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La marea sale ancora

Non era scontato. Non era scontato che, dopo l’imponente manifestazione femminista del 26 novembre 2016 e la grande assemblea del giorno successivo, il nuovo appuntamento della rete femminista “Non una di meno” lanciato per il 5 e il 6 febbraio a Bologna fosse colto da tanta gente. La marea continua a salire: 1500 persone hanno partecipato agli otto tavoli di lavoro e alla plenaria conclusiva nei locali della facoltà di giurisprudenza del capoluogo emiliano. Tanti i luoghi, gli accenti, le storie, le vite, i percorsi politici e sociali che si sono incrociati in due giorni di confronto, quasi sempre pacato, mai semplice.
Negli ultimi anni è nato un movimento femminista capace di porre al centro la questione dell’identità, che non è biologica, ma politica e sociale. Questo movimento sta smontando la logica binaria che ha segnato altri percorsi. A “Non una di meno” partecipano donne e uomini, le cui identità sono difformi, spurie, fuori dagli schemi.
È un femminismo che colloca la lotta al patriarcato agli incroci dove si interseca con questioni come la classe, la razza, la gerarchia. Non accetta che la libertà e la sicurezza delle donne possa divenire alibi per moltiplicare la pressione disciplinare, i dispositivi securitari e repressivi.
Il movimento nasce sulla spinta di quelli sudamericani contro la violenza maschile sulle donne e fa parte di una rete transnazionale in rapida crescita. È un movimento di lotta che sta cercando, tramite il confronto e la ricerca del consenso, di articolare un discorso pubblico, un “piano femminista” contro la violenza di genere.
Un discorso che si sta definendo nei tavoli di discussione, che si sono costituiti a Roma il 27 novembre, e che, tramite mailing list nazionali e svariate articolazioni territoriali si sono sviluppati in ogni dove.

A Bologna l’intersezione dei linguaggi mostrava la trama sottesa alle tele intessute da ciascun*. In molt* invece era forte la tensione a condividere i vissuti, per dare parola politica a quanto viene relegato ai margini, rinchiuso nel privato. Privato in tutta la profonda ambiguità di un termine che è gabbia normativa e indice di sottrazione da una sfera pubblica ancora declinata al maschile, universale, bianco, eterosessuale.
Anche nei luoghi di “movimento”. Un’inchiesta realizzata a Roma in alcuni posti autogestiti ha rivelato che un terzo delle compagne ha subito violenze e molestie in spazi di aggregazione politica e sociale, in cui l’antisessismo è formalmente un valore condiviso. Le statistiche ci dicono che la percentuale nazionale è identica. I “nostri” posti sono autogestiti, crocevia di lotte ed esperienze, luoghi dove si prefigura il mondo che vorremmo, ma non sono esenti dal sessismo, dalla violenza di genere. Fare i conti con questa realtà, individuare strategie per riconoscerla, raccontarla, affrontarla e combatterla è l’obiettivo del tavolo sul sessismo nei movimenti, cui ho partecipato con altr* compagn* dell’assemblea antisessista di Torino.

Oltre a quello sul sessismo nei movimenti c’erano altri sette tavoli tematici: legislativo e giuridico; lavoro e welfare; educazione alle differenze; femminismo migrante; salute sessuale e riproduttiva; narrazione della violenza attraverso i media; percorsi di fuoriuscita dalla violenza.
L’obiettivo dichiarato della due giorni era, oltre al dibattito sul piano femminista contro la violenza di genere, la definizione degli obiettivi dello sciopero globale delle donne di mercoledì 8 marzo.
Questi tavoli hanno lavorato in contemporanea, in un’alternanza tra momenti collettivi e approfondimenti di gruppo, con una pratica orizzontale, libertaria, inclusiva.
I grandi numeri e il grande entusiasmo mostrano un movimento in crescita, ancora aurorale, che si trova in bilico tra la ricerca dell’interlocuzione istituzionale e la tensione a costruire autogestione e conflitto fuori dalle gabbie normative imposte dallo Stato, fuori dalle relazioni di sfruttamento cui ci costringe la società di classe.
Molti i nodi rimasti aperti. In alcuni tavoli sono prevalse, non senza un aspro dibattito, tentazioni stataliste. Nel tavolo “lavoro” la spinta ad ottenere basi materiali per sottrarsi ai rapporti violenti ha prodotto una nuova declinazione del “reddito di cittadinanza” traslato in “reddito di autodeterminazione”, da cui emerge con termini innovativi una trama usurata. E pericolosa. Affidare alla tutela statale la propria autonomia è un ossimoro, figlio di una perdurante illusione statalista. Tuttavia il dibattito è stato molto più ampio, articolato, complesso, aperto, nel ricercare una fuoriuscita dalla condanna ai lavori di cura non retribuiti, che non poggiasse sulle mani e sulle spalle delle donne migranti.
Il tavolo giuridico, ma forse era inscritto nel suo DNA politico, si è chiuso nel gioco delle convenzioni e dei diritti formali, quelli, che in altri ambiti, servono ad emettere severe condanne postume.

