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Sangue, soldi, retorica e buoni affari

Eleonas-rifugiati-Grecia-1-1024x561-1450195893Il paradigma della guerra umanitaria
Negli ultimi 30 anni nel nostro paese si è gradualmente modificato l’immaginario sulla guerra.
Sino alla prima guerra del golfo, la memoria della seconda guerra mondiale, dell’occupazione militare, della fame, della fuga dalle città, dei morti al fronte, nella lotta partigiana o sotto le bombe era molto forte.
La guerra era considerata un male da evitare, un male che poteva distruggere le nostre vite, le nostre città, il nostro futuro. La minaccia dell’olocausto nucleare, il pericolo che una nuova guerra su scala planetaria potesse portare alla distruzione del pianeta aveva contribuito a favorire una potente avversione nei confronti delle avventure belliche.

La retorica nazionalista ha accompagnato, sostenuto e giustificato la guerra di conquista ai confini orientali del regno d’Italia, le violentissime guerre coloniali prima e durante il fascismo, la disastrosa partecipazione dell’Italia al secondo conflitto mondiale a fianco delle potenze dell’Asse.

Dopo la sconfitta, la caduta del fascismo, l’occupazione statunitense dell’Italia, il nazionalismo trionfante si attenua e muta di segno, alimentando il mito degli “italiani brava gente”, un mostro subdolo, che assolve il fascismo e chi l’aveva sostenuto dai crimini di guerra di cui il governo e le truppe italiane si macchiarono in Libia, Somalia, Eritrea, Etiopia, Spagna, Grecia, Albania durante le guerre che si sono succedute dal 1930 al 1945.
Il mito degli “italiani brava gente” è una terribile forma di negazionismo. I massacri, le torture, i campi di concentramento, l’uso di gas sulla popolazione civile sono stati dimenticati. Le responsabilità degli orrori sono state sistematicamente nascoste o attribuite ad altri, il governo tedesco o il regime fascista.
L’Italia è l’unico paese colonialista a non aver mai fatto i conti con la propria storia. Una storia che i più ignorano, coltivando la convinzione che il colonialismo italiano fosse diverso da quello francese, inglese, tedesco, in virtù di una sorta di indole bonaria innata nelle popolazioni della penisola.
Dal dopoguerra il patriottismo viene relegato alla narrazione dell’epopea risorgimentale e alla resistenza, interpretata come lotta di liberazione nazionale dall’occupazione tedesca. I fascisti sono considerati nemici, perché sono alleati con le forze di occupazione tedesche.

Di fatto sino alla partecipazione alla prima guerra del golfo – 1991 – e all’intervento militare in Somalia – 1992-1993 – l’opposizione alla guerra come strumento di risoluzione dei conflitti fuori da una prospettiva di autodifesa era fortissima nel nostro paese. Tanto forte che per giustificare quei due interventi fu necessario varare la nozione di guerra umanitaria.
La guerra umanitaria, in se un ossimoro, una contraddizione difficile da concettualizzare, è divenuta l’asse portante intorno al quale costruire sia l’intervento delle truppe italiane all’estero, sia il successivo business della ricostruzione e dei rifugiati.
Dalla crisi albanese “all’emergenza Nordafrica” associazioni, cooperative e aziende del terzo settore con i giusti santi in parlamento si sono spartite i lucrosi affari, effetto collaterale di ogni guerra umanitaria.
Nel 1991 l’attenzione dei media è fortissima. Il rapido successo della missione di guerra attenua i timori che si erano rapidamente diffusi alla vigilia. L’embargo degli anni successivi contro l’Iraq farà più morti di Desert Storm – Tempesta nel deserto – ma non intaccherà la convinzione che la guerra – narrata come missione di polizia internazionale, fosse giustificata.

L’intervento in Somalia – ex colonia italiana – verrà propagandato come mera missione umanitaria. Per mesi, prima dell’intervento della coalizione guidata dagli Stati Uniti, i media italiani daranno ampio spazio alle immagini di fame e malattia nel paese, dilaniato da “una guerra per bande”.
Le truppe italiane si ritirarono dopo il sanguinoso attacco al checkpoint “Pasta”. 25 anni dopo la Somalia è ancora in guerra, tuttavia il paradigma bellico che venne perfezionato in quell’occasione, non ha mai smesso di essere usato per giustificare occupazioni militari, torture, bombe.
Durante la seconda guerra del Golfo, l’Italia intervenne a guerra ufficialmente finita. “Mission accomplished” dichiarò il presidente statunitense Bush, con involontaria atroce ironia.
Fu nell’ambito dell’operazione “Antica Babilonia”, nata per “contribuire alla rinascita dell’Iraq” che le truppe di occupazione italiane di stanza a Nassirya, spararono ad un’ambulanza con una partoriente e vari familiari a bordo. Nella “battaglia dei ponti” fecero un massacro di popolazione civile.
Nei due mesi di bombardamenti a tappeto in Kosovo e Serbia, gli Amx italiani scaricarono bombe ogni giorno, colpendo fabbriche, ospedali, strade, ferrovie. Eppure la cornice di quell’operazione di guerra fu quella del soccorso alle popolazioni kosovare.

La guerra in casa
Allo scadere dell’ultimatum all’Iraq del 15 gennaio 1991, imponenti manifestazioni attraversarono le principali città italiane. Supermercati , farmacie e benzinai esaurirono le scorte, perché dilagava la paura della guerra. Tanta gente era ancora convinta che la guerra potesse investire direttamente l’Europa, che l’intervento in Iraq potesse portare la guerra nelle nostre case.
Venticinque anni dopo quella prima guerra, dopo svariati altri conflitti, agiti in nome dell’umanità e della giustizia, quel timore è diventato realtà, anche se in forme e modi che nessuno all’epoca avrebbe potuto prevedere. Dalle Twin Tower all’aeroporto di Bruxelles la guerra è arrivata, prima negli Stati Uniti, poi anche in Europa.
La convinzione che la guerra fosse altrove, passo a passo, si sta frantumando. Ma tenace resta l’illusione che sia possibile ricacciarla indietro. Chiudendo le frontiere, cacciando gli immigrati, sigillando i quartieri poveri, mettendo le città in mano ai militari, piazzando telecamere e orecchie elettroniche ovunque.
Le nostre scarne libertà vengono frantumate pezzo a pezzo senza che la maggior parte della gente reagisca. La paura è un’arma potente. Chi governa ne profitta per prendersi più potere, per proclamare lo stato di eccezione permanente, per mettere sotto controllo ogni forma di insorgenza sociale.
Quando tutti sono nel mirino, non c’è né riparo né protezione. Se il nemico è disposto a morire pur di uccidere, prima o poi colpisce di nuovo. Se l’obiettivo è il terrore, lo si raggiunge facilmente.
La narrazione della guerra di civiltà integra le altre, senza sostituirle. Il nemico assoluto, la cui ferocia non è paragonabile a nessun altra, giustifica ogni orrore sia compiuto per combatterlo e sconfiggerlo.
Il nemico stesso, con una chiara operazione di propaganda e proselitismo, esibisce quel vasto campionario di orrori, che, in genere, ad altre latitudini, viene accuratamente nascosto, negato.
Nulla di nuovo nella propaganda di guerra: la democrazia cela e nega i propri orrori o li descrive come eccezioni necessarie.

