Evocare i mostri, suonare le sirene d’allarme, è un modo per dare corpo ai fantasmi, per renderli veri. La costruzione del nemico pubblico, preparata e resa possibile dai media, ha trovato il proprio compimento nell’abnorme apparato di sicurezza che ha investito Torino il 10 maggio.
Qui puoi vedere una galleria di foto dello spezzone rosso e nero al corteo
Qui le foto di un No Tav segusino
Jersey di cemento e acciaio, griglie, decine di blindati, 1600 uomini e donne in armi tra polizia, carabinieri, guardia di finanza e vigili hanno serrato in una morsa d’acciaio il Palagiustizia e l’intero percorso del corteo.
Un’esibizione muscolare per creare un’aura di pericolo intorno alla marcia popolare che il movimento No Tav aveva indetto in solidarietà a Chiara, Claudio, Mattia, Niccolò. I quattro attivisti No Tav, accusati di un’azione di sabotaggio al cantiere di Chiomonte, trasformata dalla Procura di Torino in “attentato con finalità di terrorismo”, sono in carcere da cinque mesi: il processo contro di loro inizierà il prossimo 22 maggio nell’aula bunker delle Vallette.
L’ultimo tassello in un dispositivo costruito con cura, pezzo dopo pezzo, per esorcizzare un movimento che resiste e non si arrende, nonostante le botte, i lacrimogeni, le inchieste, il carcere.
Un movimento forte nelle proprie ragioni che non vuole cedere alle ragioni della forza. Chi in questi anni ha attraversato la lotta No Tav sa bene che lo Stato sta giocando tutte le carte a propria disposizione per dimostrare che nessuno può permettersi di contestare il gioco di potere ed affari delle grandi opere.
La violenza dell’occupazione militare si prolunga nell’assedio mediatico al movimento. Anche questa volta giornali, televisioni e radio hanno forzato la realtà, riproponendo lo schema logoro dei pacifici valsusini e dei cattivi anarchici ed antagonisti.
L’urlio rabbioso dei media era tanto più fragoroso se paragonato al silenzio tombale che ha accompagnato l’inchiesta del movimento No Tav sulle amicizie pericolose del PM Antonio Rinaudo, l’uomo che, con il collega Padalino, ha la missione di colpire il movimento, e, con esso, la grande speranza di cambiamento reale che i No Tav hanno suscitato nell’intera penisola.
Il parlamento e i governi che si sono succeduti hanno abdicato a favore della magistratura, cui è stato affidato il compito di regolare i conti con i No Tav. La Procura torinese forza le norme per consentire lunghe carcerazioni e ottenere l’effetto potente che deriva da un’accusa terribile come “terrorismo”.
Non c’è più spazio per la politica. O, meglio, non c’è più spazio per le mediazioni istituzionali. Nel 2005, dopo la rivolta che portò alla ritirata delle truppe di occupazione, il governo decise di aprire un tavolo di mediazione, per far passare con la vaselina quello che non era riuscito con la violenza.
Il fallimento della trattativa, rese chiaro un fatto importante. Le istituzioni locali non controllavano il movimento, non erano in grado di sgretolarne i convincimenti, di spezzarne l’integrità morale.
Chi ci aveva provato, come Antonio Ferrentino, nonostante il prestigio di cui aveva goduto in passato, ha fallito clamorosamente ed oggi regge il cappello alla lobby Si Tav, nella speranza di agguantare una poltrona.
Constatare il fallimento delle mediazioni istituzionali ha aperto la strada alla violenza di Stato, agli sgomberi violenti, agli arresti, ai gas da tempi di guerra, perché non si trattava più solo di soldi, ma era in ballo la legittimità del gioco democratico, smascherato nella concretezza delle proprie dinamiche, che ne hanno messo in luce l’illusione partecipativa.
Sempre più persone hanno imparato a camminare con le proprie gambe, hanno imparato e muovere i primi passi sui sentieri dell’autonomia dall’istituito.
Il tentativo di usare la categoria della legalità per dividere il movimento è clamorosamente fallita. Quando la violenza di Stato si è dispiegata in tutta la sua brutalità, il movimento ha fatto propria la pratica del sabotaggio, riconoscendosi in chi tentava di gettare il proprio zoccolo nell’ingranaggio, per incepparlo, rallentarlo, per indicare una via, una possibilità.
Sabato 10 maggio il popolo No Tav ha invaso le strade della città, portandovi tutta la passione di una lotta che non si fa rinchiudere nei racconti cupi dei giornali, che non si fa annientare dalla durezza della magistratura e della polizia.
