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Scene di guerra ad Istanbul

Demonstration in IstanbulErdogan procede senza pietà. A pochi giorni dallo sgombero di piazza Taksim è terminata nel sangue la tregua con gli occupanti del parco Gezi.
Il 15 giugno la polizia è intervenuta con estrema violenza. Erdogan aveva dichiarato che avrebbe trattato da “terroristi” i manifestanti che difendevano il parco. Così è stato.
La polizia non ha lasciato scampo agli occupanti di Gezi: quando è partito lo sgombero la gente era accampata e i bambini giocavano tra gli alberi.
Gezi è stato coperto da una nuvola di gas lacrimogeni particolarmente tossici. L’infermeria del parco è stata attaccata e distrutta per prima ed i medici che curavano i feriti sono stati arrestati.
Diversi medici hanno ipotizzato che nell’acqua sparata dagli idranti della polizia ci fossero agenti chimici. Molte fotografie mostrano strane piaghe provocate dall’acqua della polizia.
Su internet sono uscite le foto di agenti turchi che caricano i cannoni ad acqua con taniche blu con la scritta ‘Jenix’. Si tratta di un urticante venduto in Turchia, secondo il sito che lo commercializza, a militari, polizia e gendarmeria. Le foto delle taniche di prodotti chimici sono state scattate da attivisti italiani che le hanno pubblicate su internet.
Non si contano i bambini feriti, i  medici arrestati, i manifestanti pestati a sangue e portati nelle caserme. La polizia ha sparato lacrimogeni anche in alberghi e ristoranti: quelle che arrivano dal cuore di Istanbul sono immagini di guerra. Ad Ankara l’antisommossa ha dato l’assalto al funerale di un manifestante ucciso. Sulle reti sociali centinaia di fotografie denunciano la brutalità della polizia.
Le centinaia di agenti antisommossa non hanno risparmiato nessuno in tutta la zona. E’ stata presa d’assalto la hall dell’Hotel Divan, dove molti ragazzi e famiglie si erano rifugiati, e dove diversi dottori curavano i feriti. Gli agenti hanno sparato gas lacrimogeni nello spazio chiuso, provocando malori e soffocamento. La gente disperata e disorientata ha cercato la fuga ai piani superiori. I medici sono stati portati via.
Ad un parlamentare dell’opposizione non è bastato mostrare la tessera da deputato agli agenti: è stato picchiato a sangue, un poliziotto gli ha spaccato il naso con un colpo di elmetto.

Domenica 16 giugno.
Il ponte sul Bosforo è stato chiuso per impedire agli oppositori di raggiungere piazza Taksim.
Nel pomeriggio sono previste due manifestazioni contrapposte, una dei sostenitori del primo ministro Tayyp Erdogan, l’altra di chi lotta contro la gentrification, la speculazione, l’islamizzazione forzata, la chiusura di ogni spazio di libertà.
Scontri con la polizia sono segnalati nel quartiere alawita di Gazi, a Sisli, Kurtulus e Harbiye.

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Una soffocante normalità

normalitaIl tema dei matrimoni omosessuali è stato al centro del recente Pride di Torino, che gli organizzatori hanno dedicato al tema della famiglia.
Nel Pride subalpino hanno trovato spazio anche altre voci, quelle dei senza famiglia che si sono raccolti intorno allo spezzone “FAMoLo!”.
Qui potete leggere sia il testo dell’appello del FAMoLo!, sia il testo che abbiamo distribuito al Pride.
Anarres ne ha parlato con Ricke, femminista e lesbica, che ha posto l’accento sul problema culturale che le richieste di riconoscimento da parte dello Stato comporta. Il voler vincolare l’accesso ad alcuni diritti negati come la pensione di reversibilità, l’adozione di bambini, gli assegni familiari al matrimonio, stringe in una gabbia normativa le relazioni, gli affetti, la sessualità. La richiesta di potersi sposare, il parlare, al singolare, di famiglia comporta l’adeguamento al modello eterosessuale, monogamico, in cui la “famiglia” è data dall’unione di due persone con i loro figli.
L’imporsi di questo modello culturale cancella la pluralità degli approcci individuali e collettivi che attraversano il movimento glbt e gli stessi eterosessuali.
Questa “voglia di normalità”, questo desiderio di poter celebrare di fronte allo Stato, ai parenti, agli amici un rito di passaggio che dia crisma di “ufficialità” ad una relazione tra persone segnala l’impasse nella quale si è bloccato il movimento glbtq e, prima, quello femminista.
Pur lasciando a preti e fascisti il definire chi può e chi non può accedere ad un riconoscimento della propria unione, resta, pesante, sul piatto il problema che la libertà di accesso a certi diritti dovrebbe essere separata dall’adesione ad un ideale normativo soffocante.
Se la questione è in primo luogo culturale, solo la valorizzazione della diversità dei percorsi può sciogliere un nodo che rischia di divenire un cappio al collo per tutt*.