Sangue, soldi e retorica
Il ruolo di poliziotti globali e di soccorritori solleciti viene peraltro confermato anche nella guerra alla jihad globale. Con modi che rinverdiscono la narrazione coloniale, i nostri governanti giustificano la guerra, sia come strumento preventivo di azioni terroriste, sia come dovere di soccorso a popolazioni “costitutivamente” incapaci di uscire dallo stato di minorità culturale.
La nozione di guerra umanitaria si modifica ed amplia. Strumento di propaganda ed instrumentum regni, perché la gestione delle emergenze umanitarie provocate dalle guerre cui partecipano le forze armate tricolori è anche una grande e lucroso business, nonché uno straordinario laboratorio di controllo dei milioni di persone che crisi, guerre e desiderio di vita nuova spingono a mettersi in viaggio.

Gli specialisti dell’umanitario seguono e spesso accompagnano le truppe in missione all’estero. Non sono (solo) il volto buono da mostrare all’opinione pubblica, ma fanno parte integrante del dispositivo bellico. Non la prosecuzione della guerra con altri mezzi, ma la guerra con tutti i mezzi necessari.
Sul fronte della guerra non dichiarata ma sanguinosissima contro chi si incammina verso l’Europa, la narrazione cambia spesso, a seconda della convenienza del momento, ma gli strumenti di controllo e repressione sono gli stessi, affinati nel tempo dall’esperienza e dalla capacità di mettere in campo le competenze di quel terzo settore che si è fatto le ossa su carceri, CIE, comunità per tossicodipendenti e persone finite nella rete della psichiatria.
L’Italia ha una lunga esperienza bipartisan, con una fitta rete di cooperative, associazioni, enti che si spartiscono la lucrosa torta dell’accoglienza, della deportazione, del controllo dei migranti e profughi di guerra.
La narrazione di questi dispositivi resta sempre sul filo del rasoio, in bilico tra il declivio emozionale dei bimbi annegati e delle mamme incinta, e quello rabbioso della paura.
I giornali pubblicano la foto del neonato affogato, pur sapendo che è vittima delle nostre frontiere chiuse, spremendo commozioni di carta nello spazio di un mattino. Relegata nelle pagine interne la narrazione di rastrellamenti, deportazioni di migranti, fogli di via per chi lotta contro le frontiere.
Nonostante il diverso tono emotivo, la gestione disciplinare e i buoni affari per gli operatori del settore sono sempre gli stessi.
La compagnia aerea di Poste Italiane, la Mistral Air, non trasporta lettere ma deporta i rifugiati e migranti, le società di pullman siciliane non caricano turisti ma uomini, donne e bambini rastrellati nel Mediterraneo dalla Marina Militare italiana e dalle altre imbarcazioni del programma Eunavfor o di Frontex, per trasferirli nelle strutture di ogni genere in cui sono parcheggiate le persone in viaggio, intrappolate in una ragnatela di burocrazia e polizia, difficile da districare. Soccorritori e carcerieri sono le due mani di una stessa macchina, a volte gli stessi svolgono entrambe le funzioni. Spesso le strutture di accoglienza e gli operatori che ci lavorano diventano le camere di compensazione dove provare a sopire con una coperta ed un piatto di minestra la spinta a continuare la strada scelta e percorsa tra mille rischi e difficoltà.
I militari italiani assumono vesti di operatori umanitari, gli operatori umanitari, svolgono spesso funzioni di polizia. Non per caso sulle frontiere chiuse, come nelle zone di guerra dove operano le forze armate tricolori, non c’è spazio per i volontari non allineati, i sovversivi, chi si batte per la libera circolazione e contro guerre e militarismo.

Smontare il dispositivo disciplinare affinato in questi anni di guerra non è facile. Ma urgente. Chi un giorno proverà a scrivere la storia di questi anni, si potrebbe domandare, perché migliaia e migliaia di persone morivano o perdevano la libertà, nel silenzio di tanta gente perbene.
(quest’articolo uscirà sul prossimo numero di Arivista)

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Barricate e vernice rosa al Rog di Lubiana

rog2Lunedì 6 giugno c’è stato il primo tentativo di sgombero di Rog, centro sociale a Lubiana occupato da 10 anni. Rog è molto vicino al più noto Metelkova.
In mattinata occupanti e solidali hanno respinto la ruspa che provava a demolire di una delle palazzine del complesso. La ruspa è stata circondata e non è riuscita più a muoversi: ora è al centro del cortile dipinta di rosa. Se la demolizione, anche parziale, riuscisse, sarebbe il via ufficiale ai lavori per un nuovo edificio che porterebbe pian piano allo sgombero dell’intero centro sociale che ospita tantissime realtà: gallerie d’arte, rampe da skate, collettivi di solidarietà ai rifugiati…
Gli attivisti e solidali – in prima fila i compagni e compagne del gruppo anarchico di Lubiana – sorvegliano le barricate giorno e notte perché
è probabile un nuovo tentativo di entrare entro il 14 giugno, data ultima per l’inizio dei lavori.
Se non venisse rispettata quella scadenza
la ditta che ha avuto in appalto i lavori perderebbe la commessa e il comune di Lubiana dovrebbe far ripartire tutto l’iter burocratico.
Dopo la resistenza di lunedì la ditta incaricata dei lavori e il sindaco sindaco l’8 giugno si sono rivolti al tribunale per richiedere l’intervento della polizia per permettergli di entrare al Rog e iniziare le demolizioni. Ci si aspetta un nuovo attacco, questa volta più deciso.
I media stanno dando grande attenzione alla resistenza del Rog. In un video sulla resistenza alla lotta si vede la security privata della ditta atterrare violentemente un ragazzo.

rogIl Rog ha lanciato un appello ad andare a Lubiana per sostenere la lotta.
Alcuni compagni e compagne hanno risposto da Trieste.
Di seguito la breve testimonianza di uno di loro: “
Un’altra città, una di quelle dove non capisci un acca di che cazzo dicono ma in cui ti senti sempre a casa. Un posto occupato sotto sgombero. Un assemblea in tarda sera coi compagni e compagne con solo la luce di una candela e senza cellulari. Si parla di barricate e resistenza. E poi un paio di giri di perlustrazione e verso le 3 a nanna dentro il sacco a pelo, accanto il casco e il fazzolettone perché stanotte non dovrebbe succedere nulla ma non si sa mai.
Sveglia presto per tornare a casa e a lavoro. Dentro una gran voglia di tornare e una sensazione di vita che solo chi è militante può capire. Rog resiste!”

Qui stralci dell’appello del Rog
Rog, sotto attacco da più di 10 anni contro la gentrificazione e il capitalismo
Artisti, attivisti, filosofi, membri di gruppi e collettivi, siamo riuniti insieme nella fabbrica abbandonata da più di 10 anni.
Il nostro lavoro è basato sull’autonomia, la solidarietà e il mutuo aiuto.
Il Comune di Ljubljana ha deciso di ignorare le iniziative che si svolgono alla fabbrica e di farla finita con la ricchezza di attività il cui obbiettivo è di impedire la gentrificazione del centro città, che verrebbe “riqualificato” per turisti e artisti “riconosciuti”.
Venite di persona proteggiamo insieme il rog!”
La solidarietà è un arma!”

Sulla giornata di lotta di lunedì ascolta la diretta dell’info di Blackout

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Le deportazioni ai tempi di Renzi e Alfano

deportazioniLe deportazioni di immigrati e richiedenti asilo fanno parte di un dispositivo disciplinare affinato negli anni per mettere sotto controllo chi viaggia senza visti e documenti. Si tratta di operazioni molto redditizie per chi gestisce centri di accoglienza, CARA, CIE, hotspot, tendopoli, caserme abbandonate e per chi viene pagato per il trasporto.
Ascoltate la diretta dell’info di radio Blackout con Antonio Mazzeo, che sul suo blog ha pubblicato un’inchiesta dedicata all’affare della deportazione da Messina.

