali a carico di chi è contrario o di chi è favorevole al Tav.

Prendiamo alcuni esempi della “severità” della procura contro i No Tav: il 23 maggio 2013, dopo una serie di attacchi notturni al cantiere di Chiomonte, il ministro delle infrastrutture Maurizio Lupi si reca a Torino per un’opera di propaganda sul sostegno incondizionato del governo a Ltf e sulla sempre sbandierata (e mai concretizzata) ipotesi di fantomatiche “compensazioni” del governo ai comuni della Val Susa, nel caso si pieghino ad accettare il Tav. Lo stesso giorno, però, le associazioni Legambiente e Pro Natura tengono una conferenza stampa in cui viene presentato uno studio sul territorio circostante il cantiere (in particolare il ciglione montuoso che da pochi mesi è stato perforato di alcuni metri) che dimostra il rilevante pericolo di frane sul cantiere stesso, senza che Ltf abbia provveduto alla messa in sicurezza dell’area. L’ipotesi delle due associazioni è quindi che, anche sotto il profilo della sicurezza del territorio (e degli operai al lavoro), governo ed Ltf siano fuorilegge. Un esposto viene inviato alle procure della repubblica di Torino e di Roma, oltre che al ministero di Lupi e ad altri 19 enti pubblici interessati alla materia.

L’unico tra questi enti a reagire è la procura di Torino, ma per iscrivere nel registro degli indagati proprio Legambiente e Pronatura, nelle persone dei loro rappresentanti Fabio Dovana e Mario Cavargna, per aver detto quelle cose in conferenza stampa e aver scritto quell’esposto. Sembra incredibile, ma il 7 luglio 2013 (a neanche due mesi dall’esposto) i due ambientalisti sono denunciati dalla procura per “procurato allarme”. Il messaggio dei magistrati ai tecnici sfavorevoli all’opera non poteva essere più chiaro e ben presto sarà la volta di filosofi, scrittori e intellettuali. Nell’agosto 2013 un No Tav viene arrestato per un diverbio con un poliziotto e l’europarlamentare dell’Italia dei Valori Gianni Vattimo, professore emerito di Estetica all’Università di Torino, e sostenitore da sempre dell’opposizione all’alta velocità, si reca a fargli visita in cella portando con sé, nel ruolo di consulenti, due noti attivisti della Val Susa. Un mese dopo, il 25 settembre, Rinaudo e Padalino lo iscrivono nel registro degli indagati (assieme ai due consulenti) per “falso ideologico”, mettendo in dubbio (non si capisce a che titolo) il ruolo dei due attivisti come consulenti.

L’intento di colpire i personaggi più in vista e potenzialmente più ascoltati dall’opinione pubblica che criticano l’alta velocità in Val Susa, è evidente anche in occasione del processo contro Beppe Grillo per una polentata a Giaglione nel 2010. Un gruppo di No Tav aveva costruito a mani nude la baita in legno e pietra esattamente dove Ltf aveva dichiarato di voler perforare la montagna (l’area era di proprietà di valsusini No Tav). L’intento era contrapporre all’ingegneria mortifera e devastatrice dell’alta velocità (e della stessa autostrada, il cui viadotto sovrasta quella stessa area), l’architettura non invasiva ed elegante della tradizione montana, realizzata esclusivamente con materiali non inquinanti reperiti sul territorio. Ltf chiese e ottenne dalla procura di Torino il sequestro del manufatto e i carabinieri apposero i sigilli alla baita appena costruita. Il movimento rispose il 5 dicembre con una polentata durante la quale diversi attivisti, compreso Beppe Grillo, entrarono nella baita. Dopo sei mesi una ventina di persone furono indagate da Rinaudo e Padalino e il 2 marzo 2014 il processo di primo grado si è concluso con l’inedita condanna degli imputati, per un episodio così insignificante, a pene che vanno dai quattro ai nove mesi di prigione.

La sentenza è arrivata pochi giorni dopo la notizia dell’iscrizione nel registro degli indagati di un altro intellettuale, lo scrittore Erri De Luca, ancora una volta messo sotto accusa per le sue idee a proposito del Tav. In seguito ai ripetuto attacchi e sabotaggi portati, in valle, contro macchinari delle aziende Tav (e alla presa di posizione di tutto il movimento in favore dell’azione non violenta del sabotaggio contro le cose), lo scrittore Erri De Luca si era espresso pubblicamente, e a più riprese, per la pratica di sabotaggio contro il Tav in Val Susa, sposando in toto le posizioni del movimento. Quando due No Tav, Forgi e Paolo, furono arrestati il 30 agosto con in macchina delle cesoie e altro materiale, lo scrittore commentò: “Sono utili a tagliere le reti”; e poi: “Hanno fallito i tavoli del governo, hanno fallito le mediazioni: il sabotaggio è l’unica alternativa”. Il 5 settembre Ltf annunciò di voler sporgere querela contro lo scrittore per “istigazione a delinquere” e già il 24 febbraio 2014, meno di sei mesi dopo, è arrivato contro di lui, puntuale, l’avviso di garanzia dei pm Rinaudo e Padalino. L’autore napoletano, cui è arrivata la solidarietà di tutto il movimento, della casa editrice Feltrinelli e del sindaco di Napoli, ha commentato: “Per uno scrittore il reato d’opinione è un onore”.

… e omissioni

Riepiloghiamo: dal 2010 al 2013, nell’era Caselli-Rinaudo, sono state indagate quasi mille persone per presunti reati motivati dall’opposizione all’alta velocità. Centoventitré fascicoli sono stati aperti da Rinaudo & Soci tra il 2010 e il 2012, per un totale di 707 indagati. Nel solo 2013 sono stati aperti settanta fascicoli, per un totale di 280 indagati. Gli indagati erano quindi, al Natale 2013 (nei giorni del pensionamento di Caselli, che ha lasciato Rinaudo alla direzione della battaglia in Val Susa), 987 in tre anni. Di fronte a questi dati, ha scritto Erri De Luca: “Negli ultimi quattro anni sotto inchiesta in 1000, sì mille, per la resistenza in Val di Susa: è ormai in funzione a Torino un tribunale speciale con magistrati fissi incaricati della repressione della più forte lotta popolare italiana”. Il tribunale di Torino è letteralmente ingolfato dai processi contro la resistenza all’alta velocità (molti procedimenti civili sono stati rinviati di anni perché tutte le aule sono occupate dai processi contro i No Tav). Con un portato di illegalità quale quello denunciato da più parti circa gli interessi coinvolti nell’opera, e di violenza dispiegata da parte delle forze dell’ordine, potrebbe stupire la sproporzione con gli indagati di parte avversa, che si contano sulle dita di una mano (o forse solo su un dito, per di più fasullo). Perché?

