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Schiavitù di cittadinanza

Mani-in-catene-2-a26326320Nell’Atene di Pericle non c’erano vie di mezzo o eri schiavo o eri cittadino. Nella Germania dell’era Merkel la “schiavitù di cittadinanza” è la ricetta con la quale il governo tedesco è riuscito a ridurre la disoccupazione, garantendo lauti guadagni agli imprenditori tedeschi, sgravati dall’impegno di versare contributi.
Come funziona?
In Germania chi non ha un’occupazione riceve intorno ai trecento euro al mese. Se gli viene proposto un lavoro per venti ore settimanali a 450 euro al mese – senza obbligo per il padrone di versare tasse – ha due possibilità ugualmente sgradevoli.  Se rifiuta perde buona parte dell’assegno di cittadinanza, se accetta si lega mani e piedi ad una condizione di super sfruttamento non contrattabile e senza prospettive di pensione.
Schiavo e cittadino insieme. Un infelice ma ben riuscito ossimoro politico.
Nel 2008 la disoccupazione in Germania era superiore a quella italiana, oggi le parti si sono invertite, ma il numero di ore lavorate in realtà non è cambiato.
Per uno dei tanti paradossi di cui è capace un capitalismo sotto oculata e tenera tutela statale la Germania è riuscita a realizzare un obiettivo che, in altri tempi, è stato molto caro al movimento dei lavoratori: che tutti lavorino meno, che tutti lavorino. Peccato che la ricetta tedesca non comporti una seconda – fondamentale – parte: la parità di salario nonostante la riduzione di orario. In parole povere, un sia pur lieve, trasferimento di reddito dai padroni ai lavoratori.
Questa ricetta made in Deutchland piace anche al sottosegretario all’economia Stefano Fassina.
Il vice ministro, dopo le polemiche dei giorni scorsi con il Movimento cinque stelle sulle proposte della compagine grillina in materia di reddito minimo o reddito di cittadinanza, questa mattina ha annunciato l’apertura di un tavolo di confronto con i partiti che hanno avanzato proposte in parlamento.
Fassina, in un’intervista al Manifesto, sostiene in modo esplicito che “per una forza progressista la cittadinanza passa attraverso il lavoro.”L’obiettivo è un lavoro di cittadinanza da promuovere anche attraverso misure sul reddito ma finalizzate al miglioramento dell’occupazione qualificata per coloro che sono nelle condizioni fisiche di lavorare”.
In realtà anche la proposta del M5S contiene un riferimento all’obbligo di fare “lavori utili”, che ha un sapore agre sia per la natura impositiva della norma sia per la nozione stessa di “lavoro utile”.
Il solco appare tracciato. Se SEL e M5S troveranno un accordo con il PD, la possibilità che anche da noi venga introdotta la schiavitù di cittadinanza appare molto concreta. In un primo tempo in forma sperimentale nelle grandi città, poi, chi sa, dappertutto.

Anarres ne ha parlato con Francesco Carlizza, che la prossima settimana sarà a Torino per una serata dal titolo. “Il gioco dell’economia. Chi vince e chi perde al di là della retorica sulla crisi. Appuntamento alle ore 21 alla FAT in corso Palermo 46.
Ascolta la diretta

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Il tramonto dell’amnistia

amnistiaIn Italia le carceri straripano. Lo scorso anno i suicidi sono stati oltre 150. Il carcere è una struttura patogena: chi vi è rinchiuso si ammala molto di più e riceve molte meno cure di chi vive fuori dalle gabbie che lo Stato destina a discarica sociale.
L’Italia è stata condannata dalla corte europea di Strasburgo per i trattamenti inumani e degradanti
inflitti ai reclusi nelle prigioni del Belpaese. Se la situazione non cambierà rischia di dover pagare risarcimenti milionari ai detenuti che hanno fatto o faranno ricorso a Strasburgo.
Nonostante ciò l’amnistia, l’unico provvedimento veramente efficace per vuotare rapidamente le carceri degli oltre settemila detenuti “in più”, è presto tramontato.
L’ipotesi lanciata da Napolitano è affogata per la secca opposizione di Renzi. Nessun politico, nessun partito vuole restare con il cerino in mano: chi vuota le carceri rischia di perdere consensi in una competizione elettorale che potrebbe non essere troppo lontana.
Il ministro Cancellieri ha promesso qualche pannicello caldo o poco più. Mentre la politica istituzionale gioca con la vita di uomini e donne la situazione si trascina, senza che nulla si muova.
La stessa amnistia non sarebbe comunque che una pezza temporanea perché, come già avvenne per l’indulto del 2005 le carceri torneranno presto a riempirsi, nonostante i reati che suscitano maggiore “allarme sociale” siano in costante diminuzione.
L’aumento della popolazione carceraria è un effetto delle politiche di tolleranza zero alimentate a loro volta da un clima di paura e di insicurezza collettiva che hanno segnato gli ultimi dieci anni .
Le tre leggi carcerogene, la Bossi-Fini sull’immigrazione, la Fini-Giovanardi sulle droghe, la ex Cirielli sulla recidiva emanate in questi ultimi dieci anni sono all’origine dell’enorme aumento dei reclusi.
Fare della repressione della delinquenza uno spettacolo morale permanente consente di riaffermare simbolicamente l’autorità dello stato nel momento stesso in cui si dimostra impotente sul piano economico e sociale. Il carcere diviene una sorta di “aspirapolvere sociale” per
eliminare le scorie delle trasformazioni economiche in atto e cancellare dallo spazio pubblico i rifiuti della società di mercato.