Di seguito l’articolo uscito sul blog:
Prima l’identificazione e l’invito a dimenticare nome, cognome e luogo di provenienza in cambio di un numero identificativo che dovrai tenere impresso per giorni, mesi, forse anni. Un panino, una bottiglietta d’acqua, un’interminabile fila per pisciare dentro un nauseabondo scatolone di plastica arroventato dal sole. Per la doccia, ti spiegano, dovrai attendere ancora un giorno, se tutto va bene. Qui, al massimo, c’è una fontanella per sciacquarti la faccia. Poi un’altra fila per stiparsi dentro a un bus, altri tanfi di carne umana e gasolio e la deportazione verso l’ignoto. Mille, mille e duecento, mille e cinquecento km di strade e autostrade sino ad una squallida tendopoli alla periferia di Torino o Milano o a un albergo-pensione a tre stelle in un’isolata frazione alpina del Trentino o dell’Alto Adige. Una macchina ormai oleata, rigida, burocratica, scientifica quella che regola la deportazione di decine di migliaia di richiedenti asilo dalla Sicilia ai campi di prima, seconda ed eterna accoglienza del centro e nord Italia.
Un sistema disumano e disumanizzante che accanto al modello dell’“accoglienza” affidata a coop, onlus, aziende e faccendieri del sociale, genera immani e immondi profitti per uno sparuto gruppo di proprietari di bus e minibus.
Continued…

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Due giugno di lotta agli eserciti e alle frontiere

00 corteo2giugnoLa pioggia battente non ha fermato gli antimilitaristi torinesi che hanno dato vita ad un corteo che ha attraversato le vie del centro cittadino, dipanandosi da piazza XVIII dicembre sino a via Garibaldi.

Lo striscione “Contro tutti eserciti per un mondo senza frontiere” apriva il corteo, cui hanno preso parte anche diversi esponenti della comunità curda torinese, che appoggia le esperienze di autogoverno in Rojava e in Bakur.

In via Cernaia, il monumento equestre a Lamarmora è stato coperto con un telo da pacciamatura. Le strade, le piazze e i giardini delle nostre città, Torino non è da meno, sono segnate da statue e monumenti dedicati ad assassini in divisa, a uomini che si sono distinti nell’uccidere, stuprare, torturare in nome dello Stato.
09 corteo2giugnoCoprire le vergogne del militarismo, è un modo per mostrare, nascondendole alla vista, le manifestazioni della pornografia bellica, della violenza legalizzata degli eserciti.

Il corteo ha fatto il giro di piazza Solferino, affacciandosi su via Bertolotti, dove ha sede la Prima circoscrizione, che il 25 aprile ha dedicato ai due marò assassini il giorno in cui si ricorda l’insurrezione di Torino contro il fascismo.
Più in là, chiuse da un cordone di polizia il monumento ai bersaglieri e la scuola di applicazioni militari, che notte del 31 maggio erano state decorate con scritte – assassini – vernice rossa e olio combusto.
La notte successiva la scritta “nessuna pace per chi fa guerra” era comparsa su monumento per la “pace” di corso Regina Margherita. In quel monumento la “pace” è rappresentata da un aereo militare italiano stilizzato.
01 corteo2giugnoAnche sui muri della principale fabbrica d’armi di Torino, l’Alenia, è comparsa la scritta “chiudere le fabbriche di morte”

Il corteo, mentre la pioggia si infittiva, ha guadagnato l’angolo con via San Francesco, dove una barca con dentro due manichini insanguinati, una rete ed una targa con la scritta “In memoria di Valentine Ajesh e Jelestine Binky, uccisi dalla barbarie dei marò, è stata lasciata all’incrocio.

In contemporanea un filo d’acciaio ha chiuso l’incrocio tra corso Vittorio e corso Bolzano, in solidarietà a migranti deportati e agli attivisti banditi da Ventimiglia.

Numerosi gli interventi sulla spesa di guerra, le fabbriche d’armi, l’osmosi tra guerra interna e guerra esterna.

08 corteo2giugnoLa giornata è proseguita alla Taz antimilitarista al parco Michelotti, dove si è svolta un’assemblea, in cui si sono intrecciate le testimonianze delle lotte, con le analisi sulle strategie di guerra, controllo sociale e sperimentazione disciplinare degli ultimi anni.

Di seguito il testo del flier distribuito in queste settimane a Torino

Il 2 giugno il governo festeggia la Repubblica con parate militari ed esaltazione patriottica.
A Torino è stata lanciata una giornata di lotta contro gli eserciti e le frontiere.
L’Italia è in guerra. A pochi passi dalle nostre case si producono e si testano le armi impiegate nelle guerre di ogni dove.
07 corteo2giugnoLe usano le truppe italiane nelle missioni di “pace” all’estero, le vendono le industrie italiane ai paesi in guerra.
Queste armi hanno ucciso milioni di persone, distrutto città e villaggi, avvelenato irrimediabilmente interi territori.
L’Italia è in guerra. Truppe italiane sono in Afganistan, in Iraq, in Val Susa, nel Mediterraneo e nelle strade delle nostre periferie, dove i nemici sono i poveri, gli immigrati, i senza casa, chi si oppone ad un ordine sociale feroce.

L’Italia è in guerra. Ma il silenzio è assordante
La retorica sulla sicurezza alimenta l’identificazione del nemico con il povero, mira a spezzare la solidarietà tra gli oppressi, perché non si alleino contro chi li opprime.
15 corteo2giugnoLa retorica della sicurezza alimenta l’immaginario della guerra di civiltà, della paura della Jihad globale, mentre il governo del nostro paese è alleato di chi finanzia chi semina il terrore.

Chi promuove guerre in nome dell’umanità, paga un macellaio perché i profughi vengano respinti e deportati.

Il silenzio è assordante, perché il pensiero sulla sicurezza – lo stesso a destra come a sinistra – sembra aver paralizzato l’opposizione alla guerra, al militarismo, alla solidarietà a chi fugge persecuzioni e bombe.

Nel silenzio dei più c’è chi decide di mettersi di traverso, di sabotare le antenne assassine di Niscemi, di battersi contro le fabbriche d’armi, di fermare le esercitazioni 13 corteo2giugnodi guerra, di aprire ed abbattere le frontiere, di gridare forte il proprio il disgusto per la patria e il nazionalismo.

Per fermare la guerra non basta un no. Occorre incepparne i meccanismi, partendo dalle nostre città, dal territorio in cui viviamo, dove ci sono caserme, basi militari, aeroporti, fabbriche d’armi, uomini armati per le strade.
Qui le immagini delle azioni dirette antimilitariste dei giorni precedenti

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Azioni antimilitariste a Torino

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03 scuola assassini

05paceguerra

06 aleniaScritte, vernice e olio su monumenti, fabbriche armi, e scuole militari alla vigilia del 2 giugno.

La notte del 31 maggio i muri della scuola di applicazioni ed Istituto di studi militari dell’esercito sono stati imbrattati con materiali oleosi ed è comparsa la scritta “assassini” e una A cerchiata.
Poco più in là il monumento ai bersaglieri di corso Galileo Ferraris è stato colorato di un rosa acceso.
La notte successiva la scritta “nessuna pace per chi fa guerra” è comparsa su monumento per la “pace” di corso Regina Margherita. In quel monumento la “pace” è rappresentata da un aereo militare italiano stilizzato.
Anche sui muri della principale fabbrica d’armi di Torino, l’Alenia, è comparsa la scritta “chiudere le fabbriche di morte”.

