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Ridi pagliaccio

petit-clownIl ghigno del clown è più triste e duro di una disperata pietà marmorea (Euf.)

Nel “18 di Brumaio” Karl Marx sosteneva che le tragedie, quando si ripetono, si volgono in farsa. La parabola di questi primi due decenni del nuovo millennio, lungi dal chiudere i conti con il secolo breve, ne mima tragedie ed utopie in farse spesso tragiche. Mai, però, davvero serie.

Viviamo i tempi dell’usa e getta, della vita regolata dal ritmo della merce. L’obsolescenza programmata è garanzia di crescita economica, lo spreco criminale un mero effetto collaterale.
Il pianeta che arde, i mari che si innalzano, il deserto che cinge d’assedio le vite di milioni di persone è solo uno show tra i tanti. I Grandi della terra hanno suonato la grancassa sulla salvezza del pianeta prima dell’ultima conferenza sul clima di Parigi, ma nulla si è mosso dopo il clamoroso flop finale. Le emozioni si erano ormai esaurite: era tempo di guardare altrove.
La distopia orwelliana del controllo globale si è consumata nell’acquario del Grande Fratello televisivo, mentre, senza traumi, le tecniche del controllo globale irrompevano nella quotidianità, trasformando ogni luogo in un set cinematografico. Come lumache ci muoviamo lasciandoci alla spalle una traccia di bava elettronica. Sottrarsi è quasi impossibile. Molti nemmeno lo vorrebbero.
Nel magico mondo di Facebook le persone si espongono allo sguardo di centinaia di “amici” mai visti e si sottopongono a continui sondaggi per ogni genere di marketing ed inchiesta.
Non c’è nessuna forma di coercizione, basta un click per fuggire, ma non c’è bisogno di psicopolizia, perché tutti sono felici di entrare nel Luna Park. E la giostra gira senza fine. Chi non sale è fuori dalla società, non è dentro il flusso delle cose che succedono, degli “eventi”, delle “relazioni”.
Nel libro delle facce scorre tutto: dalle teste mozzate esibite dagli adepti del jihad globale, alle tecniche di coltivazione dell’orto bio.
Il Novecento ha inaugurato la dittatura del nuovismo, della giovinezza come categoria politica, ma non è riuscito a liberare l’umanità dalla schiavitù del futuro. Oggi invece viviamo intrappolati nel presente, senza un domani, che non sia un “altro” oggi. Persino l’indignazione di fronte alla guerra, alle migliaia di morti, feriti, torturati si esaurisce in fretta. Quest’estate le immagini dei profughi siriani, la fotografia  di un bimbo piccolo, rannicchiato come nel sonno, le onde e la sabbia come sudario, si è presto sciolta nella memoria.
Click, click, click! Gira ossessiva, un pungolo per le coscienze, poi la foto del bambino scompare: al suo posto c’è la gatta Kitty e i suoi cuccioli, un tramonto al mare, una barzelletta, una carica della polizia, un articolo sui danni del cioccolato… Un bombardamento si mescola con le prime istantanee del nipotino di chissachi da qualche parte.
Tutto scorre ma nulla si ferma, neppure le tragedie vere balzano fuori dal Luna Park. Anzi. Vi si installano come gli orrori di cartapesta di una casa di fantasmi che svetta accanto al banchino del torronaio e al tirassegno.
La messa in scena della guerra la rende irreale, parte dello spettacolo. Nulla che ci riguardi davvero.

