20 gennaio. Chiara, Claudio, Mattia e Nicolò, rinchiusi alle Vallette con l’accusa di terrorismo dallo scorso 9 dicembre, sin dal primo giorno sono stati sottoposti ad un regime di sorveglianza speciale. Niente aria né socialità con altri detenuti, chiusi in cella per buona parte della giornata. Claudio e Nicolò sono nella stessa cella, Mattia è in cella con un altro ragazzo: i tre sono nella medesima sezione ed hanno la possibilità di comunicare tra di loro. Al femminile Chiara si trova da sola.
A tutti erano stati concessi gli incontri con amici a familiari. Questa mattina un amico ed un familiare di Chiara sono stati respinti, perché i colloqui sono stati sospesi dai PM Rinaudo e Padalino. Il provvedimento vale anche per gli altri tre.
La corrispondenza censurata e in ritardo già limitava i loro contatti con l’esterno, la decisione di vietare anche i colloqui, serra sempre di più la gabbia che li chiude.
Da questa mattina Chiara è completamente isolata.
È trascorsa solo una settimana dalla decisione del tribunale del Riesame di confermare l’accusa nei loro confronti.
I giudici nelle motivazioni della sentenza hanno scritto: “È ravvisabile la finalità di terrorismo tenuto conto che l’azione è idonea, per contesto e natura, a cagionare grave danno al Paese, ed è stata posta in essere allo scopo di costringere i pubblici poteri ad astenersi dalla realizzazione di un’opera pubblica di rilevanza internazionale”.
Con queste motivazioni può essere accusato di terrorismo chiunque si opponga attivamente ad una scelta del governo.
Ricordiamo che l’azione di cui sono accusati i quattro No Tav è un sabotaggio al cantiere Tav in Clarea, nella notte tra il 12 e il 13 maggio. In quell’occasione venne danneggiato un compressore, nessuno si fece male.
Per capirne di più suggeriamo di ascoltare l’intervista ad Eugenio Losco, uno degli avvocati dei No Tav arrestati il 9 dicembre. L’intervista è stata rilasciata ad anarres il giorno dopo l’udienza del Riesame, quando ancora non se ne sapeva, sebbene lo si temesse, l’esito.
Aggiornamenti al 22 gennaio. Ieri, in un tribunale blindatissimo, forse per timore di nuovi problemi agli impianti idraulici, si sono svolti gli interrogatori dei quattro compagni, che si sono tutti avvalsi della facoltà di non rispondere. I PM paiono decisi a istruire il processo in tempi molto rapidi.
Anche la stazione di Porta Nuova e, in particolare, la sala vip e i binari del Freccia Rossa, più volte teatro di proteste e blocchi No Tav, sono stati pesantemente militarizzati.
Evidentemente la polizia temeva un’azione solidale con i prigionieri, cui erano stati negati i colloqui. Un timore autentico, perché nel tardo pomeriggio, un gruppo di attivisti ha bloccato il traffico con masserizie e striscioni alla rotonda di piazza Baldissera, tra via Cecchi e corso Vigevano. Il blocco è durato circa un quarto d’ora. Su uno striscione compariva la scritta “voi bloccate i colloqui, noi blocchiamo tutto”.
In serata alcuni compagni reduci da un caldo e rumoroso saluto al carcere delle Vallette sono stati fermati, identificati e rilasciati dopo circa un’ora.
Il 10 gennaio di quest’anno CGIL, CISL, UIL e Confindustria hanno firmato il testo attuativo degli accordi sulla rappresentanza siglato lo scorso 31 maggio. Il 18 gennaio la CGIL ha confermato l’accordo con il 95 favorevoli e 13 contrari. Un Landini tardivamente pentito ha dichiarato che l’accordo non impegna la Fiom. Quando dalla stalla lasciata scientemente aperta scappano tutti i buoi Landini cerca di salvare la faccia, per non perdere troppi iscritti.
Negli anni Settanta, dopo la firma di un contratto, i lavoratori non sapevano se sarebbero riusciti ad “esigerlo”, o, meglio, non sapevano se sarebbero riusciti a farlo subito o avrebbero dovuto fare altri scioperi per imporre al padrone quanto pattuito.
Oggi sono i padroni a preoccuparsi “dell’esigibilità” dei contratti. Evidentemente oggi i sindacati firmano accordi che soddisfano solo i padroni, che tuttavia temono che i lavoratori non si pieghino alle riduzioni di salario e alle gabbie normative sottoscritte da CGIL, CISL e UIL.
L’accordo sulla rappresentanza sindacale perfezionato in questi giorni è una corda al collo dei lavoratori. Continued…
E’ durata nove giorni. Tre quartieri di Amburgo sono stati trasformati in una gigantesca zona rossa, chiusi dalla polizia che controllava tutti, con modalità che nel Belpaese sono “normali”, ma in Germania rappresentano una frantumazione di diritti del tutto nuova, che ha mosso l’indignazione di una più vasta opinione pubblica, sfociando in una manifestazione di protesta oceanica.
Cosa è successo nel più grande porto della Germania? Nei quartieri della resistenza operaia, delle occupazioni, della vita culturale più viva e libera?
Perché nelle ultime settimane Amburgo è stata teatro di scontri durissimi, che non si sono interrotti nemmeno quando la polizia ha cinto in una morsa di ferro un’area grande come i tre quartieri di Barriera di Milano, Aurora e Vanchiglia a Torino? Anzi. L’incrudirsi della repressione, gli arresti di massa, il coprifuoco, il divieto di ogni manifestazione, hanno innescato una reazione durissima.
Gli ingredienti sono tre. La gentrification che sta mutando di segno alla città, espellendo gli abitanti più poveri, che non sono più in grado di pagare i fitti delle case, la lotta dei posti occupati sotto minaccia di sgombero, la nascita di un movimento di rifugiati provenienti da Lampedusa, che rifiuta le regole di Schengen, le soluzioni individuali, battendosi per la libertà di tutti di rimanere in Germania, senza rischiare la deportazione in Italia.
Ma cos’è la gentrification? Qual’è la posta in gioco di processi che già hanno cambiato il volto delle nostre città e continueranno a farlo? La gentrification è realizzazione di un nuovo spazio di potere che si incastona in una rete mondiale di città. Questo spazio conquistato dalle grandi aziende del cemento e del tondino è uno spazio strategico. Ci sono nuovi edifici costruiti o ristrutturati con gusto, appartamenti, uffici, ristoranti, locali, altri servizi, etc. dove tutto è più costoso e prende il posto prima occupato da imprese dal profitto più basso e da famiglie con un reddito più modesto. Dietro la realizzazione di questo spazio di potere, si nascondono la privatizzazione e la deurbanizzazione di gran parte dei centri cittadini e di altre importanti aree storiche di grande pregio. Questo non significa solo lo sfratto di imprese e famiglie, ma anche, in molti casi, la crescita dei senza casa.