Ascolta la chiacchierata con Ricke

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Afganistan. Finita una missione ne comincia un’altra

Soldati-italiani-in-AfghanistanLa guerra in Afganistan torna visibile solo quando un ben pagato professionista muore sul lavoro. Per chi fa il mestiere delle armi ci sono i funerali di Stato, le condoglianze del presidente della repubblica Napolitano, la rituale commemorazione in parlamento.
Un rituale antico per trasformare in eroe un mercenario. Uccidere è un crimine se lo si fa per se stessi, chi ammazza in nome dello Stato e della Patria compie una nobile missione.
Una missione che, dopo dieci anni di bombe, torture, occupazione militare continua ad essere descritta come intervento di pace.
Una lucida menzogna.
L’intervento degli italiani in Afganistan dovrebbe terminare nel 2014: i 3100 militari impegnati nella missione ISAF dovrebbero ritirarsi.
Nonostante il parlamento ufficialmente non ne sappia nulla, ed ancor meno ne sanno i cittadini, finita una missione ne comincia un’altra.
L’Italia si è già impegnata a contribuire militarmente a Resolute Support, la missione della Nato che dall’inizio del 2015 sostituirà la missione Isaf (International Security Assistance Force).
Lo ha detto Chuck Hagel, segretario alla Difesa degli Stati uniti, al termine del vertice interministeriale della Nato che si è tenuto il 4 e 5 giugno a Bruxelles.
Gli Stati Uniti continueranno a essere il paese con il maggior impegno militare in Afganistan.
La missione Resolute Support prevede infatti la divisione dell’Afganistan in diverse aree geografiche di competenza, le stesse in cui sono impegnate oggi: agli Stati uniti spetterà la responsabilità delle attività nelle aree meridionali e orientali; alla Germania l’area settentrionale, all’Italia la parte occidentale. La Turchia potrebbe “coprire” la zona di Kabul.
Sebbene il ministro della Difesa, Mario Mauro, non abbia ancora illustrato i termini dell’impegno assunto a Bruxelles, pare che il contingente italiano sarà di circa 1800 soldati e soldate.
Al centro della “nuova” missione l’addestramento di truppe afgane e la “giustizia”. Gli stessi obiettivi ufficialmente perseguiti nei 12 ammi precedenti.
La “leggerezza” del governo nell’assumere decisioni così importanti ha radici lontane. La guerra per l’Afganistan è stata approvata in modo bipartisan da tutti i governi che si sono succeduti in questi anni. Non solo. Si è ormai consolidata l’attitudine dell’esecutivo ad assumere decisioni, senza neppure sottoporle al dibattito parlamentare.

Anarres ne ha parlato con Stefano, un compagno del comitato contro Aviano 2000.
Ne è scaturita una chiacchierata a tutto campo. Al di là dell’informazione una riflessione sulla scarsa incidenza delle lotte antimilitariste nel nostro paese, in cui sono cessate persino le manifestazioni meramente testimoniali che avevano segnato l’avvio della guerra in Iraq.
Eppure, è bene ricordarlo, l’Italia è una gigantesca piattaforma logistica per le guerre del ventunesimo secolo. Le basi di queste guerre, la caserme, gli aeroporti, i poligoni di tiro sono a due passi dalle nostre case.