La dimostrazione più evidente dell’atteggiamento “due pesi, due misure” da parte della squadretta di Rinaudo & Soci fu la scelta dell’ex procuratore capo Caselli di destinare alla squadretta anti-No Tav qualsiasi notizia di reato riguardante la Val Susa e la questione dell’alta velocità, sia che giunga da un rapporto di polizia contro il movimento, sia che giunga da una querela sporta dai legali del movimento stesso. Il risultato? Tutte le querele del movimento vengono insabbiate, o quantomeno i pm (molto spesso delegata a queste pratiche è Nicoletta Quaglino) interviene per spuntare le ali a qualsiasi querela di parte No Tav. È il caso, già ricordato, della denuncia per diffamazione contro Numa e Calabresi da parte di un valligiano; quando Numa ha sporto querela con la stessa ipotesi di reato contro notav.info, invece, il pm Padalino ha non soltanto trovato fondatissime le accuse (in questo caso davvero infondate, perché ad essere processate sarebbero analisi e idee politiche, non illazioni infondate su condotte specifiche) ma ha rinviato a giudizio l’imputato con una rapidità incredibile anche per i tempi medi della giustizia italiana.

Un caso illuminante è quello seguito all’operazione Hunter (la denuncia pubblica, da parte del movimento, di indagini autonome sui responsabili dei pestaggi avvenuti il 3 luglio 2011 da parte delle forze dell’ordine), in particolare riguardo alle violenze di gruppo con mazze e tubi di ferro su due No Tav in stato di fermo presso l’area archeologica, Salvatore Soru e Roberto Nadalini. Ecco il sorprendente iter della loro querela raccontato dall’agenzia Alinews:

[…] In mancanza di un procedimento d’ufficio, Soru e Nadalini sporgono denuncia assistiti dall’avvocato Claudio Novaro. La Procura apre un fascicolo, ma, anche dopo gli arresti dei No Tav per gli stessi scontri del 3 luglio, cioè nel gennaio 2012, non ci sono sviluppi.

L’avvocato Novaro svolge, allora, alcune indagini difensive. Chiede di interrogare alcuni testi delle forze dell’ordine presso il suo studio, ma non si presenta nessuno. Chiede al Gip un incidente probatorio ma gli viene risposto che in mancanza di indiziati noti non è possibile. Poi, vengono invece ascoltati i poliziotti che hanno arrestato i due, in due interrogatori per indagini difensive di fronte ai Pm Pedrotta e Quaglino. Due incontri di un’ora e mezza che non portano risultati. Infine, a settembre, viene sentito presso la Procura il capo della Digos, anche qui senza particolari risultati. L’avvocato chiede i ruoli di servizio alla polizia e ai carabinieri che rifiutano. Si deve ottenere un sequestro da parte dei Pm. L’avvocato rimanda gli atti al Gip, con le richieste della documentazione di ordine pubblico che riguardano quella giornata. Il Gip prima chiede di riformulare la richiesta e poi respinge. Non si riesce a conoscere l’identità di chi aveva in custodia i due fermati e di chi li ha percossi. Ma per tre carabinieri sembra ci siano sufficienti identificativi.

Pochi mesi fa, viene rivolta una nuova istanza ai Pm per sapere a che punto è l’indagine. Si viene a sapere che la indagini della Procura sono ancora in corso, dopo quasi un anno e mezzo dai fatti.

L’11 luglio 2013 la procura stralcia la posizione di un carabiniere di cui i No Tav hanno fotografato il tatuaggio, di cui era impossibile sostenere il mancato riconoscimento, per poter prescrivere tutti gli altri agenti, diversi dei quali facilmente identificabili e riconoscibili. Giustificazione? La violenza degli agenti è stata “repentina, imprevedibile e impossibile da impedire”. La procura sancisce una volta per tutte, quindi, il suo punto di vista sugli episodi di pestaggi ai danni di arrestati in Val Susa: sono repentini e impossibili da impedire per i colleghi, quindi non vanno perseguiti. Il 18 luglio, sentite le parti, il gip archivia la posizione degli agenti, che non risponderanno mai di ciò che hanno fatto. Il 17 febbraio 2014 viene invece rinviato a giudizio il carabiniere del tatuaggio, appartenente al corpo speciale dei “cacciatori di Sardegna”, fotografato mentre infierisce su uno degli arrestati con un bastone: l’udienza preliminare, però, è fissata addirittura per il 2015, in modo da assicurare la prescrizione per il militare, quand’anche il tribunale dovesse ritenerlo colpevole del semplice reato di lesioni (non viene accolta la richiesta delle parti lese di processare l’uomo anche per abuso di potere, come apparrebbe più che naturale).

Come avvenne già dopo il G8 del 2001 a Genova, la procura invia ai “tutori dell’ordine” un messaggio chiaro: avrete la massima copertura da parte dell’autorità giudiziaria per i vostri misfatti, anche quando contrari alla legge: per permettere a Lazzaro e Procopio, o al gruppo Gavio e alla Cmc di intascare i miliardi sudati dagli italiani, violenze e sprangate sono più che ammesse da parte di poliziotti e carabinieri. Si noti che il procedimento contro i No Tav per gli stessi fatti, in rapporto al quale si sono costituiti parte civile, oltre al governo, i sindacati di polizia, ha celebrato l’udienza preliminare a meno di un anno dai fatti, nel luglio 2012, e si avvicina già oggi alla prima sentenza). Nel frattempo, non a caso, non c’è nessuna notizia dell’esposto presentato alla procura, nel febbraio 2013, dal comune di Condove, dove si denunciavano costi gonfiati almeno del 30%, dalle ditte dei Martina e dei Lazzaro per i lavori effettuati nel cantiere (con soldi interamente provenienti dalle tasche dei contribuenti) tra il 2011 e il 2012 su appalto Ltf (ottenuto senza gara).