Il comunicato e le immagini sono state pubblicate su Indymedia Piemonte e Indymedia Barcellona

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Anarchici in piazza contro razzisti e polizia

04 antisbiIl 23 maggio quasi tutte le rappresentanze sindacali dei poliziotti – la Silp-Cgil si è sfilata all’ultimo, nonostante avesse siglato il patto – hanno promosso una fiaccolata da piazza Crispi a piazza Palazzo di città, per presentare il loro “patto per la sicurezza” alla giunta comunale.
02 antisbiI sindacati di polizia entrano a gamba tesa nella campagna elettorale, facendo un’operazione lobbista ben articolata ed alleandosi con la destra nel pretendere un’ulteriore stretta securitaria sui quartieri più popolari.
03 antisbiIl loro programma per rendere Torino più sicura?
Sgombero delle case occupate, fogli di via, CIE nei paesi d’origine e rimpatri rapidi per i senza carte, allontanamento delle prostitute e apertura di bordelli legalizzati, riduzione delle tutele per i rifugiati e i richiedenti asilo, cacciata di mendicanti e baraccati, numero chiuso per i rom nelle case popolari.
09 antisbiInutile dire che vogliono più poliziotti e guardie carcerarie.
Va da se che le occupazioni di case per soli italiani vanno tutelate e legalizzate.
L’asse portante delle proposte dei poliziotti è la repressione ed il disciplinamento dei poveri e degli immigrati.

06 antisbiAll’iniziativa hanno partecipato un centinaio di persone tra poliziotti, esponenti dei comitati razzisti della città e di Fratelli d’Italia.
05 antisbiDa settimane in Barriera di Milano si erano moltiplicati manifesti e scritte contro la polizia e la guerra ai poveri. Scritte e manifesti erano il segno evidente che la marcia dei poliziotti sarebbe stata contestata.
Sino all’ultimo i vigili non hanno sciolto la riserva sul corteo, che avrebbe potuto passare da corso Giulio Cesare o da corso Vercelli.
A sorpresa, temendo contestazioni e non volendo sfilare tra muri trasformati in bacheche e persone ostili, hanno scelto di aggirare i corsi principali.

Sin dalle 18 un folto gruppo di antirazzisti, in buona parte anarchici, si è ritrovato alla lapide al partigiano anarchico “Ilio Baroni”, in corso Giulio Cesare angolo corso Novara. Il presidio si è poi trasformato in corteo che ha attraversato il quartiere. Numerose le soste e gli interventi per informare gli abitanti della zona. Tanti gli immigrati lungo la strada e dai balconi che hanno plaudito e fatto cenni di approvazione.
Il corteo ha sostato a lungo davanti alla casa occupata al 45 di corso Giulio, dove gli abitanti e i solidali attendevano in strada il passaggio dei poliziotti.
La manifestazione degli anarchici ha poi raggiunto via Garibaldi. La polizia in assetto antisommossa ha bloccato l’accesso alla piazza ma questo non ha impedito che al suo arrivo la fiaccolata securitaria venisse accolta con slogan e con lo striscione “Contro la guerra ai poveri, per un mondo senza razzismo e polizia”.

Nonostante la deviazione dell’ultimo minuto, per evitare contestazioni di anarchici ed abitanti, il piccolo corteo securitario non ha potuto evitare il comitato di accoglienza all’arrivo. Tanti gli slogan in sostegno agli immigrati, contro la polizia, lo sfruttamento, per l’autogestione e contro lo Stato.

Ascolta la diretta dell’info di Blackout con Emilio, uno dei compagni che hanno promosso l’iniziativa

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Pannella. Uno show man liberale ai tempi della prima repubblica

pannella scalfari“Il confuso scarmazzo che accompagna la dipartita di Giacinto, detto Marco, Pannella è il prodotto della mancata propensione alle valutazioni chiare e distinte che, se praticate, risparmierebbero al buon popolo molti patimenti spirituali.
L’uomo era, è non è un segreto, l’erede, non sto qui a valutare quanto legittimo, di una una corrente politica non spregevole, anzi, quella sinistra liberale che annovera fra i suoi numi tutelari Piero Gobetti, i fratelli Rosselli et alios.
Solo che rispetto a quella corrente si caratterizza per la sua – e non è un complimento, è solo una presa d’atto – modernità. Pur essendo nato prima della guerra è un liberale sessantottino, un ossimoro politico forse ma un ossimoro che ha funzionato.
Anticonformismo, gusto dell’eccesso, esibito narcisismo, mancanza di cultura e progetto politico, una punta di cialtroneria concorrono a farne l’antesignano di leader politici venuti dopo come espressione della personalizzazione della politica.
Era dunque, senza sé e senza ma, un occidentalista? Assolutamente si né pretendeva di essere altro. Era, per certi versi, insopportabile? Sicuramente ma era figlio di un paese che prevedeva, sino al 1976, si fino al 1976, il delitto d’onore, che, se si pensa alla violenza contro le donne, si caratterizzava per una legislazione che poco ci mancava che le condannasse nel caso di violenza, un paese influenzato da un moralismo veterocattolico, che aveva al governo un partito clericale e all’opposizione, a destra, un partito fascista e, a sinistra, un partito stalinista, un paese che grazie alle sue profonde distorsioni interne si è “modernizzato” anche grazie al partito radicale.
Modernizzato, non rivoluzionato, basta ricordarlo per ridimensionare i toni.”

Abbiamo tratto spunto da questo “coccodrillo” di Cosimo Scarinzi girato sui social media per fare una riflessione a tutto tondo sugli anni Settanta, sul declino inesorabile della corrente liberal socialista di “Giustizia e Libertà”, sull’emergere di elementi populisti e di leadership carismatica, che segneranno il trapasso dalla prima alla seconda repubblica. Un passaggio il cui nume tutelare sarà Bettino Craxi, l’uomo che ha trasformato e cambiato pelle al partito che fu di Nenni, per passare il testimone al suo sponsor, Silvio Berlusconi.
Pannella introdurrà elementi di trasformismo veloce, in un partito leggero, nel tempo sempre più liberale e liberista che non libertario, che anticipano di decenni alcuni elementi chiave della politica del nuovo millennio tra le Alpi e i Nebrodi.
Inutile dire che le leggi, tutte le leggi, sono la rappresentazione ritualizzata dei rapporti di forza all’interno della società.
Il cambiamento di cui Pannella si fece corifeo, stava incidendo nel profondo la società italiana, ed era agito da migliaia di uomini e donne, che si erano liberati dal giogo clericale e premevano perché la sudditanza al Vaticano sancita da tante leggi dell’ordinamento repubblicano venissero cancellate.

Giacinto, detto Marco, concluderà da par suo la propria avventura politica ed essenziale con un ultimo colpo di teatro: la lettera a Bergoglio e il rientro tra le braccia di madre chiesa.
Indimenticabile e forse di maggior impatto della conversione in pista di volo, la sua sortita in divisa Croata a sostegno dell’intervento dell’Italia in ex Jugoslavia.
Ascolta la diretta con Cosimo all’info di Blackout

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Idomeni. Cominciato lo sgombero

migrantiQuesta mattina alle sette sono cominciate le operazioni di sgombero del campo spontaneo di Idomeni, al confine tra la Grecia e la Macedonia.
Qui sono intrappolate da mesi tra le otto e le diecimila persone, in viaggio verso l’Europa del nord.
La chiusura violenta della rotta balcanica li ha relegati in un limbo di fango e tende, dove la sopravvivenza è garantita dalla solidarietà della gente del paese e di tutta la Grecia.
Alcuni hanno tentato di fare richiesta di ricollocamento in altri paesi europei, sebbene le difficoltà tecniche, tra connessioni traballanti e informazioni incerte, rendano questa prospettiva chimerica.
Altri a più riprese hanno provato a bucare la frontiera, respinti a manganellate, gas e flash bombs dalla polizia di frontiera macedone.
La polizia greca è sempre rimasta a guardare, lasciando ai macedoni il lavoro sporco.
La scorsa settimana c’è stato il primo segnale dell’aria che cambiava. La polizia greca ha caricato, picchiato e gasato chi tentava di passare la frontiera.
Oggi l’avvio dello sgombero definitivo.
Il governo Tsipras ha inviato 9 squadre dell’antisommossa.
Giornalisti e volontari sono tenuti lontani dal campo, dove è stata ammessa solo la televisione di stato greca. 300 profughi pare siano saliti spontaneamente sui pullman del governo. Impossibile sapere con quali argomenti siano stati convinti ad accettare la deportazione in campi lontani dalla frontiera.
Le operazioni continueranno per l’intera giornata e nei prossimi giorni, quando non tutto potrebbe andare liscio come oggi.