Ne abbiamo parlato con Robertino di Psychoattiva.

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Nassiriya. Le stragi degli italiani brava gente

BREVE STORIA DELLA REPUBBLICA PER IMMAGINI / SPECIALEIeri le autorità italiane hanno celebrato il decimo anniversario della strage di Nassiriya. Non lontana da Bassora, nel sud dell’Iraq, abitato prevalentemente da popolazioni shite, Nassiriya era la base del contingente italiano. Le truppe tricolori parteciparono attivamente all’occupazione militare dell’Iraq, dopo aver fornito appoggio logistico alla conquista statunitense del paese in quella che venne chiamata la seconda guerra del Golfo.
Il 12 novembre del 2003 un camion carico di esplosivo esplose dopo essere riuscito a penetrare nella base italiana nella città. Morirono 19 tra carabinieri e soldati, 7 civili italiani e 10 iracheni.
In Italia piazze e lapidi ricordano i martiri di Nassiriya. Eroi buoni, in missione di pace in Iraq.
Questa immagine caramellata resiste negli anni nonostante la storia dei militari tricolori tra il Tigri e l’Eufrate sia molto diversa.
Una storia di guerra. Una guerra come le altre: sporca, sanguinaria, senza esclusione di colpi. Ma, come scriveva nel 1917 il senatore statunitense Hiram Johnson, “la verità è la prima vittima di guerra”.
Cosa sapete della “battaglia dei Lagunari” della notte del 5 di agosto 2004?
Secondo la versione ufficiale i militari italiani, posti a presidiare i ponti della città, erano stati attaccati da un commando di miliziani dell’Esercito del Mahdi, scesi improvvisamente da un furgone privo di insegne o di dispositivi luminosi. Loro si erano limitati a seguire le procedure e a rispondere al fuoco, facendo esplodere l’autoveicolo nemico.
Diversa è la versione fornita dal giornalista statunitense Micah Garen che, successivamente, venne sequestrato dalle truppe di Moqtada al Sadr ma poi liberato.
Il veicolo fatto saltare in aria era un’ambulanza. A bordo c’erano una partoriente con la madre, la sorella e il marito. Nessuno di loro sparò ai militari italiani, che invece aprirono il fuoco, uccidendo tutti.
In un primo tempo il governo e i militari italiani negarono persino che vi fosse stata una “battaglia dei ponti”. Ammetterlo avrebbe significato strappare la foglia di fico, che copriva la vergogna dell’avventura bellica italiana in Iraq.
In realtà i soldati italiani attaccarono i tre ponti sull’Eufrate che collegano il nord e il sud di Nassiriya, ingaggiando un durissimo scontro con le truppe del Mahdi.
Anni dopo Wikileaks pubblicò alcuni documenti, tra cui un’indagine della procura militare di Roma e un rapporto riservato scritto tre giorni dopo i fatti dal colonnello dei lagunari Emilio Motolese. Entrambi confermano che a cadere sotto i colpi dei Lagunari furono una donna che stava per partorire e i suoi familiari.

La nostra memoria è per quella donna, per i suoi cari, per il bambino che sarebbe dovuto nascere in quella notte di guerra.

Di quella vicenda, della situazione odierna in un paese dove la guerra non è mai finita l’info di Blackout ha parlato con Stefano Capello.
Ascolta la diretta

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Uno dopo l’altro. Gli immigrati chiudono i CIE

cie chiusoL’ultimo ad essere vuotato è stato il CIE di Milano, scosso domenica dalla quinta rivolta da settembre. Ogni volta la struttura di via Corelli, appena ristrutturata, è stata danneggiata dai reclusi. Buona parte degli immigrati è stata trasferita al CIE di Trapani-Milo, alcuni, accusati dell’incendio che ha reso inagibile la quarta sezione, sono stati arrestati e trasferiti in carcere.

A due settimane dalla rivolta che ha portato alla chiusura del Centro di Gradisca, un altro CIE è di fatto inagibile. Uno dietro l’altro i centri per senza carte vengono chiusi dai prigionieri, che fanno a pezzi le loro gabbie.

Ormai sono ancora aperti i CIE di Torino, Roma, Trapani, Bari, Caltanissetta.

Il governo, di fronte al fallimento delle politiche di repressione dell’immigrazione, resa clandestina dalle leggi che limitano la libera circolazione delle persone, tace.
Il governo Letta punta ad una politica di prevenzione basata sui pattugliamenti in mare e sugli accordi con i paesi di partenza e transito, nonostante queste scelte abbiano già mostrato tutta la loro inefficacia.