Analoga sorte subirà la querela di un uomo e una donna No Tav per il pestaggio subito il 25 febbraio 2012, da parte di agenti, all’interno della stazione di Porta Nuova a Torino. Dopo il corteo nazionale per la libertà di dissenso in Val Susa (seguita agli arresti di ventisei No Tav un mese prima), alcune centinaia di manifestanti provenienti da Milano vennero caricati a freddo dalla polizia mentre tentarono di raggiungere il treno per la loro città. Il caos della circostanza fu aumentato da plateali litigi e scontri verbali tra i vertici della polizia e quelli dei carabinieri nel corso dello strano e immotivato intervento (l’unico episodio della giornata di cui, tra l’altro, diedero conto i mass-media, che tacquero sulla manifestazione con migliaia di persone). I due No Tav, che riportarono gravi lesioni al capo e ad altre parti del corpo, sporsero una querela contro ignoti che fu ben presto archiviata dal solito pm Nicoletta Quaglino.

Un vero e proprio insabbiamento, cui è seguita l’archiviazione, riguarda il caso ben più noto della caduta dal traliccio di Luca Abbà, il contadino inseguito da un rocciatore della polizia di stato sopra un traliccio, che restò poi fulminato e precipitò, vegetando in coma, tra la vita e la morte, per diverse settimane. L’unico filmato esistente, girato all’alba mentre la polizia impediva qualsiasi accesso all’area (Luca era riuscito ad arrivare dal bosco della Ramats), è quello della polizia di stato. I reporter della trasmissione Servizio Pubblico ricevettero pressioni dalla Digos che chiese loro di consegnare ciò che avevano filmato ma, sebbene essi si siano opposti e abbiano mandato in onda le riprese, la loro camera non era rivolta verso il traliccio al momento della caduta (in quegli istanti la Digos impediva a tutti i giornalisti di avvicinarsi all’area delle operazioni). Quando il filmato girato dalla polizia scientifica venne inviato ai mezzi di comunicazione, tuttavia, risultò tagliato esattamente negli istanti che precedono l’incidente, rendendo impossibile ricostruire l’accaduto.

La testimonianza di Luca Abbà ai microfoni di radio black out, e quella successiva al suo risveglio dal coma, rendono evidente la responsabilità della polizia, che ha voluto accanirsi in un inseguimento anche a costo di mettere in pericolo una vita umana, in una situazione evidentemente pericolosissima. Ciononostante la querela di Luca Abbà contro ignoti per lesioni gravissime è stata archiviata dai pm senza che sia stata, di fatto, operata alcuna indagine. Lo stesso vale per la querela che Abbà ha sporto per diffamazione a causa di articoli insultanti che hanno riportato, durante il suo coma, notizie tendenziose e non veritiere riguardanti la sua persona.

Stalking della procura, abusi della questura
L’8 maggio 2013 un operaio della Martina Service denuncia di essere stato aggredito, di notte, da alcuni uomini incappucciati mentre era alla guida del suo camion in uscita dal cantiere. Rilascia interviste a tutti i giornali ripetendo che teme per la sua vita, che i No Tav l’hanno più volte pedinato e minacciato, e che era necessario “arrestarne qualcuno e tenerlo dentro per tentato omicidio”. Il sito notav.info pubblicò il 16 maggio alcune indiscrezioni sul suo conto, che circolavano nei bar di Chiomonte. Secondo queste voci l’operaio sarebbe stato inviso ai colleghi nel cantiere, accusato da essi di essere una spia dei capi e un soggetto poco affidabile, e sarebbe stato in procinto, da mesi, di essere lasciato a casa dalla sua ditta. Il 23 maggio il ministro Lupi incontra l’operaio e gli stringe la mano in segno di solidarietà. Il 26 giugno Antonio Rinaudo e Andrea Padalino denunciano quattro militanti del movimento (scelti letteralmente a caso) accusandoli di essere “moralmente o materialmente” responsabili del peggioramento della qualità di vita dell’operaio, oggetto di continue “minacce” e “vessazioni”.

Si tratta di due persone della valle e due di Torino, che non hanno mai visto l’operaio né saprebbero riconoscerlo: ma l’accoppiata Padalino-Rinaudo deve mostrare al ministro Lupi che, sui grandi interessi e sulle piccole strumentalizzazioni, magistratura e politica procedono con il giusto affiatamento. Per far questo hanno scelto il paradosso: l’ipotesi di reato nei confronti dei quattro, le cui abitazioni sono state perquisite dalla polizia per ore (e a cui è stato sequestrato tutto il materiale informatico) è quella di “stalking”, ossia l’infamante crimine che consiste nel molestare una persona, di norma per scopi sessuali. In questo caso, nella cervellotica ricostruzione di Rinaudo e del suo socio, la semplice appartenenza al movimento ha comportato una complicità morale, da parte degli indagati/perquisiti, nella presunta esecuzione delle continue “molestie” che il dipendente della famiglia Martina aveva denunciato (ma di cui non c’è alcun riscontro oltre alle sue parole).

Un mese dopo, il 19 luglio, alcune centinaia di persone di recano di notte, per una manifestazione annunciata pubblicamente, verso il cantiere. L’intera area è completamente militarizzata; ma soprattutto, all’interno del cantiere sono presenti i pm Antonio Rinaudo e Andrea Padalino, che vogliono così dimostrare la copertura totale che, dal punto di vista della legge, avranno le forze dell’ordine in quella nottata. Non a caso le violenze della polizia provocheranno oltre sessanta feriti tra i manifestanti che, colpiti con lacrimogeni, pietre, manganellate e talvolta fatti letteralmente precipitare al buio nelle scarpate dagli agenti inferociti, subiscono ferite e fratture. Sette No Tav vengono arrestati e trasferiti in carcere, in almeno un caso privati delle cure necessarie dopo le gravi percosse e le lesioni subite; ma soprattutto una ragazza, Marta, racconterà di essere stata trascinata al buio e palpeggiata più volte nelle parti intime dagli uomini in divisa, che le hanno poi sputato addosso, prima di malmenarla e spaccarle il labbro con un pugno. “Sei una puttana!” le gridavano tutte e tutti dopo l’arresto, uomini e donne appartenenti alle forze dell’ordine.