Ad Amburgo la gentrification colpisce le aree dove sono la maggior parte dei posti occupati, della cultura underground, della cultura, luoghi che offrono la possibilità di vivere in modo più vivace ed interessante che nei quartieri residenziali, dove la sera la gente sta a casa ed il sabato frequenta i centri commerciali.
Paradossalmente le aree della città più a rischio di gentrificazione ad Amburgo, ma la stessa cosa avviene a Berlino, sono quelle dove maggiormente si sono sviluppate esperienze di vita e cultura fuori dai canoni del mercato. Queste zone attraggono giovani benestanti, che le preferiscono a quartieri più noiosi, contribuendo così all’aumento dei prezzi ed all’espulsione della popolazione più povera.
In Germania, pur senza riuscire ad invertire la tendenza, sono nate esperienze di resistenza importanti. Molti abitanti, specie quelli di origine turca si sono raccolti in assemblee e resistono allo spestamento forzato in zone lontane anche 15 chilometri, dove non hanno relazioni e dove le abitudini consolidate e i legami familiari e di comunità vengono spazzati.
La minaccia di sgombero del più importante centro sociale di Amburgo, Rote Flora, la resistenza alla gentrificazione si sono saldate con le lotte degli africani del coordinamento “Lampedusa-Amburgo”, creando un mix sociale micidiale che ha messo in difficoltà per settimane la polizia, sfociando in scontri durissimi e nei nove giorni di zona rossa e coprifuoco.
Anarres ne ha parlato con Ricke, una compagna che da anni risiede in Germania, per capire meglio cosa sta scuotendo il cuore finanziario ed economico dell’Europa.
Ascolta la diretta
La decisione del Colorado di liberalizzare la marijuana ha riaperto anche nel nostro paese il dibattito sulle droghe leggere, che, in base alla legge in vigore, la “Fini-Giovanardi”, sono illegali allo stesso modo di quelle pesanti: chi coltiva, regala vende la cannabis o l’eroina rischia lunghe pene detentive, chi le usa incorre in sanzioni amministrative altrettanto pesanti.
In questi giorni qualcosa si è mosso in parlamento, ma difficilmente sarà possibile che deputati e senatori raggiungano un accordo, soddisfacente. Forse a togliere le castagne dal fuoco al governo, dove è ministro Carlo Giovanardi, ci penserà ancora una volta la Consulta, che potrebbe dichiarare incostituzionale l’equiparazione tra le droghe leggere e quelle pesanti, cancellando così una parte della normativa vigente ed attenuandone il rigore.
Tuttavia tra l’Italia è il Colorado c’é ancora di mezzo un vasto oceano.
Anarres ne ha parlato con Robertino Barbieri, storico antiproibizionista pisano, tra gli animatori della street parade “canapisa”.
Di seguito diversi stralci di un suo articolo appena uscito sul settimanale Umanità Nova. Continued…
Nei giorni scorsi i principali quotidiani davano ampio spazio alla testimonianza dell’unica superstite della strage di Lampedusa, una ragazza eritrea, che testimoniando contro uno degli mercanti di carne umana sotto processo nel nostro paese, ha raccontato le botte, gli stupri continui, i ricatti, gli omicidi che avevano segnato la sua vita di ragazza all’alba della vita. La sua storia era lo specchio di tante altre. Con lei erano centinaia di profughi incappati nel destino obbligato di chi fugge guerre e persecuzioni, attraversando il deserto ed il mare.
Le pagine dei giornali trasudavano commozione, sdegno, solidarietà umana. Da settimane persino le istituzioni paiono voler cambiare rotta, eliminare il reato di clandestinità, ridurre la detenzione nei CIE, fors’anche spezzare il legame tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro. Sinora però il governo non è andato al di là delle chiacchiere.
I fatti, di ben altro segno, non trovano alcuno spazio nei media.
Il 28 novembre il governo Letta ha stipulato un nuovo accordo con la Libia per il controllo congiunto delle frontiere: droni italiani nel sud della Libia, militari libici e bordo delle unità della marina militare impegnate nell’operazione Mare Nostrum.
Ma non solo. E’ cominciato a Cassino l’addestramento dei militari libici che verranno impiegati nella repressione dell’immigrazione clandestina. Letta come Berlusconi, Alfano come Maroni nel 2009 decidono di esternalizzare la repressione, affidando ai libici il lavoro sporco di fermare, imprigionare, respingere profughi e migranti.
Le storie come quella di F., la diciottenne eritrea, picchiata, stuprata, venduta, scampata per un pelo al Mare Nostrum, non le racconterà più nessuno. La sabbia sarà il sudario che coprirà ogni cosa.
Di questo non troverete traccia sui principali organi di informazione, ma solo su blog e siti di nicchia.
Ascolta l’intervista realizzata dall’info di Blackout con Antonio Mazzeo, autore di un articolo, che riportiamo sotto integralmente.
È già in Italia il primo contingente di militari libici che sarà addestrato principalmente in funzione di vigilanza e contrasto dei flussi migratori. Si tratta di 340 uomini che svolgeranno a Cassino (Fr), presso l’80° Reggimento addestramento volontari dell’Esercito italiano, un ciclo addestrativo di 14 settimane. L’attività è frutto dell’Accordo di cooperazione bilaterale tra Italia e Libia nel settore della Difesa, firmato a Roma il 28 maggio 2012. Secondo il portavoce del Ministero della difesa italiano, i cicli addestrativi prevedono la “formazione in Italia di più gruppi, scaglionati nel tempo, provenienti dalle regioni di Tripolitania, Cirenaica e Fezzan”. Il programma addestrativo a cura del personale misto di Esercito, Marina, Aeronautica e Arma dei Carabinieri, è inoltre parte delle iniziative di “ricostruzione” delle forze armate e di sicurezza libiche, decise in occasione del vertice G8 tenutosi a Lough Erne (Irlanda del Nord), nel giugno 2013. Nello specifico, Italia e Gran Bretagna si sono impegnate ad addestrare, ognuno, 2.000 militari libici all’anno; 6.000 militari saranno addestrati dagli Stati Uniti, mentre la Francia si occuperà della formazione delle forze di polizia. Continued…
All’inizio dell’anno Fiat ha completato l’acquisizione del gruppo Chrysler. Il gruppo guidato da Marchionne ha concluso un accordo molto favorevole per Fiat con il Veba Trust che controllava il 41,5% della fabbrica automobilistica statunitense. La Fiat pagherà cash 1.750 milioni di dollari utilizzando la liquidità disponibile. A questa cifra si aggiungono altri 1.900 milioni di dollari che Veba incasserà attraverso una erogazione straordinaria che Chrysler Group erogherà a tutti i soci.
La parte del dividendo straordinario spettante all’azionista Fiat (attraverso la Fiat North America, Fna, interamente controllata dal Lingotto) sarà versata al Veba Trust e costituirà parte del prezzo di acquisto della partecipazione. In totale, dunque, il prezzo del 41,5% di Chrysler è fissato in 3,65 miliardi di dollari. Con questa operazione Fiat diventa azionista unico di Chrysler. In altri termini Fiat ha comprato Chrysler usando i soldi di Chrysler. Il Veba Trust è il fondo previdenziale che assicura le prestazioni sanitarie agli ex dipendenti della Chrylser. Negli Stati Uniti è frequente che i fondi pensione acquisiscano ditte e giochino in borsa.