Ascolta la diretta dell’info di radio Blòackout con Cosimo Caridi, corrispondente del Fatto Quotidiano da Idomeni.

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La guerra in casa

libellulaBombe nei ristoranti, allo stadio, in aeroporto, in metropolitana, in una sala concerti.
Oggi esco, prendo l’autobus e forse non arrivo al lavoro. Domani c’è un esplosione e mio figlio non torna più.
Queste cose una volta succedevano in posti lontani, pericolosi, posti dove la guerra è “un’abitudine”. Come se fosse possibile assuefarsi all’orrore.

Da qualche tempo la guerra è venuta a cercarci a casa. La convinzione che la guerra fosse altrove, passo a passo, si sta frantumando. Ma tenace resta l’illusione che sia possibile ricacciarla indietro. Chiudendo le frontiere, cacciando gli immigrati, sigillando i quartieri poveri, mettendo le città in mano ai militari, piazzando telecamere e orecchie elettroniche ovunque.
Le nostre scarne libertà vengono frantumate pezzo a pezzo senza che la maggior parte della gente reagisca. La paura è un’arma potente. Chi governa ne profitta per prendersi più potere, per proclamare lo stato di eccezione permanente, per mettere sotto controllo ogni forma di insorgenza sociale.

Quando tutti sono nel mirino, non c’è né riparo né protezione. Se il nemico è disposto a morire pur di uccidere, prima o poi colpisce di nuovo. Se l’obiettivo è il terrore, lo si raggiunge facilmente.
Dopo gli attentati dello scorso novembre Hollande ha reagito bombardando le città irachene controllate dall’ISIS ed ha proclamato lo stato di emergenza. Doveva durare una settimana, rischia di estendersi all’infinito. L’eccezione diventa norma.
Una formula semplice quella di Hollande. Vendetta fuori dai confini, militari nelle strade di casa propria.
Mentre scrivo non si è ancora spenta l’eco delle esplosioni all’aeroporto e nella metropolitana di Bruxelles. La capitale belga, i suoi quartieri più poveri, dove vivono gli immigrati di ieri e di oggi, sono stretti in una morsa dalla polizia.
Si moltiplicano le polemiche sulle “falle” dell’Intelligence belga, per mantenere l’illusione che gli attentati possano essere realmente prevenuti ed impediti. Chi li attua ha dalla sua la scelta di rinunciare a tutto, anche alla vita.
In questi ultimi decenni il fondamentalismo islamico è stato tollerato, foraggiato, sostenuto da paesi non islamici, convinti di poter usare questi scomodi alleati senza scottarsi le mani. Continued…

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No Tav. Assolti Gabriele e Matteo

3 luglioSono stati assolti Gabriele e Matteo, i due no Tav processati per l’episodio del carabiniere che, durante il 3 luglio 2011, venne dimenticato nel bosco dai suoi colleghi dopo una sortita poco felice. Era il giorno dell’assedio No Tav al nascente cantiere della Maddalena, meno di una settimana dopo lo sgombero della libera repubblica della Maddalena.
La Procura di Torino ha formulato l’accusa di sequestro di persona e di lesioni. Destinata all’archiviazione, per l’inconsistenza delle prove contro i due No Tav, è stata portata a dibattimento quando il fascicolo è passato dal tavolo di Ferrando, promosso Procuratore capo a Ivrea, a quello di Andrea Padalino.
La sentenza è stata pronunciata questa mattina dopo un processo celebrato a porte chiuse come prescrive la scelta del rito abbreviato. Questo tipo di processo viene fatto sulla base delle prove documentali, senza testimoni.
La Procura aveva chiesto 9 anni di carcere per sequestro di persona.
Il tribunale non ha considerato convincenti le tesi della Procura, respingendo le richieste di Andrea Padalino.

Ascolta la diretta dell’info di Blackout con Silvia, No Tav del comitato alta valle, dal presidio solidale al mercato di Susa.

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La polizia dichiara guerra ai poveri

bimba poliziaI sindacati di polizia partecipano alla campagna elettorale presentando un “patto per la sicurezza” ai candidati sindaco.
Lunedì hanno indetto una fiaccolata per la sicurezza da piazza Crispi al Comune.

Il loro programma per rendere Torino più sicura?
Sgomberare campi rom e case occupate (tranne quelle fasciste per soli italiani).
Limitare i diritti dei rifugiati, cacciare baraccati e mendicanti.
Chiedono la riapertura dei bordelli e l’allontanamento delle prostitute dalle strade, la chiusura dei mercati abusivi, la deportazione dei senza documenti. Chiedono più poliziotti e più secondini.
La loro “sicurezza” puzza di razzismo, di violenza contro gli immigrati poveri, contro chi per vivere ricicla i rifiuti e vende in un mercato spontaneo.

Nelle nostre periferie c’è chi lavora troppo per molto poco e chi non lavora affatto. Il lavoro è sempre più pericoloso, malpagato, precario.

La tutela della salute, la cura degli anziani, le tutele per i disabili sono riservate a chi può pagare. Per gli altri, i più, l’aspettativa di vita è diminuita, la prevenzione è un miraggio.

A Torino ci sono case vuote e gente in strada.

Scuole, trasporti pubblici, ospedali offrono sempre meno servizi a caro prezzo.

In questi anni di crisi i ricchi sono diventati più ricchi, i poveri sempre più poveri.
L’affermarsi violento di una democrazia autoritaria è il necessario corollario a politiche di demolizione di ogni forma di tutela sociale.
Le truppe tricolori sono in guerra nel Mediterraneo e nei quartieri popolari delle nostre città.

Fascisti, leghisti e comitati spontanei soffiano sul fuoco cercando di far esplodere la guerra tra poveri, puntando il dito contro gli immigrati africani, magrebini, cinesi, rumeni, peruviani che vivono a Torino.

Occupare le case vuote, praticare la solidarietà con i senza documenti e i baraccati, costruire esperienze di autogestione e mutuo appoggio, battersi contro la militarizzazione dei quartieri cambia la vita di tutti e disinnesca la propaganda di chi vuole che i poveri si facciano la guerra, per poterli meglio controllare ed opprimere.

I sindacati di polizia non vogliono la sicurezza, ma cercano di imporre una gestione violenta del territorio, per bloccare ogni insorgenza sociale.

Anche noi vogliamo vivere sicuri.
Senza polizia che arresta e deporta uomini e donne colpevoli di essere poveri e nati altrove.

Senza polizia che picchia e gasa chi si oppone allo sfruttamento, agli sfratti, alla devastazione del territorio.
Senza poliziotti e secondini che pestano e torturano nelle strade, nelle caserme e nelle carceri.

Gli uomini in divisa difendono i ricchi, i potenti, i governanti, non certo la gente delle periferie che fatica ad arrivare a fine mese.

La polizia difende il governo e i padroni.
Il governo e i padroni ci hanno rubato il futuro e reso intollerabile il presente. Un presente fatto di tagli alla sanità, alla scuola, ai trasporti pubblici, alle pensioni, ai salari.

