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Sgombero in via Borgoticino. Catalin portato in questura

2015 10 12 casa per tutti (17)10 dicembre. Sono arrivati a “Casa Catalin e Romeo” intorno alle 9,30 del mattino. Blindati, digos, Amiat e vigili del fuoco hanno bloccato l’accesso a via Borgoticino, impedendo a tutti di avvicinarsi.
Questa mattina, nonostante i blocchi, un gruppo di solidali è riuscito a passare dal cortile del Lidl. Dopo un lungo tira e molla una di noi è riuscita ad entrare. Poi sono arrivati anche gli avvocati.
Al momento dell’irruzione tanti occupanti erano fuori a lavorare o a scuola. Nella casa c’erano solo una quindicina di persone, qualche anziano, alcuni ragazzi e un bambino di cinque mesi.
Tutti sono stati fotografati e identificati. Catalin, il ragazzo portato al CIE e poi espulso in Romania dopo lo sgombero di via Asti dello scorso 12 novembre, è stato ammanettato e portato in questura.
Ha la testa dura Catalin. Non si è rassegnato agli sgomberi e alla deportazione. Ha deciso di tornare e raggiungere parenti e amici che il 20 novembre avevano occupato una casa in via Borgoticino. Una casa che si chiamava come lui e Romeo, l’altro ragazzo espulso per aver occupato in via Asti.
La Questura gioca la carta della paura, per costringere le persone a diventare invisibili, a nascondersi nei fabbriconi gelati e fatiscenti, in baracche invisibili ai margini del nulla urbano. Non sempre ci riesce. C’è sempre qualcuno come Catalin che si gioca la libertà per avere un tetto. C’è sempre qualcuno che alza la testa e occupa una casa.

Il Comune vuole chiudere i conti con i rom di Lungo Stura Lazio. Ha deciso lo sgombero dei locali di via Borgoticino, nonostante siano abbandonati e non vi sia alcun progetto per il loro riutilizzo. L’idea di farne un dormitorio è naufragata due anni fa, perché il comune sempre sull’orlo della bancarotta dopo il grande buco nero delle Olimpiadi, non aveva i soldi necessari.
La struttura di via Borgoticino è stata blindata dagli operai del comune al termine dello sgombero. Resterà vuota tutto l’inverno, mentre un gruppo di famiglie con figli piccoli ed anziani è di nuovo in strada.
Quell’occupazione periferica era un affronto che l’amministrazione comunale non poteva tollerare. Era la dimostrazione pratica che il progetto “la città possibile” è stato un fallimento. La gran parte degli abitanti della Baraccopoli di Lungo Stura Lazio è stata buttata in strada senza alternative abitative.

Due anni fa in lungo Stura c’erano oltre mille persone. Una polveriera sociale che l’amministrazione comunale torinese è stata abile a disinnescare. Cinque milioni di euro affidati alle sapienti mani di una cordata di cooperative ed associazioni che tra promesse e minacce, illusioni e violenza hanno trasformato l’area in un cumulo di macerie.
L’amministrazione Fassino mirava a sgomberare tutti, facendo leva sulla complicità degli sgomberati illusi dal miraggio di una casa che non è mai arrivata, dividendo i sommersi dai salvati.
Alla fine i nodi sono arrivati al pettine.
Si è frantumata la narrazione – intrinsecamente razzista – “sull’emersione dal campo”, come se il campo, la baracca fossero una scelta e non una necessità.
La trama logora del progetto la “città possibile”, si è lacerata del tutto in questi mesi, in cui tra cortei, occupazioni, sgomberi e nuove occupazioni, la gente delle baracche, stanca di inganni e false promesse, ha deciso di prendersi una casa.

Assemblea questa sera alle 19 alla Fat in corso Palermo 46.

Venerdì 11 ore 14,30. Aggiornamento

Catalin è stato portato al CIE. L’udienza di convalida è ancora in corso.

Ore 15. Al termine dell’udienza di convalida la giudice ha preso tempo. La decisione dovrebbe essere comunicata domani.
L’assemblea di ieri ha deciso un saluto/presidio solidale per sabato 12 alle 18 in corso Brunelleschi.

Assemblea di sgomberati e solidali domenica alle 18,30 alla Fat in corso Palermo 46

 

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Si torna sempre a dicembre. Riflessioni a dieci anni dalla rivolta di Venaus

valsu 8 dicQuest’anno sono dieci anni. Dieci anni passati in un lampo, ma lunghi. Lunghi come le notti di veglia, le marce popolari, i presidi ai cancelli, le cene con il gas e la doccia fredda. Lunghi come le ore in cella di chi ci è stato sottratto, di chi ha perso la propria libertà per provare a regalarne un po’ a tutti.
In questi anni in Valle è venuta tanta gente. La loro stagione è stata l’estate. Ogni autunno tornano a casa a perpetuare la storia della Valle che resiste. Capita di chiedersi quali immagini, memorie portino con se.
La pasta cucinata nel tendone/cucina del campeggio, il fumo dei lacrimogeni e il respiro che si mozza, i canti di lotta e le urla di chi viene pestato, i sentieri di notte, le assemblee, le battiture. Il tempo sospeso della lotta. Vera vacanza, sospensione della quotidianità, rottura dei suoi ritmi, dei suoi riti, dei suoi obblighi.
Linfa preziosa da tenere da parte per l’inverno.

Per chi resta, per chi c’è sempre stato, è diverso: le storie troppo raccontate rischiano di logorarsi. Di logorarci.
I nostri nemici ci fanno conto. Fanno conto sulla ripetizione delle stagioni, mentre la talpa continua a bucare la montagna, spargendo veleni, allargando la ferita.
La ferita nella montagna, che il nostro sguardo e la nostra cura hanno reso più che roccia e acqua e alberi, per farne il simbolo della carne viva del nostro movimento.
Un movimento che ha sulle spalle il peso della speranza che ha rappresentato per tanta gente di ogni dove.
Il rischio è l’usura dei sentimenti, anestesia del tempo che trascorre, il ripetersi dei passi già fatti, dei sentieri che conducono là dove la ferita si allarga.
L’orgoglio è quello di esserci, di tenere duro, di continuare a dare del filo da torcere ai nostri avversari. A quattro anni e mezzo dallo sgombero della Libera Repubblica della Maddalena è stata scavata solo mezza galleria. Il grande tunnel lo faranno scavando dentro la montagna, partendo dalla galleria di Chiomonte. Una scelta costosa e rischiosa. Una scelta dettata dalla paura di aprire i cantieri a Susa e Bruzolo. Il segno chiaro che, nonostante le dichiarazioni di vittoria, il governo continua a temere il movimento No Tav.

Due anni fa l’estate si chiuse con un bilancio durissimo. Il sangue, le umiliazioni, gli arresti, la notte del 19 luglio. E’ stata anche l’estate dei sabotaggi delle ditte collaborazioniste, i mezzi bruciati, la lotta che si radicalizza ma non è per tutti, anche se tutti la sostengono.
L’autunno è stato segnato dalle proteste agli alberghi e alle caserme che ospitano le truppe di occupazione. Iniziative di pochi, che hanno tuttavia mantenuto forte l’opzione dell’azione diretta.
Poi è tornato dicembre.

Una valle di terroristi
I nostri avversari conoscono bene il valore dei simboli. Il giorno dopo l’anniversario della presa di Venaus, il 9 dicembre del 2013 quattro No Tav vennero arrestati con l’accusa di attentato con finalità di terrorismo, per un’azione di sabotaggio al cantiere del 14 maggio precedente. In quell’occasione venne danneggiato un compressore, presto riparato e rivenduto. Un’imputazione che ha sottratto alle loro vite, ai loro affetti, alle lotte Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò. Qualche mese dopo è stata la volta di Francesco, Graziano e Lucio.

La grande favola della democrazia si scioglie come neve al sole, ogni volta che qualcuno prende sul serio il nucleo assiologico su cui pretende di costruirsi, ogni volta che libertà, solidarietà, uguaglianza vengono intese e praticate nella loro costitutiva, radicale alterità con un assetto sociale basato sul dominio, la diseguaglianza, lo sfruttamento, la competizione più feroce.
La democrazia reale ammette il dissenso, purché resti opinione ineffettuale, mero esercizio di eloquenza, semplice gioco di parola. Se il dissenso diviene attivo, se si fa azione diretta, se rischia di far saltare le regole di un gioco feroce, la democrazia si dispiega come discorso del potere che ri-assume nella sua interezza l’assolutismo della regalità. Assoluta, perché sciolta da ogni vincolo, perché nega legittimità ad ogni parola altra. Ad ogni ordine che spezzi quello attuale.
Lo fa con la leggerezza di chi sa che l’illusione democratica è tanto forte da coprire come una coltre di nubi scure un dispositivo che chiude i conti con ogni forma di opposizione che non si adatti al ruolo di mera testimonianza.
In questi anni abbiamo assistito al progressivo incrudirsi della repressione, senza neppure la necessità di fare leggi speciali: è stato sufficiente usare in modo speciale quelle che ci sono.

L’accusa di terrorismo è stata smentita in corte d’assise e più volte in Cassazione, ma la Procura non demorde. Al processo d’appello contro Chiara, Claudio, Mattia e Nicolò il procuratore generale Marcello Maddalena continua a sostenerla.
Il processo del compressore è solo la punta di un iceberg, perché sono centinaia i processi e le condanne contro i No Tav.

Il 27 giugno del 2014 vennero rese note le motivazioni della sentenza della Cassazione.
Secondo i giudici ci sarebbe una “sproporzione” tra quanto avvenuto nella notte del 14 maggio al cantiere e la presunzione che un tale atto possa effettivamente indurre lo Stato a fare marcia indietro, cancellando il progetto della Torino Lyon.
Sul piano giudiziario quella sentenza ha dato un duro colpo alla Procura torinese.
E’ probabile che l’impalcatura accusatoria contro i sette No Tav accusati di terrorismo non regga neppure in appello.
Ma la partita resta aperta.