I media tacciono sull’evento, ma la ragazza accetta di raccontare la sua terribile esperienza pubblicamente, in conferenza stampa. Il sito de La Repubblica tenta, per alcune ore, di censurare vergognosamente le sue accuse alla polizia, stralciandole dal video; poi, sotto la pressione della rete, cede e inserisce la testimonianza integrale. Diversi uomini politici e giornalisti si schierano con la polizia, dichiarandosi convinti che la ragazza sia una bugiarda e si sia inventata tutto. Molto più numerose le persone, anzitutto donne, che aderiscono alla campagna #senonconmartaquando, da cui però si tengono ben lontane certe opinioniste, donne della politica e giornaliste ben pensanti (si pensi a figure ineffabili come Laura Boldrini e Concita De Gregorio) che erano in prima linea quando si trattava di condurre battaglie meno impegnative. Rinaudo e il suo fido amico aprono un fascicolo contro i No Tav arrestati e, messi alle strette dalla pressione mediatica, un altro sui fatti denunciati da Marta, che viene convocata in procura. I due pm, gelidi, raccolgono la sua denuncia scritta e se ne vanno senza neanche interrogarla, a dimostrazione del loro effettivo interesse verso ciò che le è accaduto. Tutto questo mentre, fuori dal palazzo di giustizia, la polizia picchiava ancora le ragazze giunte a dare solidarietà a Marta con uno striscione. Anche per aver subito quelle manganellate Rinaudo e Padalino aprono un procedimento contro alcune No Tav.

D’altra parte i due, dopo aver assistito dal cantiere le forze dell’ordine nel loro “lavoro”, hanno dichiarato a La Stampa di aver finalmente toccato con mano “ciò che ogni volta subiscono poliziotti e carabinieri (sic): un’esperienza paragonabile alla guerra e che dovrebbero fare in molti, soprattutto quelli che giudicano in punta di penna e di diritto (sic), come molti colleghi e anche tanti giornalisti”. È il pensiero dell’amico di Tonino “O’ Americano”, uomo del boss valsusino Lo Presti, e di Lucianone Moggi, o dell’avvocato Galasso vicino a Vincenzo Procopio, l’uomo degli appalti truccati a Venaus e dei nuovi appalti del cantiere di Chiomonte; secondo la concezione palesemente extra-legale dell’autorità che ha Rinaudo, da magistrati non si giudica “in punta di diritto”: è la guerra. “Tanti giornalisti” e “molti colleghi” non lo capiscono, ma dovranno farsene una ragione: è in corso una guerra per aprire cantieri miliardari in valle che avevano dichiarato in molti, tra i suoi vecchi amici; ed è oggi portata avanti dai nuovi volti degli stessi interessi.

Le accuse di terrorismo
Nel 2013 contro il movimento No Tav viene rispolverato il reato di terrorismo. Da sempre chi è al potere tenta di bollare con questo termine, in un modo o in un altro, chi si oppone agli interessi dominanti senza accettare le regole imposte, per l’esercizio del dissenso, dal potere costituito. Già dopo la resistenza del giugno e del luglio 2011 alcuni funzionari della questura fecero pressione sulla procura affinché i fatti di quei giorni portassero alla contestazione di un reato associativo. Petronzi, nella sua relazione del 4 luglio al procuratore Caselli, sottolineò i legami tra alcune persone presenti al corteo, cercando di insinuare l’esistenza di un disegno preordinato che presupponeva un’organizzazione per delinquere già esistente prima di quei giorni, e mettendo implicitamente in dubbio il carattere spontaneo della ribellione contro le forze dell’ordine che occupavano la Val Clarea. Caselli decise, invece, di optare per capi d’imputazione singoli, al fine di provocare una spaccatura nel movimento che un’accusa “associativa” avrebbe, naturalmente, reso più difficile. Alcuni funzionari di polizia non fecero mistero della loro delusione, sia pur in forma anonima, sui quotidiani del 27 febbraio 2012, il giorno successivo agli arresti.

Il movimento No Tav, però, rimase unito: al “siamo tutti black block” che il coordinamento dei comitati della valle oppose alle speculazioni giornalistiche dopo i giorni dell’assedio, fece seguito la solidarietà attiva di tutto il movimento a tutti gli arrestati. Tra il 2012 e il 2013 il cantiere è stato attaccato più volte: di giorno, di notte, in modo annunciato o a sorpresa; talvolta da centinaia di persone, altre volte da piccoli gruppi di oppositori. Anche i sabotaggi di macchinari utili al suo funzionamento sono stati numerosi. L’ostilità della valle all’opera non è diminuita, quella alle forze dell’ordine e alle ditte coinvolte è aumentata. Ai primi di gennaio 2013 alcuni No Tav tagliano le recinzioni del cantiere, mentre altri lanciano fuochi artificiali per augurare, ironicamente, “buon anno” alle ditte e alle forze dell’ordine; per circa un anno episodi simili erano avvenuti a distanza di poche settimane o pochi mesi, sempre a sorpresa, ma una rigida censura operata dai giornalisti aveva fatto sì che soltanto chi navigava in rete e consultava le fonti del movimento potesse sapere ciò che accadeva.

Poi, dal maggio 2013, il contrordine: i quotidiani e i tg nazionali cominciano a dar notizia di questi episodi, e quasi ci fosse – ohibò – una regia giudiziaria-mediatica, il 13 maggio (dopo l’ennesima azione notturna) Caselli esce allo scoperto con la più faraonica delle sue conferenze stampa. “Ieri notte – dichiara di fronte a una pletora di giornalisti succubi – c’è stato un salto di qualità preoccupante: si è assistito a una vera azione di guerra. Un’azione militarmente organizzata nei dettagli […]. Non si può far finta di niente. Solo per un caso non c’è scappato il ferito o addirittura il morto. Bisogna intervenire […]. Devono essere messi in campo interventi adeguati”. Il procuratore ha già stabilito che si procederà con l’accusa conseguente; se c’è una guerra, e il nemico è popolare, l’avversario non è un soldato, né un oppositore: è un “terrorista”.

