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Godzilla e il referendum

diserta-2-jpgFate fatica ad arrivare alla fine del mese? Siete nei guai con il padrone di casa? Stanno per sfrattarvi? Vi portano via i mobili perché avete perso il lavoro e non avete pagato le rate?

Di che vi lamentate? Il governo dice che viviamo nel migliore dei mondi possibili, che liberismo e democrazia garantiscono pace, libertà, benessere. Ci raccontano le favole e pretendono che ci crediamo.
Intanto per la povera gente vivere è sempre più difficile.

La destra fascista e leghista all’opposizione ci dice che è tutta colpa di chi è più povero di noi, dell’immigrato, del profugo di guerra: basta chiudere le frontiere e il nostro paese diventa l’Eldorado, dove tutti sono ricchi e felici.

Pure i Pentastellati vorrebbero chiudere le frontiere e cacciare tutti i senza documenti. Vorrebbero anche più galere per rinchiudere i corrotti e i corruttori. Poi tutto andrebbe a posto: noi saremo tutti felici di far ricchi i padroni per bene, saremo contenti che vi siano governi saggi che decidono cosa è meglio per noi.

diserta1Gli antagonisti invece hanno trovato la formula magica che risolve tutti i problemi. Votare No alla riforma costituzionale voluta dal governo, per far cadere Renzi e mandare al suo posto i 5 stelle, un partito autoritario, giustizialista, razzista e guerrafondaio.

Leghisti, fascisti, forza italici, pentastellati, rifondati ed antagonisti andranno tutti a votare No per cacciare Renzi. Anche la minoranza dello stesso PD voterà No per indebolire il governo.

La Carta costituzionale è solo carta. Nei fatti la Costituzione reale del paese è sempre stata lontana da quella formale, comunque condizionata dal trovare un equilibrio tra i maggiori partiti, in un paese destinato all’orbita statunitense. Al di là di qualche generico proclama, la Costituzione difende la proprietà privata e quindi il diritto allo sfruttamento del lavoro, delle risorse e delle nostre stesse vite.

La distanza tra la Costituzione formale e la Costituzione reale dimostra che le stesse regole del gioco del potere sono solo una vetrina da lustrare nelle cerimonie ufficiali tra il 25 aprile e il 2 giugno. Una vetrina che certa sinistra, radicale e non, sta lustrando per mettere in scena un’opposizione al governo che stenta a crescere nella società e si rifugia nel gioco referendario, dove c’è ressa per partecipare alla partita dei tutti quanti assortiti contro Renzi.

diserta-3-jpgI richiami alla Resistenza farebbero infuriare i tanti partigiani che combatterono perché volevano che la sconfitta del fascismo fosse il primo passo verso la rivoluzione, senza padroni e senza un governo dei pochi su tutti.

In questi ultimi trent’anni chi ha governato ha distrutto diritti e tutele, strappati in decenni di lotte, di chi aspirava ad una totale trasformazione sociale.

I governi di questi decenni ci hanno detto che non c’erano soldi. Mentivano. I soldi per le guerre, per le armi, per le grandi opere inutili li hanno sempre trovati. Da anni aumenta la spesa bellica e si moltiplicano i tagli per ospedali, trasporti locali, scuole.
Non vogliono spendere per migliorare le nostre vite, perché preferiscono usarli per le guerre non dichiarate, che in barba alla Costituzione, i governi di destra e di sinistra hanno fatto in ogni dove.

Costruire un’opposizione sociale radicale e radicata è un percorso che non consente scappatoie.

Cacciare Renzi per far governare Di Maio? O Salvini, Berlusconi…

diserta4-jpgNon fa per noi. Cacciamoli tutti! Vadano via tutti!

Il gioco della Carta Costituzionale è come quello delle tre carte: non si vince mai. O, meglio, vince il ceto politico, vincono i populisti, il popolo del no euro, quello degli spaventati dalla finanziarizzazione dell’economia. Non si caccia un mostro evocandone un altro. Il Godzilla che esce dalle acque del Mediterraneo è un mostro nazionalista, che si nutre di muri e filo spinato, che sogna il protezionismo e l’autarchia. Può sconfiggere Renzi, come Trump ha sconfitto Clinton.

Tra i due o tre mostri che governano o aspirano a governare noi rifiutiamo di scegliere, scegliamo il rifiuto. Non vogliamo decidere la foggia delle nostre catene, perché vogliamo spezzarle.

Cambiare la rotta è possibile. Con l’azione diretta, costruendo spazi politici non statali, moltiplicando le esperienze di autogestione, costruendo reti sociali che sappiano inceppare la macchina e rendano efficaci gli scioperi, le lotte territoriali, le occupazioni e riappropriazioni dal basso degli spazi di vita.

Un mondo senza sfruttati né sfruttatori, senza servi né padroni, un mondo di liberi ed eguali è possibile.
Tocca a noi costruirlo.

 

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La maschera della democrazia

maschereRiflessioni a margine di una storia di (stra)ordinaria repressione in una banlieu parigina.

L’Isis ha un solo merito: aver messo allo scoperto le aporie democratiche, l’inconsistenza della narrazione sull’universalità dei diritti umani, la scatola vuota che regge l’immaginario che attraversa buona parte del pianeta.
Sui social media francesi e poi, di rimbalzo, su quelli nostrani, gira il racconto di un giovane ricercatore universitario testimone ed involontario protagonista di una vicenda di ordinari soprusi.
All’uscita della metropolitana sente le urla acute di una donna. La vede a terra, ribelle alle fascette di plastica che le serravano i polsi incidendole la carne. Il trattamento le era stato inflitto da un folto gruppo di poliziotti che l’avevano pescata senza biglietto. Siamo in una banlieue e la donna è nera.
La scena è molto violenta: l’uomo prova a fare delle riprese ma diventa a sua volta vittima dei poliziotti. Gli strappano il cellulare lo malmenano in un crescendo di insulti e botte. Lo minacciano di stupro e di morte. Gli dicono che andranno a cercarlo alla Sorbona. Usano il taser per torturarlo. Il dolore e la paura si mescolano. Finirà con una carica con manganelli, lacrimogeni e pepper spray sulla piccola folla che si era adunata intorno.
La narrazione è molto lucida: la donna è stata razzializzata, privata di quella citoyenneté universale, che è l’architrave narrativa della Republique. L’uomo viene attaccato come rappresentante di un’elite intellettuale che non sa stare al suo posto, che gioca con i principi, mentre intorno infuria la guerra.
Questa storia ha suscitato indignazione, perché la Republique avrebbe infangato se stessa, i propri principi, la propria stessa ragion d’essere.
Quest’indignazione in realtà non fa che confermare le ragioni dei guerrafondai, di quelli che cavalcano lo scontro di civiltà. L’indignazione conferma che c’è chi ritiene che la triade rivoluzionaria – libertà, uguaglianza, solidarietà – sia il perno fondamentale delle nostre relazioni politiche e sociali. Quando questo perno salta saremmo di fronte ad eccezioni che confermano la regola, o a difetti correggibili.