Sicurezza è una casa dove vivere

Sicurezza è non morire di lavoro

Sicurezza sono le cure quando siamo malati

Sicurezza è quando uomini e donne non sono più merce a poco prezzo

Sicurezza è un mondo senza sfruttati e senza sfruttatori

Sicurezza è un mondo senza frontiere, filo spinato, prigioni e polizia

 

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Torino. Un normale Primo Maggio di lotta

0 primo maggio anarchico toPiove a dirotto e fa freddo in piazza Vittorio, dove parte il corteo del Primo Maggio. La piazza è spezzata in due, come sempre da qualche anno. La polizia si schiera all’inizio di via Po per bloccare il passaggio alle componenti più radicali, centri sociali, no tav, sindacati di base e lo spezzone anarchico.
1 primo maggio anarchico toSiamo in piena campagna elettorale e alcuni candidati giocano le loro carte anche nel giorno simbolo delle lotte dei lavoratori.
Il Partito Democratico per la prima volta da anni deve affrontare una partita difficile: i sondaggi confermano che la candidata pentastelluta Appendino, avrebbe un buon margine di consenso.
3 primo maggio anarchico toAppendino fa a gara con Fassino nel ballare con gli anziani di Barriera e nel promettere lo sgombero dei campi rom, che l’amministrazione di centro sinistra non ha ancora raso al suolo.
A fianco del candidato della “Sinistra”, Airaudo, passato dal sindacato di Stato alla caccia alla poltrona sono quelli di Terra del Fuoco, una delle associazioni che hanno fatto bottino sullo sgombero dei rom.
4 primo maggio anarchico toSfileranno tutti in coda assieme al partitino comunista di Rizzo, a caccia di improbabili verginità dopo l’assenso alle bombe sulla ex Jugoslavia e le cariche a Torino contro chi si opponeva alla guerra.

5 primo maggio anarchico toQuando ormai la parte istituzionale del corteo è lontana, il cordone di polizia si apre e gli spezzoni più radicali attraversano via Po. In piazza Castello nuovo schieramento della celere per bloccare l’ingresso in via Roma. Due brevi cariche e qualche manganellata sono la risposta della questura a chi protesta e spinge per andare avanti.
6 primo maggio anarchico toQuest’anno CGIL CISL e UIL, organizzatori della manifestazione, hanno chiesto che nessun contestatore potesse entrare in piazza finché la manifestazione istituzionale non fosse terminata.
Nel parapiglia due manifestanti vengono fermati: uno dei due, uno studente diciottenne, finisce alle Vallette.
7 primo maggio anarchico toQuando il corteo riparte Fassino e i suoi hanno ormai lasciato la piazza. Questa volta sono riusciti ad evitare i fischi, che in altri anni avevano dato voce ai tanti che a Torino fanno fatica ad arrivare a fine mese, lottando contro precarietà e sfratti.
8 primo maggio anarchico toUn risultato ottenuto con l’ausilio della polizia e dei picchiatori prezzolati, che proteggono lo spezzone del PD da chi non è disponibile a piegare la testa, non è disponibile a rassegnarsi alle regole feroci del capitale.

Buona la partecipazione allo spezzone anarchico, aperto dallo striscione “Né Stato né padroni. Azione diretta!”. Sul furgone di testa è stato appeso lo striscione “PD, CGIL, CISL, UIL nemici dei lavoratori”.
Non ci stupiamo quindi che la questura abbia disposto un blocco per impedire che voci dissonanti turbassero la campagna elettorale.
Nonostante la pioggia i tanti torinesi assiepati a lato del corteo hanno ascoltato e plaudito i lunghi interventi dei compagni e delle compagne che hanno dato vita allo spezzone rosso e nero. Interventi in cui si sono intrecciati i fili delle lotte contro le fabbriche d’armi, la militarizzazione della città, il Tav, le leggi che tutelano i padroni e ammazzano i lavoratori.
La crisi morde sempre più forte, specie nelle nostre periferie, dove solo le pratiche di autogestione, riappropriazione e solidarietà pongono un argine alla guerra contro i poveri che i governi di centro sinistra e quelli di centro destra hanno promosso negli ultimi vent’anni.

L’affermarsi di una democrazia autoritaria è il necessario corollario a politiche di demolizione di ogni forma di tutela sociale. Se i meccanismi violenti della governance mondiale impongono di radere al suolo ogni copertura economica e normativa per chi lavora, la parola passa al manganello, alla polizia, alla magistratura. Se la guerra è l’orizzonte normale per le truppe dei mercenari tricolori dall’Afganistan alla Val Susa, la repressione verso chi si ribella non può che incrudirsi.
Ogni giorno cerchiamo di coniugare autogestione e conflitto, per costruire lottando e lottare costruendo. In una tensione che non si allenta ogni zona liberata, è una base per incursioni all’esterno. Parimenti ogni momento di conflitto oltrepassa la mera dimensione resistenziale quando si innesta in pratiche di riappropriazione diretta di spazi politici e sociali.
La crisi della politica di Palazzo ci offre una possibilità inedita di sperimentazione sociale su vasta scala di un autogoverno territoriale che si emancipi dai percorsi istituzionali.
Il Primo Maggio torinese ha mostrato nei fatti la distanza tra chi pratica l’autogestione e il conflitto e chi fa il gioco delle poltrone.
Anche questo Primo Maggio i supermercati erano aperti, anche in questo primo maggio ci sono case vuote e gente in strada, anche in questo primo maggio c’è chi lavora troppo per molto poco e chi non lavora affatto, anche in questo primo maggio truppe tricolori sono in guerra dal Mediterraneo ai quartieri popolari delle nostre città.

In piazza abbiamo ricordato le lotte durissime degli operai di Chicago che nel lontano 1886 si battevano per le otto ore.
Cinque di loro vennero impiccati per stroncare quella lotta. Ma i padroni e i governanti dovettero pentirsene, perché la loro morte accese fuochi in ogni dove. Quei fuochi ardono ancora.

Dopo il corteo pranzo e festa alla FAT, per un benefit lotte sociali, dove ciascuno ha contribuito secondo le proprie possibilità: un pizzico di anarchia.

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25 aprile in Barriera di Milano

02 25 aprile barrieraAnche quest’anno il 25 aprile ci siamo incontrati alla lapide di Ilio Baroni. La pietra che lo ricorda è nel centro del quartiere operaio di Barriera di Milano, all’angolo tra corso Giulio e corso Novara, dove Ilio ha concluso con un arma in mano la sua lunga lotta contro il fascismo, cominciata negli anni Venti a Piombino.
Oggi rimane solo un pezzo di muro con la pietra, il nome, la foto scolorita.
Sino ad una trentina di anni fa quel muro era la spalletta di un ponte su un piccolo canale.
Era una zona di fabbriche ed un borgo di operai. Operai combattivi, gli stessi dell’insurrezione contro la guerra e il carovita del 1917, quelli dell’occupazione delle fabbriche, della resistenza al fascismo, gli anarchici che durante gli anni più bui della dittatura mantennero in piedi un gruppo clandestino, la gente degli scioperi del marzo ’43.
00 25 aprile barrieraOggi sono quasi del tutto scomparsi anche i ruderi di quelle fabbriche. Delle ferriere, dove lavorava Baroni, restano solo gli imponenti travoni di acciaio in mezzo ad un improbabile parco urbano tra ipermercati e multisale.
Il cuore del quartiere è cambiato. La Barriera aveva resistito agli anni dell’immigrazione dal sud, facendosi teatro di lotte grandi tra fabbrica, scuola, quartiere, eludendo il rischio della guerra tra poveri e del razzismo per costruire una stagione di lotte, che ormai trascolora nella memoria dei tanti la cui vita ne è stata attraversata.
Oggi vivere qui è più difficile che in passato: non è solo questione dei soldi che mancano e del lavoro che non c’è, e, se c’è è sempre più nero, pericoloso, precario. C’è un disagio diffuso che non sempre si fa percorso di lotta, ci sono fascisti, leghisti e comitati spontanei, che soffiano sul fuoco cercando di alimentare la guerra tra poveri, puntando il dito contro i tanti immigrati africani, magrebini, cinesi, rumeni, peruviani che ci abitano.
01 25 aprile barrieraIl governo della città da decenni è nelle mani degli eredi di Togliatti, il comunista che ha graziato i fascisti, i repubblichini torturatori ed assassini, e seppellito in galera gli anarchici che hanno combattuto il fascismo prima e dopo le date ufficiali della resistenza. Gli stessi che hanno imbalsamato la Resistenza, rinchiudendola in una teca avvolta nel tricolore.