I fantasmi del Novecento
Non c’è ragionare ed agire di trasformazione sociale che possa prescindere dal Luna Park.
I movimenti che si sono sviluppati negli ultimi vent’anni hanno provato a chiudere definitivamente i conti con il Novecento, ma ci sono riusciti solo in parte. Il tramonto delle filosofie della Storia, l’annullarsi dell’ipoteca del futuro sul presente, la coerenza tra mezzi e fini sono tasselli importanti in un processo rivoluzionario di segno libertario. In questi anni è stata netta la chiusura di credito nei confronti della tradizione autoritaria dei movimenti anticapitalisti.
Scrollarsi di dosso il peso delle grandi narrazioni ha liberato energie che si sono espresse nella tensione a processi di trasformazione sociale i cui primi frutti maturano già ora, rendendo fertile il terreno per forme di esodo conflittuale dall’ordine politico e sociale nel quale siamo forzati a vivere.
Tuttavia smuovere i macigni è più facile che uscire dalla vischiosità del presente, dalla volatilità del fluire informativo, dal ritegno a confrontarsi con una prospettiva rivoluzionaria, che non appare né vicina né probabile. L’ansia per la concretezza smorza la tensione progettuale, condizionando fin anche la riflessione sulla situazione e sulle possibilità che si offrono.
La democrazia (e il capitalismo) sono divenuti a tal punto pervasivi da farci credere di essere l’unico orizzonte possibile. Non il meglio, ma il meno peggio. La tensione al rovesciamento dell’ordine politico è sociale si inabissa con il Novecento.
Tanta parte dei movimenti non riesce ad andare oltre lo spazio di una singola, specifica lotta, perché non riesce ad immaginare come costruire un percorso che, al di là dell’occasionale radicalità dell’agire, sappia porre in primo piano la forza sovversiva dei propri fini.
Eppure oggi farla finita con l’ordine gerarchico e con la logica del profitto, non è mero esercizio di prefigurazione utopica, ma deflagrante necessità imposta dalla furia distruttrice che devasta e saccheggia il pianeta, condannando a morte e miseria la gran parte di quelli che ci vivono.
I movimenti degli ultimi anni, specie in Europa, chiudono la loro parabola nella desolante “concretezza”, di una lista elettorale o nell’illusione che il cocktail di demagogia più internet offra spazi partecipativi altrimenti inattingibili. È l’esito delle piazze “indignate”, dove la ri-scoperta dell’autonomia dello spazio politico ha ceduto il passo alla rincorsa alle poltrone, smarrendo la forza dirompente del momento istituente. È l’approdo delle piazze greche, che nel febbraio del 2012, negavano legittimità ad ogni governo, bruciando banche e ministeri. Quel febbraio si è smarrito nel realismo che ha portato ad un governo dei “movimenti”, l’unico che poteva (potrà?) tenere a bada le piazze elleniche.
Il consenso, registrato qua è là, verso pratiche di lotta più radicali, che parevano sepolte nel passato, non basta a spezzare la fascinazione istituzionale, quando non si traduce in reale, concreta sottrazione al gioco elettorale, nella pratica di forme di autogoverno, nell’apertura di spazi pubblici non statali.

In tanta parte del nord africa e in Siria le primavere di rivolta si sono inacidite in dittature e jihad. Una tragedia vera che ha il sapore della farsa.
Troppo facile una lettura in chiave meramente reattiva. Le dinamiche neocoloniali che hanno investito questi paesi hanno contribuito ad alimentare un potente risentimento, una desiderio di riscatto, un rifiuto di ogni prospettiva, foss’anche rivoluzionaria, che abbia il retaggio dell’Occidente.
Se fosse tutto qui gli esiti avrebbero potuto essere ben altri, come dimostra il percorso delle comunità del Bakur e del Rojava, passate da un nazionalismo in salsa marxista al rigetto dell’idea di Stato-nazione in chiave di autogoverno, femminismo ed ecologia sociale.

Nel barile della jihad, come in quello dei movimenti xenofobi, ultranazionalisti e razzisti che crescono nel cuore dell’Europa, c’è l’horror vacui di fronte ad un ordine del mondo che non ha più futuro. Nemmeno nella ripetizione dell’oggi.
Il nemico non è l’Occidente o la Democrazia o la Globalizzazione, ma la paura. La paura che si nutre di fantasmi, tanto potenti quanto invisibili. L’estrema destra ha trovato spazio in paesi come l’Ungheria o la Slovacchia, paesi che certo non attraggono immigrati e profughi, ma dove il futuro appare incerto.
Il vento della jihad soffia nelle banlieue francesi come in paesi ricchi come la Libia. La guerra santa offre un luogo dove ri-trovare se stessi, uno spazio identitario forte, un vaccino contro la paura.
Chi ne da una lettura anticapitalista e banalmente antimperialista non coglie che gli stessi che fracassano gli strumenti musicali e riducono in schiavitù le donne viaggiano in rete, usano i satellitari, sono, a pieno titolo, uomini ultramoderni.
Non si contentano di mostrare decapitazioni, torture e crocefissioni: sono ormai passati dalla spettacolarizzazione della morte all’esibizione di morti sempre più spettacolari.
Nulla dura: se si vuole mantenere alta l’audience servono numeri sempre più scenografici. I jihadisti sono a pieno titolo dentro il Luna Park.

La guerra mondiale che ha l’epicentro in Siria potrebbe presto allargarsi in modo incontrollato.
Incepparla non sarà facile, perché la paura rischia di crescere ancora, perché la scelta di rifugiarsi sotto una bandiera potrebbe trovare nuovi adepti.
Coniugare la pratica autogestionaria dei movimenti e una prospettiva di trasformazione globale chiude davvero i conti con quella parte del Novecento, che pretendeva di ipotecare l’oggi al domani. Liquidato il peso della Storia, si tratta di sciogliere la vischiosità del presente senza resuscitare la dittatura del futuro.
(Quest’articolo è uscito questo mese su A rivista)

Posted in anarchia, autogestione, autogoverno, Inform/Azioni.

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