In molti hanno giudicato l’accordo storico. Ma per chi? Quali conseguenze avrà per i lavoratori degli stabilimenti italiani, buttati da anni nel limbo della cassa integrazione? Il loro futuro è più che mai pericolante, al punto che lo stesso Zanonato avrebbe chiesto a Marchionne precise garanzie. Che è come chiudere la stalla quando i buoi sono già fuggiti.
Per i 5300 di Mirafiori non pare esserci alternativa al progressivo licenziamento.
Sul piano produttivo le cose non vanno troppo bene su nessuna delle due spondell’Atlantico. Marchionne aveva dichiarato a suo tempo che per sopravvivere bisogna mettere sul mercato sei milioni di autoveicoli. Siamo lontani da quella quota, visto che nel 2013 il gruppo di Detroit non è andato oltre i due terzi di quella cifra.
Intanto resta il fatto che i modelli attualmente prodotti vengono smerciati negli Stati Uniti e in Brasile. In Europa domina invece Volswagen.
Nel gioco del capitale Marchionne, Elkann e la grande famiglia degli eredi dell’Avvocato, festeggiano.
I lavoratori hanno poco da fare festa. D’altra parte, per loro, l’unica vera festa è quella che si fa ai padroni.
Per meglio capire le dinamiche di questo storico accordo ascolta la diretta dell’info di blackout con Renato Strumia.
Domenica 12 gennaio. Una bella giornata e tanta voglia di mettersi in mezzo hanno creato l’alchimia giusta per la giornata di lotta contro l’occupazione e militare a Rivoli.
Il tam tam è bastato perché un centinaio di No Tav si ritrovassero di fronte alla caserma Ceccaroni di Rivoli, dove dormono gli alpini di stanza a Chiomonte.
Una brutta sorpresa per i militari che rientravano dopo il turno in Clarea, che sono rimasti fermi per una buona mezz’ora mentre i No Tav volantinavano ai passanti.
Poi arrivano la Digos e quelli del’antisommossa ramazzati in fretta e furia dallo stadio. Scudo calato, manganello alzato i picchiatori in divisa corrono verso i No Tav, che sciolgono il presidio e si allontanano di buona lena prima che i manganelli riescano a carezzarli nel solito modo.
Successivamente la Digos identificherà i No Tav che tornavano in zona per recuperare le auto.
Il giorno successivo gli organi di informazione che minimizzano l’accaduto o lo censurano non mancano di segnalare che i manifestanti saranno denunciati per blocco stradale e violenza privata.
Gli alpini della caserma Ceccaroni gestiscono gli aspetti logistici nei vari teatri di guerra dove hanno prestato servizio. Il 1° Reggimento Manovra di Rivoli è stato in Libano, Afganistan, Kosovo, Ciad, Bosnia, Albania, Pakistan… e Chiomonte.
Un’altra azione di resistenza attiva antimilitarista che da il segno che la rassegnazione non è certo di casa tra i No Tav, che nonostante l’incrudirsi della repressione, non cede di un passo.
Inutile dire che tra gli striscioni dei No Tav ce n’era uno solidale con i quattro attivisti accusati di terrorismo e rinchiusi alle Vallette dal 9 dicembre.
Ascolta la diretta realizzata questa mattina dall’info di radio Blackout con Monica, una No Tav della Valcenischia
Martedì 15 gennaio. Senza farsi annunciare ieri sera intorno alle 22 un folto gruppo di No Tav ha fatto capolino nel cortile dell’albergo S. Giorgio, che ospita i “Cacciatori di Sardegna”, corpo speciale dei carabinieri che si alternano con le altre truppe di occupazione al cantiere di Chiomonte.
Due militari che stavanmo fumando fuori rientrano in gran fretta e presto all’interno si scorge un mucchio di gente agitata che va su è giù brandendo telefonini. I No Tav aprono due striscioni: il primo con la scritta “terrorismo = tav” il secondo in solidarietà con gli arrestati del 9 dicembre. Battiture, slogan e cori per un’oretta. Poi via.
Ascolta il resoconto della serata fatto per l’info di Blackout da Renzo del comitato No Tav “Spinta dal bass”
La scorsa settimana la RAI ha mandato in onda in due puntate la prima di tre miniserie dedicate agli anni Sessanta e Settanta. In primo piano, ormai pronto per la santificazione, il Commissario Luigi Calabresi, protagonista nella caccia all’anarchico che segnò il 1969, l’anno delle lotte operaie e studentesche che si chiuse con la strage alla banca dell’Agricoltura in piazza Fontana, l’arresto dell’anarchico Vapreda, l’assassinio nei locali della questura meneghina di un altro anarchico, il ferroviere Giuseppe Pinelli.
In molti hanno sottolineato la cialtroneria di un lavoro segnato da errori palesi, anacronismi, oltre ad un mare di falsità. Quello che conta è tuttavia ben altro.
La fiction scritta e diretta da Graziano Diana è l’ennesima operazione revisionista su una vicenda, che, nonostante i 44 anni trascorsi, ancora turba i tutori dell’ordine costituito e i loro corifei.
La storia di una strage pensata e voluta nei piani alti delle istituzioni democratiche, spaventate dall’estendersi e dal radicarsi delle lotte di quegli anni, ci parla della criminlità del potere. Una criminalità di Stato che non esita di fronte a nulla: le bombe, i corpi dilaniati, le accuse false agli anarchici, la repressione feroce.
Tutto perfetto. Ma non funzionò.
Gli uomini e le donne che in quell’anno cruciale della nostra storia avevano riempito le piazze, occupato fabbbriche e università, spezzato le fondamenta dell’ordine gerarchico, fatto a pezzi le relazioni di dominio sul lavoro e nelle case, non prestarono fede alle parole urlate dalle pagine dei giornali, alle verità confezionate nell’ufficio affari riservati del Ministero dell’Interno. Sin dal giorno dei funerali dei morti di piazza Fontana, le tesi ufficiali vennero contestate: tanti erano consapevoli che quella strage, la prima di tante, era contro chi in quei mesi voleva farla finita con la pax socialdemocratica per costruire relazioni politiche e sociali all’insegna di libertà e uguaglianza.
Dopo 40 anni lo Stato ha deciso che quella memoria andava spezzata, ridotta in poltiglia, mettendo insieme vittime e carnefici. Protagonista fu Giorgio Napolitano, il presidente che volle l’incontro tra la vedova di Pino Pinelli e quella di uno dei suoi assassini, Luigi Calabresi, il “commissario Finestra”, come lo chiamarono allora.
La fiction di Diana come i libri di Cucchiarelli e il film che ne trasse Giordana sono i tasselli di un puzzle il cui disegno è sin troppo chiaro.