Il 10 luglio successivo centinaia di persone raggiungono il cantiere di giorno e, dopo il tramonto, vengono esplosi alcuni petardi e fuochi pirotecnici. Dopo appena venti giorni, il 31 luglio (mentre la valle è ancora sotto choc per gli abusi sessuali perpetrati a Marta dalla polizia pochi giorni prima) dodici militanti del comitato di lotta popolare di Bussoleno vengono ritenuti responsabili (non è chiaro su che basi) dei petardi di venti giorni prima: Rinaudo apre un’indagine con l’ipotesi di reato di “attentato con finalità terroristiche”. Un capo d’imputazione che, frutto della legislazione d’emergenza degli anni Settanta, può condurre in carcere per trent’anni. L’amico di certi amici non ha però nulla in mano: unico “indizio” sono le opinioni degli imputati riguardo all’alta velocità. Invia allora nelle loro caso agenti della Digos, delle sezioni investigative e antiterrorismo, alla ricerca di “video” girati durante le presunte azioni o non meglio qualificati “esplosivi”. Ovviamente non trovano nulla di tutto ciò e, per non allontanarsi a mani vuote, sequestrano qualche felpa e qualche maglietta (Massimo Numa scriverà su La Stampa, nonostante ciò – non si capisce a che titolo – che è stato trovato nelle case “materiale esplosivo”, cosa del tutto falsa).

Migliaia di persone sfilano a Bussoleno in solidarietà agli accusati, che si dicono sereni per aver difeso la propria terra, denunciando il chiaro intento intimidatorio del solito Antonio Rinaudo, firmatario dei provvedimenti. Lo slogan diventa immediatamente un sarcastico “Siamo tutti terroristi”. Il 31 agosto due studenti di vent’anni, Paolo e Forgi, vengono bloccati dai carabinieri sulla statale per Giaglione: i militari mostrano il giorno seguente, in conferenza stampa, alcuni petardi e artifizi pirotecnici. Caselli affronta di nuovo i flash dei fotografi per dichiarare che occorrerà vagliare la “micidialità” di quello che definisce, senza tema del ridicolo, un “arsenale”. I due ragazzi vengono incarcerati in regime di isolamento, poi trasferiti ai domiciliari, ma non verranno mai liberati (ancora oggi sono detenuti). Il processo parte già a inizio 2014 e, nonostante le perizie della difesa abbiano ampiamente dimostrato che il materiale non può essere in alcun modo considerato come insieme di “armi da guerra”, sono stati condannati il 14 marzo, in primo grado, a due anni e due mesi di reclusione, che dovranno scontare pur essendo incensurati. Tra gli elementi ritenuti decisivi a loro carico: quattro bottiglie di plastica considerate idonee a fabbricare delle molotov…

Il 9 dicembre 2013, quando Paolo e Forgi sono già agli arresti e i dodici No Tav del luglio sono ancora sotto indagine per terrorismo, vengono arrestati a Torino tre ragazzi e una ragazza. Sono accusati di aver partecipato all’attacco al cantiere del maggio precedente, quello che Caselli aveva sbandierato, per la prima volta, come “atto di guerra”. Dopo un primo periodo in isolamento a Torino sono trasferiti nei carceri di Alessandria, Ferrara e Roma e sottoposti a regime di Alta Sorveglianza. Sono costretti a fare l’ora d’aria da soli o in compagnia di una persona soltanto, vengono loro più volte negati i colloqui in carcere, limitato ai soli legali. I familiari e gli avvocati protestano inutilmente, il movimento manifesta più volte per la loro liberazione, ma il tribunale si oppone ogni volta alla loro scarcerazione e all’attenuazione delle loro condizioni carcerarie. Tuttora in isolamento, Chiara, Mattia, Claudio e Niccolò saranno processati il 22 maggio con rito immediato per il reato 280bis, ancora per l’“attentato con finalità terroristiche” già contestato ai dodici militanti accusati nel luglio: per un’azione che non ha provocato feriti di alcun tipo, e dove l’unico morto è stato un compressore appartenente a una delle ditte che “lavorano” nel cantiere, che ha preso fuoco.

Il “Terrorismo” secondo la procura
La vicenda riguardanti i quattro No Tav tuttora in cella esprime al meglio il carattere squisitamente politico dell’impianto repressivo contro il movimento No Tav: questa politicità della battaglia della procura, caratterizzata sovente da ampie deroghe ai limiti che lo stesso dettato giuridico pone al potere giudiziario, assume in questo caso i connotati più puri, perché è proprio una legge del codice penale che impone ai magistrati di schierarsi nella controversia sociale e politica in corso (in questo caso intorno all’utilità e alla legittimità della costruzione del Tav in Val Susa). L’ordinanza di arresto del 9 dicembre contiene una lunga filippica non tanto contro i reati commessi dagli oppositori all’opera, quanto in favore dell’opera stessa, qualificata dai magistrati esplicitamente come buona e giusta. Il tribunale e la procura, nel giustificare il loro ultimo e più grave atto d’accusa, entrano così direttamente sul terreno della contesa tecnica e politica sull’utilità e legittimità di una nuova linea ferroviaria che attraversi il cuore della Val di Susa. A p. 14 dell’ordine di arresto per i No Tav il giudice Federica Bompieri riprende con queste parole le motivazioni avanzate da Rinaudo e Padalino:

La scelta del legislatore [nel dichiarare il cantiere sito di interesse strategico nazionale, ndr] è certamente collegata alla necessità di garantire il rispetto della tempistica indicata dall’U.E. per la realizzazione della tratta ferroviaria Torino-Lione, situata al centro degli assi di collegamento tra il nord e il sud e l’est e l’ovest dell’Europa, da Lisbona a Budapest fino a Kiev, il “Corridoio nr. 5” [scenario propagandistico dei primi anni Duemila che in realtà è stato asciato cadere da anni, ndr], prioritario per l’Unione Europea [valutazione ampiamente controversa sul piano tecnico e politico, ndr], che costituisce infrastruttura fondamentale nel quadro degli sviluppi della rete ferroviaria europea [Idem] […]. La tratta Torino-Lione rappresenta per l’Unione Europea e per l’Italia uno snodo nevralgico [Idem] (N. 23318/13 R.G. G.I.P.).