Resta il fatto che, nonostante la scarsa incisività dei movimenti antirazzisti, le lotte nei CIE hanno inceppato più volte la macchina delle espulsioni.
D’altra parte l’eliminazione delle “eccedenze” si sta rivelando un mestiere poco remunerativo anche per le varie organizzazioni e cooperative, che negli anni si sono contese la gestione di queste prigioni amministrative. Appalti al ribasso, difficoltà di gestione, obiettiva complicità con i poliziotti/secondini incaricati della repressione hanno reso sempre meno appetibile l’affare CIE.

Ascolta la diretta realizzata dall’info di Blackout con Alberto, antirazzista siciliano, impegnato nella lotta contro i CIE.

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Crepe al palagiustizia. Caselli se ne va

no tav isolare i violentiI processi contro i No Tav hanno una corsia privilegiata rispetto agli altri. Quello per lo sgombero della Maddalena e l’assedio del 3 luglio continua in aula bunker con l’esibizione dei poliziotti di servizio in quelle giornate. La tesi è sempre la stessa: attacco paramilitare, gruppi organizzati, violenza. I violenti pestaggi dei manifestanti arrestati, documentati da un video, i lacrimogeni che, oltre a intossicare, hanno ferito chi ha avuto la ventura di intercettarne le curiose parabole, spariscono dalle pittoriche descrizioni di un vice commissario dalla carriera in declino come quella di Massimo D’Alema, il suo referente politico di sempre.
Il lavoro della Procura è incessante su ogni fronte: in questi giorni sono arrivati avvisi di garanzia a No Tav accusati di aver spostato dei jersey che impedivano il passaggio dei manifestanti nel 2011.
Piccole crepe si stanno aprendo anche nel fronte della magistratura.
Le dimissioni da Magistratura Democratica di Giancarlo Caselli, il Procuratore capo di Torino, per ben due volte confermato nell’incarico nonostante il raggiunto limite di età, sono il segnale di un malessere che ha oltrepassato i confini della società civile per investire la stessa magistratura.
Casus belli la pubblicazione sull’Agenda 2014 dell’associazione di un articolo di Erri De Luca titolato “Notizie su Euridice”. De Luca in questo pezzo, più poetico che politico, racconta gli anni Settanta dalla parte dei perdenti, di quelli che si ritrovarono sui banchi degli imputati, quando la pubblica accusa era in mano a magistrati democratici e di sinistra come Giancarlo Caselli.
Intollerabile per il Procuratore della Repubblica, nonostante Magistratura Democratica abbia pubblicato il pezzo di De Luca con una nota introduttiva, in cui prende le distanze dalla “violenza” in ogni sua forma. Ma ben più intollerabile e, forse, all’origine vera delle dimissioni dall’associazione che aveva contribuito a fondare, è la notizia, per ora non esplosa sui media che proprio Magistratura Democratica promuoverà un convegno sulla giustizia e i processi No Tav che si svolgerà all’interno del Palagiustizia di Torino. Uno schiaffo a mano aperta al Procuratore che più si stava spendendo per ottenere condanne contro il movimento di resistenza alla Torino Lyon.
Tanto intollerabile che l’11 novembre Caselli ha annunciato le proprie dimissioni da Procuratore: dal 28 dicembre andrà in pensione con cinque mesi di anticipo sulla scadenza dell’incarico, fissata al 9 maggio.

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Congo. Il grande gioco tra kalashnikov e miseria

Government soldiers during training, Rutshuru, Democratic Republic of Congo“Nel Kivu, l’Est del Congo, ti accorgi subito che ci sono due mondi. C’è un mondo di giorno dove comandano apparentemente i soldati, il remoto governo di Kinshasa, i caschi blu, insabbiati qui da vent’anni per far la guardia, sentinelle metafisiche e frustrate, a una pace che non c’è. E poi c’è il mondo della notte dove comandano gli altri: i ribelli, le bande dei guerrieri bambini, le milizie comandate da stregoni che garantiscono l’invulnerabilità con pozioni e formule magiche, il mondo degli spiriti dei fantasmi degli incubi. Uomini cenciosi, ma con i kalashnikov, emergono dalle foreste, occupano per qualche ora città, saccheggiano miniere, distruggono basi di soldati affamati e senza scarpe che vivono di elemosine, portandosi dietro le famiglie e le bestie. Poi, all’alba, la luce li ricaccia nel buio del baldacchino arboreo. La foresta è come un muro, tanto è spessa e fitta. Ciascuno lì è piccolo, questa terra non sembra fatta per gli uomini. Sopravvivere è una lotta continua, non sai mai cosa ti assalirà, una fiera, un serpente, un altro uomo.
(…)
Le guerre, qui, sono legate a nomi misteriosi, alla tavola di Mendeleev: il tantalio per esempio, un metallo che resiste alla corrosione. Lo scavano qui in queste foreste uomini disperati, con la vanga, le mani, impastati di sudore. Tante piccole mani stanno distruggendo la grande foresta. E la cassiterite? Chi l’ha mai sentita nominare? Serve per leghe speciali e per saldare: anche questa si nasconde in questa terra nera come il sangue raggrumato. Come il coltan, l’oro, il tungsteno.”
Così scriveva Domenico Quirico in un articolo pubblicato mercoledì scorso sul quotidiano “La Stampa”.
La notizia era la ritirata dell’ultimo dei movimenti guerriglieri che si contendono il controllo delle miniere o, almeno, delle vie di comunicazione.
Un’enorme ricchezza che è diventata una sorta di dannazione, dove gli attori sul campo sono solo le marionette tragiche delle grandi potenze che da decenni si contendono il controllo di quella che un tempo era la più feroce occupazione coloniale europea. I belgi di re Leopoldo rivaleggiarono e vinsero la battaglia contro i colonialisti francesi, inglesi, italiani, tedeschi.
Un grande gioco di potenza i cui effetti collaterali sono violenza e miseria estreme.
Una storia ed un presente che negli ultimi vent’anni ha assunto il sapore di una guerra mondiale africana.
Anarres ne ha percorso gli sviluppi con Stefano Capello.