Le armi messe in campo dalla Procura sono affilate ed insidiose, perché chiunque si opponga concretamente ad una decisione dello Stato italiano o dell’Unione Europea rischia di incappare nell’accusa di terrorismo.
Un giorno l’accusa di terrorismo potrebbe essere applicata a chiunque lotti contro le scelte non condivise, ma con il suggello della regalità imposto dallo Stato Italiano.
In altri termini: se di giorno o di notte, in tanti o in pochi, l’azione dei No Tav fosse tale da indurre lo Stato a fare marcia indietro, anche per la Cassazione i No Tav sarebbero terroristi. Tutti terroristi, anche chi sta in ultima fila con il bimbo in carrozzella, anche chi cammina a fatica, anche chi non ha coraggio, ma solo un cuore che batte forte per il mondo nuovo che vorrebbe.

E’ importante che la memoria non vacilli: i No Tav hanno sostenuto ed appoggiato la pratica dell’azione diretta contro il cantiere e le ditte collaborazioniste, i blocchi delle strade e delle ferrovie, lo sciopero generale, le grandi marce e i sabotaggi.
Fermare il Tav, costringere il governo a tornare su una decisione mai condivisa dalla popolazione locale è la ragion d’essere del movimento No Tav.
Ogni gesto, ogni manifestazione, ogni passeggiata per tutti, non diversamente dalle azioni di assedio del cantiere, di boicottaggio delle ditte, di sabotaggio dei mezzi mira a questo scopo.
Nella logica delle leggi che definiscono il reato di terrorismo gran parte della popolazione valsusina è costituita da terroristi. E con loro i tanti che, in ogni dove, ne hanno condiviso motivazioni e percorsi.
Le migliaia di persone che resero ingovernabile la Val Susa nel dicembre del 2005 erano “terroristi”.
Quella volta non ci furono arresti, né imputazioni gravi: la ragione è facile.
Lo Stato si arrese, in attesa di una nuova occasione. Si arrese perché temeva che un’ulteriore prova di forza potesse far dilagare la rivolta oltre le montagne della Val Susa. L’ondata di indignazione per le violenze contro i resistenti di Venaus era tale da indurre alla prudenza chi pure si era sin lì avvalso della forza. La parola tornò alla politica, prosecuzione della guerra con altri mezzi, strumento per prepararsi ad una nuova guerra.
È importante che quella memoria di lotta ci accompagni in questi anni sempre più duri. I tempi sono cambiati, lo Stato vuole vincere per restaurare un’autorità compromessa, per spezzare la speranza concreta che ciascuno possa decidere la propria vita.

La memoria di ieri per le sfide di domani
L’8 dicembre 2005 fu il culmine della rivolta contro il TAV. Ma già allora non era più questione di treni. In ballo c’era la libertà e la dignità di chi non voleva tollerare l’imposizione con la forza di una scelta non condivisa.
Nessuno lo pianificò ma accadde. I primi a stupirci fummo noi. Le barricate, i tronchi in mezzo alla strada, il blocco delle strade furono la risposta all’occupazione militare.
La Valle divenne ingovernabile.

La memoria riaffiora potente.
Era la notte tra il cinque e il sei dicembre 2005, una fredda notte di un inverno che si annunciava gelido. Il sonno venne rotto da migliaia di telefonate ed sms che avvertivano che il presidio di Venaus era stato attaccato dalla polizia. In pochi minuti, tra le migliaia di attivisti No Tav, circolò la notizia che poche ore dopo sarebbe rimbalzata sui maggiori organi di informazione: la gente pestata a sangue, le tende e la baracca della pro loco demolita, un anziano in gravi condizioni.

La lunga resistenza dei No Tav culminata nella settimana di barricate a Venaus arrivava ad una svolta: il governo aveva deciso l’azione di forza per sgomberare chi, nella neve, circondava l’area dell’ex cantiere Sitaf ed occupava i terreni destinati ad esproprio per la costruzione del tunnel geognostico di 10 km. Il tunnel era un atto di guerra ad una popolazione che da oltre 15 anni si batteva contro un’opera inutile, costosissima, devastante per l’ambiente e il territorio.
Quella notte dormirono in pochi: allacciati gli scarponi si misero in mezzo a strade e autostrade, bloccarono treni, scioperarono dal lavoro, affrontando la polizia che si muoveva come truppa di occupazione lungo tutta la bassa Val Susa.
Due giorni dopo una grande marcia popolare partì da Susa alla volta di Venaus: la polizia distribuì un po’ di manganellate al bivio dei Passeggeri, da dove si dipana la provinciale che porta al paesino della Val Cenischia, ma nessuno si fermò. Lungo i sentieri impervi e ghiacciati, dopo aver superato il blocco, si aggirò la polizia e si scese al cantiere. La rete arancio venne giù, la polizia sparò lacrimogeni che il vento disperse, poi, con la coda tra le gambe andarono via.
La parola tornò alla politica, la prosecuzione, con mezzi più subdoli, della guerra.
Erano in gioco interessi enormi: da lì a poco sarebbe partito il baraccone olimpico e gli sponsor non pagano uno spettacolo con barricate e blocchi. Nonostante la ritirata delle truppe dello Stato la gente era ben decisa a continuare la resistenza, a bloccare ancora le strade, a fermare le olimpiadi.
Migliaia e migliaia di persone in quei giorni appresero il gusto di decidere in prima persona, di praticare la politica al basso, elidendo le mediazioni istituzionali. Tutto ciò faceva paura, perché incrinava la legittimità stessa delle istituzioni. Di tutte le istituzioni. Così la via d’uscita fornita dal governo venne accolta al volo dagli amministratori valsusini.
Il tavolo sul Tav nacque il giorno dopo la ripresa di Venaus: gli amministratori furono chiamati a Roma per aprire la trattativa.
Per qualche politico fu l’occasione per una nuova carriera, il governo prese tempo, sperando che il movimento si sfaldasse, accettando una nuovo progetto, sponsorizzato anche dalle istituzioni locali.
Sbagliò i conti. I voltagabbana, gli ambigui e i tiepidi tra i sindaci non hanno indebolito il movimento, che ha continuato a manifestare la propria opposizione all’opera negli anni della tregua. Chi sul fronte istituzionale non ha accettato tavoli e compromessi, non ha certo modificato il senso di una lotta che si è sempre giocata sui sentieri e non tra barricate di carta.

Tra il 2010 e il 2011 la tregua finì. La parola passò alle armi. Il governo impose con la forza l’apertura del cantiere per il tunnel geognostico a Chiomonte. Quel tunnel doveva essere finito nel dicembre del 2015, ma è solo a metà. L’area si è trasformata in un fortino militarizzato, i sentieri sono percorsi da uomini in armi. L’illuminazione notturna è impressionante. Quel cantiere l’emblema della volontà di piegare con la forza un movimento che non si è mai arreso, un movimento che non ha mai accettato di ridursi a mero testimone dello scempio.
Dai giorni della Libera Repubblica della Maddalena, passando per l’assedio del tre luglio, non c’è stato giorno in cui i No Tav non abbiano lottato contro la violenza di Stato.
Anche il lavorio della politica non è mai venuto meno. Il ministro delle infrastrutture sta aprendo un tavolo per discutere di compensazioni.
Nella neolingua della politica le compensazioni avranno un nuovo nome, ma la sostanza non cambia. I sindaci No Tav che siederanno a quel tavolo si salvano la faccia, il governo presenta un volto dialogante, magari butterà sul tavolo una manciata di quattrini, purché non si discuta del treno. La prima riunione di quel tavolo è stata prudentemente fissata all’indomani della manifestazione nazionale da Susa a Venaus promossa dal movimento l’8 dicembre.
Un movimento che non si mai arreso alla violenza di Stato, troppo spesso non ha saputo rinunciare alla coperta di Linus, un sindaco “amico” sui tavoli del comune.

L’illusione della delega
Il nemico più difficile da affrontare è l’illusione della delega. La delega a chi sabota, a chi tiene in vita un presidio, a chi annega tra le carte per mettere in luce le trame che sottendono il grande affare. La peggior forma di delega è quella istituzionale, che rilegittima la macchina di chi si arroga il diritto di decidere per noi, di chi giocherà la sua partita ad un tavolo dove il banco vince sempre. Chi prende il banco prende sempre tutto quanto. Per prima la nostra libertà.

La febbre elettorale che ha attraversato a più riprese la Val Susa ha assorbito energie enormi, sottraendole alla quotidianità della lotta. Qualcuno ha portato a casa il risultato, altri hanno piazzato qualche No Tav sui banchi dell’opposizione.
La febbre ha contagiato anche le componenti più radicali, divise tra chi si è buttato a capofitto e chi ha lasciato fare, tacendo.
Un gioco di equilibri, di realpolitick che era sempre stato sullo sfondo, nell’ambiguità della separazione formale tra comitati e liste civiche, tra comitati e partiti, è emerso con prepotenza in superficie.
Lo scontro tra la vecchia sinistra che, in nome del realismo, ha sottoscritto patti in contrasto con il mandato ricevuto e il populismo giustizialista, che sventola la bandiera della democrazia diretta, ma la riduce ad una farsa telematica, ha offerto un palcoscenico triste a tante brave persone, che la pratica della partecipazione hanno saputo in tante occasioni renderla vera.
Sono tempi difficili.
Il dispositivo disciplinare messo in campo da governo e magistratura si è articolato su più piani, per tentare di disarticolare il tessuto profondo del movimento, insinuando la paura, chiarendo che non ci sono aree d’ombra, rifugi sicuri, che tutti sono nel mirino.
L’azione repressiva lungi dal dividere il movimento lo ha rinforzato nell’azione solidale, nell’appoggio ai carcerati, ai condannati. Ma ha scavato nel profondo. Non si sono scalfite le convinzioni, si è tuttavia allargata la distanza tra chi fa e chi applaude, ri-aprendo la strada a percorsi istituzionali e di delega.
Eppure. Eppure gli ingredienti per fare altro ci sono tutti: li abbiamo conquistati in lunghi anni di azione diretta, confronto orizzontale, costruzione di percorsi decisionali condivisi. I comitati, i presidi, le assemblee popolari, gli stessi campeggi hanno alluso ad una possibilità concreta, quella dell’autogoverno. La sottrazione dall’istituito che il movimento No Tav ha praticato in tanti anni di lotta fornisce i mattoni e la malta necessari per dare corpo a luoghi e spazi di confronto, condivisione e pratica che realizzino l’autonomia reale dalla brutalità insita in ogni istituzione che pretende di rappresentarci, decidendo al posto nostro, affermando una nozione di bene comune che ci sottrae la scelta sul nostro futuro.
L’unico realismo che conti è quello dell’utopia concreta che – sia pure in alcuni brevi momenti – siamo riusciti a realizzare. Tutti noi portiamo nei nostri cuori, nella memoria viva del nostro movimento Venaus e la Maddalena. Libere Rebubbliche, vere comuni libertarie, dove la gerarchia si è spezzata facendo vivere un tempo altro.