In realtà è l’esatto contrario. La democrazia non viene tradita, semplicemente si mostra senza veli, tradendo la propria intima natura. Una natura basilarmente ambigua, poiché il sistema democratico è fondato su un’uguaglianza del tutto astratta. Poveri, donne, omosessuali, stranieri sono rimasti a lungo esclusi dai diritti connessi alla cittadinanza, mai raggiunti pienamente in ogni dove la democrazia sia divenuta fondamento ideale dell’agire politico.

Continued…

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Cacerolata femminista tra la movida

caceSabato 5 novembre, lungo le vie di San Salvario nonostante la pioggia, sono sfilate diverse realtà, gruppi individualità che insieme stanno tracciando le tappe di avvicinamento alla manifestazione del 26 novembre a Roma. NonUnaDiMeno si batte contro la violenza i genere. Una Casserolata rumorosa, l’affissione di strisce con i contenuti della lotta, la narrazione delle storie che segnano il nostro quotidiano, ha caratterizzato il passaggio per le vie del quartiere della movida, per rompere il silenzio e l’indifferenza, per sostenere un percorso di libertà, mutuo aiuto e autodifesa fuori e contro chi vuole le donne inchiodate nello stereotipo della vittima.
Chi si è ritrovat* in Piazza Madama Cristina lo ha fatto con lo stesso spirito delle donne argentine, spagnole, polacche, kurde, di tutte le donne in lotta provenienti da tutto il mondo, e che quotidianamente sopravvivono alla violenza misogina, lesbofobica, razzista e transfobica costruendo così percorsi di autonomia autodifesa, lotta.
L’8 novembre si è svolta un’assemblea alla Cavallerizza Reale

Di seguito uno dei volantini distribuiti in piazza

Sentieri di libertà

Libertà, uguaglianza, solidarietà. I tre principi che costituiscono la modernità, rompendo con la gerarchia che modellava l’ordine formale del mondo hanno il loro lato oscuro, un’ombra lunga fatta di esclusione, discriminazione, violenza.
Tanta parte dell’umanità resta(va) fuori dal loro ombrello protettivo: poveri, donne, omosessuali, bambini. L’universalità di questi principi, formalmente neutra, era modellata sul maschio adulto, benestante, eterosessuale. Il resto era margine. Chi non era pienamente umano non poteva certo aspirare alle libertà degli uomini.
Una libertà soggetta a norma, regolata, imbrigliata, incasellata. La cultura dominante ne determina le possibilità, le leggi dello Stato ne fissano limiti e condizioni.
Le nonne delle ragazze di oggi passavano dalla potestà paterna a quella maritale: le regole del matrimonio le mantenevano minorenni a vita.
Le donne stuprate, sino al 5 settembre del 1981, potevano sottrarsi alla vergogna ed essere riammesse nel consesso sociale, se accettavano di sposare il proprio stupratore. Una violenza più feroce di quella già subita. Se una donna era uccisa per motivi di “onore”, questa era una potente attenuante. Uccidere per punire le donne infedeli era considerato giusto.

Sono passati 34 anni da quando quelle norme vennero cancellate dal codice penale. Poco prima era stato legalizzato il divorzio e depenalizzato l’aborto.
Sulla strada della libertà femminile e – con essa – quella di tutt* sono stati fatti tanti passi. Purtroppo non tutti in avanti.

Le lotte delle donne hanno cancellato tante servitù. Ma ne paghiamo, ogni giorno, il prezzo.

Continued…

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Fuoco al Tricolore! Una settimana contro il militarismo

14908234_1292521257447625_6258989551642163422_nUna bandiera tricolore è stata data alle fiamme di fronte alla polizia in assetto antisommossa e alla polizia politica in gran forze per difendere le forze armate, che, anche quest’anno, erano in piazza Castello per la cerimonia dell’ammainabandiera, che conclude 14915258_1292521187447632_5560441739911158049_nla festa delle forze armate il 4 novembre.
Gli antimilitaristi puntuali all’appuntamento, si sono mossi in corteo con striscioni, bici da trasporto con carro armato e Samba Band dalla piazza del Comune fino al blocco di polizia in via Garibaldi, cento 14980648_1292521530780931_2312541230467064306_nmetri prima dei soldati in alta uniforme.
Un applauso ha accolto l’azione antipatriottica.
Numerosi gli interventi dal megafono per un’iniziativa di comunicazione e lotta, che, dopo un lungo fronteggiamento e l’intervento dell’automobilina kamicazza, si sono 14907254_10209432754448563_9080420031345581297_nmossi per via Garibaldi, sino a guadagnare piazza Castello, dove i militari avevano chiuso alla svelta il loro rituale bellico.
La giornata di lotta del 4 novembre era l’ultima di una settimana di iniziative. Sabato 29 ottobre al Balon, un 14925380_10209432767888899_1052643532128833882_npresidio itinerante, con performance contro eserciti e fabbriche d’armi, interventi e musica, aveva aperto le iniziative promosse dall’assemblea antimilitarista.

Il mercoledì successivo si era svolta un’iniziativa di approfondimento “Bombe, muri e frontiere. Giochi di 14991829_10209432757288634_5368819987190706920_npotenza dal Mediterraneo all’Eufrate. Dal nuovo secolo americano al tutti contro tutti”. La serata, introdotta da Stefano Capello, è stata occasione per capirne di più sugli equilibri geopolitici, in un pianeta sempre più 14937437_10209432751328485_4449255878701911998_nmultipolare, ad alleanze variabili, dove prevale la logica terrificante del caos sistemico.

Di seguito qualche stralcio del volantino distribuito:
“… Lo Stato italiano investe ogni ora due milioni e mezzo di euro in spese militari, di cui mezzo milione solo per comprare nuove bombe e missili, cacciabombardieri, navi da guerra e carri armati. Gli altri servono per le missioni militari all’estero, per il mantenimento del militari e delle strutture. Si tratta, per il 2016, di 48 milioni di euro al giorno. Il governo nei prossimi anni ha deciso di spenderne ancora di più. Alla faccia di chi si ammala e muore perché non riesce ad accedere a esami specialistici e cure mediche.
Nel nuovo Documento programmatico pluriennale della Difesa – 2016-2018 – sono previsti: 13,36 miliardi di spese nel 2016 (carabinieri esclusi), l’1,3 per cento in più rispetto all’anno scorso. Cifra che sale a 17,7 miliardi (contro i 17,5 del 2015) se si considerano i finanziamenti del ministero dell’Economia e delle Finanze alle missioni militari (1,27 miliardi, contro gli 1,25 miliardi dell’anno precedente) e quelli del ministero per lo Sviluppo Economico ai programmi di riarmo (2,54 miliardi, nel 2015 erano 2,50).

Finanziamenti, quelli del Mise, che anche quest’anno garantiscono alla Difesa una continuità di budget per l’acquisto di nuovi armamenti per un totale di 4,6 miliardi di euro (contro i 4,7 del 2015). Le spese maggiori per quest’anno riguardano i cacciabombardieri Eurofighter (677 milioni), gli F-35 (630 milioni), la nuova portaerei Trieste e le nuove fregate Ppa (472 milioni), le fregate Fremm (389 milioni), gli elicotteri Nh-90 (289 milioni), il programma di digitalizzazione dell’Esercito Forza Nec (203 milioni), i nuovi carri Freccia (170 milioni), i nuovi elicotteri Ch-47f (155 milioni), i caccia M-346 (125 milioni), i sommergibili U-212 (113 milioni).
La vocazione umanitaria delle forze armate italiane ha fame di nuovi costosissimi giocattoli.