Ascolta la diretta

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Grecia. La casa nel mirino delle banche

8606_greece_anarchists_students__002_-thumbL’ultima notizia dalla Grecia è lo sgombero della TV statale, chiusa di imperio dal governo in una notte e subito occupata dai lavoratori, che hanno continuato a farla vivere per 150 giorni, raccontando i movimenti e le lotte. Un’esperienza che il governo Samaras non poteva più tollerare: ieri mattina la polizia in assetto antisommossa ha sgomberato gli uffici occupati.
Un ulteriore tassello della lotta dello Stato greco contro l’informazione dal basso e le esperienze di autogestione, capaci di eludere la propaganda di regime e insieme essere strumenti per la solidarietà e il mutuo appoggio.
Sul fronte delle lotte sociali l’ultimo sciopero generale del pubblico impiego, complici le violente piogge che hanno frustato le principali città greche, non ha avuto una partecipazione adeguata allo scontro in atto. Probabilmente, dopo 35 scioperi generali, la gente stremata dal duro prezzo imposto dal governo e dalla trojka.
In questi giorni si sta profilando un nuovo orizzonte di lotta, quello della casa.
In Grecia moltissimi sono prorietari della casa dove abitano. La crisi ha reso difficile pagare i mutui o le ipoteche accese per far fronte alla difficoltà quotidiane. Ipoteche concentrate nelle mani di poche banche che ne hanno fatto incetta a scopo speculativo.
Sinora la bomba sociale innescata da questa situazione non è scoppiata perché i governi avevano imposto una moratoria di sgomberi e sfratti, tuttavia oggi la trojka pretende di attaccare l’ultimo baluardo tra povertà e miseria, chiedendo che i debiti vengano pagati.
Se ciò avvenisse le case immediatamente espropriabili sarebbero oltre 100.000. Calcolando in maniera ipotetica che solo la metà siano realmente abitate, le conseguenze sarebbero devastanti.
Non meno di centocinquantamila persone si troverrebbero in strada. Non solo. Gran parte di queste case verrebbero acquistate ad un prezzo inferiore al loro valore. Gli sfrattati sarebbero ancora in debito con le banche. Un debito inesigibile.

Anarres ne ha parlato con Gheorgo, un compagno del gruppo dei comunisti libertari di Atene. Ascolta la diretta

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Lo spettacolo della politica tra realtà e reality

nel calore della decomposizione marte in scorpione genera la visione del serpenteLa politica istituzionale mette in scena lo spettacolo della propria decomposizione senza alcun pudore di facciata. Lo scontro nel PDL tra il partito del governo e quello del cavaliere, le iscrizioni gonfiate al PD per l’elezione dei responsabili di sezione in vista della scelta tra l’uomo mediatico e quello invisibile, tra Renzi e Cuperlo, il reiterato scontro sulle regole tra i pentastellati ci offrono una scena tragicomica, dove la farsa tiene banco con la serietà di una storia autentica. In un’epoca dove la realtà misura i propri successi mimando il reality, nulla ci dovrebbe stupire e infatti nulla più stupisce.
Sin qui è la fiera dell’ovvio. Meno ovvia la paralisi dell’indignazione, la stanchezza della reazione, che si misura più nella diserzione dalle urne che sul terreno dello scontro sociale, uno scontro che appare tanto inevitabile quanto remoto, in un’infelice ossimoro delle cose, che schiaccia le aspettative e rende monca l’analisi.
Gli attori della politica di palazzo giocano la loro partita, provando a far leva su argomenti tanto demagogici quanto importanti per chi, sempre più, fatica a mettere insieme i soldi per il mutuo e quelli per mangiare. IMU? No, forse, sì e ancora no. Cuneo fiscale? Idem.
Una ridda di affermazioni a sorpresa, di giravolte, giochi di ruolo perché non si capisca che, un colpo al cerchio, un colpo alla botte, i poveri sono chiamati a pagare per i privilegi dei ricchi.
Il futuro che ci preparano è tutto dentro questo presente amaro.
Spezzare l’immaginario che fa di quest’oggi odioso l’unico orizzonte possibile è una scommessa che si gioca nella materialità di un agire che sia insieme conflitto ed esodo.