La crisi che morde la vita di tanti, di troppi, una classe politica che non riesce nemmeno a nascondere sotto il tappeto ruberie e malefatte, la dura repressione che colpisce chi lotta contro lo Stato e il capitalismo.
Con Massimo Varengo, compagno milanese, testimone diretto di quegli anni, abbiamo fatto una lunga chiacchierata, per riallacciare il fili di una memoria sempre più spezzata, per capire perché quella vecchia storia in bianco e nero turbi tanto i potenti di oggi.
Nel 2014 la Difesa si prepara a spendere altri 5 miliardi di euro in cacciabombardieri, navi da guerra, blindati ed elicotteri da combattimento, cannoni, siluri, bombe, droni e satelliti spia. Impermeabili a ogni spending review e refrattari a qualsiasi controllo parlamentare, gli stati maggiori continuano a sentirsi intoccabili.
Non possiamo certo dargli torto. In barba alle mozioni approvate da Camera e Senato il 26 giugno e 7 luglio che impegnavano il governo a non procedere a nessuna “ulteriore acquisizione” degli F35 in attesa delle conclusioni di un’indagine conoscitiva parlamentare, già in settembre il ministro Mauro ha dato il via all’acquisto di altri cacciabombardieri della Lockeed Martin. Giocattoli da 150 milioni di euro, che possono trasportare sia bombe “convenzionali”, che ordigni nucleari.
Senza troppa pubblicità Mauro ha autorizzato la firma di nuovi contratti per centinaia di milioni di euro.
Il 27 settembre scorso, oltre a saldare l’ultima rata da 113 milioni dei primi 3 aerei già acquistati (e già pagati per 350 milioni di euro), è stato firmato il contratto d’acquisto definitivo di altri 3 aerei per 403 milioni (per i quali in precedenza erano stati anticipati 47 milioni). Successivamente, non è dato sapere quando, sono anche stati versati 60 milioni di anticipo per ulteriori 8 aerei (che la Difesa vuole acquistare nel 2014, anno in cui intende inoltre dare anticipi per altri 10 aerei).
Queste informazioni,trapelate dagli Stati Uniti, sono approdate in commissione Difesa: il ministro Mauro alla richiesta di spiegazioni e controllo dei documenti si è limitato a sostenere che a le mozioni parlamentari “non incidono sulle politiche di acquisto già determinate”.
Le uova sono rotte, meglio farsi una frittata.
Nello scontro tra parlamento e vertici militari, che mal sopportano la facoltà di controllo della spesa militare che le camere hanno acquisito con la riforma militare del 2012, al di là della retorica democratica, c’é in ballo l’opposizione tra sostenitori degli F35 e fan dell’Eurofighter, il caccia di produzione europea, prodotto da Finmeccanica. In quest’ottica le dichiarazioni del capogruppo Pd in commissione Difesa, Gianpiero Scanu e del segretario del PD Renzi, contro ulteriori acquisti di F35, sembra tirare la volata ad un ritorno più marcato agli Eurofighter. I fautori di questa ipotesi sostengono che questa scelta consentirebbe un risparmio nella manutenzione e l’autonomia operativa vista la comproprietà dell’hardware, che invece rimane sotto esclusivo controllo americano sugli F35, “aerei a sovranità limitata”.
La conferma che i vari governi, al di là dell’appoggio a questa o quella cordata di affari e politica, continua a puntare sulla guerra è il Documento programmatico pluriennale della Difesa per il triennio 2013-2015 presentato lo scorso aprile dall’allora ministro della Difesa Di Paola, oggi consulente di Finmeccanica. Dei 5 miliardi di spesa totale per il nuovo anno su decine di programmi di riarmo il DPP ne assegna oltre mezzo (535,4 milioni) agli F35 e un miliardo l’anno per gli Eurofighter.
Giochi di soldi, potere, guerra.
Ascolta la diretta realizzata dall’info di Blackout con Domenico del Coordinamento No F35 di Novara
La notizia della conquista di Falluja da parte delle milizie quaediste finanziate dall’Arabia Saudita ha riportato al centro dell’attenzione l’Iraq, dove il governo dello sciita Al Maliki deve fare i conti con le milizie finanziate dalla dinastia Saud, il cui protagonismo nell’area è sempre più forte. La conquista di Falluja, città simbolo della resistenza dell’Iraq sunnita all’occupazione statunitense, è un messaggio forte e chiaro all’amministrazione Obama, che negli ultimi mesi ha dato evidenti segnali di volersi in parte smarcare dalla stretta sempre più ingombrante con i sauditi, aprendo una interlocuzione con i vecchi nemici iraniani.
Il quadro delle alleanze subisce mutamenti inediti, che segnalano il riposizionamento dei maggiori attori sulla scena.
Gli Stati Uniti stanno cercando di fare a meno del petrolio saudita. Non è certo casuale che l’ammnistrazione Obama abbia annunciato un programma energetico che dovrebbe portare gli Stati Uniti ad una sostanziale autosufficienza nell’approvigionamento degli idrocarburi, con al centro l’area del Nafta, la zona di libero scambio tra gli stessi Stati Uniti, il Canada e il Messico.
La decadenza dal ruolo di potenza mondiale assoluta e l’affermarsi di una stagione caratterizzata di un’estesa multipolarità spinge gli Stati Uniti ad evitare la contrapposizione secca con l’Iran, che oggi, grazie ad Hezbollah in Libano e alla situazione favorevole in Iraq, è molto più forte che in passato. Era dai tempi di Ciro il Grande che i persiani non avevano uno sbocco agevole sul Mediterraneo.
Nell’area lo scontro, che è anche confessionale, tra le aree a prevalenza shiita e quelle sunnite si sta intensificando.
Obama punta sulla sulla divisione dei propri avversari, giocando su più scacchiere, per impedire che gli uni si rafforzino eccessivamente ai danni degli altri. Una politica che ricorda le scelte attuate all’indomani della prima guerra mondiale, quando gli Stati Uniti scelsero di indebolire il potente alleato francese, sostenendo gli (ex) nemici tedeschi.
E’ un delicato sistema di equilibri fatto di pesi e contrappesi, giocati con grande spregiudicatezza. A farne le spese la storica alleanza con Israele le cui relazioni con gli Stati Uniti sono oggi al minimo storico.
L’Iraq diviene il terreno tragico dell’ennesima guerra per procura, in un paese dove il potere è passato dalla minoranza sunnita alla maggioranza shiita.
La popolazione di Falluja fugge dalla città dove il governo si agginge ad un contrattacco che potrebbe concludersi con un bagno di sangue come dieci anni fa, quando George Bush Jr diede ordine di bombardare la città con il fosforo bianco, una sostanza che frigge e soffoca chi ne viene toccato.
La grande partita mediorientale si gioca anche sulla pelle delle tante persone che vengono tritate in un gioco in cui non sono che pedine senza valore.
Ascolta la diretta realizzata dall’info di Blackout con con Stefano Capello
Ad Amburgo c’è il coprifuoco, c’è una zona rossa circondata da poliziotti in assetto antisommossa, che fermano e portano via chiunque provi ad entrare nella zona proibita.