Poco oltre, sempre riprendendo ciò che hanno scritto i pm Rinaudo e Padalino, la giudice menziona “l’assoluto rilievo strategico internazionale che assume la realizzazione dell’opera” e, più avanti, arriva a dichiarare che dal blocco dei lavori per il Tav “deriverebbe […] la crisi dell’intero sistema di trasporto su rotaia, come concepito e delineato dalle istituzioni europee” (Ibidem; un’idea, quest’ultima, così assurda e sproporzionata da non esser mai stata neanche ventilata dai più interessati assertori dell’utilità del progetto).

Sono frasi, quelle utilizzate sul progetto dalla procura e dal tribunale, che sanciscono una presa di posizione smaccata non sul carattere “delittuoso” di questa o quella “condotta” posta in essere da un manifestante o da qualsiasi altro individuo, ma sull’utilità e bontà di un’opera contesta dentro e fuori le istituzioni e lo stesso parlamento. Avevamo già trovato simili prese di posizione in altri provvedimenti d’arresto, ad esempio quello contro i No Tav che avevano occupato la sede della Geovalsusa (nella motivazione d’arresto il Tav era definito “opera legittima”), ma le affermazioni riportate sopra assumono un rilievo retorico e politico ancora più palese: potrebbero essere estrapolate, anziché da un provvedimento giudiziario, dalle dichiarazioni che continuano a rilasciare i personaggi coinvolti per interesse economico o politico, come Claudia Porchietto, Fabrizio Bertot, il vecchio Pietro Lunardi o il fu Ugo Martinat, o figure minori come Osvaldo Napoli, che hanno proferito frasi come quelle migliaia di volte.

Perché la procura e il tribunale hanno deciso, in occasione di questi ultimi arresti, di evidenziare in modo così evidente la loro presa di posizione politica in favore della realizzazione dell’opera (una valutazione che sarebbe competenza del potere legislativo e o di quello esecutivo)? A ben vedere è la legge stessa che glielo chiede, al fine di poter accusare i No Tav di terrorismo. L’articolo del codice penale che viene usato contro i quattro arrestati è infatti lo stesso utilizzato nell’indagine contro i dodici precedenti, il 280bis, che punisce “chiunque, per finalità di terrorismo, compia qualsiasi atto diretto a danneggiare cose mobili o immobili altrui”. Si tratta quindi di un danneggiamento, reato punibile con pochi mesi di reclusione, elevato a fattispecie penale enormemente più grave (che può portare in carcere per decine di anni) a causa della “finalità di terrorismo” per cui esso è avvenuto. Come è possibile, tuttavia, distinguere un danneggiamento “terroristico” da uno che non lo è (ad esempio in rapporto a quello del compressore avvenuto durante l’attacco al cantiere del 13 maggio)?

A questa domanda ha risposto, nel 2005, il governo Berlusconi (quello di Lunardi, Martinat e Pisanu), con la definizione della “finalità terroristica” (art. 270sexies del codice penale):

Sono considerate con finalità di terrorismo le condotte che, per la loro natura o contesto, possono arrecare grave danno ad un Paese o ad un’organizzazione internazionale e sono compiute allo scopo di intimidire la popolazione o costringere i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto o destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un’organizzazione internazionale, nonché le altre condotte definite terroristiche o commesse con finalità di terrorismo da convenzioni o altre norme di diritto internazionale vincolanti per l’Italia.

Per essere definiti “terroristi” non è affatto necessario, quindi, provocare “terrore” nelle persone o nella comunità (come farebbe pensare la parola), ma è semmai sufficiente compiere atti in grado di “danneggiare il paese”: ma chi stabilisce, ancora una volta, che cosa “danneggia” l’Italia, e cosa non la danneggia? Secondo molti la costruzione della linea ad alta velocità provoca all’Italia un danno enorme dal punto di vista archeologico, naturalistico ed economico, per le molte ragioni esposte dal movimento, dai tecnici contrari all’opera, dagli intellettuali e dai giuristi che ad essa si oppongono. Per dimostrare che, al contrario, è l’opposizione al Tav che danneggia l’Italia (non l’atto del danneggiamento del compressore in sé, che andrebbe processato con capi d’imputazione molto minori) Rinaudo, Padalino e i giudici ossequiosi del Tribunale stati costretti ad entrare pienamente nel merito della questione politica, ripercorrendo nelle motivazioni d’arresto (in modo forzato, omissivo e fazioso) tutte le tappe che hanno contraddistinto la storia del Tav in Val Susa, e prendendo infine posizione, come istituzioni giudiziarie, sulla controversia sociale e politica rappresentata dall’alta velocità.

Chi è terrorista?
Rinaudo racconta quindi, nella richiesta d’arresto al tribunale, la sua personale versione della vicenda del Tav che il gip, pedissequamente, ripropone per giustificare l’arresto in regime di Alta Sorveglianza di Claudio, Chiara, Niccolò e Mattia. Rinaudo è obbligato, tuttavia, ad essere doppiamente omissivo, a causa della necessità di presentare un’opera inventata esclusivamente per regalare denaro ai privati come utile alla società e al tempo stesso di celare i suoi personali contatti e rapporti con individui inseriti in contesti politici o criminali (o entrambi) i cui sodalizi traggono interesse dalla realizzazione dell’opera. Scrive, ad esempio, che il 12 dicembre 2003 il Cipe approvò il vecchio tracciato che prevedeva il cunicolo a Venaus; ma omette di ricordare che, in quei giorni, lui era in contatto telefonico con un amico (Tonino Esposito) che agiva per conto della mafia valsusina (Rocco Lo Presti) tentando di influenzare con le pressioni e le minacce un funzionario (Vincenzo Procopio) che sarebbe stato coinvolto in prima persona nella spartizione illegale dei soldi pubblici stanziati per il Tav.