Anarres ne ha discusso con Massimo Varengo.
Ascolta la chiacchierata

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No Tav: assedio all’hotel Napoleon

2013-11-05 23.00.51Susa. Ieri sera circa 150 No Tav hanno dato vita ad una manifestazione a sorpresa davanti all’hotel Napoleon, che ormai da anni ospita le truppe di occupazione di stanza a Chiomonte. Per due ore e mezza, tra slogan e canti partigiani, gli attivisti hanno aperto uno striscione con la scritta “via le truppe di occupazione” di fronte all’ingresso principale dell’albergo.
Sul retro si è attestato un altro gruppone. I carabinieri, comandati dal capitano Pieroni, che ha sostituito da qualche mese Mazzanti sulla piazza di Susa, hanno atteso inutilmente i rinforzi. Il gran dispiegamento di forze per la partita Juventus Real Madrid ha evidentemente reso più difficili gli spostamenti di truppe.
Così il cambio turno al cantiere fortino è saltato. Un granello di sabbia nell’ingranaggio della macchina dell’occupazione militare.
Nei prossimi giorni sono previste numerose assemblee tra Torino, Susa e S. Ambrogio in vista della manifestazione popolare del 16 novembre.

Ascolta la diretta fatta dall’info di Blackout con Mario del comitato No Tav di Susa
Mompantero.

Ascolta anche la diretta fatta da radio Onda d’Urto di Brescia a Maria del movimento No Tav

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CIE di Gradisca. Chiuso dopo la rivolta

1376753208360L’ultima rivolta che ha scosso il CIE di Gradisca ha portato a termine la distruzione cominciata in agosto, quando la struttura isontina era stata attraversata da rivolte, fughe e incendi.
Di oggi la notizia che il centro è stato completamente svuotato. Sin dal 4 novembre c’erano stati i primi trasferimenti a Torino e Milano, il giorno successivo 36 immigrati sono stati portati nel CIE di Trapani-Milo. Ieri pareva che qualche recluso sarebbe rimasto nel CIE, per alimentare l’illusione che la prigione per senza carte fosse ancora operativa. Oggi è caduta l’ultima foglia di fico. Il lager modello di Gradisca, costruito per impedire le fughe e le rivolte, ma, nel contempo anche per propagandare l’immagine di una struttura dal volto umano ha, nei fatti, chiuso i battenti. L’immagine da cartolina della propaganda governativa è andata in frantumi, distrutta dalla voglia di libertà di chi vi era chiuso dentro, dalla disumanità di gestori e guardiani, dalle tante fughe, dal fuoco delle rivolte, che lo hanno più volte danneggiato sino a renderlo inagibile.
L’ultima spallata p stata data nell’ultimo fine settimana di ottobre
Nella notte fra il 30 e il 31 ottobre: un gruppo di prigionieri, dopo un fallito tentativo di fuga, ha bruciato materassi, rotto vetrate e divelto alcune reti per protestare contro le condizioni di vita all’interno della struttura e per la lunghezza dell’internamento. I vigili del fuoco dichiareranno inagibili cinque stanze su otto mentre un paio di immigrati finiranno all’ospedale per un lieve intossicamento. I reclusi vengono costretti a dormire nei corridoi per terra senza materassi e al freddo. Un pugno di ferro adottato dopo le rivolte del febbraio-marzo 2011.
Questa volta non funziona.
Nella notte  fra il 1 e il 2 novembre e fra il 2 e il 3 novembre l’opera di distruzione del CIE viene completata con l’incendio alle camere rimaste agibili.

Sabato 9 novembre gli antirazzisti della Regione si sono dati appuntamento al carcere di Gorizia – ore 17 via Berzellini -, dove sono reclusi cinque immigrati arrestati dalla polizia tra l’estate e l’autunno per le rivolte nel CIE di Gradisca. Una manifestazione di solidarietà con loro e con tutti i detenuti.

L’info di Blackout ne ha parlato con Federico, un antirazzista triestino, impegnato da anni nella lotta per la chiusura del CIE. Grande la sua gioia nel darci la notizia che il centro era ormai vuoto.

Ascolta la diretta

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Spesa di guerra e baby pensionati con il mitra

fucileI festeggiamenti del 4 novembre, festa delle forze armate che coincide con la “vittoria” nella prima guerra mondiale, è stata segnata da parate militari e retorica patriottica, anche se in alcune località come Messina e Reggio Emilia vi sono state contestazioni e iniziative contro l’aumento delle spese militari.
Caccia, blindati, elicotteri, fregate: la spesa di guerra aumenterà in modo netto rispetto allo scorso anno. Grazie ad un trucco: i costi non ricadono sulla Difesa, ma sullo Sviluppo economico.
I fondi per l’acquisto di armamenti saranno 5,5 miliardi di euro, grazie al contributo del ministero dello Sviluppo Economico che mette a disposizione 2.182 milioni per comprare sistemi militari.