Come in Clarea, gli uomini e le donne dello Stato, asserragliati dietro alle barriere d’acciaio, erano come belve chiuse nelle gabbie che loro stessi avevano piazzato a difesa dell’immagine del potere.
Al centro del dispositivo si ergeva il Palagiustizia, con la sua mole possente, eccessiva, come si conviene al grande teatro delle vendette di Stato, ai suoi rituali reiterati, sin nella mascherata delle toghe e degli ermellini, per chiarire la natura sacrale della Legge.
Farne cosa sacra è un buon modo per mascherarne l’intima natura di rappresentazione ritualizzata di equilibri di potere.
Per le strade, lontano da quel Palazzo di cemento e acciaio con un cuore di sbarre, ha marciato la gente che ha imparato la differenza tra la Legge e la giustizia, tra quanto è legale e quello che è invece legittimo.
Chi sa che la vita, il futuro dei propri figli e nipoti, la libertà di decidere non hanno prezzo, sa che occorre ripercorrere le strade della lotta e della resistenza, le strade di chi sabota perché non tollera di essere trattato da schiavo.
Il corteo, decine di migliaia di uomini, donne e bambini, ha attraversato le strade della città, portandovi la rabbia contro chi sfrutta, opprime, incarcera, ma anche la gioia per la lotta che insieme si conduce. Lo sappiamo: l’unica battaglia persa è quella che si abbandona.
Tanti gli anarchici e le anarchiche che hanno partecipato allo spezzone sociale, aperto dagli striscioni “azione diretta autogestione” e “Terrorista è chi bombarda, sfrutta, opprime”.
Numerosi gli interventi dal camioncino, che hanno portato la voce delle lotte in ogni dove d’Italia, del loro intrecciarsi con quelle di chi in Piemonte, si batte contro la ferocia dello Stato, contro chi ogni giorno devasta e saccheggia.
Tiziano, della CdC della Federazione Anarchica, ha ricordato che terrorista è lo Stato, lo Stato che detta le leggi che proteggono i padroni. Ha rivolto un ricordo particolare ai morti della TyssenKrupp, i sette uomini assassinati dal padrone, che proprio in questi giorni la magistratura ha deciso di graziare. La stessa magistratura che formula un’imputazione di terrorismo per un compressore bruciato.
Raffaele da Trieste ha ricordato il ragazzo morto in questi giorni all’ospedale della sua città, dopo mesi di coma, dopo una caduta violenta durante una rivolta al CIE di Gradisca: un’altra vittima delle frontiere tra gli Stati, delle leggi razziste che negano un futuro ai “senza carte”.
Salvatore ha parlato del movimento contro il Terzo Valico, che sta cominciando a percorrere le strade dell’azione diretta. Federico è intervenuto sull’opposizione al Tav nel nord est della penisola, Nicco di Reggio ha sottolineato l’importanza di legare le lotte per la difesa del territorio a quelle contro il militarismo e la produzione bellica, Lollo ha messo al centro la grande valenza simbolica della rete di mutuo appoggio che sta crescendo nella pratica quotidiana, tra chi non accetta più di vivere da schiavo, tra chi sempre più, alza la testa.
Una grande giornata. Un grande abbraccio collettivo perché Chiara, Claudio, Mattia, Niccolò, sappiano di non essere soli, perché quella notte di un altro maggio, in Clarea c’eravamo tutti.
La scommessa, questa sì difficile, è però sempre la stessa.
Creare le condizioni, passo dopo passo, tra una marcia popolare ed un sabotaggio, tra un pranzo condiviso e un blocco, perché il territorio diventi ingovernabile, perché in ogni dove ci sia una barricata. Il potere è molto bravo nel difendere i propri fortilizi, ma quando la lotta si estende, quando in ogni dove si stringono legami, quando ovunque c’è qualcuno che inceppa l’ingranaggio, le truppe non bastano più e comincia una nuova avventura.
L’emblema della giornata è l’immagine di quattro No Tav, Titti, Giovanni e i loro due nipotini, al collo un cartello con i nomi di Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò. Sorridono.
Il bastone che Titti usa dal 29 marzo del 2012, quando le belve in divisa le spaccarono la gamba, è in un angolo.
Sarà sempre più dura.
Per chi bombarda, sfrutta, opprime.
Maria Matteo
(questo articolo è uscito sul settimanale Umanità Nova)