Decisamente più interessante l’esito del tavolo “educare alle differenze”, che, contro la logica delle “pari opportunità” vuole “coltivare un sapere critico verso le relazioni di potere fra i generi e verso i modelli stereotipati di femminilità e maschilità”.
Al tavolo sulla fuoriuscita dalla violenza, cui hanno partecipato soprattutto le donne dei centri antiviolenza, è stato affermato il netto rifiuto dell’istituzionalizzazione dei centri antiviolenza, la rivendicazione del ruolo politico di chi ci lavora, che nega la logica assistenzialista, dando spazio alle donne, non più vittime ma protagoniste.

Molto concreto, mirato al contrasto del racconto mediatico prevalente e alla costruzione di percorsi comunicativi femministi il lavoro del tavolo comunicazione.

Il tavolo sul femminismo migrante, pur scontando l’aporia della scarsa partecipazione delle donne straniere, ha formulato l’obiettivo di cancellare le leggi razziste, i cie, le deportazioni.
Il dibattito si è concentrato sulle gabbie che stringono d’assedio le vite migranti, strangolate da leggi razziste, che tengono sotto costante ricatto chi, per mantenere il permesso, non può perdere il lavoro.
Molte donne senza lavoro eccetto quello non retribuito tra le mura democratiche, sono vincolate al permesso del marito e quindi sotto doppio ricatto.

Al tavolo sulla salute si è parlato di riconquista dei consultori, di rendere liberi e sicuri l’aborto, la contraccezione, l’accesso agli esami.

Intorno a questi temi è stato costruito lo sciopero dell’8 marzo, senza fare sconti alla CGIL, che non aveva proclamato lo sciopero ma pretendeva di essere parte del percorso. Nessuno sconto neppure a quei settori del sindacalismo di base, che pur proclamando sciopero l’8 marzo, non hanno accettato di far convergere sull’8 lo sciopero convocato il 17 febbraio contro la buona scuola.
A Bologna nella plenaria finale il comunicato inviato dalla CGIL è stato sommerso dai fischi, mentre fragorosa è stata l’approvazione verso le proposte più radicali.
I prossimi mesi ci diranno se le tele che stiamo tessendo sono robuste, capaci di contrastare il riformismo, le seduzioni welfariste, le illusioni sui “diritti”, che pure hanno fatto capolino nei vari tavoli.

Sono già molti gli avvoltoi che si aggirano con in tasca una proposta normalizzante, una struttura permanente, una tutela politica.
Non penso che avranno vita facile. La misura è colma. “Non una di meno” è una promessa che ciascuna fa a quelle che mancano. Ma anche una promessa che ciascuna fa a se stessa, Il patriarcato si (ri)afferma mettendo sotto ricatto quotidiano le nostre vite. Le donne uccise, stuprate, picchiate, umiliate, perseguitate, derise sono un monito per tutte le altre. La servitù volontaria è una tentazione forte, specie se sei sola. I movimenti, le reti femministe, i luoghi sottratti al sessismo ci danno la forza collettiva per attaccare, per strapparci di dosso il ruolo di vittime, per costruire la strada che va dal genere all’individuo. Non mera astrazione giuridica ma mutevole e concreto approdo per tutte, per tutti, per tuttu.

Maria Matteo

(Quest’articolo uscirà sul prossimo numero di A rivista)

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