Vivere al tempo della peste

In Val Susa lo Stato si mostra nella sua forma più cruda, senza finzioni.
La ragion di Stato è il cardine che spiega e giustifica, il perno su cui si regge il discorso pubblico. La narrazione dei vari governi nega spazio ad ogni forma di dissenso.
Non potrebbe essere altrimenti. Le idee che attraversano il movimento No Tav sono diventate pericolose quando i vari governi hanno compreso che non c’era margine di mediazione, che una popolazione insuscettibile di ravvedimento, avrebbe continuato a mettersi di mezzo.
La rivolta ultraventennale della Val Susa è per lo Stato un banco di prova della propria capacità di mantenere il controllo su quel territorio, fermando l’infezione che ha investito tanta parte della penisola.
Allo Stato non basta vincere. Deve chiudere la partita per sempre, spargere il sale sulle rovine, condannando i vinti in modo esemplare.
L’osmosi tra guerra e politica è totale. La guerra interna non è la mera prosecuzione della politica con altri mezzi, una rottura momentanea delle usuali regole di mediazione, la guerra è l’orizzonte normale. In guerra o si vince o si perde: ai prigionieri si applica la legge marziale, la legge dei tempi di guerra.

In ballo non c’è solo un treno, non più una mera questione di affari. In ballo c’é un’idea di relazioni politiche e sociali che va cancellata, negata, criminalizzata.
Lo Stato sa che in Val Susa spira un vento pericoloso, un vento di sovversione e di rivolta.
Intendiamoci. Lo Stato non ha paura di chi, di notte, con coraggio, entra nel cantiere e brucia un compressore. Lo Stato sa tuttavia che intorno ai pochi che sabotano c’é un’intera valle.
Un fatto importante ma non decisivo.
La partita vera, quella giocata sapendo di poter vincere, di avere in mano le carte giuste, nelle gambe la forza di correre, nella testa la convinzione di farcela, si gioca altrove, in un altro modo.
La scommessa, una scommessa che investe ciascuno di noi, chi in prima fila, chi un poco più indietro è rendere ingovernabile l’intero territorio, attraverso i percorsi di sottrazione conflittuale dall’istituito che hanno costruito la narrazione che ogni anno sospinge tanta gente in quest’angolo di nord ovest.
Ci vorrà tempo, ci vorrà soprattutto il coraggio di crederlo possibile.
L’8 dicembre 2015 sarà molto più di dell’anniversario di una rivolta vittoriosa. Sarà l’occasione per mettere in campo la forza politica necessaria a bloccare e rendere vani i giochi della politica istituzionale.

Dieci anni dopo quel dicembre il movimento No Tav è ancora in lotta contro l’imposizione della nuova linea ad alta velocità. Una lotta durissima, segnata da arresti, processi, condanne, botte e lacrimogeni. Una lotta popolare segnata dalla forza di chi sa che il proprio futuro non si delega, che, oggi come allora solo l’azione diretta, senza deleghe, senza passi indietro, può creare le condizioni per fermare ancora una volta la corsa folle, di chi antepone il profitto alla vita e alla libertà di tutti.

E’ tempo di smettere di credere nelle favole, in Babbo Natale che porta i doni.
Ci hanno raccontato che il movimento è un tavolino con tre gambe, i sindaci, il movimento popolare e i tecnici.
L’8 dicembre è una buona occasione per ricordare che i tavoli servono a far stare ferma e seduta la gente. Per vincere servono buone gambe. Ne bastano due. Quelle di uomini e donne che stanno saldi sulle proprie.
Una verità semplice che abbiamo appreso in quel lontano dicembre, mentre scendevamo sui sentieri ghiacciati per diventare protagonisti di una storia, che non ci stanchiamo ancora di raccontare.

federazione anarchica torinese – fai

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Notte bianca No Tav

2015 12 04 foto no tav marcia notte 0044 dicembre. Un centinaio di No Tav imbacuccati per la notte si ritrovano al campo sportivo di Giaglione. Un sorso di grappa, due castagne al cioccolato e si parte per la strada delle Gorge in direzione del cantiere della Clarea. Le luci e le recinzioni da campo di concentramento spezzano la quiete della notte.
In fondo, prima del piazzale che precede il sottopasso per l’autostrada, la polizia ha piazzato i jersey. Dietro si scorgono uomini in armi e un idrante pronto ad entrare in azione.
Un grosso bidone viene riempito di legna e presto il tepore scalda questa notte che ancora ha sapore d’autunno. Dieci anni fa si presidiava in mezzo alla neve.
Anche al bivio da cui si dipana il sentiero alto c’è un fuoco. Tante torce sono infilate nei muretti a secco per illuminare il cammino.
La polizia è piazzata anche sui sentieri. I caschi brillano mentre scendono verso i No Tav, sferzando la notte con i loro fari. Sono nervosi.
Il fuoco lungo il sentiero alto è una barriera che gli preclude il pieno controllo del territorio. Sparano a più riprese lacrimogeni. L’aria si riempie di gas.
Un ragazzo viene colpito al petto da un candelotto e si accascia. Questa volta è andata bene: dopo poco si rimette in piedi.
I No Tav si spostano dalla traiettoria dei lacrimogeni sparati ad altezza d’uomo. Con calma, senza fretta, con la pacatezza di chi è ormai avvezzo a queste scene di violenza di Stato. Con la quieta indignazione verso la commedia degli inganni della democrazia non tornano indietro.
Nella valle risuonano canti e slogan.
Sui sentieri che portano al cantiere, ancora una volta vietati ai No Tav per i cinque giorni di lotta e memoria nel decimo anniversario della rivolta di Venaus, i No Tav vegliano. Qualcuno va via, altri arrivano. La notte è ancora lunga.

Aggiornamento.
4 del mattino. Ai Jersey entra in funzione l’idrante e viene lanciata una nuova scarica di lacrimogeni. Il gruppo rimasto resiste.
Intorno alle 6 la polizia scende dal sentiero e blocca il gruppetto ai jersey. Una parte fila via per i boschi.
In 11 restano al bivacco No Tav.

Qui il video di Fanpage

Qui le dirette di radio Blackout

Sabato 5 dicembre ore 14 marcia No Tav da Giaglione

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Sgombero con la pistola. Il comune premia i suoi servi! Striscione alla sede dei vigili

sgombero con la pistola28 novembre. “Sgombero con la pistola. Il comune premia i suoi servi!” Uno striscione con questa scritta è comparso sulla cancellata della sede dei vigili urbani di via Bologna a Torino.

Tre giorni prima in Sala Rossa l’ispettore Marina Ferrero e gli agenti scelti Gisella Maugeri e Riccardo Graziano erano stati premiati dal consiglio comunale con un solenne encomio alla loro professionalità.
Il comune elogia chi esegue con “abnegazione” le sue direttive. Una dimostrazione di sincerità dopo tante ipocrisie va apprezzata. La retorica della”città possibile”, delle case ai rom, dello sgombero gentile e consensuale si dissolve come neve al sole. Restano solo i complimenti a chi ha collaborato a gettare in strada uomini, donne e bambini.

I fatti per i quali i tre vigili del nucleo “nomadi” del comune di Torino sono stati solennemente lodati risalgono al 26 settembre, durante le ultime fasi dello sgombero della baraccopoli di lungo Stura Lazio.

In un video, girato dagli abitanti si vedono i tre puntare una pistola verso gente inerme, spruzzare spray urticante negli occhi di una bambina, immobilizzare in terra con un ginocchio un uomo ammanettato e accecato. Queste immagini dimostrano che i tre vigili, testimoni d’accusa al processo contro Aramis Botez, accusato di averli aggrediti, hanno dato sfogo alla fantasia nell’udienza del 21 ottobre.

Cos’era successo il 26 settembre? . Aramis e la sua famiglia, tornati dalla Romania dopo otto mesi, non trovano più la loro baracca. La 104, secondo la numerazione imposta dal comune, è stata abbattuta. La famiglia di Aramis ha accettato il patto con il Comune, rimpatrio in Romania in cambio di 300 euro al mese. La realtà è ben diversa. La famiglia riceve 50 euro al mese per tre mesi e 150 per il quarto, poi più nulla. In Romania non c’è lavoro, neppure i lavori in nero e sottopagati della maggior parte degli abitanti di Lungo Stura.
Tornare a Torino è una scelta obbligata. La baracca 23 è vuota e viene occupata. Questa storia, uguale a tante altre, dimostra il fallimento del progetto “la città possibile”. O, meglio, il fallimento della narrazione – intrinsecamente razzista – “sull’emersione dal campo”, come se il campo, la baracca fossero una scelta e non una necessità.
Ben riuscita invece l’operazione di sgombero, indolore, pezzo a pezzo, spesso con la complicità obbligata degli stessi abitanti, obbligati a collaborare alla distruzione delle baracche.
La trama logora del progetto la “città possibile”, si è lacerata del tutto in questi due mesi, in cui tra cortei, occupazioni, sgomberi e nuove occupazioni, la gente delle baracche, stanca di inganni e false promesse, ha deciso di prendersi una casa.