Nelle ultime settimane, nel roboante silenzio dei media nostrani, la città è stata attraversata da conflitti sociali molto duri, che hanno invaso le strade per diversi giorni consecutivi.
Cosa sta succedendo nel ricco cuore dell’Europa?
Amburgo è la seconda città della Germania, e il secondo porto di tutta Europa. Una città la cui identità si è forgiata nelle lotte dei lavoratori del porto, nei percorsi di autogestione, occupazione, sottrazione dall’istituito degli ultimi trent’anni.
Ad Amburgo è in atto un processo di gentrification che mira ad espellere i poveri dallo storico quartiere operaio di St. Pauli per dare spazio a progetti di riqualificazione urbana, destinati a chi potrà permetterselo. I 70 abitanti dell’Esso_Hauser sono stati cacciati nelle loro case e depositati in alberghi.
Il RoteFlora, un vecchio teatro occupato sin dal 1989, è stato messo all’asta e rischia lo sgombero. Il 21 dicembre la manifestazione in difesa del RoteFlora è sfociata in scontri durissimi.
I migranti e rifugiati della città rischiano ogni giorno la deportazione: dopo la strage di Lampedusa hanno deciso di resistere: le manifestazioni cui hanno dato vita sono state criminalizzate e colpite con estrema violenza dalla polizia.
La notte di capodanno ci sono stati scontri a St. Pauli: gli Autonomen avrebbero attaccato la Davidwache, il commissariato del quartiere. Nell’attacco sarebbero rimasti feriti due poliziotti. Curioso che la stessa polizia abbia emesso un comunicato in cui sostiene che gli scontri sarebbero avvenuti a diverse centinaia di metri dal commissariato.
Dopo capodanno un’ampia sona della città è stata dichiarata “gefahrengebiet”: chi prova ad attraversarla viene arrestato.
Lo Stato risponde alle sommosse dichiarando guerra ai propri cittadini, che si ritrovano a vivere sotto occupazione militare.
Nella zona “gefahrengebiet” vivono migliaia di persone: possono andare a casa solamente a piedi, e una volta a casa possono uscire solo ad orari prestabiliti.
Giornalisti e fotografi vengono allontanati dopo aver ritirato e distrutto tesserini e macchine fotografiche.
Il coprifuoco per migliaia di persone.
In questa enorme zona rossa è impedita qualsiasi manifestazione o riunione: i controlli sono sommari e ossessivi. Manifestazioni di protesta si sono comunque svolte il 5 e il 6 gennaio: piccoli gruppi gli attivisti si sono riuniti nella zona interdetta alle manifestazioni portando striscioni e urlando slogan. Diverse decine di persone sono state fermate: per alcuni il fermo si è tramutato in arresto. La gentrificazione avanza a mano armata, col grasso appena passato sugli anfibi.
31 dicembre/1 gennaio. Un folto gruppo di No Tav, dopo la tradizionale cena a Venaus va in Clarea per un brindisi resistente alle reti. Le truppe di occupazione li attendono al ponte sul torrente, sbarrando la strada verso la “bailatta” il rifugio di lamiera nei terreni No Tav a ridosso delle recinzioni.
Dopo un lungo fronteggia mento, qualche fuoco d’artificio e la bicchierata, a freddo parte la carica. Manganellate, feriti, gente picchiata anche a terra. Tre attivisti vengono fermati e poi rilasciati dopo qualche tempo. Le truppe di occupazione sembrano sempre più nervose.
2 gennaio. Un gruppo di No Tav si presenta al ristorante/pizzeria “Il Caminetto” di Alpignano, dove mangiano alcuni dei poliziotti che prestano servizio al fortino della Maddalena. Alcuni aprono uno striscione con la scritta “via le truppe dalla valle”, altri entrano nel locale dove distribuiscono volantini sui quattro No Tav arrestati con l’accusa di terrorismo.
Sul quotidiano “La Stampa” Massimo Numa, oltre a fornire un fantasioso elenco dei partecipanti, annuncia che d’ora in poi chi protesta contro le truppe e le ditte collaborazioniste rischia l’incriminazione per “stalking”. La Procura è ancora in ferie ma i giornalisti che le fanno da megafono ne annunciano già la linea.
Riportiamo in questa pagina in costante aggiornamento le cronache e le riflessioni delle ultime settimane sul fronte del CIE, per cercare di capire cosa stia davvero bollendo nella pentola del governo, dopo la campagna mediatica che ha ri-messo al centro dell’attenzione i centri per senza carte, le leggi razziste del nostro paese, la difficoltà del governo a fare fronte ad una spesa enorme, tra gestione dei centri, esplulsioni, ritrutturazioni continue dei CIE danneggiati o distrutti dalle rivolte. Siamo convinti che il governo intenda liberarsi della patata bollente, facendo sì che tutto cambi, affinché tutto resti come prima. Proviamo a vedere come, andando oltre i toni intollerabilmente melensi dei media. 29 gennaio. In quest’articolo un tentativo di fare il punto della situazione, mettendo insieme gli eventi dell’ultimo mese e mezzo ed alcune ipotesi.
24 gennaio. Riesplode la lotta al CIE di Ponte Galeria a Roma. 20 reclusi in sciopero della fame, nella speranza che, come per alcuni reclusi nel CIE di Pian del Lago, si aprano le porte della prigione. A Pian Del Lago, l’ultimo CIE siciliano rimasto aperto, il giorno prima alcuni immigrati erano stati liberati per far posto ai reduci della rivolta del 19 gennaio a Torino. Il giorno successivo si diffonde la notizia che 13 reclusi hanno deciso di cucirsi la bocca. I media, come già accaduto a dicembre, danno un discreto rilievo alla notizia.
22 gennaio.Chiude per ristrutturazioni il CIE di Trapani Milo. Se ne parlava da qualche settimana, ma solo oggi arriva la conferma della decisione di chiudere per “rendere più sicura” la struttura. Muri più alti, centraline elettriche lontane dalle mani dei reclusi, ristrutturazione delle tante aree danneggiate da anni di rivolte.
Durante i lavori il prefetto, Leopoldo Falco, potrà cercare di risolvere la difficile questione della gestione della struttura, sino ad oggi saldamente in mano alla famigerata cooperativa “Oasi”, dopo la rinuncia della cooperativa “Glicine”, che aveva vinto l’appalto.
19 gennaio. Nel CIE di Torino vanno a fuoco i moduli abitativi dell’area rossa. I prigionieri delle due camerate sono stati spostati nella mensa dell’area gialla, che si era salvata dalla rivolta del 15 gennaio, quando sono bruciate le aree gialla e viola. In tutto il Centro non ci sono stanze libere. Tutte le aree maschili sono gravemente danneggiate: la viola è completamente distrutta, nella gialla resta in piedi solo la mensa, nella bianca e nella rossa c’è soltanto una stanza, nella blu ne restano due. Contando la quindicina di reclusi nelle celle di isolamento, nel CIE ci sono soltanto una sessantina di reclusi: meno di un terzo di quelli che la struttura potrebbe contenere se funzionasse a pieno regime.