Aggiunge, nella richiesta d’arresto per i No Tav, che l’11 aprile 2005 il governo Berlusconi diede il via libera per lo stanziamento di quei fondi; ma omette di ricordare che poche settimane prima lui era a cena con lo stesso emissario della mafia della Val Susa (Esposito) e con l’avvocato (Andrea Galasso) del viceministro (Ugo Martinat) che aveva organizzato la spartizione di quei soldi tra il suo partito (Alleanza Nazionale) e le imprese del ministro (Pietro Lunardi). Ricorda, ancora, che l’8 dicembre 2005 ci fu l’irruzione dei No Tav nell’area del cantiere di Venaus “con ingenti danni ai mezzi e materiali presenti”, ma non ricorda il danno che quell’irruzione evitò, impedendo a chi metteva a libro paga i suoi amici e commensali (la ‘Ndrangheta valsusina da un lato, Alleanza Nazionale e il governo Berlusconi dall’altro) di causare un danno economico e ambientale incalcolabile (aggravato dalla spartizione illegale, tra amici di suoi amici, di miliardi di euro pubblici).

Aggiunge che il 24 maggio 2011 i No Tav occuparono l’area della Maddalena, ma omette di ricordare che quel giorno lo stato che lui rappresenta intendeva occuparla per insediarvi le attività economiche di famiglie ben note in valle (Lazzaro e Martina), che una relazione alla sua stessa procura indicava in quell’anno come in rapporto proprio con due boss della ‘Ndrangheta (Giovanni e Bruno Iaria, poi arrestati). È la stessa organizzazione per cui aveva lavorato l’uomo (Esposito, che per questo fu arrestato) che era suo amico e da cui si faceva scarrozzare in macchina alle cene con un altro potente amico (Luciano Moggi, in quei mesi a sua volta sotto indagine). Rinaudo racconta che il 30 gennaio 2012 Italia e Francia hanno sottoscritto un nuovo trattato sul Tav, ma omette di ricordare che qualche giorno prima, mentre lui preparava decine di arresti contro gli oppositori dell’opera, entrava ufficialmente nella spartizione degli appalti di Chiomonte l’uomo (Vincenzo Procopio) che lavorava per il viceministro (Martinat) difeso dal comune amico suo e di Moggi (Andrea Galasso). Lo stesso uomo dalle cui telefonate partì anche l’inchiesta che avrebbe portato all’arresto del gangster amico di Rinaudo (Tonino Esposito).

Di fronte a simili omissioni (e chissà quante altre ce ne potrebbero essere, che noi non conosciamo) appare tanto più ridicola la raccolta di presunti episodi “violenti” in Val Susa che Rinaudo e Padalino elencano a mo’ di illustrazione della pericolosità del movimento o della sua “ala dura” per la società. Non soltanto vi vengono mescolati episodi storici di lotta di massa come la resistenza e gli assedi del giugno e luglio 2011, con ambigui atti intimidatori anonimi (buste contenenti polverine e frasi sconnesse, razziste o in stile mafioso) che, con tutta evidenza, non provengono da ambienti legati al movimento, né da suoi simpatizzanti (semmai, in alcuni casi, potevano essere espressione di contrasti criminali in seno al fronte del Tav, contrasti che Rinaudo potrebbe conoscere molto meglio di noi), ma a p. 29 viene citato – tra gli atti di violenza e intimidazione volti a circoscrivere il “contesto” che giustifica l’arresto dei quattro, e la formulazione dell’accusa di terrorismo – il seguente episodio: “5 settembre 2012: invio messaggio web intimidatorio. Sul social network facebook e sui siti youtube.com, notav.info e notav.eu veina (sic) diffuso un video che chiosa il tormentone della passata stagione stiva (sic) ‘Il pulcino Pio’, edito dall’emittente radiofonica romana “Radioglobo”, modificato per l’occasione in ‘Pulcino Pio No Tav’.”

Sarebbe ridicolo, naturalmente, se non si trattasse di un estratto da un provvedimento in seguito al quale quattro persone si trovano da mesi in carcere in regime di stretto isolamento, senza la possibilità di vedere gli altri detenuti e spesso neanche i propri amici e parenti a colloquio: ragazzi a cui vengono tolti mesi di giovane vita, viene impedito un contatto con l’esterno anche attraverso la censura della posta e saranno messi sotto processo per accuse che possono comportare molti anni di prigione. Nonostante Rinaudo e Padalino non abbiano, per ora, confezionato alcun mandato di cattura per il Pulcino Pio, nell’ordinanza la paternità di tutta una serie di azioni specifiche viene ricondotta a gruppi politici su basi non meno sorprendenti: documenti di analisi della lotta No Tav distribuiti durante le manifestazioni, in cui alcuni episodi vengono commentati, sono considerati dai due magistrati “rivendicazioni” di questo o quell’attacco, dilatando ancora una volta enormemente i limiti dell’interpretazione soggettiva nell’attribuire a questo o quell’individuo, a questo o a quel giornale o a questo o quel sito responsabilità strettamente penali.

D’altra parte è proprio questo il gioco giudiziario del “terrorismo”: l’applicazione ordinaria del diritto si basa sulla presunta neutralità delle leggi, che devono essere applicate nello stesso modo per tutti, nonostante le differenze sociali rendano questa idea da un lato ipocrita, dall’altro permettano (come abbiamo visto in concreto) a chi ha il potere economico e politico di gestire senza preoccupazioni i proprio affari, certo anche della collaborazione della magistratura (che può ampiamente forzare e orientare l’applicazione della legge nella direzione che predilige, com’è sempre avvenuto). Quando un fenomeno sociale di insubordinazione appare troppo coriaceo e pervicace per le leggi ordinarie (ed è il caso del movimento No Tav) questo schema fasullo salta e viene sostituito dalla formulazione di accuse “eccezionali” di cui, sul piano politico, la nozione di “terrorismo” è perno: nozione adeguatamente vaga, dalla radice linguistica torva e ovviamente inquietante, indica un concetto che viene riempito di casistiche diverse a seconda delle circostanze, dei tempi e dei luoghi; sempre volto, questo è certo, a creare uno stato di eccezione e addizionale violenza nella formulazione delle accuse, nelle forme di detenzione, nella militarizzazione del discorso pubblico e dei territori, nell’istruttoria processuale e nelle pene inflitte.