Al processo le testimonianze contraddittorie, iperboliche, esplicitamente razziste dei tre vigili urbani, che, secondo l’accusa sarebbero stati aggrediti e feriti da Aramis, hanno posto l’accento sulla paura dei tre vigili. Tutti “lavoravano” in Lungo Stura Lazio da molti anni, anni trascorsi a controllare, cacciare, multare, intimidire. Conoscono tutti per nome e sono abituati a vedere tutti chinare la testa. La reazione rabbiosa di Aramis, nonostante riescano facilmente a sopraffarlo, li stupisce e li spaventa. Temono che quella rabbia dilaghi, che altri decidano che la misura è colma, che non vogliano più subire umiliazioni. Le altre persone del campo non si avvicinano, limitandosi a gridare, ma ormai i tre vigili hanno perso la testa. Una di loro estrae la pistola e la punta verso le persone intorno, un’altra usa ripetutamente spray urticante contro Aramis, ormai ammanettato e chiuso in un angolo, l’ultimo vigile gli pianta un ginocchio nella schiena, schiacciandolo a terra.
Anche una bambina di 12 anni ha gli occhi gonfi per lo spray urticante. Uno dei tre vigili butta via la bottiglia d’acqua portata da una donna per pulire gli occhi del ragazzo.
In tribunale si giustificano dichiarando “eravamo in un campo nomadi, circondati da nomadi”. Un’affermazione che cerca la complicità di chi ascolta, che dovrebbe considerare in se pericolosi i “nomadi”: Pericolosi perché “nomadi”, rom, “zingari”. Pericolosi per quello che sono, non per quello che fanno. Un approccio in cui si radica la violenza razzista.
Il processo contro Aramis proseguirà il 17 febbraio. In quell’occasione verranno proiettati i tre video realizzati durante l’arresto di Aramis.
Video che inchiodano i tre vigili.
Evidentemente quel video deve aver convinto il consiglio comunale di Torino della bravura dei tre vigili. Di qui l’encomio “per aver gestito con fermezza, professionalità e abnegazione le delicate operazioni di ‘recupero’ del campo”. Nonché, ovviamente “le operazioni” di quel giorno.

Il comune premia i suoi servi

Qui potete vedere il video di quella giornata

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Occupata “Casa di Romeo e Catalin”

corteo post sgomberoQuesta sera alcune famiglie senza casa hanno occupato una palazzina abbandonata in via Borgoticino 7 – alle spalle di piazza Rebaudengo, in Barriera di Milano.

Sono uomini, donne e bambini che una settimana fa sono stati sgomberati da Avion, una palazzina della ex caserma La Marmora in via Asti. Durante lo sgombero due ragazzi dell’occupazione sono stati portati al CIE e dopo cinque giorni deportati in Romania. La nuova occupazione si chiama come loro “Casa di Romeo e Catalin”, la casa di chi lotta per la propria vita, per la propria dignità.

Le famiglie della nuova occupazione per tanti anni sono state costrette a vivere in miseria, nelle baracche ai margini della città. Recentemente, queste donne, uomini e bambini sono stati sgomberati da quello che le istituzioni hanno sempre chiamato il “campo nomadi” di Lungo Stura Lazio. Nessuna di queste persone si definirebbe un “nomade”; bastano le loro esperienze di vita per dimostrare la falsità di quello che le istituzioni vogliono far credere agli abitanti della città nei confronti di centinaia di persone che da più di dieci anni vivono a Torino.
Bisogna ascoltare le storie di vita di queste famiglie per capire come le istituzioni e mass-media hanno diffuso un racconto fondato su razzismo e discriminazione. Un racconto in cui questi uomini, donne, bambini, anziani sono presentati come una tribù che per la sua “cultura” muta spesso il luogo della dimora, come se nel loro sangue scorresse l’olio di un motore che nessuno vede.
Bisogna ascoltare la storia di queste persone per capire che per tanti versi le loro esperienze sono simili a quelle di tanti altri abitanti di Torino. Nel 2015, la città di Torino è stata nominata sulla carta “Capitale dello sport” ma sappiamo che in realtà da anni la stessa città è la Capitale degli Sfratti. Ci dicono che lo sport “deve essere patrimonio di tutti gli uomini e di tutte le classi sociali”, ma sentiamo la voce di migliaia di persone convinte che in primo luogo è la casa che deve essere patrimonio di tutti e soprattutto dei più poveri. I più ricchi, i padroni di alberghi e di interi palazzi, i governanti della “capitale dello sport”, dicevano che nel 2015 questa città avrebbe vissuto una “emozione di sentirsi comunità”. L’ipocrisia istituzionale non ha mai limiti, soprattutto in una città dove, solo nel 2014, quasi quattromilasettecento persone sono state sfrattate: queste persone sicuramente non hanno sentito l’emozione di sentirsi comunità…

Le persone che oggi hanno occupato una sede abbandonata dell’ASL hanno vissuto in Lungo Stura Lazio per necessità, e non perché “nomadi”. Dopo l’ultimo sgombero subìto nelle scorse settimane sulla riva del fiume, loro avevano deciso di occupare uno spazio abitativo all’interno della caserma La Marmora, in via Asti. L’associazione che gestiva la caserma si chiama Terra del Fuoco, insieme alla quale altre associazioni e cooperative si sono spartite più di cinque milioni di euro – soldi pubblici spesi con il progetto La Città Possibile – promettendo una casa e soldi agli abitanti del campo; mentre il comune ordinava alle ruspe di demolire le loro baracche lasciando centinaia di persone senza nessuna alternativa abitativa!

Dopo un paio di settimane li hanno sgomberati anche dall’occupazione di via Asti, dicendo che era un’occupazione illegale. Invece sei mesi prima sono stati in tanti, tra politici e magistrati, a dire che l’occupazione dello stesso posto, da parte di Terra del Fuoco, era giusta perché “ristabiliva la pubblica utilità”.

Oggi queste persone, ex abitanti di Lungo Stura e via Asti, hanno deciso di continuare la lotta per la dignità, per una casa. Davanti alla prospettiva di dormire in strada nei giorni più freddi della stagione, hanno deciso di occupare questo spazio vuoto. Per necessità. Sono convinti che questa azione non solo ristabilisce la pubblica utilità di uno spazio abbandonato ma credono che sia proprio questa la risposta giusta, difficile ma possibile, di chi lasciato senza alternative non vuole più essere trattato come un oggetto da parte delle istituzioni, di chi non vuole più subire la violenza della polizia. Nel contesto della crisi e di un mercato degli affitti sempre più inaccessibile ai più poveri, l’occupazione è l’azione diretta per avere un posto dove dormire, riposare, crescere i più piccoli.

Una città “possibile” è una città in cui nessuna persona viene buttata in strada o in carcere perché povera o senza documenti! Tutte/i hanno diritto alla casa!
Lottiamo uniti per una città in cui sia possibile vivere in autonomia, solidarietà, senza discriminazioni, razzismo, sfruttamento!

Occupanti e solidali di Casa di Romeo e Catalin

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Corteo contro la mostra/mercato delle armi al Lingotto

ovalSpezziamo le ali al militarismo!
Dal 17 al 19 novembre si terrà a Torino “Aerospace & defence meeting”, mostra mercato internazionale dell’industria aerospaziale di guerra. Un’occasione per valorizzare le eccellenze del made in Italy nel settore armiero, con un focus sulle cinque aziende piemontesi, leader nel settore: Alenia Aermacchi, Thales Alenia Space, Avio Aero, Selex Es, Microtecnica Actuation Systems / UTC. 280 SMEs. Mercoledì 18 novembre Presidio e corteo al antimilitarista al Lingotto Dalle 17 in via Nizza angolo via Biglieri

Ascolta la diretta dell’info di Blackout con Domenico del movimento No F35

Di seguito l’appello per la giornata:
“Contro le fabbriche di armi, contro la mostra mercato dell’industria aerospaziale di guerra La mostra-mercato è riservata agli addetti ai lavori: fabbriche del settore, governi e organizzazioni internazionali, protagonisti dell’industria di guerra, un business lucroso, che non va mai in crisi. Le immagini dei profughi che premono alle frontiere chiuse dell’Europa, il dibattito sull’accoglienza umanitaria, la retorica su chi muore in mare o in fondo a un tir nascondono una verità cruda ma banale.
Le guerre sono combattute con armi costruite a due passi dalle nostre case. In questi giorni la NATO sta effettuando la più grande esercitazione bellica dalla fine della guerra fredda.