Nel paniere soprattutto i caccia europei Eurofighter. Molti sanno che il preventivo per gli F35, prodotti dalla Lockeed Martin in joint venture con Alenia ammonta a 12 miliardi di euro, meno noto il fatto che la spesa prevista per gli Eurofighter è di 21,1 miliardi di euro.
Nel corso del 2013 per comprare gli Eurofighter il ministero Sviluppo Economico spenderà 1182 milioni di euro, mentre quello della Difesa sborsa mezzo miliardo per gli F-35.
Ma è tutto il budget per le forze armate a essere cresciuto nel 2013: 14,4 miliardi di euro contro i 13,6 miliardi del 2012. Il Ministero dello Sviluppo Economico, acquisterà le fregate Fremm (5,6 miliardi per le prime sei); i blindati da combattimento Freccia (1,5 miliardi per 249 veicoli); i jet d’addestramento Aermacchi M-346 (220 milioni per la prima trance); i gadger elettronici per il “Soldato futuro” (800 milioni); gli elicotteri NH-90 di Esercito e Marina (3.895 milioni) e gli Agusta AW-101 dell’Aeronautica (740 milioni).
L’Esercito spende soprattutto per gli elicotteri: i grandi Chinook presi negli Usa costano 974 milioni. Poi ci sono 202 milioni per acquistare 479 camionette Lince con protezione migliorata. La Marina sta completando la nuova flotta di sottomarini: i quattro modernissimi U-212 costeranno 1.885 milioni. Il prezzo finale della portaerei Cavour sarà di 1.390 milioni. Le due ultime fregate Orizzonte consegnate invece verranno 1.500 milioni, con rate fino al 2020.
La spesa militare italiana è aumentata del 25% negli ultimi vent’anni. Soldi sottratti ad ospedali, trasporto locale, scuole, servizi.

Tra i tanti privilegi dei militari c’è la possibilità di andare in pensione a 50 anni con l’85% dell’ultima retribuzione e la possibilità di fare un altro lavoro cumulando le due entrate.
Un ulteriore segnale della progressiva militarizzazione della società, del ruolo sempre più ingombrante delle forze armate, chiamate ad una funzione disciplinare, in cui la distinzione tra guerra interna e guerra esterna diviene sempre più impalpabile.

Ascolta la diretta realizzata dall’info di Blackout con Stefano del Comitato contro Aviano 2000.

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Il business dell’educazione vaticana

religioneNon si è ancora spenta l’eco dell’aspra polemica che ha scosso il consiglio comunale torinese sulla vicenda dei “corsi sull’omosessualità” basati sulla concezione cattolica. Questi corsi, ormai cancellati, erano promossi dall’istituto privato Faa di Bruno, una delle tante scuole che a Torino ricevono lauti finanziamenti dal Comune.
Al di là di questa vicenda in cui entrano in collisione la libertà di espressione e la tutela della libertà di tutti e di tutte di esprimere il proprio orientamento sessuale, la questione vera è il finanziamento pubblico di scuole confessionali in funziona supplettiva degli istituti pubblici, decimati da tagli di spesa e di personale ormai da moltissimi anni. Il vecchio motto “chi crede in dio, se lo preghi e se lo paghi” non ha effetto sulle scelte di una classe politica, che dopo la diaspora democristiana, gioca le proprie fortune all’ombra del Vaticano. Un gioco facile quando al governo e all’opposizione si trovano gli eredi post-moderni della balena bianca.
Per capirne di più abbiamo deciso di fare i conti in tasca ai preti.
Per loro niente Imu se reinvestono gli utili, mezzo miliardo di euro all’anno di finanziamenti statali, altre decine di milioni da regioni e comuni. Più, ovviamente, le rette pagate dalle famiglie. Gli insegnanti di religione negli istituti pubblici, pur nominati dalla curia, vengono preti pagati dallo Stato, per fare propaganda cattolica dalle scuole per l’infanzia a quelle superiori. I preti a scuola ci costano un miliardo di euro all’anno.
Se a questo si aggiunge l’8% per mille, che, anche per chi non sceglie nessuna chiesa e nemmeno lo Stato, finisce con il versare alla chiesa, il quadro è completo.

Ascolta la diretta fatta dall’info di radio Blackout con Cosimo Scarinzi della CUB Scuola

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Fiamme al Picapera, fiaccolata a Vaie

Il presidio Picapera di Vaie non c’è più. Intorno alle 11 di venerdì 1 novembre è stato dato alle fiamme. Venne costruito alla fine del 2010, nella stagione di resistenza alle trivelle, per impedire un sondaggio geognostico, lo stesso luogo dove dovrebbe spuntare il treno, dopo un lungo tratto in galleria, era diventato punto di riferimento per la comunità di Vaie e per tutta la vasta comunità No Tav.