In tutto il paese ci sono aeroporti militari, poligoni, centri di controllo satellitare, postazioni di lancio dei droni.
Le prove generali dei conflitti di questi anni vengono fatte nelle basi sparse per l’Italia.
La rivolta morale non basta a fermare la guerra, se non sa farsi resistenza concreta.
Negli ultimi anni sono maturate esperienze che provano a saldare il rifiuto della guerra con l’opposizione al militarismo: il movimento No F35 a Novara, i no Muos che si battono contro le antenne assassine a Niscemi, gli antimilitaristi sardi che lottano contro poligoni ed esercitazioni. Anche nelle strade delle nostre città, dove controllo militare e repressione delle insorgenze sociali sono ricette universali, c’è chi non accetta di vivere da schiavo, c’è chi si oppone alla militarizzazione delle periferie, ai rastrellamenti, alle deportazioni.
Per fermare la guerra non basta un no. Occorre incepparne i meccanismi, partendo dalle nostre città, dal territorio in cui viviamo, dove ci sono caserme, basi militari, aeroporti, fabbriche d’armi, uomini armati che pattugliano le strade…”

Qui il testo dell’appello per la settimana antimilitarista

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Niente pace per chi fa guerra!

2016-10-21-manif-antimili-col-tifIl 4 novembre è la festa delle forze armate. Viene celebrata nel giorno della “vittoria” nella prima guerra mondiale, un immane massacro per spostare un confine.
Il 4 novembre è la festa degli assassini. La divisa e la ragion di stato trasformano chi uccide, occupa, bombarda, in eroe.
Cent’anni fa, a rischio della vita, disertarono a migliaia la guerra, consapevoli che le frontiere tra gli Stati demarcano il territorio di chi governa, ma non hanno nessun significato per chi abita uno o l’altro versante di una montagna, l’una o l’altra riva di un fiume, dove nuotano gli stessi pesci, dove crescono le stesse piante, dove vivono uomini e donne che si riconoscono uguali di fronte ai padroni che si fanno ricchi sul loro lavoro.
Cent’anni dopo, quelle trincee impastate di sangue, sudore, fango e rabbia la retorica patriottica, il garrire di bandiere e le parate militari nascondono i massacri, i pescecani che si arricchivano, le “decimazioni”, gli stupri di massa.

In questi anni lungo i confini d’Italia si sta combattendo una guerra feroce contro la gente in viaggio, contro chi fugge conflitti dove le truppe italiane sono in prima fila.
In Iraq battaglioni d’élite dell’esercito tricolore partecipano all’assedio di Mosul, per cacciare i jihadisti dello Stato Islamico.
Sono in Iraq da mesi per difendere gli interessi della Trevi, la ditta italiana che si è aggiudicata i lavori alla diga di Mosul, uno snodo strategico per chi intende fare buoni affari nel paese.
I governi alleati dell’Italia hanno finanziato e protetto i soldati della jihad prima in Afganistan, poi in Siria. A Mosul si sta consumando in nostro nome un altro immane massacro di uomini, donne e bambini, pedine di un gioco feroce di potenza.
Ad Aleppo si muore da anni nel silenzio fragoroso dei più. Le lacrime ipocrite per i bimbi morti non hanno fermato le bombe.
In Rojava, dove dal 2012 la popolazione ha deciso di attuare un percorso di autonomia politica, di solidarietà e di mutuo appoggio, nella cornice del confederalismo democratico, il governo turco bombarda le città nel silenzio fragoroso di chi, proprio sulle milizie maschili e femminili della regione a maggioranza curda della Siria, ha fatto leva per fermare l’avanzata dell’Isis. La rivoluzione democratica in Rojava apre una crepa nelle logiche di potere che caratterizzano le grandi potenze che si contendono il controllo del Mediterraneo all’Eufrate.

Continued…

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Il mago di Firenze, il referendum e la favola del no sociale

magoL’ultima trovata del presidente del consiglio è la rottamazione di Equitalia. Renzi gioca una carta pesante, nell’auspicio di riuscire ad rovesciare le statistiche che lo danno perdente al referendum costituzionale. Da bravo prestigiatore Renzi muove le carte per agitare le acque, cercando di prendere due piccioni con una sola fava. Da un lato, con una sorta di sanatoria non dichiarata, prova a fare cassa, dall’altro tenta di ridare smalto alla sua immagine, in vista della sfida di dicembre.
Renzi ha fatto male i conti ed ora è in affanno. Non per caso tra un taglio agli altri servizi e una sforbiciata alla sanità, mette sul tavolo un mucchio di quattrini per le scuole private – in buona parte scuole cattoliche. E pazienza se la Costituzione, costantemente disattesa da decenni, predica che le scuole private non debbano comportare un onere per lo Stato.
Un ulteriore segnale, se mai ce ne fosse bisogno, della distanza tra la Costituzione formale e la Costituzione reale del paese, che dimostra che le stesse regole del gioco del potere siano solo una vetrina da lustrare nelle cerimonie ufficiali tra il 25 aprile e il 2 giugno. Una vetrina che certa sinistra, radicale e non, sta lustrando per mettere in scena un’opposizione al governo che stenta a crescere nella società e si rifugia nel gioco referendario, dove c’è ressa per partecipare alla partita dei tutti quanti assortiti contro Renzi.
La minoranza del Partito Democratico, che in parlamento è ancora maggioranza, ha scoperto tutte le carte. Bersani l’ha detto chiaro e tondo: il prezzo del Si al referendum è l’Italicum.
In mezzo a questo mercato delle poltrone (future) c’è chi punta sul lancio delle 5 stelle nel firmamento governativo e si inventa qualche nuovo pigolio per twitter. che si suppone possa aprire la via ad una stagione di lotte. O, in subordine, alla loro rappresentazione mediatica.
È la riedizione del togliattismo ai tempi della sfiga. Solo l’arroganza è la medesima.

In questi giorni sono stati resi noti i dati dell’istituto statistico incaricato dalla Caritas di rilevare le condizioni economiche degli italiani e delle italiane. Ne è emerso che le cifre della povertà assoluta sono raddoppiate dal 2007 a oggi e, per la prima volta, i nuovi poveri non sono solo anziani ma giovani e giovanissimi.
Lo stabilizzarsi della precarietà come sistema normale di fatto mantiene ai margini del lavoro e, quindi, del reddito, un crescente numero di ragazzi e giovani uomini e donne, non più coperti dal welfare familistico, poiché la disoccupazione, la sottoccupazione, la precarietà sta estendendosi, includendo anche i quarantenni e cinquantenni che sino una quindicina di anni fa erano sotto l’ombrello delle tutele e delle garanzie per il lavoro, che seppure già minate, coprivano ancora parte significativa dei lavoratori.
Oggi non ci sono più reti: quando si cade ci si fa male.
Resta il fatto che i nostalgici dello scambio tra pace sociale e tutele e diritti, hanno poche carte da giocare, perché nemmeno il gioco della socialdemocrazia funziona con un due di picche quando la briscola ce l’ha il re di denari.