Il terreno giudiziario del “terrorismo” è lo spazio giuridico in cui la democrazia autorizza sé stessa a condurre una guerra al suo interno, con metodi incompatibili con le regole e le forme ordinarie dell’amministrazione della giustizia e del controllo sociale: è lo spazio giudiziario in cui il potere politico sospende ogni finzione di “uguaglianza di fronte alla legge” e principi di garantismo là dove un terreno considerato troppo sensibile o dirimente è stato toccato (in questo caso una somma di 23 mld di euro pubblici destinati a mafie, partiti e imprese, ma anche la conquista di progressiva autonomia da parte di un grande movimento popolare) ed è necessario rivelare negli stessi atti d’accusa il carattere politico della responsabilità penale ascritta agli arrestati/imputati.

Il fine delle accuse di terrorismo e della conseguente condizione carceraria disumana (una forma di tortura psicologica a tutti gli effetti, oltre che fisica) è, d’altra parte, fiaccare la resistenza dei militanti e terrorizzare chi intende partecipare alle attività del movimento: l’obiettivo della legge è, in questi casi, terroristico in senso proprio, non formale. Un terrorismo che non ha raggiunto ad oggi i suoi obiettivi, se è vero che il movimento continua a manifestare il suo dissenso, ad attaccare il cantiere, a difendere i propri detenuti e a battersi per la loro liberazione; e se è vero che i detenuti No Tav sono, con la loro dignità e la loro forza, un esempio di forza e di coraggio per chiunque intenda battersi in Italia contro lo strapotere delle agenzie pubbliche, private e giudiziarie della devastazione economica e ambientale.

Nota

I casi giudiziari curati da Rinaudo e Padalino, qui menzionati, sono stati approfonditi su notav.info nei seguenti articoli: Procura senza freni: due indagati per procurato allarme per il rischio frana, 7 luglio 2013; Ancora nella sabbia l’inchiesta sul pestaggio dei notav, 13 febbraio 2013; Paolo e Forgi dal carcere: anche attraverso le sbarre soffia il vento!, 12 settembre 2013; Condannati a due anni e due mesi Paolo e Forgi, notav.info, 14 marzo 2014; Chiesti 9 mesi per Beppe Grillo e Alberto Perino, 7 febbraio 2014; Erri De Luca: considero da scrittore un onore essere accusato delle mie convinzioni, 24 febbraio 2014; Erri de Luca: a Torino un tribunale speciale per i notav, 2 marzo 2014

Cfr. anche No Tav: cos’è successo a Torino Porta Nuova il 25/02/2012, Dantès, 28 febbraio 2012; Luca Abbà: “Ecco com’è andata quel giorno sul traliccio”, La Repubblica, 27 giugno 2012; Pm, talpa in cantiere Tav preparò black out e favorì blitz, Alinews, 12 febbraio 2013; Tav, Vattimo indagato per falso ideologico dopo la visita in carcere agli attivisti, Il Fatto Quotidiano, 25 settembre 2013; Vattimo: qui il dissenso non viene minimamente contemplato, Il Manifesto, 26 settembre 2013; Violò i sigilli alla baita di Chiomonte. Tav, Grillo condannato a quattro mesi, La Stampa, 3 marzo 2014

Sulla vicenda dell’operaio “perseguitato” e delle accuse di “Stalking” si veda Tav: Lupi incotra operaio aggredito, non possiamo indietreggiare, Libero, 23 maggio 2013; Il povero operaio minacciato (che correva i rallies)… e cosa si dice di lui nei bar di Chiomonte, notav.info, 16 maggio 2013; Perquisiti 4 notav…per stalking!, notav.info, 26 giugno 2013; Intervista a Lele Rizzo, lo “stalker” del Tav, Nuova Società, 29 giuno 2013; Un’altra perquisizione per stalking …la farsa continua, notav.info, 9 luglio 2013; Perino: “Stiamo pensando di denunciare la magistratura per stalking”, notav.info, 19 settembre 2013.

Sugli abusi sessuali subiti da Marta cfr. No Tav, la denuncia dell’attivista pisana: “Manganellate, insulti e palpeggiamenti da parte delle forze dell’ordine”, Hunffington Post, 20 luglio 2013; Val di Susa, attivista No Tav: “Manganellata e toccata dalla polizia”, Il Fatto Quotidiano, 20 luglio 2013; Tav, il senatore Pd alla attivista: “Giuste le manganellate, molestia inventata”, Il Fatto Quotidiano, 22 luglio 2013; Marta convocata dalla Procura, domani presidio al Tribunale, notav.info, 25 luglio 2013; Manganellate e feriti al presidio per Marta, notav.info, 26 luglio 2013; Se la violenza machista è di Stato, notav.info, 1 agosto 2013; No Tav, se anche la solidarietà diventa reato, infoaut.org, 17 ottobre 2013; #Se non con Marta quando?, notav.info, 5 dicembre 2013.

Sulle accuse di terrorismo si vedano, per un’introduzione, i seguenti contributi: La «guerra preventiva», Il Manifesto, 30 luglio 2013; No Tav e terrorismo: quale delitto e quale castigo. Intervista all’avvocato penalista Gilberto Pagani, notav.info, 5 agosto 2013; Ugo Mattei: “la logica repressiva contro i notav non appartiene ai valori della Costituzione democratica”, notav.info, 14 settembre 2013; Diritto alla Resistenza: i materiali, notav.info, 10 dicembre 2013; Caselli va in pensione con l’ultimo regalo: una norma anti Al Qaeda, notav.info, 11 dicembre 2013; Quando il nemico parla chiaro. Brevi note sugli ultimi arresti no tav, notav.info, 11 gennaio 2014; I no tav sono terroristi, come lo era Mandela, sabinaguzzanti.it, 19 febbraio 2014; Stefano Benni scrive a Mattia in carcere, notav.info, 11 marzo 2014; Una giusta resistenza, notav.info, 21 marzo 2014; Il terrorismo e gli universi paralleli, zerocalcare.it, 21 febbraio 2014; Giulietto Chiesa: con i no tav ventenni che rischiano trent’anni, notav.info, 20 aprile 2014; Carlo Freccero: con i notav la parola dissenso diventa sinonimo di terrorismo, notav.info, 21 febbraio 2014; No Tav: Appello degli intellettuali per i 4 attivisti accusati di terrorismo, polisblog, 16 aprile 2014.

 

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