Durante il presidio si commentano le notizie della mattina, perché il sindaco Fassino ha scelto proprio il 25 aprile per inaugurare la nuova pista ciclabile di Lungo Stura Lazio, costruita accanto alle macerie della più grande baraccopoli, d’Europa, sgomberata definitivamente a gennaio. Ha scelto il monumento dei partigiani della Barca per vantarsi di aver buttato in strada uomini, donne e bambini. Ne ha insultato la memoria in modo intollerabile, ma ha avuto una brutta sorpresa perché qualche ora prima sul muretto accanto alla lapide sono 03 25 aprile barrieracomparse delle scritte dal senso forte e chiaro “Ieri ebrei e rom, oggi rom e immigrati. Comune nazista. Solidarietà con i rom sgomberati. 25 aprile sempre”.
Fassino ha posticipato di tre settimane l’inaugurazione della pista ciclabile, per farla proprio il 25 aprile. Una scelta fatta per ottenere più visibilità mediatica. Il Comune di Torino lo scorso anno ha dovuto incassare una condanna per trattamenti “inumani e degradanti” dalla corte europea dei diritti dell’uomo, per le modalità dello sgombero di Lungo Stura Lazio.
Poi ha dovuto subire cortei sotto il comune, occupazioni di uffici e l’occupazione della Ex Caserma di via Asti e dell’ex ASL di via Borgo Ticino da parte delle famiglie buttate in strada con le ruspe e di quelle che avevano scoperto tardi che la promessa di una casa era solo un inganno che aveva arricchito le associazioni e cooperative vicine al goerno della città- .
I social housing negli edifici di proprietà del ras delle soffitte e l’inchiesta che ne è scaturita certo non hanno migliorato l’appeal di Piero Fassino alla vigilia delle elezioni.
Da mesi l’amministrazione comunale sfrutta ogni occasione per ridare una lucidata alla sua vetrina appannata. Inaugurare una pista costruita a fianco delle macerie del campo fa parte di questa strategia.
04 25 aprile barrieraUsare le commemorazioni del 25 aprile per celebrare lo sgombero della baraccopoli era un’operazione di dubbio gusto che gli anarchici non hanno lasciato passare nel silenzio.
Come non poteva passare sotto silenzio la decisione della Circoscrizione Centro-Crocetta di dedicare il 25 aprile a La Torre e Girone, i due marò che hanno ammazzato due pescatori indiani disarmati. Marò assassini! Partigiani sempre, militari mai”. Questa scritta è comparsa nella notte del 24 aprile sulla sede della prima circoscrizione.

In Barriera la scritta “Morte al fascio!” è stata fatta sulla serranda tricolore della sede di Fratelli d’ Italia.

Torino si è trasformata da città dell’auto a vetrina di grandi eventi, un grande Luna Park per turisti, mentre le periferie sono in bilico tra 05 25 aprile barrierariqualificazioni escludenti e un parco giochi per carabinieri, alpini e poliziotti.

Da qualche anno il vento sta cambiando anche se per ora è solo una brezza lieve.
Anche questo 25 aprile ci siamo ritrovati alla lapide: abbiamo parlato, brindato, chiacchierato con i passanti e i curiosi.
Due mazzi di fiori sono stati deposti.
Non è stata solo una commemorazione, ma un’occasione per i tanti di noi che in questo quartiere sono nati e continuano a vivere, di alimentare il venticello che segnala il mutare dei tempi, di annodare i fili della memoria di ieri con le lotte di oggi.
Le lotte che vedono in prima fila altri partigiani, quelli che si battono contro l’occupazione militare in Val Susa, quelli che si mettono di mezzo contro sfratti e deportazioni, contro il razzismo e il fascismo.

06 25 aprile barrieraOggi come allora i partigiani sono trattati da banditi, terroristi, delinquenti. Oggi come allora la gente delle periferie sta imparando da che parte stare.

I partigiani di Barriera in quel lontano aprile hanno combattuto perché volevano un mondo libero, senza schiavitù salariata.

Il loro sogno continua ogni giorno nella lotta per una società di liberi ed eguali. Senza Stato né padroni.

Prossimi appuntamenti:

Venerdì 29 aprile
Autogestione, conflitto, mutuo appoggio2016 04 21 manif fat staid

introduce il dibattito Andrea Staid

ore 21 alla FAT
in corso Palermo 46

Andrea è antropologo, anarchico, autore di testi e ricerche tra cui:
I senza Stato. Potere economia e debito nelle società primitive, edizioni Bebert
I dannati della metropoli. Etnografie dei migranti ai confini della legalità, edizioni Milieu
Le nostre braccia. Meticciato e antropologia delle nuove schiavitù, edizioni Agenzia X

DSCN0068Domenica Primo Maggio
Spezzone rosso e nero al corteo del Primo Maggio
Appuntamento alle 8 in piazza Vittorio quasi all’angolo con via Po.

Dopo il corteo pranzo e festa alla FAI in corso Palermo 46.
Il pranzo è benefit lotte sociali.
Chi non può o può solo poco è ugualmente il benvenuto.
Se possibile prenotatevi, scrivendo a fai_torino@autistici.org

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Fassino come i nazisti. Scritte solidali con i rom sgomberati

01 romUna brutta sorpresa per il sindaco di Torino Piero Fassino, che questa mattina inaugura la nuova pista ciclabile ai giardini Milone.
Questa notte sono comparse alcune scritte “Solidali con i rom sgomberati”, “Ieri ebrei e rom, oggi immigrati e rom. Comune nazista. 25 aprile sempre!”
03 comune nazistaFassino ha scelto il 25 aprile, l’anniversario dell’insurrezione contro il fascismo per inaugurare la nuova pista ciclabile di lungo Stura Lazio. Fassino festeggia il 25 aprile, celebrando la liberazione dai rom, i poveri della città che l’hanno sfidato occupando una casa per viverci.

02 25 aprile sempreQuando gli sfruttati alzano la testa, la democrazia diventa fascismo.

Siamo all’estrema periferia della città. In questi giorni di primavera il fiume Stura è pieno di vita, uccelli che covano, migratori che arrivano. Le sue sponde sono invece immerse nel silenzio.
Non chiedetevi perché la pista ciclabile corre lungo la strada, invece di costeggiare il fiume, non chiedevi perché la pista è divisa dall’area verde lungo il fiume da jersey di cemento e acciaio.
Andate a dare un’occhiata. In mezzo al verde c’é quel che resta della più grande baraccopoli d’Europa. Nessuno portato via nulla, né il comune che ha sgomberato, né il privato che si è ripreso l’area.