La palla torna al centro. Ma la partita da giocare è ben altra, quella della sapiente mescolanza tra radicalità e radicamento sociale, nella sottrazione conflittuale dall’istituito, che trova nell’autogestione delle lotte e della vita le reti di sostegno alle lotte. Senza padri nè padrini.

Se vuoi approfondire le tematiche economiche ascolta l’approfondimento dell’info di Blackout con Francesco.

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Andrea Soldi, ucciso dalla psichiatria. Striscione alla sede centrale dei vigili

andrea-soldi-panchina

Torino, 14 ottobre. Aggiornamento

Uno striscione con la scritta “Andrea Soldi ucciso dalla psichiatria. Vigili assassini” è stato appeso nella notte alla cancellata di ingresso della sede dei vigili urbani in via Bologna a Torino.

Questa mattina al
tribunale di Torino c’è stata l’udienza preliminare del processo ai tre vigili assassinivigili urbani e allo psichiatra accusati della morte di Andrea Soldi, ucciso nell’estate del 2015 nei giardinetti di corso Umbria, perché si rifiutava di accettare un TSO. Udienza si è svolta a porte chiuse, i tre vigili e lo psichiatra non si sono presentati. Prossime udienze il 3 e il 14 novembre.

La notizia è uscita su Indymedia corredata due foto scattate da un cronista di passaggio.

Torino, 11 ottobre. Accusati di omicidio colposo i 3 vigili e lo psichiatra dell’ASL To2 artefici di quel TSO (Trattamento sanitario obbligatorio) che gli costò la vita.
In Italia i manicomi sono stati chiusi alla fine degli anni Settanta, ma l’orrore psichiatrico non è mai finito: gabbie chimiche, camicie di forza, letti di contenzione, elettroshock, lobotomia farmacologica continuano a segnare le vite di chi finisce imbrigliato nelle reti della psichiatria, visto che questa ha la possibilità di sequestrare e imprigionare le persone a causa di un giudizio arbitrario sulla base del loro comportamento o pensiero.

Era il 5 agosto dello scorso anno. Andrea era seduto su una panchina di piazzale Umbria, la “sua” panchina, quella dove era solito trascorrere il proprio tempo libero, quando sono arrivati ambulanza e vigili per imporgli un TSO. Andrea, che tutti ricordano come una persona tranquilla, non si era presentato alla visita psichiatrica mensile, perché non voleva sottoporsi all’abituale iniezione a lento rilascio di Haldol, un potente e dannoso neurolettico, che provoca dipendenza e gravi effetti collaterali, tra cui anche la psicosi per cui veniva “curato”, e che, a detta di familiari e conoscenti, era sopravvenuta anni prima, nella caserma dove aveva svolto il servizio militare. Sebbene l’uomo fosse calmo e, nonostante il provvedimento fosse stato disposto dal Sindaco, sul posto accorsero medici, ambulanza e vigili. Parecchi testimoni hanno visto i vigili prendere e stringere per il collo Andrea fino a farlo diventare cianotico. Ormai privo di sensi, l’hanno ammanettato, gettato prono su una barella. Quando è arrivato al pronto soccorso dell’Ospedale Maria Vittoria era già morto, senza che nessuno si fosse preoccupato di soccorrerlo e rianimarlo.

In Italia la legge stabilisce che i ricoveri debbano essere volontari (TSV), ma che si possa comunque eccezionalmente ricorrere alla coercizione quando l’individuo presenta alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, rifiuti la terapia psichiatrica, e non possa essere assistito in altro modo rispetto al ricovero ospedaliero. L’eccezionalità del provvedimento dovrebbe essere garantita dall’iter attuativo: il TSO deve essere disposto con provvedimento del Sindaco del Comune di residenza, su proposta motivata da un medico e convalidata da uno psichiatra operante nella struttura sanitaria pubblica, e inviato al Giudice Tutelare operante sul territorio che deve convalidarlo entro 48 ore. Il confine tra TSV e TSO è assolutamente labile, proprio per la possibilità del ricovero obbligatorio, usato continuamente come ricatto in caso di mancata arrendevolezza al volere dei medici, e all’effettiva impossibilità di fondo di rifiutare le cure.

Nel caso di Andrea, così come purtroppo nella maggioranza dei casi, il TSO era quindi illegittimo, non solo perché non richiesto dal sindaco, ma perché mancavano i presupposti per attuarlo, visto che Andrea era quieto e addirittura disponibile ad accettare altre soluzioni, non rifiutando quindi del tutto le “cure”.
Nonostante non ci fossero le condizioni stabilite dalla legge 180 lo psichiatra ha firmato il provvedimento e poi lo ha attuato senza l’autorizzazione del Sindaco. Difficile capire perché l’imposizione del TSO sia stata affidata ai i vigili, anziché al personale sanitario.

Resta il fatto che Andrea Soldi è stato assassinato brutalmente sotto gli occhi dei suoi amici e della tanta la gente che con lui trascorreva il tempo nella piazzetta, su quelle panchine a cui Andrea si era aggrappato per sfuggire all’ennesima cattura, all’ennesima prepotenza, all’ennesima violenza farmacologica.

Questa vicenda è approdata in tribunale, perché l’indignazione dei tanti che hanno assistito alla scena, era troppo forte e pubblica perché fosse ignorata, come quasi sempre accade.

Sarà interessante vedere quale narrazione di questa vicenda sarà proposta in aula.

Ne abbiamo parlato con Raffaella, del Collettivo antipsichiatrico “Francesco Mastrogiovanni”.

Ascolta la diretta realizzata dall’info di blackout

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Erdogan, Putin e il (basso) impero americano

TURKEY-RUSSIA-ERDOGAN-PUTINIn un pianeta sempre più multipolare, dove il gioco delle alleanze si fa su più tavoli, variando puntate e compari in modo vorticoso, non bisognerebbe stupirsi più di nulla.

L’amichevole incontro di ieri tra Erdogan e Putin, in visita di Stato in Turchia, un anno fa sarebbe apparso sorprendente.

L’abbattimento del jet russo in territorio turco, l’alleanza tra Putin e Assad, l’intervento diretto della Russia in Siria hanno mutato il quadro. Il fallito golpe di quest’estate in Turchia, dietro al quale Erdogan intravede l’ombra lunga degli Stati Uniti, hanno spinto il raiss di Ankara a riavvicinarsi alla Russia, stilando un accordo per il gasdotto Turkish Stream.

L’obiettivo di Erdogan è chiaro: eliminare la variante curda dai vari pezzi in cui potrebbe essere divisa la Siria. Alla Russia interessa mantenere e rinforzare la propria posizione militare nel Mediterraneo, che ha il suo fulcro militare a Tartus ed il proprio garante politico in Assad.

Tutta da vedere la disponibilità di Damasco a concedere ad Erdogan il controllo del Rojava, tuttavia un serio ridimensionamento dell’autonomia dei tre cantoni confederati del Rojava potrebbe accontentare l’uomo forte della Turchia, impegnato in una guerra senza quartiere ad ogni forma di opposizione.