15 gennaio. Una rivolta scuote il CIE di Torino, dopo le espulsioni di una ventina di nigeriani il giorno precedente. Vanno a fuoco i materassi nell’area gialla e in quella viola. I reclusi trascorrono la notte nella saletta mensa.
13 gennaio. Notizie stampa riferiscono di una possibile chiusura del CIE di Trapani Milo per consentire l’avvio di lavori di ristrutturazione per per 600.000 euro. Lo scopo esplicito è aumentare i dispositivi di sicurezza per rendere più difficili rivolte e fughe.
28 dicembre. Il CIE di Modena, chiuso da mesi in attesa di ristrutturazione, non riaprirà più. I lavori previsti non prenderanno avvio. Lo ha annunciato il Prefetto della città. Dopo 11 anni il CIE dove venivano spediti gli immigrati che più si erano distinti nelle lotte, chiude i battenti.
A Milano invece la struttura di via Corelli è stata completamente vuotata in vista della ristrutturazione.
25 dicembre. Il principale quotidiano spagno, “El Pais” pubblica in prima pagina la “notizia” della rivolta che sta squotendo il CIE italiani. I media francesi a loro volta danno ampio spazio alle vicende italiane. La lotta durissima degli immigrati senza carte che in tanti anni affogava nel silenzio, all’improvviso e non certo per caso travalica i confini nazionali.
24 dicembre. Mentre il governo si esibisce in promesse la vita pressata dietro le sbarre urge.
A Roma, dove i reclusi con la bocca cucita erano diventati dieci, sono cominciate le prime, veloci esplusioni di chi lotta.
A Lampedusa, dove continua la protesta del deputato PD autorecluso nel CIE, sono cominciati, dopo tre mesi, i trasferimenti sulla terraferma degli scampati al naufragio.
Il quotidiano “La Stampa” ci serve in prima pagina alcune storie di vite spezzate, di profughi scampati al mare.
A Bari i reclusi danno vita ad una rivolta durissima.
A Torino i reclusi sono in sciopero della fame dopo un feroce pestaggio fatto nel settore femminile del giorno prima. Per “punire” una donna nigeriana che aveva morso il dito di un agente, i poliziotti avevano pestato a sangue tutte le nigeriane recluse. La ragazza del morso è stata successivamente trasferita in isolamento.
23 dicembre. Questa mattina quotidiani ed agenzie hanno battuto la notizia che il governo avrebbe deciso di ridurre ad un mese il tempo di reclusione nei CIE prima dell’espulsione.
Ancora non è chiaro se faranno un decreto legge o presenteranno in Parlamento una proposta di legge più organica. Il primo ministro Enrico Letta, nella conferenza stampa di fine anno, ha dichiarato che “La discussione della Bossi-Fini sarà uno dei temi di gennaio e il governo ha anche intenzione di mettersi al lavoro subito per una revisione degli standard dei Cie” aggiungendo: “dobbiamo essere più efficaci anche nell’espletamento delle pratiche burocratiche”.
Se la detenzione nei CIE fosse ridotta ad un mese, come nel 1998, quando la Turco-Napolitano li istituì sarebbe comunque una bella notizia. Non bella come la fine della reclusione amministrativa ma comunque positiva. Anche se, ricostruendo gli avvenimenti degli ultimi mesi, la situazione potrebbe essere meno rosea di quanto appare.
Di un fatto siamo sicuri. Se davvero venissero cancellati i 18 mesi di CIE questo non sarebbe certo dovuto alla buona volontà del governo, ma alle lotte degli immigrati, che in questi anni li hanno fatti a pezzi, pagando un prezzo durissimo. Botte, umiliazioni, arresti, condanne.
Che qualcosa bollisse nella pentola del governo sul tema immigrazione era chiaro sin dal 3 ottobre con la strage di Lampedusa.
Il modo in cui venne trattata la vicenda, le prime dichiarazioni di Letta sulla volontà di superare la Bossi-Fini, erano i primi segnali di un campagna politico mediatica che preparava il terreno all’annuncio di oggi.
Mentre le notizie sulla situazione al limite del collasso nei CIE erano tenute in sordina, all’improvviso l’immigrazione era trattata in modo diverso dal passato.
Di seguito una rapida ricostruzione degli eventi degli ultimi giorni e qualche ipotesi sugli scenari che potrebbero aprirsi.
22 dicembre. Un deputato del PD, Khalid Chaouki, dopo una visita al Centro di prima accoglienza di Lampedusa, ha deciso di non andarsene, facendosi rinchiudere con i profughi dimenticati lì da mesi. Tra loro i superstiti del naufragio del 3 ottobre, che suscitò commozione ed indignazione anche istituzionale, ma, al di là della pubblica esibizione di cordoglio, delle promesse di superamento della Bossi-Fini, nulla è cambiato. Chaouki ha dichiarato che non se ne sarebbe andato finché i reclusi non fossero stati trasferiti in un CARA.
21 dicembre. Quattro immigrati si sono cuciti le bocche per protestare contro il prolungarsi della detenzione nel CIE di Ponte Galeria a Roma. Immediatamente il quotidiano “La Stampa” ha pubblicato la notizia con il massimo del rilievo e il titolo “protesta choc”. Chi segue da anni le lotte degli immigrati nei CIE della penisola non può che constatare amaramente che si tratta di uno “choc” a scoppio ritardato, uno “choc” mediatico, studiato a tavolino per aprire la strada a qualche provvedimento sui CIE. Sono anni che gli immigrati si cuciono la bocca per protesta, sono anni che dai CIE filtrano le immagini che riprendono le bocche serrate da fili robusti, ferite dall’ago, simbolo di una resistenza che cerca di spezzare il silenzio. Inutilmente. A Torino nel lontano 2009 alcuni compagni fecero iniziative perché si parlasse di quelle bocche cucite, di quelle bocche serrate perché anche le urla si schiantano sul muro dell’indifferenza. I media parlarono del dito e nascosero la luna.
Oggi tutto sembra cambiato.
L’atteggiamento nei confronti dell’immigrazione clandestina si sta modificando. Sospettiamo tuttavia che probabilmente tutto debba cambiare, perché tutto resti come prima.
Anarres ne ha discusso con Federico, un compagno impegnato da anni nella lotta contro i CIE.
Ascolta la chiacchierata.
Proviamo insieme a fare il punto.
Le galere per immigrati senza carte nell’ultimo anno si sono dimezzate. Ne rimangono aperte solo sei (Torino, Milano, Roma, Trapani Milo, Pian Del Lago, Bari), le altre sono state, una dopo l’altra, bruciate e fatte a pezzi dai reclusi. Il governo ha dovuto chiudere i CIE di Gradisca, Trapani Vulpitta, Bologna, Modena, Crotone. Ufficialmente sono tutti in attesa di ristrutturazione, ma non c’é nessuna notizia certa su una possibile riapertura.