Qui i rom rumeni che ci abitavano, non avevano né luce né acqua. Ma avevano dignità e il sogno di una casa vera. Le baracche, se avevi voglia di prendere i viottoli della baraccopoli, erano quello che più somigliava ad una casa. C’erano lumi tremuli, tendine alle finestre, il bagliore di una TV, un tappeto e una cucina a gas.
Il comune di Torino ha teso il proprio amo, promettendo una casa ai più meritevoli, quelli che accettavano di essere considerati gente di sotto, gente incapace di vivere decentemente, come se la baracca fosse una scelta e non l’unica possibilità per i poveri.
Per un poco la gente del campo ci è cascata. Il progetto “La città possibile”, cinque milioni di euro per realizzare il primo sgombero soft, trasformando le vittime in complici, era quasi perfetto.
A qualcuno era stata promessa una casa, ad altri un posto nei social housing, ad altri trecento euro ed un biglietto di sola andata per la Romania. Tutti dovevano collaborare, partecipando alla “decostruzione” della propria baracca, dimostrando così la propria volontà di “emergere” dal campo.
Una gigantesca truffa. Molti, i più non hanno conosciuto che sgomberi e minacce, altri, i fortunati inseriti nel progetto, hanno presto scoperto che i fitti, inizialmente bassi, aumentavano progressivamente e nessuno sarebbe più riuscito a pagarli. Per tutti, il destino era la strada.

Lo scorso autunno i sommersi e i salvati hanno scoperto di essere sulla stessa barca, hanno fatto un grande corteo in centro, occupato l’ufficio nomadi, ed infine si sono presi una Casa in via Asti, nella caserma, occupata da Terra del Fuoco, una delle associazioni – Valdocco, Liberi Tutti, Stranaidea, AIZO, Croce Rossa – che si erano divise i cinque milioni di euro del progetto dell’amministrazione Fassino. Dopo lo sgombero da via Asti, nonostante minacce e deportazioni, alcune famiglie hanno occupato ancora, prendendosi i locali abbandonati di via Borgo Ticino in Barriera di Milano.
Quando anche questa occupazione è stata sgomberata, Fassino e i suoi hanno potuto finalmente costruire una pista ciclabile lungo le macerie del campo, da dove sono stati deportati uomini, donne e bambini.
Uomini, donne e bambini che ancora vivono nella nostra città. Hanno costruito o affittato a caro prezzo un’altra baracca, in buchi più neri e remoti di Lungo Stura, sono diventati ancora una volta invisibili.
Chi li ha conosciuti e ha lottato con loro per la casa e la dignità, sa che i semi di quella lotta germineranno ancora, perché chi ha assaggiato la libertà difficilmente riesce a farne a meno.

Se Fassino e i suoi pensavano di celebrare indisturbati un 25 aprile sulle macerie delle vite dei poveri di Lungo Stura Lazio si sbagliavano.

Da un comunicato di Indymedia Svizzera

 

Sulle parole di Fassino sulle scritte alla Barca
“Oltraggio”. Cosi’ il sindaco Fassino ha definito le scritte che l’hanno accolto all’inaugurazione della pista ciclabile sorta sulle rovine del campo rom di Lungo Stura Lazio. Fassino mente. L’unico oltraggio è la sua presenza davanti ad un monumento partigiano.
Fassino è un nazista, come quelli contro cui presero le armi i partigiani.
Nazista è chi deporta i rom, ne distrugge le case. Come negli anni 30 e 40 in Germania.

C’è chi vuole imbalsamare la Resistenza, e intanto rinchiude i migranti con un provvedimento amministrativo, come per gli ebrei nella Germania nazista, non perché abbiano commesso qualche reato ma solo perché sono quello che sono. Come nella Germania nazista, appunto.
C’è chi vuole dedicare il 25 Aprile ai due Maro’, rinverdendo i fasti dei massacri delle occupazioni coloniali fasciste.
C’è chi vorrebbe imbalsamare la Resistenza in questa “Repubblica nata dalla resistenza”, quella che reprime con carcere e domiciliari ogni dissenso, quella che arriva a considerare associazione a delinquere voce contraria ( vi ricordate “Achtung banditen” ?)
C’è chi vorrebbe imbalsamarla in questa “repubblica nata dalla resistenza” la cui politica sociale nei confronti dei lavoratori riesce ad essere più padronale di quella del ventennio .
Ma c’è anche chi non ci sta. Chi pensa che la resistenza non sia finita il 25 Aprile 1945 ma continui nelle lotte di ogni giorno, finché non saranno distrutti lo stato ed il capitalismo, finché non vi sarà un mondo di liberi ed eguali.
La lotta partigiana continua in chi occupa le case, nelle lotte operaie autorganizzate, in chi si oppone alle grandi opere, al militarismo, al razzismo.
Le scritte apparse alla Barca sono un’azione partigiana che onora chi è caduto per un mondo più giusto, e cancella l’oltraggio della presenza del nazista Fassino.

Federazione Anarchica Torinese – FAI

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Marò assassini! Partigiani sempre, militari mai

04 marò assassini“Marò assassini! Partigiani sempre, militari mai”. Questa scritta è comparsa nella notte sulla sede della prima circoscrizione.

05 partigiani sempreQuest’anno a Torino, la circoscrizione Centro-Crocetta ha deciso di dedicare ai marò Girone e La Torre il 25 aprile. I due fucilieri della Marina Militare Italiana sono accusati di aver ucciso due pescatori del Kerala, durante un’azione di pattugliamento antipirateria a bordo della petroliera italiana Erika Lexie.

06 militari maiTutte le forze politiche istituzionali sono state unanimi nella pretesa che i “nostri” marò tornino a casa.
I due pescatori morti ammazzati sono scomparsi da una scena nella quale era loro riservato il ruolo di comparse. A nessuno importa che i due militari abbiano sparato a due lavoratori del mare disarmati.
Omicidi, stragi, massacri compiuti da uomini e donne in divisa si trasformano in servizio alla Patria. L’uccisione di civili è sempre un increscioso incidente di percorso. Nulla più.
Nella neolingua dei politici e dei media main stream due persone accusate di omicidio, due assassini, si trasformano nei “nostri” due marò da portare a “casa”.
Sparare e uccidere, indossando una divisa, è sempre lecito. Il primo impegno di ogni governo è garantire l’impunità agli assassini in divisa.

Lo Stato italiano è abituato all’impunità per i propri militari che si sono distinti in torture, massacri di civili, stupri. L’esercito italiano ha commesso orrori indicibili nelle guerre di conquista coloniale in Libia, Eritrea, Etiopia, con impiccagioni di massa, avvelenamento di pozzi, deportazioni di intere popolazioni, uso di armi chimiche. Nella seconda guerra mondiale in Grecia e Jugoslavia, i militari italiani non furono secondi a nessuno nel terrorizzare la popolazione civile, radendo al suolo interi villaggi, fucilando centinaia di civili, stuprando e torturando.
Nessuno di questi criminali di guerra, quando la guerra è già essa stessa un crimine orrendo, è mai stato estradato nei paesi che ne hanno fatto richiesta. Macellai come Badoglio e Graziani è morta nel suo letto ed è stata sepolta con gli onori militari dalla Repubblica.
Oggi di fronte all’ennesimo crimine di guerra, di fronte all’assassinio di due pescatori, colpevoli di aver incrociato la rotta di una petroliera italiana, il governo italiano pretende l’impunità per i due marò assassini.
Nulla di cui stupirsi. Lo Stato difende chi uccide in suo nome. Nei mari dell’India, in Afganistan o per le strade di Genova.
Sono assassini in divisa, assassini che lo Stato trasforma in eroi.

Festeggiarli nell’anniversario dell’insurrezione contro il nazifascismo è una vergogna ed un insulto per chi, disertata la guerra, ha preso le armi contro il fascismo.
Partigiani sempre, militari mai!
Da un comunicato di Indymedia Svizzera

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