Le difficoltà degli Stati Uniti sono sin troppo chiare, tra appoggio agli alleati storici e gelo nei rapporti con la Turchia, che pure è uno dei bastioni della NATO nell’area.

D’altra parte, senza l’appoggio delle milizie curde del Rojava, gli Stati Uniti sarebbero obbligati a schierare le proprie truppe, una scelta non priva di rischi, come dimostrano le avventure belliche in Afganistan e in Iraq.

Ne abbiamo parlato con Alberto Negri, corrispondente nell’area del Sole 24 ore, che oggi ha pubblicato un suo articolo “Il vuoto di leadership che fa comodo al Cremlino”. Interessante lo sguardo sulle prospettive geopolitiche che si delineano dai programmi dei due candidati alla presidenza degli Stati Uniti, Clinton e Trump.

Ne riportiamo di seguito alcuni stralci:
“L’ ultimo dibattito ci ha consegnato un copione da “Sesso bugie e videotape”, film vincitore a Cannes nell’89. L’aspetto interessante è che il pubblico partecipa divertito o scandalizzato, star di Hollywood e della politica comprese, mentre si contano milioni di tweet che faranno volare il titolo a Wall Street. Questi sono i tempi bellezza e tu non puoi farci niente, si potrebbe dire parafrasando Bogart. Per la verità i due candidati qualche idea esile l’hanno espressa parlando di Siria e Russia ma devono aver fatto sorridere Putin ed Erdogan che si sono incontrati a Istanbul in nome della realpolitik e della spartizione di interessi energetici e sfere di influenza. Trump vorrebbe allearsi con Mosca e l’Iran per far fuori i jihadisti dell’Isis ma non va oltre. La Clinton esclude un intervento di terra lasciando aperta la possibilità di armare i curdi, cosa che per altro avviene già ma stranamente non ne appare informata. (…) Niente di più rassicurante per lo spregiudicato Putin che sfrutta le contraddizioni americane in Medio Oriente. Putin si è lanciato nel vuoto lasciato dall’America e approfitta dello sfibrante cambio di guardia a Obama. Erdogan non si fida degli americani e gli americani non si fidano di lui. È convinto che dietro il fallito golpe del 15 luglio sia stata coinvolta la Cia oltre che l’imam Gulen e che gli Usa favoriscano l’irredentismo curdo, il vero incubo strategico di Ankara. Per questo, dopo i sanguinosi insulti scambiati per l’abbattimento del caccia russo, ha ricucito con Putin che vede nella Siria un’ottima occasione per piazzare le basi sul Mediterraneo, vecchio sogno dei mari caldi inseguito dagli Zar. Ma la lettura di un conflitto imminente con Mosca appare esagerata. Certo Putin agisce come se fossimo in clima da guerra fredda. Teme che l’Occidente provi a destabilizzarlo come ha fatto con l’Ucraina e le rivoluzioni “colorate” quindi sposta i missili balistici a Kaliningrad e fa volare Tupolev atomici sulla Bretagna, al punto che l’Eliseo mette in dubbio l’incontro del 19 ottobre con il leader russo. (saltato nel frattempo, ndr) I dati però dicono altro. Le spese militari di Gran Bretagna, Francia e Germania sono più del doppio di quelle russe, il Pil di Mosca è paragonabile a quello italiano e se il prezzo del petrolio non aumenta avrà difficoltà a fare il bilancio in un Paese che vive per il 70% di export di gas e oro nero. Se dall’America arrivano cronache da basso impero, quelle dell’austerità russa fanno pensare che la ricostruzione di quello sovietico appare assai lontana.”

Ascolta la diretta con Alberto Negri realizzata dall’info di Blackout

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Lampedusa. Ipocrisia di Stato

lampeIeri, nel terzo anniversario della strage costata la vita a 368 persone, annegate nei pressi dell’isola nella notte tra il 2 e 3 ottobre, il ministro dell’interno Alfano ha partecipato alla cerimonia in quella che è diventata la giornata in ricordo delle vittime dell’immigrazione. In questi tre anni altre migliaia di migranti sono stati inghiottiti dal mare e dalle leggi che impediscono il libero ingresso in Europa.

Tre anni dopo le lacrime ipocrite dell’allora primo ministro Monti, la politica del governo italiano non è cambiata. Anzi. Il Mediterraneo è ancora più militarizzato, i profughi di guerra sono intrappolati in Turchia, chi si mette in viaggio, trova nuovi muri, più controlli, più repressione.

In questi giorni il primo ministro Renzi ha annunciato l’intenzione di stringere nuovi accordi con alcuni paesi africani, per facilitare le deportazioni.

Ascolta la diretta dell’info di Blackout con il professor Alessandro Dal Lago, con cui abbiamo commentato anche il referendum in Ungheria ed analizzato le dinamiche identitarie, che catalizzano le ondate xenofobe in Europa, con uno sguardo analitico volto ai paesi dell’Est.

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In mille a Niscemi contro il Muos. Violate le reti

muos-000223Il movimento che si batte contro il Muos, il mega impiantstatunitense per le comunicazione militari satellitari planetarie degli Stati Uniti è tornato in piazza a Niscemi.

Oltre mille i partecipanti al corteo partito dal presidio di Contrada Ulmo nel pomeriggio di domenica 2 ottobre . I manifestanti hanno subito violato le prescrizioni della questura entrando nella sughereta, dove è stato tagliato un lungo pezzo di rete e sono stati lanciati fuochi d’artificio verso le antenne della base.

I No Muos hanno poi raggiunto il cancello di ingresso e denunciato l’ondata repressiva che ha recentemente coinvolto più di 200 attivisti e attiviste. Sono stati richiesti 129 rinvii a giudizio per la prima invasione di massa della base militare americana, il 9 agosto 2013.

Dopo un secondo taglio delle reti della base, la polizia che ha attaccato con un fitto lancio di lacrimogeni. Alcuni attivisti sono però riusciti comunque a violare le disposizioni ed entrare nella base,prima di ripiegare per gli attacchi della polizia.

Ascolta la diretta dell’info di Blackout con Pippo Gurrieri, attivista No Muos.

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Piacenza. Da che parte stare

piacenzaSabato 17 settembre, Piacenza, davanti alla stazione della città lombardo-emiliana inizia, sotto un sole rovente, tramutatosi dopo un’ora in temporale, il concentramento del corteo indetto dall’USB per portare in città la vertenza dei facchini della GLS. Il mercoledì notte precedente Abd Elsalam Ahmed Eldanf, cinquatatreenne padre di cinque figli, era morto investito da un camion del corriere durante un picchetto ai cancelli.

I numeri del concentramento aumentano di minuto in minuto, giungono delegazioni di lavoratori della logistica da tutto il distretto piacentino e lombardo, delegazioni di sindacati di base, lavoratori autoconvocati, molti centri sociali emiliani e lombardi. Presente anche una delegazione dei compagni dei lavoratori autoconvocati di Milano, compresi compagni dell’USI milanese e della FAM. Ovviamente assenti i sindacati della triplice. Clima teso: la stazione è blindata, evidentemente si teme un tentativo di bloccare il fondamentale snodo ferroviario. Ma blindate sono anche le vie intorno, una capillare campagna di terrorismo, con tanto di delirante comunicazione della Confesercenti sul previsto arrivo di “mille-millecinquecento black block [sic!]” ha portato molti commercianti ad abbassar serranda.