Tra lo Stretto di Gibilterra e il Mediterraneo centrale e i grandi poligoni di Spagna, Portogallo e Italia 38.000 militari, 200 velivoli e 50 unità navali di 33 nazioni. Ospiti d’eccezione, i manager delle industrie militari di 15 Paesi. Il principale trampolino di lancio nel nostro paese è l’aeroporto trapanese di Birgi. Le prove generali dei conflitti dei prossimi anni vengono fatte nelle basi sparse per l’Italia. Le stesse basi da cui sono partite le missioni dirette in Libia, Iraq, Afganistan, Serbia, Somalia, Libano…
L’Italia è in guerra da molti anni. Ne parlano solo quando un ben pagato professionista ci lascia la pelle, sprecando retorica su pace e democrazia. È una guerra su più fronti, che si coniuga nella neolingua del peacekeeping, dell’intervento umanitario, ma parla il lessico feroce dell’emergenza, dell’ordine pubblico, della repressione.
Gli stessi militari delle guerre in Bosnia, Iraq, Afganistan, gli stessi delle torture e degli stupri in Somalia, sono nei CIE, nelle strade delle nostre città, sono in Val Susa. Guerra esterna e guerra interna sono due facce delle stessa medaglia. Le sostiene la stessa propaganda: le questioni sociali, coniugate in termini di ordine pubblico, sono il perno su cui fa leva la narrazione militarista. Hanno applicato nel nostro paese teorie e tattiche sperimentate dalla Somalia all’Afganistan.
Se la guerra è filantropia planetaria, se condizione per il soccorso sono le bombe, l’occupazione militare, i rastrellamenti, se il militare si fa poliziotto ed entrambi sono anche operatori umanitari il gioco è fatto. L’opposizione alle missioni militari, che in altri anni ha riempito le piazze di folle oceaniche, si è lentamente esaurita, come le bandiere arcobaleno, che il sole e la pioggia hanno stinto e lacerato sui balconi delle case. La mera testimonianza, la rivolta morale non basta a fermare la guerra, se non sa farsi resistenza concreta.
Negli ultimi anni il rifiuto della guerra è riuscito a saldarsi con l’opposizione al militarismo: il movimento No F35 a Novara, i no Muos che si battono contro le antenne assassine a Niscemi, gli antimilitaristi sardi che si lottano contro poligoni ed esercitazioni. Anche nelle strade delle nostre città, dove controllo militare e repressione delle insorgenze sociali sono ricette universali, c’é chi non accetta di vivere da schiavo. Le industrie belliche costruiscono le armi con le quali si controlla, si bombarda, si uccide in ogni dove. Le università che orientano la ricerca verso il settore bellico sono complici dei massacri.
Il 17 novembre al Politecnico di Torino ci sarà un convegno di studi, che precederà le due giornate del 18 e 19 all’Oval Lingotto dedicate agli affari. Chi si oppone alla guerra, senza opporsi alle produzioni di morte, fa mera testimonianza. L’Alenia è uno dei gioielli di Finmeccanica, il colosso della produzione bellica italiana. La “missione” dell’Alenia è fare aerei militari. Nello stabilimento di Caselle Torinese hanno costruito gli Eurofighter Thypoon, i cacciabombardieri made in Europe, e gli AMX. Le ali degli F35, della statunitense Loockeed Martin, sono costruite ed assemblati dall’Alenia. Un business milionario. Un business di morte. Per fermare la guerra non basta un no. Occorre incepparne i meccanismi, partendo dalle nostre città, dal territorio in cui viviamo, dove ci sono caserme, basi militari, aeroporti, fabbriche d’armi, uomini armati che pattugliano le strade.

Assemblea Antimilitarista
antimilitarista@inventati.org

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Romeo e Catalin. Vendetta di Stato

2015 11 14b foto cie romeo catalin 007Romeo e Catalin hanno vegliato per 12 giorni il sonno degli occupanti di Avion, in via Asti, la ex caserma diventata casa per 22 famiglie sfrattate dai social housing e sgomberate dalla baraccopoli di Lungo Stura Lazio. Giovedì scorso, durante lo sgombero di Avion, sono stati arrestati e rinchiusi nel CIE, in attesa della convalida del decreto di espulsione. Per loro la libera circolazione non vale. Sebbene siano cittadini rumeni e quindi europei, hanno subito la stessa sorte degli altri indesiderabili, perché poveri, sfrattati a forza dall’Europa.
Romeo e Catalin sono stati imprigionati perché hanno deciso di non chinare la testa, di non rassegnarsi, di prendersi una casa abbandonata, per viverci una vita degna.

Alla notizia che Romeo e Catalin sarebbero stati espulsi il presidio di parenti e solidali che si era radunato sotto le mura del CIE di corso Brunelleschi ha fatto sentire forte la propria solidarietà. I parenti dei due ragazzi hanno gridato la loro rabbia e il loro amore.
Forti si sono levate le voci dei solidali. Libertà! Libertate! Casa per tutti! Slogan contro le galere, contro i muri che separano gli affetti, ma non spezzano la solidarietà.
Dall’interno i reclusi hanno urlato in risposta. Un pallone si è levato alto sopra le mura.

Sulla via del ritorno la digos ha identificato l’auto dove viaggiavano alcuni parenti e solidali.

In serata si è diffusa la notizia che al CIE era scoppiata la rivolta. Tre sezioni su cinque erano in fiamme. Ancora una volta i prigionieri hanno distrutto la gabbia, che ne teneva in ostaggio le vite.

Vogliamo Romeo e Catalin con noi. Tutti liberi!

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Sgombero in via Asti. Il comunicato di occupanti e sgomberati di Avion

corteo post sgomberoTorino. È guerra di classe e di razza alle occupazioni abitative

Questa mattina poco dopo le otto un imponente apparato repressivo, tra carabinieri, polizia in assetto antisommossa e digos ha circondato la ex-caserma di via Asti 22. Sono entrati per sgomberare una parte (!) della struttura che era stata occupata in aprile da Terra del fuoco e da altre e associazioni, mentre dal primo novembre una parte della caserma era stata occupata da circa 80 persone rom rumene. Persone rimaste senza una casa in seguito alla distruzione della baraccopoli di Lungo Stura Lazio, sgomberata a tappe forzate tramite il progetto “La città possibile”, voluto e promosso da Comune di Torino e Prefettura, che hanno affidato un appalto di oltre 5 milioni di euro ad una cordata di associazioni e cooperative: Terra del Fuoco, Liberi tutti, Stranidea, Valdocco, AIZO e Croce Rossa.

Fino alle 12 e 30 nessuno ha potuto avvicinare le persone costrette a rimanere nelle loro stanze, perché le forze dell’ordine hanno impedito qualsiasi contatto con gli/le occupanti, compresa una donna colpita da malore per le intimidazioni e minacce subite dalla sua famiglia.
All’esterno, mosse dalla notizia dello sgombero, si sono radunate immediatamente molte persone solidali, singole e appartenenti a varie realtà, insieme ai familiari degli/delle occupanti che, quando è scattato lo sgombero, erano già uscite per le loro attività quotidiane e per recarsi al lavoro.

Due ragazzi, Romeo e Catalin, sono stati portati in questura “per identificazione”. La proposta di una palestra temporanea per donne e bambin* in un luogo non precisato è stata rifiutata, nessuno ha voluto essere diviso per l’ennesima volta.

Quando tutt* sono usciti dalla caserma, un corteo spontaneo è partito da via Asti ed ha attraversato le strade del centro per informare la città di questo ennesimo atto di guerra classista e razzista contro le occupazioni abitative.
Lo sgombero di questa mattina è l’ultima di una lunga serie di violenze contro chi ha occupato per necessità uno spazio vuoto e inutilizzato per far fronte ad un bisogno abitativo crescente e viene trattato ancora una volta dalle istituzioni come un problema di ordine pubblico. Nell’ultima settimana a Torino, “Città possibile”, sono avvenuti tre sgomberi: una casa occupata da sfrattati, un’altra dove per cinque anni avevano vissuto alcuni rifugiati africani, sino alle famiglie rom buttate in strada questa mattina.

A rendere ancora più pesante il clima di guerra a chi lotta per la casa e per trovare risposte urgenti a bisogni primari in questa città, è comunque un esplicito e spudorato razzismo. In un luogo occupato da sette mesi, lo sgombero scatta non appena arrivano i rom.
Mentre Fassino oggi promette a Sel che le attività di Terra del Fuoco nella ex caserma potranno proseguire, tramite riassegnazione per bando.

Il corteo della rabbia contro lo sgombero si è poi trasformato in un’assemblea permanente nel corso del pomeriggio per discutere possibili risposte politiche e soluzioni materiali per trovare un posto dove passare la notte.

La campagna elettorale, priva di contenuti su bisogni e desideri della città, scatena una violenza istituzionale esplicita verso chi è ritenuto colpevole del mero fatto di esistere e viene ancor più perseguitato se ha l’ardire di prendersi uno spazio pubblico.

Nel tardo pomeriggio apprendiamo che Catalin e Romeo, dopo l’“identificazione”, vengono portati direttamente al Cie in corso Brunelleschi, in attesa di espulsione. Rom romeni, non tedeschi o svedesi. La violenza di Stato non fa distinzioni tra corpi comunitari e non, quando in gioco ci sono la classe e la razza. La tanto sbandierata “libera circolazione” per i cittadini comunitari non vale per i rom. Già quest’inverno due abitanti di Lungo Stura Lazio erano stati rinchiusi nel CIE e deportati in Romania.

Nel corso delle numerose assemblee quotidiane occupanti e solidali hanno convenuto su alcune questioni:

– associazioni e comune hanno mostrato solo interessi economici nei nostri confronti. Non vogliamo più essere “inseriti” nei vari progetti falsamente “condivisi” che propongono soluzioni fintamente “strutturali”. Lo abbiamo capito con il progetto “La città possibile” ed oggi, con lo sgombero, lo ribadiamo: non ci stiamo più alle proposte precarie ed individualizzate che le istituzioni ci offrono poiché non siamo “oggetti per i progetti”;

– associazioni, istituzioni e media mainstream vogliono nascondere gli abusi perpetrati sulla nostra pelle e gli interessi economici che si giocano dietro alla costruzione di una “emergenza rom”; con l’occupazione di via Asti siamo stati noi per la prima volta a decidere la soluzione migliore in risposta allo sgombero senza alternative abitative di Lunga Stura Lazio, che ha rappresentato la nostra casa per quindici anni;

– la scelta di buttare in strada decine di uomini, donne e bambini perché sono rom è intrinsecamente razzista. Come altro spiegare che l’occupazione per scopi politici di via Asti durasse da sette mesi e sia stata sgomberata meno di due settimane dopo la nostra ri-occupazione per un bisogno reale?  Responsabili sono tutte le istituzioni che governano questa città, le quali colpiscono chi è precario ma alza la testa ed esce dall’invisibilità per diventare soggetto ed autodeterminarsi. Continuano a colpire chi non vuole più dipendere da intermediari della carità o dell’assistenzialismo. Chi si prende una casa e si afferma nello spazio pubblico.