Tutti i CIE ancora aperti sono stati a loro volta gravemente danneggiati dalle continue rivolte, la conclusione è una sola: la macchina delle espulsioni è ormai al collasso.
In base ai dati, ormai calcolati per difetto, dello stesso Viminale, degli oltre 1800 posti dei CIE ne sarebbero ancora agibili meno della metà ed effettivamente riempiti nemmeno un terzo. Il governo tace, gli specialisti della guerra contro i poveri sono alle prese con la rovina dei loro leader, i poliziotti premono perché non ne vogliono più sapere di fare i secondini nei CIE, dove si rischia di incappare nella rabbia di chi si vede sfilare la vita giorno dopo giorno. Il CIE è un limbo, che precede la deportazione, una sala d’aspetto con sbarre e filo spinato in attesa di un treno che nessuno vuole prendere.
Si dice che a gennaio possa riaprire il Centro di Bologna e successivamente la struttura modenese ma ancora non si sa chi verrà chiamato a gestirli dopo il disastro della cooperativa Oasi, che si era aggiudicata l’affare vincendo la gara d’appalto con un ribasso enorme rispetto alla precedente gestione della Misericordia di Giovanardi.
A Santa Maria Capua Vetere (Caserta) e Palazzo San Gervasio (Potenza) potrebbero sorgere due nuovi CIE, dopo l’avventura presto finita dell’emergenza Nordafrica.
Il governo ha stanziato 13 milioni di euro ma non si sa se i lavori abbiano preso l’avvio e che punto siano.
Numerosi segnali indicano che la ricetta individuata dal governo potrebbe essere decisamente più complessa del “semplice” riattamento dei CIE distrutti e dell’eventuale apertura di nuove strutture.
La decisione di spedire gli immigrati reclusi nelle patrie galere a scontare gli ultimi due anni nei paesi d’origine assunta con il decreto svuotacarceri prenderebbe due piccioni con la solita fava. Alleggerire il sovraffollamento carcerario e, nel contempo, evitare il trasferimento nei CIE e la trafila del riconoscimento espulsione dell’immigrato. Difficile dire se funzionerà, perché molto dipende dalla disponibilità dei paesi di emigrazione ad accettare questo pacco/dono dall’Italia.
A fine novembre il governo Letta ha stipulato un nuovo accordo con la Libia per il controllo congiunto delle frontiere: droni italiani nel sud della Libia, militari libici e bordo delle unità della marina militare impegnate nell’operazione Mare Nostrum.
Al ministero stanno studiando la possibilità di introdurre dei secondini privati per le funzioni di sorveglianza a diretto contatto con i reclusi.
Qualche solerte e sinistro esperto del business dell’umanitario, come il consorzio Connecting People, propone di trasformare i CIE in campi di lavoro.
Il quadro che ne emerge ci pare chiaro. Outsourcing della repressione alla frontiera sud, riduzione degli internati con il trasferimento anticipato dei carcerati nei paesi d’origine, accoglimento delle proteste dei poliziotti, in parte esonerati dal compito di secondini, probabilmente una maggiore attenzione alle prescrizioni della direttiva rimpatri. La riduzione del periodo di detenzione ed esplulsioni più veloci sembra essere la ricetta del governo per evitare di spendere altri soldi per la ristrutturazione di centri che, prima o dopo, gli immigrati danno alle fiamme. Per condire il tutto un pizzico di umanità in più (se trovano i soldi).
Una polpetta avvelenata e uno zuccherino. Niente da eccepire: Letta dimostra un’abilità degna dei vecchi democristiani.
Nelle ultime settimane il governo Erdoğan è messo a dura prova dagli scandali e dalle lotte per il potere interne all’AKP, il partito che governa da dieci anni la Turchia. Il caso di corruzione che inizialmente vedeva al centro i figli del Ministro degli Interni Muammer Güler e del Ministro dell’Economia Zafer Çağlayan, si è esteso coinvolgendo uomini d’affari di spicco, altri membri del governo ed esponenti politici del partito al potere. Sono 24 gli arrestati e decine gli indagati, lo scandalo ha spaccato l’AKP e sta travolgendo il governo. Alcuni deputati della maggioranza hanno infatti dato le dimissioni dal partito di Erdoğan, i ministri toccati dagli scandali sono stati costretti ad abbandonare i propri incarichi, ma tra chi si è dimesso dall’AKP perché critico nei confronti dei casi di corruzione c’è anche l’ex Ministro della Cultura Ertuğrul Günay che ha abbandonato negli ultimi giorni gli incarichi di governo ed il partito.
È evidente che si tratta di una lotta interna al blocco conservatore-religioso che guida il paese, diviso nelle sue componenti principali in due grandi gruppi di potere che fanno riferimento rispettivamente da una parte ad Erdoğan, capo del Governo, e dall’altra a Fethullah Gülen, capo di un movimento religioso estremamente influente in Turchia, che rappresenta una componente importante dell’AKP e che di fatto controlla la polizia turca, potendo contare su numerosi membri in questo apparato. Già in passato si erano avuti momenti di tensione tra questi gruppi, ma stavolta assistiamo ad una vera e propria guerra che, a pochi mesi dalle elezioni regionali, mette a rischio lo stesso Governo. Fethullah Gülen dal suo esilio volontario negli Stati Uniti, dove scrive libri e studia l’islam, ha condannato i casi di corruzione scagliando un vero e proprio anatema contro i propri avversari politici. Intanto Erdoğan è tornato a parlare di complotti stranieri per destabilizzare la Turchia, ha tuonato contro la polizia e la magistratura, mentre i membri “critici” dell’AKP venivano convocati dagli organi disciplinari del partito. Ha epurato la polizia di circa 500 funzionari a vari livelli della linea di comando, ha poi organizzato un’adunata di fedelissimi all’aeroporto di Istanbul, per mostrare il sostegno di cui ancora gode. In questa storia si intrecciano traffici di lingotti d’oro, di valuta, tangenti e corruzione, speculazioni e progetti faraonici come quello del terzo aeroporto di Istanbul. È una lotta per il potere, è una lotta tra ladri e corrotti che si contendono il controllo di interessi miliardari e di una regione strategica. Ma in Turchia non ci sono solo le trame di palazzo. Ad Istanbul le piazze sono tornate a riempirsi, il 22 dicembre centinaia di persone sono scese in piazza nel quartiere di Kadıköy, ad Istanbul, sulla sponda asiatica del Bosforo, scontrandosi con la polizia che ha attaccato i manifestanti con lacrimogeni ed idranti. Il 27 dicembre, una nuova manifestazione ha riportato nel centro della città lungo İstiklal Caddesi, gli slogan di libertà che quest’estate avevano accompagnato la rivolta contro il governo.
Gli anarchici in queste occasioni sono scesi in piazza per denunciare la natura oppressiva e corrotta di ogni governo, per rilanciare la lotta contro il potere e riaccendere la rivolta.