Il corteo parte, si ingrossa mano a mano, i numeri sono alti: qualche migliaio di persone. E non è poco per un corteo indetto neanche quarantotto ore prima, che quindi ha mobilitato per lo più chi risiede nel raggio di poche centinaia di chilometri. I protagonisti del corteo sono i lavoratori della logistica: tanti, determinati, incazzati. Non il frammentato ceto politico del sindacalismo di base di derivazione M-L ma i lavoratori stessi creano l’unità di ranghi e lotte. Piacenza è una città a cavallo tra la Lombardia, il Piemonte e l’Emilia Romagna. Snodo ferroviario e autostradale tra Torino, Milano e Bologna. Nell’ultimo decennio il settore della logistica, già attivo in città, è cresciuto: grandi colossi internazionali vi hanno portato le loro piattaforme logistiche. Amazon, Ikea, corrieri di grosse dimensioni come GLS, BRT, TNT. Il settore industriale locale, meccanica, energia, vetro, cemento, da il suo contributo.

I lavoratori della logistica sono quelli che permettono ad Amazon di consegnare la merce in meno di ventiquattro ore dall’ordine, il basso costo di spedizione pagato dal cliente è permesso dallo sfruttamento pesantissimo a cui soggiacciono questi lavoratori. La logistica è un settore sempre più importante per l’economia odierna, per quanto ci raccontino la favola di un’economia completamente digitale. La lotta dei lavoratori della cooperativa che lavora alla piattaforma logistica GLS, cooperativa farlocche come tante in questo ambito, è una delle tante che negli ultimi anni hanno investito il settore della logistica nel distretto piacentino. Lotte spesso vittoriose grazie alla capacità di resistenza, alla volontà di mettersi in mezzo di lavoratori che non si sono fatti intimidire dalle sprangate e dalle minacce di crumiri e strikebreakers, non si sono fatti intimidire dalle manganellate di celerini e carabinieri, dalla mancanza di solidarietà, anche solo a parole, della triplice sindacale, che nella vertenza Bormioli pensò bene di sfilare a fianco dei padroni per chiedere la fine delle agitazioni, tanto per dimostrare ancora una volta che cosa sia la concertazione sindacale.

Abd Elsalam è stato il primo morto di queste lotte dei lavoratori della logistica. Ma ci si era andati vicini altre volte: la pratica di fare avanzare i camion contro i picchetti non è nuova. La risposta c’è stata, compatta e forte. Se c’è una cosa che le lotte della logistica insegnano è che rilanciare il conflitto in campo economico è possibile, difficile, ma possibile.

Certo, le contraddizioni ci sono. I lavoratori della logistica sono per la maggior parte di origine immigrata, spesso i padroni e padroncini hanno sfruttato divisioni interetniche, benagalesi contro indiani, indiani contro pakistani, pakistani contro magrebini. Durante il corteo un gruppetto lanciava la shahada, la dichiarazione di fede islamica, a mo’ di slogan, ad intervallare gli slogan “GLS mafia” e il sempreverde “pagherete caro, pagherete tutto”. Altri sventolavano la bandiera nazionale egiziana. Contraddizioni che vanno superate e chi è internazionalista può farlo molto meglio di chi si rifugia nei miti sovranisti e terzomondisti.

Nei mesi scorsi molto si è parlato, ma non abbastanza e spesso ad mentula canis, di Giulio Regeni, partito dall’Italia per andare a studiare i sindacati indipendenti egiziani e ucciso dagli sgherri del governo del Cairo. Abd Elsalam era partito dall’Egitto con la famiglia, lavorava alla GLS di Piacenza, e quella notte era a protestare a fianco dei suoi compagni pur non essendo coinvolto direttamente dalla vertenza, per solidarietà nei confronti dei colleghi. Regeni poteva fare il dottorato su qualcosa di meno pericoloso e Abd Elsalam poteva starsene a casa o andare a lavorare invece di scioperare per una vertenza che nemmeno lo riguardava di persona. Entrambi hanno fatto una scelta di campo. E noi con loro.

(Liberamente tratto dall’articolo di Lorcon sull’ultimo numero del settimanale Umanità Nova.)

Qui puoi ascoltare le dirette di questa mattina all’info di Blackout

Oggi in tutta Italia, l’USB ha lanciato una giornata di lotta contro GLS. A Torino l’appuntamento è dalle 20 alla GLS di strada comunale di Bertolla all’Abbadia di Stura 176

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Premiati per forza. La lotta dei docenti del liceo Enriques di Livorno contro il bonus per merito

buona-scuolaGrande scalpore ha destato la mobilitazione sostenuta da molte scuole nello scorso anno scolastico contro il bonus per merito, una delle novità più contestate della “buona scuola” renziana.
In molti istituti, mettendo in discussione questo specifico punto della manovra, i lavoratori hanno contrastato la costituzione dei comitati di valutazione, rinunciando ad eleggere i propri rappresentanti all’interno di un organismo discutibile e deputato ad introdurre discriminazioni e competitività.
Il Liceo Enriques di Livorno è una delle scuole in cui la mobilitazione ha assunto caratteristiche radicali, tanto che né il Collegio docenti né il Consiglio d’Istituto hanno espresso propri membri. Il comitato di valutazione è stato composto quindi solo dal Dirigente del liceo e dal Dirigente di un’altra scuola cittadina, membro esterno nominato dall’Ufficio scolastico regionale.
I lavoratori, gli studenti, gli organi collegiali hanno quindi scelto di starne fuori.
Con ripetute delibere il Collegio dei docenti, anche nel mese di giugno, ha ribadito di  respingere il bonus, tanto che la richiesta di accesso è stata fatta solo da tre insegnanti sull’intero corpo docente.
Una posizione chiara e netta., forse troppo netta. E troppo scomoda.
Il 29 agosto, due giorni prima della fine dell’anno scolastico, la Dirigente del Liceo Enriques, che dal 1° di settembre si è trasferita presso un’altra scuola cittadina, sostituendosi d’autorità alle prerogative del Collegio docenti,ha emesso un decreto nominando due insegnanti nel comitato, in modo da rimpolpare lo striminzito organo che si trovava a presiedere, supportata in questa azione da un’autorizzazione ministeriale che, tirando vistosamente per i capelli la normativa, deroga in modo clamoroso dalla stessa legge 107.
Ne è risultato un Comitato di valutazione anomalo, composto per via gerarchica. L’operazione si è conclusa con la distribuzione del bonus, ovviamente con macroscopiche distinzioni d’importo, ad un numero elevato di docenti, i quali non lo avevano richiesto e che avevano deliberato in senso contrario a quanto poi è avvenuto.
Alcuni insegnanti hanno già deciso di rinunciare al bonus e di devolverlo al fondo di solidarietà d’istituto per gli studenti in difficoltà economica.
La vicenda comunque è paradossale e dimostra chiaramente il modo di procedere della politica renziana. Si introduce nella scuola il concetto di incentivazione per merito (diverso dalla retribuzione corrispondente a prestazione di lavoro!) per procedere sulla strada della deregulation aziendale. Si crea un organismo composto da dirigenti, docenti, studenti e genitori (il Comitato di valutazione) per elaborare dei criteri di accesso al bonus dando un’illusione di gestione democratica a un’operazione che introduce clientelismo e competitività.; tanto poi i nomi dei meritevoli e “quanto” meritano li decide solo il Dirigente. Se i lavoratori e gli studenti consapevolmente respingono questa manovra e ne smascherano il democraticismo rifiutando di farsi coinvolgere, si procede d’autorità.
Il bonus va dato per forza. Altrimenti vuol dire che la buona scuola non è poi così buona, che il consenso non c’è. Altrimenti vuol dire che il Dirigente non avrà il suo, di premio, perché non ha domato a dovere la situazione. E il bonus va dato mantenendo la farsa, costruendo un comitato fai-da-te o roba del genere.
Quella del Liceo Enriques di Livorno è una storia particolare ed emblematica. Come molto particolare sarà anche il fatto che alcuni docenti diventino privati finanziatori del fondo di solidarietà della scuola.
Una bella lezione, data fuori dalla cattedra.