Continueremo autonomamente a difendere la nostra dignità e la nostra volontà ad avere una casa come tutte le altre persone.
Chiediamo a tutt* i solidali che ci hanno sostenute/i in questi giorni di continuare a farlo.

Mercoledì sera era stato scelto un nome per la nostra nuova casa in via Asti. L’avevamo chiamata “Avion”, in romeno “aereo”, un volo di libertà.
Lo sgombero di oggi non ci ferma. Avion continuerà a volare.

Ex abitanti di Avion e solidali

12 novembre 2015

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Gli occupanti di via Asti Est scrivono ai vicini

LetteraBuongiorno,
siamo un gruppo di persone che fino a pochi giorni fa abitavano nella baraccopoli di Lungo Stura ed ora abitiamo in via Asti, perciò saremo i vostri nuovi vicini. Abbiamo occupato un piccolo pezzo della ex caserma “La Marmora”, che in aprile è stata occupata – promettendone un uso sociale – dall’associazione “Terra del Fuoco”, una delle tante che ha partecipato al progetto “La città possibile” del Comune di Torino, con cui sono stati spesi 5 milioni di euro per sgomberare il campo di Lungo Stura. Da allora tanti di noi sono finiti in strada, mentre la caserma restava in buona parte vuota.
Da oggi è abitata anche da donne, uomini e bambini che il Comune e le associazioni hanno sgomberato e sfrattato senza offrire nessuna alternativa abitativa. Abbiamo scelto questa casa perché ci sembra giusto avere un posto adeguato nella casa di chi questi anni ha guadagnato milioni di euro promettendocene una!

Per anni abbiamo vissuto in quello che in tanti chiamano “campo nomadi”. Noi non siamo nomadi ed i campi non li hanno creati i rom, ma le istituzioni italiane, decine di anni fa. Quando siamo arrivati a Torino nel 2002, i campi esistevano già: dove potevamo vivere se non dove altri/e poveri come noi avevano trovato un tetto, cioè in una baracca? Il campo non è mai stato una scelta, ma la conseguenza di povertà, discriminazione, sfruttamento. Per quindici anni abbiamo vissuto con i nostri figli in baracche inabitabili. Niente acqua, nè luce, nè possibilità di soddisfare bisogni fondamentali come la salute.
Ora abbiamo capito che le istituzioni, che hanno creato questa situazione, non avranno mai il desiderio di risolverla. Negli ultimi due anni il Comune di Torino ha speso 5 milioni di euro sostenendo di “dare una casa ai rom”. Dove sono finiti quei soldi? L’unica cosa certa è che noi siamo stati buttati in mezzo alla strada.

Crediamo che la menzogna abbia soffiato sul fuoco dell’odio e del razzismo.
Come false sono state le dichiarazioni dei vigili che avevano il compito di buttare in strada una donna ed i suoi figli. Hanno dichiarato falsamente di essere stati aggrediti. I giornalisti li hanno citati, la gente li ha creduti. In realtà è successo il contrario e per capirlo basta voler capire, sentire le testimonianze, guardare i filmati.
Mentre la baraccopoli veniva distrutta pezzo a pezzo, abbiamo capito che il progetto “La città possibile” di Comune, Prefettura, associazioni e cooperative complici, è ancora più precario delle baracche: tante delle persone portate nei social housing, come quelli in corso Vigevano ed in via Traves, sono già state sfrattate; i 300 euro al mese promessi a qualcuno per tornare «volontariamente» in Romania non sono mai stati ricevuti. E coloro a cui non sono state proposte queste «soluzioni», sono stati considerati non «meritevoli», cioè da buttare in strada, da sgomberare senza alcun preavviso!

Il 12 ottobre abbiamo organizzato un corteo per la casa nelle strade del centro di Torino, per ribadire la verità sul progetto “La città possibile”. Donne, uomini e bambini hanno gridato forte «Contro sgomberi e sfratti! Casa per tutte/i». Oggi abbiamo deciso di riprenderci quello che è giusto che tutti abbiano: una casa!

Chiunque abbia voglia di parlare, conoscerci o anche dare una mano è sinceramente e gioiosamente benvenuto. Vi aspettiamo in via Asti 22!

Gli ex abitanti di Lungo Stura Lazio, corso Vigevano e via Traves

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Occupazione di via Asti Est. La solidarietà del movimento No Tav

no tav scritta giallaI No Tav sono a fianco delle 26 famiglie che domenica primo novembre hanno occupato una palazzina all’interno dell’ex caserma La Marmora di via Asti a Torino.
L’hanno occupata perché il posto dove abitavano non c’è più.
Erano baracche lungo il fiume, in un posto senza acqua né luce, tanta immondizia e tanti topi. Non era un bel posto, ma era l’unico che potessero permettersi.

Molti di loro avevano creduto nelle promesse del comune di Torino, che nel 2013 ha varato il progetto “La Città possibile”. Cinque milioni di euro per dare una casa ai baraccati, cinque milioni di euro assorbiti dalle associazioni che si sono aggiudicate l’appalto. Una montagna di soldi pubblici sprecati.
Tra queste associazioni anche Terra del Fuoco, che in aprile aveva occupato una parte della ex caserma, dichiarando di volerla destinare ad un uso sociale.
Da allora tanti baraccati sono finiti in strada mentre l’ex caserma restava in buona parte vuota.
Chi ha avuto un posto nei social housing viene sfrattato, perché non può pagare l’affitto. Chi non è entrato nel progetto ha conosciuto solo le ruspe.

Uomini, donne e bambini che non hanno soldi per gli affitti del comune, che non vogliono più una baracca, che non vogliono tornare in Romania, hanno deciso di occupare una casa.
Queste persone in una domenica di novembre hanno deciso di alzare la testa e di riprendersi la propria dignità umana.

La loro lotta è come la nostra.

I giornali scrivono di rom, noi vediamo solo esseri umani.

Solidarietà a chi occupa una casa vuota per farla vivere, solidarietà a chi sceglie di ri-prendere in mano le proprie vite.

Movimento No Tav

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I rom di lungo Stura occupano l’ex caserma di via Asti

12065711_849107091870835_8165853782839512042_nDomenica primo novembre tante famiglie della baraccopoli di lungo Stura Lazio sotto sgombero e del social housing di corso Vigevano sotto sfratto hanno occupato una parte dell’ex caserma La Marmora di via Asti.
L’ex caserma è stata occupata in aprile da Terra del Fuoco, una delle associazioni, che si erano aggiudicate l’appalto del progetto “la città possibile”.
Due anni fa in lungo Stura c’erano oltre mille persone. Una polveriera sociale che l’amministrazione comunale torinese è stata abile a disinnescare. Cinque milioni di euro affidati alle sapienti mani di una cordata di cooperative ed associazioni che tra promesse e minacce, illusioni e violenza hanno trasformato l’area in un cumulo di macerie.
L’amministrazione Fassino mirava a sgomberare tutti, facendo leva sulla complicità degli sgomberati illusi dal miraggio di una casa che non è mai arrivata, dividendo i sommersi dai salvati.
Alla fine i nodi sono arrivati al pettine.

Di seguito il comunicato degli ex abitanti della baraccopoli.

“In questa città è Possibile che le istituzioni buttino in strada uomini, donne e bambini.
Qui è Possibile che un bambino di quattro mesi sia strappato dalle braccia della madre in una fredda mattina di ottobre e buttato in mezzo a ruspe e poliziotti che hanno l’ordine di non guardare in faccia nessuno e radere al suolo tutto.
A Torino è Possibile che vengano spesi più di cinque milioni di euro per un progetto fatto di violenza, discriminazione, razzismo.

Associazioni e cooperative come AIZO, Terra del Fuoco, Liberi tutti, Stranaidea, Croce Rossa, vincitori del bando di questo progetto, hanno dimostrato come sia Possibile, a Torino, demolire baracche e cacciare in strada centinaia di persone senza dare loro nessuna alternativa abitativa. Queste associazioni, per conto del comune, ci hanno fatto vedere come sia Possibile lavorare per distruggere le speranze per un futuro migliore di centinaia di bambini.
La violenza e gli abusi di potere che subiamo quotidianamente sono Possibili in nome di un progetto che questi signori hanno chiamato … “La Città Possibile”. Un progetto, dicono, con «carattere di innovazione e sperimentazione». Noi ci e vi chiediamo: una città Possibile per chi?

Il campo di lungo stura Lazio non è mai stato un «campo nomadi» ma è stato un luogo periferico in cui da anni migliaia di persone hanno vissuto per necessità e non per scelta. Perché nessuno di noi sceglie la povertà, la discriminazione, lo sfruttamento ma li subiamo – e non solo noi rom – come strumenti di controllo e di oppressione nelle mani di chi ha il potere di dare nomi o di creare uffici come l’«Ufficio Nomadi» in via Bologna. I campi «nomadi» non li abbiamo creati noi, li hanno creati le istituzioni italiane decine di anni fa.

Dopo tanti mesi vissuti con la paura di non avere più un posto dove dormire, dopo anni in cui ci hanno promesso falsamente di farci «emergere» da questo campo, vediamo che in realtà la soluzione del comune di Torino è ancora più precaria delle baracche: tante delle persone portate in una casa, come quella in corso Vigevano – gestita da AIZO – sono già finite in strada; ad altre sono stati promessi 300 euro per tornare «volontariamente»  in Romania dove una casa non ce l’hanno più. E chi non poteva o voleva accettare queste «alternative» è stato considerato non «compatibile», cioè da buttare in strada, da sfrattare liberamente senza alcun preavviso!

Non crediamo più alle promesse di chi lucra sulla pelle dei poveri!
Il 12 ottobre abbiamo organizzato un corteo di
lotta per la casa occupando le strade del centro per ribadire la verità sul progetto “La città possibile” portato avanti da Comune, Prefettura, associazioni e cooperative complici. Donne, uomini e bambini hanno gridato forte «Contro sgomberi e sfratti! Casa per tutte/i».