Il movimento ha immediatamente respinto al mittente la solidarietà pelosa dei parlamentari Si Tav Esposito e Napoli, dichiarando che i mandanti dell’incendio erano tra le file del governo, che appoggia e foraggia la lobby del cemento e del tondino, che ha fatto guadagni enormi con le grandi opere inutili finanziate con i soldi di tutti. Le amicizie tra il ministro della giustizia Cancellieri e la famiglia Ligresti, oggi sotto i riflettori dei media, non sono che l’ultimo esempio di una politica che, all’indomani del terremoto che ha pensionato la prima repubblica, ha individuato nell’alta velocità ferroviaria il canale dal quale attingere denaro senza correre rischi.

Un sistema pulito, semplice, basato sulla complicità bipartisan della destra e della sinistra, che solo in Val Susa ha incontrato l’unico grosso intoppo possibile: un grande movimento popolare, sordo alle lusinghe e forte di fronte alle minacce e alla repressione.

Quello di Vaie è il terzo presidio No Tav andato a fuoco. Prima era stata la volta di quelli di Bruzolo e Borgone. Quello di Borgone venne ricostruito subito, quello di Vaie lo sarà presto. Dopo la manifestazione popolare del 16 novembre, sia che la magistratura abbia tolto i sigilli, sia che non li abbia tolti, i lavori di ricostruzione riprenderanno.

È l’impegno preso dal comitato No Tav di Vaie, durante la fiaccolata per le vie del paese svoltasi domenica 3 novembre. Migliaia di No Tav sono scesi a Vaie per rafforzare il legame di solidarietà che unisce nella lotta chi resiste al supertreno. Chi resiste all’idea che questo mondo, queste relazioni sociali siano le uniche possibili.

Il giorno precedente, di fronte alle pareti annerite del presidio di Vaie, c’è stato il ricordo di Pasquale Cicchelli, un No Tav rispettato ed amato per il suo impegno nella lotta, prematuramente scomparso due giorni prima.
Possono bruciare i presidi, ma non possono bruciare i nostri cuori. Queste parole erano scritte sullo striscione che apriva la fiaccolata, tenuto dai bambini e dai ragazzi di Vaie. La lotta va avanti.
Appuntamento per tutti al corteo del 16 novembre a Susa

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16 novembre manifestazione popolare a Susa

16 novembreDisinformazione, menzogna esplicita, persino la calunnia sono state armi ampiamente usate contro il movimento No Tav. Gli attivisti di lungo corso non ne fanno certo una malattia: si vaccinano ogni anno al principio dell’autunno. Quest’anno il ceppo influenzale è particolarmente virulento.
Il tema è quello consueto. La tesi è sempre la stessa: la maggioranza dei No Tav sarebbe ostaggio di una minoranza di violenti. Il movimento è fatto di brave persone disponibili a manifestare pacificamente, senza provare ad inceppare i meccanismi del cantiere. Suonano questa canzone con infinite variazioni da moltissimi anni, ma non riescono mai a darle la giusta intonazione. Il movimento li ha sempre smentiti. Con le parole e, soprattutto, con i fatti.
Continued…

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19 ottobre. Note a margine

Roma-in-corteo-Sabato-19-ottobre-2013Il leninismo fluido del secondo millennio
Lenin si collocava agli incroci di un labirinto dove si intersecavano il vecchio autoritarismo di marca giacobina, il partito come avanguardia cosciente e ristretta, l’idea della rivoluzione come sommovimento da guidare, indirizzare in una transizione tutta collocata nel dopo. Utopia da venire, destinata a scontrarsi con il realismo di un processo che doveva trovare il proprio compimento storico in un domani inattingibile nell’immediato. La rottura rivoluzionaria, nella prospettiva leninista, non attuava il domani desiderato ma assegnava al partito padrone e padrino il compito di determinarne i tempi e i modi.
Il leninismo si compie fondendosi con la tradizione burocratica, ossessiva, gerarchica della vecchia Russia. Si compie nel sangue di chi non aveva compreso dove andasse la storia e, soprattutto, dove si dirigessero coloro che si erano assunti il compito di aiutarla a compiersi.
Le distopie owelliane ancora oggi sono il migliore specchio della prima parte del secolo breve.
C’é chi descrive Orwell come vaticinatore del nostro oggi. Secondo quest’approccio l’evoluzione della tecnica sarebbe all’origine del grande fratello globale, dettato dalle leggi della pubblicità mercantile, capace di irretire con la seduzione piuttosto che obbligare con la violenza.
Orwell era un mero cronista dei propri tempi: non pensava al futuro ma raccontava, giocando con i numeri, il suo 1948. L’asfissiante burocrazia di “1984” evoca gli scenari cupi dell’agrimensore K, più che satelliti, droni, telecamere, microchip che seminano ovunque la propria bava elettronica. Il Grande Fratello ti tortura con ferocia, ma piegarti non gli basta, vuole anche sedurti. Il modello, insuperato, di sadismo seduttivo è il Dioniso delle Baccanti di Euripide, che lascia sbranare la sua vittima solo dopo averla sedotta. Senza seduzione non c’é piacere. Né solido potere.
Orwell racconta l’Unione Sovietica, è un pittore dei totalitarismi del secolo breve, la sua non è narrativa di anticipazione. Winston Smith è uno stralunato testimone dei suoi tempi, un’eco dei processi staliniani. Anni luce dal nostro oggi.
Il Novecento, con il partito di massa, con Stalin, Mussolini, Hitler mette in campo dinamiche collettive dove la seduzione puntella e mantiene stabile l’organizzazione gerarchica.
Per la prima volta i mezzi di comunicazione fanno da megafono ai dittatori, ne espandono il potere seduttivo, al di là delle adunate, delle grandi folle che riempiono le piazze.