L’info di radio Blackout ne ha parlato con Patrizia Nesti, docente al liceo Enriques.
Ne è scaturita una chiacchierata sulla “buona scuola”, sulla sua applicazione sulle difficoltà di innescare una lotta che investa a fondo anche studenti e famiglie, ammaliati da misure l’alternanza tra studio e lavoro, uno dei cardini della scuola renziana, al servizio delle imprese, sin dai banchi di scuola.

Ascolta qui la diretta

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Una Barriera contro il fascismo

Venerdì 16 settembre. In Barriera tornano i comitati “spontanei” emanazione della destra razzista, che da qualche anno prova a mettere radici nelle nostre periferie. Questa volta ci provano quelli di Casa Pound, travestiti da “Noi di Barriera”. Nel mirino spacciatori e tossici, chi è senza casa e chi ne occupa una per viverci.

I fascisti, non più di una trentina, arrivano con ampio anticipo e si assiepano in via Scarlatti circondati dalla polizia. A una ventina di metri all’angolo tra corso Palermo e via Baltea un folto gruppo di antirazzisti da vita ad un presidio. A cento metri, nei giardinetti di corso Giulio, più tardi si forma un secondo presidio.
I fascisti, difesi dalla polizia, sono circondati. Gli abitanti della zona si

mde

affacciano alla finestra, qualcuno scende in strada, le famigliole si assiepano ai giardinetti,
Partono gli slogan. Da una finestra parte un “bella ciao”. I fascisti vomitano odio e razzismo ma sono isolati in un quartiere che non li vuole.

A fine serata i due presidi si uniscono in un corteo che fa un giro nel quartiere.

Di seguito il volantino distribuito dagli anarchici della FAI Torinese.

Chi conosce la nostra Barriera, chi ha una certa età, sa bene che spacciatori e tossici in Barriera ci sono sempre stati.
Sa bene che i problemi di chi ci vive sono ben altri. Ben più importanti.
Il lavoro non c’è, e, quando c’è, è precario, pericoloso, malpagato. Il problema è il lavoratore immigrato che accetta salari e condizioni da paura, perché altrimenti rischia di essere ricacciato verso la miseria da cui è fuggito, o invece il padrone che lucra sulle vite di tutti?
Il governo sta facendo la guerra contro i poveri, italiani o immigrati che siano.
Il job act ha fatto piazza pulita delle poche tutele rimaste a chi lavora, lasciando mano libera ai padroni.
Le scuole scoppiano perché non ci sono le maestre, lasciate a casa per i tagli voluti dai governi di destra e di sinistra. Se hai un figlio disabile forse quest’anno non ha trovato più il sostegno di cui ha bisogno. Il problema sono i bambini e le bambine immigrati che hanno a loro volta bisogno di sostegno per imparare la lingua, o un governo che aumenta la spesa di guerra e riduce i servizi per le persone?
La salute è diventata un lusso che pochi possono permettersi. Il problema è il tossico che di notte si siede sugli scalini della mutua di via Montanaro o le attese di sei mesi per un’ecografia?
L’aria, nel quartiere più inquinato di una delle città più inquinate d’Europa, è diventata irrespirabile: in certe notti il lezzo degli scarichi industriali taglia il fiato e rovina la salute. Ma a lor signori nessuno presenta il conto per quelli di noi che si ammalano.

Vivere le periferie non è mai stato facile. Lo è ancor meno oggi. Governo e padroni negli ultimi decenni hanno reso sempre più dura la vita di tanti di noi. Troppi. Nell’affanno del lavoro che non c’è e, quando c’è, è sotto costante ricatto, la guerra tra poveri, alimentata dalla propaganda dell’emergenza e della paura, trasforma strade segnate dalla storia della guerra di classe, dall’orgoglio di chi lotta per il pane e per un futuro senza padroni, nel terreno di caccia di chi, sul razzismo, sulla paura dell’altro, ha costruito consensi e fortune.
Tossici e pusher, il babau di ogni periferia, pretesto per retate e controlli, li vogliono i governi di destra e quelli di sinistra. Il proibizionismo ingrassa le mafie ed alimenta il disagio di vivere.
Ma fa comodo, tanto comodo. L’ombra del pusher sotto casa nasconde la fatica di arrivare a fine mese, la difficoltà di pagare la mensa a scuola per i figli, il domani che prolunga un oggi di incertezze e paura. Paura vera, quella di una precarietà senza fine.
Ci serve sicurezza. Sì, ma quella vera. Quella di chi ha un futuro da consegnare ai propri figli. E, forse, se l’orizzonte chiuso della Barriera si aprisse, tanti ragazzi e ragazze non finirebbero negli angoli a cercarsi una dose.
Sì è tempo di riprendersi i quartieri. Rompendo la propaganda razzista e securitaria, puntando sulla solidarietà tra gli ultimi, spezzando il fronte della guerra tra poveri.
Ricordando che i nemici, quelli veri, sono i fascisti e i leghisti che vorrebbero disciplinare e stringere in una morsa di ferro tutti i poveri.
I nemici, quelli veri, sono quelli cui ancora troppe persone continuano a delegare il potere di governare le loro vite.
I nemici, quelli veri, siedono nei consigli di amministrazione delle fabbriche dove, generazione dopo generazione, la gente di Barriera ha consumato la vita per un pezzo di pane.

Federazione Anarchica Torinese
Corso Palermo 46 – riunioni – aperte a tutti gli interessati – ogni giovedì dalle ore 21

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Ventimiglia. La disarmante banalità del bene

Ventimiglia-No-border-06-1000x600Continua la lotta dei migranti per bucare la frontiera di Ventimiglia, per continuare un viaggio che le frontiere chiuse dell’Europa hanno interrotto.