Oggi abbiamo deciso di riprenderci quello che è giusto che tutti abbiano: una casa!
Abbiamo occupato un pezzo della ex caserma di via Asti, che l’associazione “Terra del Fuoco”, una delle tante che hanno partecipato al progetto “la città possibile”, ha occupato in aprile promettendone un uso sociale. Da allora tanti di noi sono finiti in strada mentre la caserma restava in buona parte vuota.
Da oggi si riempie di uomini, donne e bambini che non hanno soldi per gli affitti del comune, che non vogliono più una baracca, che non vogliono tornare in Romania.
Abbiamo scelto questa casa perché ci sembra giusto avere un posto adeguato nella casa di chi questi anni ha guadagnato milioni di euro promettendocene una!

Gli ex abitanti della baraccopoli di lungo Stura Lazio”

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Erdogan assassino! Scritte e vernice contro le fabbriche di morte. Corteo a Torino

DSCN0014In occasione delle giornate di solidarietà internazionale con la resistenza alla violenza di Stato del governo turco in Kurdistan e in sostegno alle esperienze di autogoverno sotto attacco militare, anche a Torino si sono svolte numerose iniziative.
Nel pomeriggio di sabato 31 ottobre un corteo aperto dagli striscioni DSCN0016della comunità curda torinese da Porta Palazzo, attraversando le vie del centro ha raggiunto la centralissima piazza Castello.

La notte precedente scritte, striscioni e vernice su un DSCN0020bombardiere hanno denunciato la complicità di Finmeccanica, il colosso dell’industria bellica italiana, con il governo turco.

Su indymedia Svizzera è comparso un comunicato corredato da foto che vi riportiamo di seguito.

striscione piazza castello“Venerdì 30 ottobre su uno dei tanti monumenti militaristi di piazza Castello è stato appeso lo striscione “Erdogan assassino. Finmeccanica complice”.

In serata sui muri della Microtecnica, è comparsa la scritta “Chiudere le fabbriche di morte”.

AMX rosa 1Nella notte sulla rotonda nei pressi dello stabilimento Alenia di corso Marche a Torino è stato affisso uno striscione con la scritta “Erdogan assassino. Finmeccanica complice”. Il bombardiere AMX che si trova al centro della AMX rosa 2rotonda come monumento alle produzioni di guerra è stato imbrattato con vernice rosa e nera.

Il colosso armiero italiano Finmeccanica, di cui fa parte l’Alenia, fornisce da decenni aerei da guerra ed elicotteri, che in questi mesi l’esercito turco sta usando nella repressione delle esperienze di autogoverno nel Bakur, il Kurdistan striscione aleniaturco.

Striscioni e vernice sono un piccolo segno di concreta solidarietà ed appoggio alla lotta delle popolazioni del Bakur, del Rojava e delle montagne del Kurdistan iracheno per un mondo senza frontiere, né stati, dove le comunità locali si autogovernino.

DSCN0026Finmeccanica e governo italiano sono complici dei massacri del governo turco.
Le fabbriche di morte sono a due passi dalle nostre case.
Quelle fabbriche vanno chiuse.
Solidarietà a chi resiste alla violenza dello Stato Turco!

Antimilitaristi”

DSCN0022Il 24 luglio le forze di sicurezza turche danno il via ad una vastissima operazione militare antiterrorismo, l’obiettivo dichiarato è l’ISIS, ma in realtà la repressione di abbatte con estrema durezza sia sugli attivisti politici sia sulla popolazione civile kurda. In poco più di due mesi sono oltre 100 i civili (uomini, donne, anziani e bambini) uccisi dalle forze speciali turche, numerose città sono state sottoposte al coprifuoco, polizia e militari assediano, torturano e massacrano la in un crescendo di orrori.
Le barbarie contro i civili vanno avanti anche oggi in un silenzio assordante.
Inoltre quasi 3000 persone sono state arrestate con l’accusa di essere militanti o simpatizzanti del PKK. Nel mirino c’è il partito dei popoli democratici (HDP), che alle elezioni di primavera è riuscito a superare lo sbarramento elettorale del 10%. Molti sindaci sono stati sollevati dal loro incarico e incarcerati per “appartenenza ad un organizzazione terroristica”.
Nel mirino c’è comunque un’esperienza di autogoverno locale, che dal Rojava al Bakur dimostra nei fatti che lo Stato e i confini, possono essere superati da una pratica che ne fa a meno, liberandosi delle logiche nazionaliste ed escludenti, come dalla pretesa di sottomettere la società ai dicktat religiosi.

Il vero terrorista è Erdogan. In questi mesi sono state ampiamente dimostrate le collusioni di settori dei servizi segreti e dell’esercito turco con miliziani dell’ISIS, ampiamente sostenuta dalla Turchia con il passaggio di armi e rifornimenti.

Anche in Italia è possibile mettersi di mezzo.

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Violenza di Stato al campo rom. Il video che inchioda i vigili

Mercoledì 21 ottobre. Questa mattina è cominciato il processo ad Aramis, un abitante della baraccopoli di Lungo Stura Lazio, accusato di aver aggredito e ferito tre vigili del nucleo “nomadi” del comune di Torino.
Era il 29 settembre. Aramis e la sua famiglia, tornati dalla Romania dopo otto mesi, non trovano più la loro baracca. La 104, secondo la numerazione imposta dai vigili, è stata abbattuta. I parenti di Aramis ha accettato il patto con il Comune, rimpatrio in Romania in cambio di 300 euro al mese. La realtà è ben diversa. La famiglia riceve 50 euro al mese per tre mesi e 150 per il quarto, poi più nulla. In Romania non c’è lavoro, neppure i lavori in nero e sottopagati della maggior parte degli abitanti di Lungo Stura.
Tornare a Torino è una scelta obbligata. La baracca 23 è vuota e viene occupata. Questa storia, uguale a tante altre, dimostra il fallimento del progetto “la città possibile”. O, meglio, il fallimento della narrazione – intrinsecamente razzista – “sull’emersione dal campo”, come se il campo, la baracca fossero una scelta e non una necessità.
Ben riuscita invece l’operazione di sgombero, indolore, pezzo a pezzo, spesso con la complicità obbligata degli stessi abitanti, obbligati a collaborare alla distruzione delle baracche.
Alla fine la trama logora del progetto la “città possibile”, si sta strappando in più punti.

Lo dimostrano i cortei e le proteste dell’ultimo mese. Ne è il segno anche la vicenda finita oggi in tribunale.

Le testimonianze contraddittorie, iperboliche, esplicitamente razziste dei tre vigili urbani, che, secondo l’accusa sarebbero stati aggrediti e feriti da Aramis, hanno posto l’accento sulla paura dei tre vigili. Tutti “lavoravano” in Lungo Stura Lazio da molti anni, anni trascorsi a controllare, cacciare, multare, intimidire. Conoscono tutti per nome e sono abituati a vederli chinare la testa. La reazione rabbiosa di Aramis, nonostante riescano facilmente a sopraffarlo, li stupisce e li spaventa. Temono che quella rabbia dilaghi, che altri decidano che la misura è colma, che non vogliano più subire umiliazioni. Le altre persone del campo non si avvicinano, limitandosi a gridare, ma ormai i tre vigili hanno perso la testa. Una di loro estrae la pistola e la punta verso le persone intorno, un’altra usa ripetutamente spray urticante contro Aramis, ormai ammanettato e chiuso in un angolo, l’ultimo vigile gli pianta un ginocchio nella schiena, schiacciandolo a terra.

Anche una bambina di 12 anni ha gli occhi gonfi per lo spray urticante. Uno dei tre vigili butta via la bottiglia d’acqua portata da una donna per pulire gli occhi del ragazzo.
In tribunale i vigili si giustificano dichiarando “eravamo in un campo nomadi, circondati da nomadi”. Un’affermazione che cerca la complicità di chi ascolta, che dovrebbe considerare in se pericolosi i “nomadi”: Pericolosi perché “nomadi”, rom, “zingari”. Pericolosi per quello che sono, non per quello che fanno. Un approccio in cui si radica la violenza razzista.

Il processo contro Aramis proseguirà il 17 febbraio. In quell’occasione verranno proiettati i tre video realizzati durante l’arresto di Aramis.
Video che inchiodano i tre vigili.

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Rom a Torino tra sgomberi, cortei, occupazioni

19 ottobre lungo sturaSono arrivati all’alba. Uomini e donne in armi, blindati, un elicottero, le ruspe. Un’operazione in grande stile in quello che resta della più grande baraccopoli d’Europa.
Nessuno è stato avvertito. Gli uomini in divisa sono entrati nelle baracche intimando di uscire, incuranti dei bambini spaventati, forti dell’arroganza di chi si crede superiore, pieni di disprezzo per gente che la povertà marchia come inferiori.