Di seguito il comunicato del gruppo Azione Anarchica Rivoluzionaria di Istanbul. Con questo testo i compagni hanno fatto appello a partecipare alla manifestazione del 27. Il titolo “Stiamo vincendo – 2” è un richiamo al comunicato “Stiamo vincendo” redatto all’apice della rivolta antigovernativa della scorsa estate.
“Stiamo vincendo – 2
Noi, gli oppressi, viviamo tempi in cui gli Stati rendono sempre più povere le nostre vite con la loro ingiustizia, in cui i poteri rubano le nostre vite con la corruzione. Oggi, che assistiamo ad una guerra aperta tra i componenti dell’AKP, è chiaro a tutti non solo il furto messo in atto da questo governo, ma anche che in realtà tutti i governi sono ladri. Perché dietro i governi, gli Stati rubano le nostre vite.
Quando la legge protegge la rapina attuata dai figli dei ministri nei confronti della gente, quando lo Stato serve gli interessi dei padroni, quando i progetti di gentrificazione urbana lasciano gli oppressi senza casa e “qualcuno” ci guadagna, quando la gente che paga a malapena l’affitto si impoverisce sempre di più, quando il lavoro e schiavitù diventano sinonimi, quando sta diventando normale morire lavorando, quando è illegale ribellarsi a questo stato di cose, quando si cerca di mettere sotto silenzio il popolo con repressione e condanne, quando Berkin Elvan e Elif Çermik stanno lottando per le proprie vite in ospedale perché colpiti dai candelotti lacrimogeni; la rivolta è inevitabile.
Come ieri avevamo vinto, oggi stiamo per vincere ancora. Ci batteremo ogni volta che scenderemo nelle strade, fino a quando gli Stati e i poteri non saranno distrutti. Come il 31 maggio, quando con il crescere della rivolta abbiamo conquistato ogni strada ed ogni piazza della terra sulla quale viviamo, oggi chiamiamo tutti a lottare nelle strade, fianco a fianco, spalla a spalla, contro la corruzione e la rapina.
Lunga vita alla rivolta degli oppressi!
Lunga vita all’Anarchismo!
Verso la Rivoluzione Anarchica con l’Azione! Azione Anarchica Rivoluzionaria (Devrimci Anarşist Faaliyet)”
Sabato 28 dicembre. A 14 anni dalla strage del “Serraino Vulpitta”, il primo CIE di Trapani ora chiuso, si è svolto in città un presidio antirazzista nel ricordo di Rabah, Nashreddine, Jamel, Ramsi, Lofti, Nasim morti nel rogo del 1999 e di tutti i migranti vittime delle frontiere e del razzismo di stato.
Tra gli obiettivi dell’iniziativa la chiusura del CIE di contrada Milo, e di tutti i CIE, l’abolizione delle leggi razziste, l’eliminazione del legame obbligatorio tra contratto di lavoro e permesso di soggiorno, l’apertura delle frontiere, la libertà di movimento di tutte e tutti, in Italia e nel mondo.
Di seguito il comunicato diffuso dai due gruppi promotori dell’iniziativa, il Coordinamento per la Pace e il gruppo Anarchico “Andrea Salsedo”.
“Il ricordo resta sempre vivo. Lo sgomento per la strage di immigrati nel Centro di permanenza temporanea “Serraino Vulpitta” di Trapani si rinnova ogni anno nel dolore e nella rabbia per le morti e le sofferenze che, ancora oggi, colpiscono gli immigrati nel nostro paese e in tutta Europa.
Solo pochi mesi fa, anche se nessuno ne parla più, centinaia di donne, bambini e uomini sono morti affogati al largo di Lampedusa, nell’ennesima strage dell’immigrazione. Nelle nostre campagne, a Campobello di Mazara, un ragazzo senegalese è bruciato vivo per l’esplosione di una bombola nella baracca allestita nel campo di lavoro dove gli immigrati lavorano la terra in condizioni infami, sottopagati da padroni italianissimi a cui poco o nulla importa dei diritti di questi nuovi schiavi.
Pochi giorni fa, un ragazzo eritreo di 21 anni si è impiccato nel Centro richiedenti asilo di Mineo, vicino a Catania, annichilito dall’attesa per un pezzo di carta che gli desse la libertà di andare per la sua strada.
Non abbiamo alcun timore nell’additare l’Unione europea, lo Stato italiano, i suoi governi, le loro leggi, quali responsabili morali e materiali di questi lutti.
Non ci stancheremo mai di ripetere che se le leggi sull’immigrazione non fossero così restrittive e assassine, le persone non sarebbero ritenute “clandestine”, non affronterebbero viaggi così pericolosi, e non morirebbero così.
Se le leggi non fossero così irrazionali, i richiedenti asilo non sarebbero costretti ad aspettare mesi, in centri di “accoglienza” come quello di Salinagrande, per conoscere il loro destino.
Se le leggi sull’immigrazione non fossero così classiste e razziste, gli immigrati potrebbero rivendicare i loro diritti sul lavoro, non sarebbero in balìa degli sfruttatori e dei trafficanti di uomini, e non sarebbero terrorizzati dalla detenzione amministrativa nei Centri di identificazione ed espulsione (CIE).
In tutta Italia molte di queste prigioni per soli immigrati sono state chiuse, o perché troppo costose, o perché sistematicamente devastate dalle rivolte dei reclusi. A Trapani, il CIE di Milo è stato teatro – dalla sua apertura – di continue proteste, atti di autolesionismo, fughe di massa, perché le persone imprigionate sono stanche di vivere dietro le sbarre senza aver commesso alcun reato.
Mentre i politici, con il solito allarmismo, hanno definito “emergenza-sbarchi” l’arrivo – in tutto il 2013 – di appena 35.000 persone (gran parte delle quali profughi di guerra), l’unica risposta di cui sono stati capaci è la solita: militarizzazione delle frontiere mascherata da intervento umanitario – operazione “Mare Nostrum” – e, qui in Sicilia, riduzione dell’Isola a portaerei Usa e Nato per il controllo del Mediterraneo e del Medioriente (radar Muos a Niscemi, basi aeree di Birgi e Sigonella).
In questi tempi di crisi, con le piazze agitate da personaggi discutibili e da parole d’ordine autoritarie e reazionarie, a qualcuno potrebbe sembrare che i diritti dei migranti siano l’ultimo dei problemi.
E invece, come abbiamo sempre sostenuto, la progressiva compressione della libertà e dei diritti a scapito degli immigrati ha soltanto anticipato l’erosione della libertà e dei diritti che oggi piangiamo tutti, a beneficio dei soliti noti: padroni, politici, privilegiati di ogni sorta.
Ecco perché la lotta per la libertà dei migranti è, in definitiva, la lotta di noi tutti.”
notizie, appuntamenti, narrazioni da Torino e dintorni
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Qui trovate alcuni degli approfondimenti fatti durante la trasmissione.
Per contatti: anarres@inventati.org
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Produci, consuma, crepa. Videoconferenza con Salvo Vaccaro