Ad un anno di distanza da un’altra estate di lotta tante cose sono cambiate. Il governo Renzi ha raggiunto l’obiettivo di escludere le spese per il trattenimento e la deportazione dei migranti dal conteggio sul bilancio dello Stato italiano ed ha accantonato ogni ambiguità, tentando di serrare le frontiere.
Ma il desiderio di libertà è più forte di ogni confine e tanti cercano e trovano un varco da cui passare.

Il campo gestito dalla Croce Rossa è stato spostato lontano dal mare, in una zona dismessa dalle ferrovie nei pressi del parco Roja. Gli operatori della Croce Rossa agiscono di concerto con le forze dell’ordine. Nel campo si mangia male, non si riceve alcuna informazione sulla propria situazione, ma si rischia la deportazione alla minima protesta.
Nei pressi del campo ufficiale era sorto un campo spontaneo, gestito dagli stessi migranti, sgomberato pochi giorni prima dell’avvio del campeggio No Border.
Nella notte tra giovedì 4 e venerdì 5 agosto circa trecento migranti sono usciti dal campo della Croce Rossa diretti alla frontiera. Bloccati nell’area dove lo scorso anno c’era il campo No Border, sono stati violentemente caricati dalla polizia. Con loro c’erano anche alcuni compagni che li avevano raggiunti per dare appoggio e solidarietà. Durante la carica circa 120 migranti sono riusciti a bucare la frontiera e ad entrare in Francia, dove è scattata la caccia all’uomo. Un gruppo è stato bloccato manganellato e caricato sui furgoni della gendarmeria in una spiaggia di Mentone.
Dei migranti rastrellati alcuni sono stati riportati al campo della CRI, altri sono stati deportati a Taranto. I No Border fermati hanno ricevuto tutti il decreto di espulsione dall’Italia o il foglio di via dalla provincia di Imperia.

Il giorno successivo, dopo un volantinaggio in spiaggia che annunciava il corteo della domenica, i No Border si sono avviati in direzione del campo della Croce Rossa per fare un saluto ai migranti.
La polizia ha prima gasato, poi ha cercato di bloccare gli attivisti chiudendo loro la strada. Undici compagn* sono rimasti intrappolati su un ponte dove sono stati picchiati insultati e ammanettati.
Trattenuti in questura per quasi tutta la notte hanno subito altre angherie, prima di essere rilasciati con foglio di via e con la denuncia di resistenza e adunata sediziosa aggravate.
Altri due No Border, Beppe ed Alessia, presi poco lontano dal ponte, sono stati arrestati e richiusi nei carceri di Imperia e Genova Pontedecimo: rilasciati con divieto di dimora tra giorni dopo, saranno processati in autunno per resistenza, adunata sediziosa e lesioni.
Qui potete leggere la testimonianza di Stefano, un compagno di Torino.
Qui il video del Fatto Quotidiano

Durante la mattanza sul ponte un poliziotto dell’antisommossa, che stava per unirsi ai colleghi che stavano lavorando di manganello, è morto d’infarto appena sceso dal furgone.
L’episodio è stato usato dai media come pretesto per scatenare una campagna di ulteriore criminalizzazione nei confronti degli attivisti che si battono contro le frontiere. Il Freespot è stato perquisito e due giorni dopo sgomberato con un pretesto, nonostante i locali fossero in affitto.
Il giorno successivo il corteo non è riuscito a partire, perché la polizia ha intercettato e dato il foglio di via a buona parte dei compagni che stavano raggiungendo Ventimiglia.

La strategia di Alfano è chiara: alleggerire la pressione sulle frontiere, deportando al sud i migranti e chiudendo in una morsa di ferro chi si oppone alle frontiere.

Il clima di emergenza serve a fare terra bruciata intorno a migranti e attivisti No Border, per nascondere una verità banale, che senza frontiere non ci sarebbero clandestini, campi, controlli. Senza frontiere Ventimiglia sarebbe solo uno dei tanti luoghi dove passa la gente in viaggio.
Senza frontiere, stati, sfruttamento e guerre, tanti neppure partirebbero.
É la disarmante banalità del bene.

Qui potete ascoltare le dirette di Anarres con Giulia, No Border di Ventimiglia, e con Stefano, anarchico torinese.

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Torino. Scritte al consolato greco (e a Rifondazione)

consolato-grecoMartedì 2 agosto. Sabato 30 luglio a Torino, al Balon, si è svolto un presidio solidale con i compagni greci in lotta contro deportazioni e centri di detenzione per immigrati a Salonicco.
“Dalla Grecia all’Italia. Rivolta contro lo Stato” è lo striscione aperto al presidio, lo stesso che venne inaugurato in occasione di una manifestazione al consolato greco il 12 dicembre del 2008, quando la rappresentanza greca sotto la Mole venne occupata dopo l’assassinio di Alexis Grigoropulos, anarchico di 15 anni freddato dalla polizia sei giorni prima ad Atene.
Domani si svolgerà il processo ai compagni arrestati durante lo sgombero di Orfanotrofeio e Karoloudil, due case occupate che offrivano ospitalità a profughi e migranti. Gli occupanti dell’altra casa, Nikis, sono stati condannati la scorsa settimana.
Solidali grecia al Balon
Numerose scritte solidali sono apparse sui muri di Torino. Alcune foto sono state pubblicate sul sito di Indymedia Svizzera.
La scritta “Contro sgomberi e deportazioni solidali con i compagni greci!” è stata fatta al consolato greco di corso Galileo Ferraris 65, “Tsipras come Salvini. Solidarietà con i greci in lotta” è comparsa in via Brinsisi 11, sui muri della sede di Rifondazione Comunista, che si è gemellata alle europee con Syriza, il partito oggi al governo in Grecia. Syriza sta facendo le stesse politiche della destra: macelleria sociale, muri, deportazioni, arresti e sgomberi.
Nostra patria è il mondo intero!

Di seguito il volantino distribuito al Balon e durante la marcia in No Tav del 30 luglio da Giaglione al fortino di Clarea

tsipras come salvini

Abbattere i muri, aprire le frontiere!

Il 27 luglio alle prime ore dell’alba, i poliziotti del MAT, l’antisommossa greca, hanno sgomberato tre case occupate, Nikis, Orfanotrofeio e Karoloudil.
Si trattava di occupazioni abitative che ospitavano profughi e migranti.
Orfanotrofeio è stata immediatamente demolita per impedire ulteriori occupazioni.
Profughi e migranti sono stati rinchiusi negli Hot Spot, i centri di detenzione, della zona, in attesa di essere deportati, 100 compagni e compagne sono stati arrestati.
In risposta all’operazione repressiva è stata occupata la sede del partito di governo, Syriza. Dopo due giorni di occupazione la protesta è cessata quando, nel tardo pomeriggio del 28 luglio. è arrivata la notizia che tutti gli attivisti arrestati erano stati liberati.
Gli ex occupanti di Nikis sono stati subito processati e condannati con la sospensione condizionale della pena, il processo per gli altri è stato fissato il 3 agosto.
In serata è stato occupato un altro edificio per ospitare profughi e migranti.

Il governo greco, la sinistra di al potere, ripercorre le stesse strade di quella italiana, che, passata dall’opposizione al governo contribuì all’apertura dei CIE, appoggiò la guerra, l’industria bellica e la chiusura delle frontiere.
Continued…

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