19 ottobre lungo stura 2Gli uomini e le donne del canile municipale catturano i cani. Una donna anziana ci mostra il libretto del suo cane, rubato e deportato al canile. Agli uomini, alle donne, ai bambini va peggio che ai cani. Poche cose vengono salvate mentre i vigili urbani prendono le bombole e le scaricano in aria. Respiriamo gas e razzismo, respiriamo il sapore agre dell’indifferenza per chi non potrà più accendere una 19 ottobre lungo stura 3stufa, per chi questa notte non avrà posto per dormire. Il comune offre un riparo per i bambini e le mamme, nulla per uomini, anziani, disabili. Sanno bene che nessuno accetterà di separarsi. Tutti hanno paura che il comune si rubi i loro figli.
Tante volte questa minaccia è bastata per sopire la rivolta, per tenere sotto controllo la rabbia.
Quando partono le ruspe l’antisommossa sospinge tutti in là, abitanti e solidali accorsi.

sgombero e corteoMa questa volta non finisce tutto tra rabbia e rassegnazione. Chi è stato sgomberato e chi ancora ha una baracca dove dormire si riunisce in assemblea. Qualcuno offre un caffè caldo, la nebbia di ottobre si scioglie in una giornata di sole. Si decide di uscire dal campo. I carabinieri bloccano gli ingressi, cercano di impedirci il passaggio. Ma la gente non molla. Alla fine si va. L’appuntamento è all’ufficio nomadi di via Bologna. Tutti entrano e in breve viene occupato. Ci sono una cinquantina di persone, che non sono più disposte a chinare la testa, che hanno deciso di lottare. DSCN0042Fuori compare uno striscione “Casa per tutti! No a sgomberi e sfratti”. Arriva la Digos e l’antisommossa. Nessuno cede. Dopo oltre due ore di occupazione una nuova assemblea decide di uscire in corteo. Si va per via Bologna, i testa i più piccoli, gridando “non spaccate il campo, vogliamo le nostre case”.
Due anni fa al campo c’erano oltre mille persone. Una polveriera sociale che l’amministrazione comunale torinese è stata abile a disinnescare. Cinque milioni di euro affidati alle sapienti mani di una cordata di cooperative ed associazioni che tra promesse e minacce, illusioni e violenza hanno trasformato l’area in un cumulo di macerie.
L’amministrazione Fassino mirava a sgomberare tutti, facendo leva sulla complicità degli sgomberati illusi dal miraggio di una casa che non è mai arrivata, dividendo i sommersi dai salvati.
Alla fine i nodi sono arrivati al pettine.

La cooperativa Valdocco, capofila del progetto la “Città possibile”, portato avanti da Comune di Torino, Prefettura, associazioni e cooperative che si sono spartiti la torta di  5 miliono sgomberini di Euro, aveva annunciato a fine settembre che la parola sarebbe passata alle ruspe.
In realtà le ruspe “a bassa intensità” non hanno mai smesso di lavorare nella baraccopoli, smontata pezzo a pezzo, dopo lo sgombero violento di cento persone il 26 febbraio.
In estate i vigili urbani, l’esercito e la Croce Rossa hanno monitorato le presenze al campo, accompagnando le ruspe che abbattevano le baracche di chi è stato deportato “volontariamente” in Romania con il miraggio di 300 euro. In quest’ultimo anno tante altre baracche sono state buttate giù, imponendo a chi le abitava di “collaborare” alla distruzione, per dimostrare la propria volontà di “superare” il campo.
Questi hanno ottenuto in cambio un monolocale a 250 euro al mese, come le 13 famiglie spostate nel social housing di corso Vigevano, di proprietà del Ras delle soffitte Giorgio Molino, dal quale saranno sfrattate a fine novembre.
Le famiglie “meritevoli” nelle case, le altre deportate in Romania o sgomberate. Come se il “campo” fosse una scelta naturale e non una necessità imposta dalla povertà, dallo sfruttamento e dalla discriminazione. Persone senza casa a cui viene applicata arbitrariamente marronel’etichetta di “nomadi” per giustificarne la ghettizzazione.
Le persone che abita(va)no le baracche sono immigrate dalla Romania negli ultimi quindici anni. Quasi tutti sono rom, quasi tutti abitavano in case, ma qui non riescono a pagare un affitto. Costruire una baracca non è una scelta, ma una necessità.

Entro la fine dell’anno sarà tutto finito. Baraccopoli demolita, sfratti eseguiti, famiglie in strada, i cinque milioni di euro assorbiti dalle associazioni coinvolte nell’operazione “la città possibile”. Oltre a Valdocco, AIZO, Terra del Fuoco, Stranaidea, Liberi Tutti, Croce Rossa. Il Comune di Torino ha messo in piedi il progetto per portare a termine uno sgombero “silenzioso”, altrimenti impraticabile con il solo uso della forza pubblica.

Due anni dopo l’inizio del progetto, l’obiettivo è ormai chiaro a tutti: sgomberare il campo rom non autorizzato più grande d’Europa, senza offrire nessuna alternativa abitativa.
Chi, come la famiglia di Aramis, a fine settembre aveva provato a tornare alle baracche lungo la Stura, si era trovato di fronte vigili urbani, che non avevano esitato ad usare spray urticanti, estrarre pistole, mollare pugni, immobilizzare al suolo e arrestare.
Ma qualcosa si sta muovendo.
In maggio centinaia di abitanti della baraccopoli di via Germagnano hanno bloccato l’ennesimo corteo razzista in Barriera di Milano.

Il 12 ottobre gli abitanti delle baracche di lungo Stura Lazio e quelli del social housing di corso Vigevano sono scesi in strada. Sono usciti dalla baraccopoli di Lungo Stura Lazio, dal social housing di corso Vigevano e da altre “sistemazioni temporanee” da cui vengono minacciati di sfratto. Il corteo di lotta per la casa, accompagnato dall’Assemblea Gatto Nero Gatto Rosso e solidali, si è preso le strade del centro per raccontare della grande truffa della “città possibile”.
Il patetico tentativo di infiltrazione nel corteo da parte di A.I.Z.O. è stato respinto con forza dalle famiglie sotto sfratto dal social housing di Corso Vigevano, gestito dall’associazione.
Maurizio Marrone, l’esponente di Fratelli d’Itala è stato accolto con rabbia e risate, perché il prode consigliere anti-immigrati ha lanciato dal Comune volantini con gli orari dei bus dalla Romania a Torino…

“No allo sgombero dei campi rom. Marrone merda”, questa scritta comparirà tre giorni dopo sulla serranda della sede di “Fratelli d’Italia” in via Rondissone.

Si è sostato a lungo sotto il Comune, di fronte alla Prefettura e alla RAI.
Uomini, donne e bambini hanno preso la parola, raccontando le loro storie di immigrati senza casa, della fatica di vivere vendendo il meglio dei cassonetti, facendo pulizie, badando ai nostri anziani. In ogni parola c’era il sapore aspro di chi vive avvolto nella cappa di un razzismo diffuso, radicato, implacabile, che ti soffoca come una ragnatela. Con dignità o coraggio le loro vite negate e nascoste sono diventate protagoniste di una narrazione a più voci, una narrazione forte. I bambini e le bambine hanno raccontato del loro desiderio di continuare a frequentare la scuola, del timore dello sgombero, della deportazione.
Ciascuno ha ribadito che la casa è un bisogno di tutti e tutte, così come la salute, l’istruzione, la libertà di movimento. Lo hanno detto chiaro: i tentativi di sgombero e sfratto li troveranno sulle barricate. Se l’unica risposta del Comune è la guerra sociale, il corteo del 12 ottobre, l’occupazione dell’ufficio nomadi e il successivo corteo hanno dimostrato che la misura è colma, che la gente delle baracche è decisa a prendere in mano le proprie vite con forza e dignità.
M.M. (una prima versione di quest’articolo uscirà sul prossimo numero del settimanale Umanità Nova)

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Ancora sgomberi nella baraccopoli di Lungo Stura: ci ritroveranno nelle strade!

sgombero e corteoQuesta mattina la polizia è di nuovo arrivata all’alba per spaccare le baracche di quello che era il “campo rom non autorizzato” più grande d’Europa. Donne, bambini, uomini, anziani e malati, stavamo ancora dormendo quando la polizia ha buttato giù le nostre porte e ci ha urlato di uscire. Anche questa volta non ci hanno avvisati prima: sono arrivati con una decina di blindati e con le ruspe, ci hanno buttato in strada e hanno spaccato le baracche di trenta persone. Gli operatori del canile si sono presi i nostri cani e ora non sappiamo dove sono.
Una parte delle famiglie sgomberate è poi andata ad occupare l’Ufficio Nomadi del Comune di Torino. Comune che insieme alla Prefettura è responsabile del progetto “La città possibile”, costato 5 milioni di euro, con cui ci hanno promesso le case e invece ci buttano in strada senza darci nessuna alternativa abitativa.

Dov’era questa mattina il Comune mentre le ruspe ci spaccavano le baracche in cui vivevamo da anni?
Dov’erano le associazioni a cui il Comune ha affidato l’appalto milionario – Valdocco, Terra del Fuoco, Aizo, Stranaidea, Liberitutti?
Ci avete sgomberato dal campo e stasera dobbiamo dormire con i nostri figli in strada. In strada finiscono anche le famiglie sfrattate dalle case e dai social housing, come in Corso Vigevano, gestito da AIZO, dove per un anno abbiamo vissuto senza nemmeno avere riconosciuta la residenza e pagando affitti salati per dei loculi, da cui oggi ci buttate fuori.

Due anni fa nella baraccopoli vivevano duemila persone, molte da quindici anni. Non per scelta, ma per necessità dettata da povertà, sfruttamento e discriminazioni.
Il Comune di Torino ha speso 5 milioni di euro, soldi pubblici, per buttarci tutti in mezzo alla strada.
Per alcune ore abbiamo occupato l’Ufficio Nomadi, perchè il Comune venisse a dire pubblicamente la verità sul progetto “La città possibile”.
Non hanno avuto neanche il coraggio di presentarsi.
Ci ritroveranno nelle strade.

Il prossimo appuntamento è per mercoledì mattina, quando si terrà la prima udienza del processo contro Aramis, un giovane a cui due settimane fa era stata spaccata la baracca e che era stato brutalmente aggredito da tre vigili urbani, i quali non avevano esitato ad estrarre pistole ed usare spray urticanti, per poi dichiarare di essere stati aggrediti. Ennesimo abuso in un campo dove la violenza istituzionale è quotidiana. Chi attraverso lo sgombero di stamattina pensava di disperdere i testimoni, se ne dispiacerà. Mercoledì ci saremo tutti.

Casa, salute, residenza, libertà di movimento per tutti e tutte!

Torino, 19 ottobre 2015

Abitanti della baraccopoli di Lungo Stura Lazio
Assemblea Gatto Nero Gatto Rosso

Ascolta la diretta di radio blackout sulle prime ore dello sgombero

Qui l’articolo di Nuova Società ed un breve video del corteo dopo l’occupazione dell’ufficio nomadi

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