Oggi gli eredi di quel percorso, pur ambendo a dirigere il processo di trasformazione non riescono più a riproporre con efficacia il modello partito.
La fluidità, caratteristica dei movimenti a cavallo tra i due millenni, rende difficile ripensarne una riedizione, sia come partito della rottura rivoluzionaria, sia come struttura interna alle dinamiche istituzionali democratiche.
La potente ondata libertaria che, nelle proprie innumeri articolazioni, ha attraversato gli ultimi quarant’anni, è a tal punto pervasiva che nemmeno gli eredi della tradizione autoritaria dei movimenti di emancipazione sociale, possono spazzarla via con la sicumera di chi cavalca il destriero della Storia. Specie quando il nobile animale ha da tempo disarcionato i propri cavalieri. La metafora dell’orgoglio equino ci racconta di un tempo che non soggiace né ad una filosofia della storia, né, tanto meno, a chi vuole piegare gli eventi al disegno dei filosofi.
Nel nostro paese la diaspora seguita alla dissoluzione di Rifondazione Comunista non pare trovare approdi né terre promesse, solo una lunga deriva senza prospettive. Si potrebbe dire che l’eccesso di realismo che portò la compagine bertinottiana dentro il governo Prodi, si è dimostrato un boomerang, che è rimbalzato con violenza abbattendo chi l’aveva lanciato. Sel, che ne ha raccolto l’eredità, si tiene in bilico tra ambizioni movimentiste e struttura partito, facendo leva sul carisma del leader. Più di recente l’esperienza di ALBA è rovinosamente naufragata nella triste avventura elettorale di “Rivoluzione civile”. Poche gambe sembra avere Rossa, nonostante l’appoggio della componente sconfitta della Fiom.
La normalizzazione della stessa Fiom nell’universo della CGIL targata Camusso, non ha avuto ricadute esclusivamente sindacali, ma significativamente politiche. La fine della cosiddetta anomalia Fiom ha dissolto l’illusione che il sindacato potesse avere un ruolo suppletivo del partito ormai decomposto. Un ruolo che, per le aree post autonome e post disobbedienti, era essenzialmente di tutela politica in campo istituzionale. In una sorta di patto non scritto, gli uni garantivano una sponda movimentista agli altri, che a loro volta svolgevano un ruolo di mediazione importante per la salvaguardia dei loro spazi materiali e simbolici di azione politica e sociale.
Il venir meno di un meccanismo informale ma efficace di tutele ha scompaginato il quadro.
Il moltiplicarsi dei meccanismi disciplinari messi in campo dai governi per contenere e bloccare ogni insorgenza sociale, mutano le condizioni dello scontro, che si fa più crudo, senza troppi spazi di mediazione.
Due anni fa, in occasione della manifestazione del 15 ottobre 2011, il tentativo di alcune aree della diaspora post comunista e del sindacalismo di base di assumere una leadership da spendere sul piano elettorale, si dimostrò fragile, incapace di controllare una piazza che gli sfuggì di mano, sino agli scontri di piazza San Giovanni, ai caroselli dei blindati, alla violenza di Stato.
Quella piazza divenne lo specchio delle convulsioni che attraversa(va)no l’opposizione politica nel nostro paese.
Piazza San Giovanni e l’intera giornata del 15 ottobre 2011, furono una grossa fiammata in un barile pieno di benzina, che non si estese ma si consumò in se stesso.
Se non fosse per la repressione durissima, per le condanne pesanti inflitte, per i procedimenti in corso che rischiano di ricreare uno scenario simile a quello che seguì il G8 di Genova, quel giorno sarebbe stato da tempo archiviato.
A due anni da quell’ottobre le aree post autonome hanno deciso di giocare nuovamente la carta romana. Dopo un’estate non facile sui fronti di lotta del Tav in Val Susa e del Muos in Sicilia, hanno provato l’operazione complessa di estendere l’appuntamento dei movimenti di lotta per la casa, che a Roma hanno caratteristiche ampie e radicate, ad altre tematiche: disoccupazione, precarietà, reddito, difesa del territorio. Il ponte tra lo sciopero dei sindacati di base del 18 ottobre è riuscito, quello con i No Tav e i No Muos è rimasto su un piano meramente simbolico, senza una significativa partecipazione alla manifestazione.
La scommessa persa il 15 ottobre 2011 dalle aree istituzionali del litigioso arcipelago della cosiddetta sinistra radicale, è stata invece vinta il 19 ottobre di quest’anno. Grandi numeri e grande controllo della piazza. L’operazione “contenitore” questa volta ha funzionato. Continued…

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