Ascolta la chiacchierata con Stefano

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Una piazza antirazzista

DSCN0026Venerdì 14 giugno, largo Saluzzo. Un’ottantina di persone hanno animato l’iniziativa antirazzista promossa dalla Cub in largo Saluzzo.
All’assemblea di piazza hanno partecipato i ragazzi dell’ANPI della zona, che hanno raccontato della necessità che la memoria della Resistenza si coniughi con le lotte per le libera circolazione dei migranti. C’erano anche due studenti dello YUC, che hanno parlato della loro ricerca sulle vite dei migranti nella nostra città. Importante la testimonianza del collettivo antirazzista saluzzese sulle lotte dei braccianti nel distretto della frutta in provincia di Cuneo, una Rosarno del nord, tra baraccopoli, razzismo e lotta per la dignità e il salario.
Nel suo intervento l’esponente della CUB immigrazione ha parlato del CIE di corso Brunelleschi, tra autolesionismo, rivolte e fughe.
Ha concluso l’assemblea un’esponente di “antirazzisti contro la repressione”, parlando delle lotte che cinque anni fa segnarono il percorso breve ma intenso dell’assemblea antirazzista torinese. Le tante iniziative contro i CIE, le politiche securitarie, il pacchetto sicurezza, il razzismo di Stato entrate nel mirino della magistratura che ha rinviato a giudizio in due mega processi 67 antirazzisti.
La giornata si è conclusa con la performance di strada “Ti ricordi di Fatih?” dedicata al tunisino morto nel CIE di Torino nella notte tra il 23 e il 24 luglio 2008.

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Elezioni. La diserzione

voto-italia1Il centro sinistra vince 11 ballottaggi su 11 nei capoluoghi di Provincia, che si aggiungono ai 5 aggiudicati già al primo turno.
Una vittoria secca nei confronti del PDL e della Lega, con cui si giocavano i confronti in questo secondo turno.
Il dato più macroscopico è però l’astensione. Al primo turno aveva votato il 59% degli aventi diritto, al secondo le cifre sono al di sotto del 50%. Oltre undici punti percentuali in meno.
E’ la bocciatura di un intero sistema politico, che alle elezioni parlamentari dello scorso febbraio era stata in parte assorbita dal voto al M5S, il cui secco ridimensionamento è stato chiaro sin dal primo turno di questa tornata elettorale.
Il centrodestra perde roccaforti come Imperia, Brescia e Treviso.
Il PDL senza Berlusconi non ce la fa a recuperare e si attesta sulle percentuali indicate dai sondaggi prima del ritorno del Cavaliere e del suo numero ad effetto sull’IMU.
Anche in Sicilia si delinea una vittoria del centrosinistra sia sul centrodestra sia sul Movimento 5 stelle. A Catania Enzo Bianco ha vinto al primo turno. A Messina, il candidato del centrosinistra Felice Calabrò non ce l’ha fatta al primo turno per un pelo. I candidati del centro sinistra sono avanti in tutte le province, il Movimento 5 stelle va al ballottaggio solo a Ragusa.
Queste le cifre di questo secondo test elettorale dopo quello, del medesimo segno, delle elezioni in Friuli.
La decodifica dei numeri ci consegna l’immagine di un paese che si sta staccando dalle dinamiche della delega istituzionale. Tra il trionfo di Ignazio Marino e la secca sconfitta di Francesco Rutelli ci sono dodicimila voti. Rutelli perse prendendo più voti di quelli con i quali Marino si è aggiudicato la poltrona di sindaco di Roma.
Appare evidente che la spinta genuinamente libertaria alla partecipazione diretta, che è stata tra le ragioni del successo del Movimento 5 Stelle, a due mesi dalle elezioni politiche si è tradotta in astensionismo. Se a questo si aggiunge il bisogno irrealizzato di concretezza, l’esaurirsi della spinta impressa al PDL da Berlusconi, la fine della Lega, frantumata da un elettorato tristemente egoista e razzista ma anche più moralista di quello del Cavaliere, si spiega il successo del PD, che oggi gode della maggioranza del 49 e rotti che sono andati alle urne.
Tutta da verificare la capacità di intraprendere altri percorsi dei tanti che hanno scelto la diserzione.
Ascolta l’intervista realizzata dall’info di Blackout con Massimo, un buon analista delle vicende politiche di casa nostra

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Melfi. L’ultima vendetta

Fiat-a-Melfi-cade-un-muro-quello-del-silenzio_h_partbViolenza privata e turbativa della libertà dell’industria. Secondo la Procura della Repubblica di Melfi è di questo che dovranno rispondere i tre operai dello stabilimento lucano della Fiat nel processo che comincerà il 5 dicembre. Il decreto di citazione a giudizio, infatti, non lascia spazio a dubbi sul convincimento del pm: la notte fra il 6 e il 7 luglio 2010 – durante uno sciopero – Giovanni Barozzino, Antonio Lamorte e Marco Pignatelli, avrebbero bloccato «volontariamente e consapevolmente» la produzione.
Dopo tre anni e tre sentenze dei giudici del lavoro questa vicenda assume un profilo di carattere penale.
Gli operai dopo lo sciopero furono denunciati dalla Fiat e poi licenziati perchè, secondo l’azienda torinese, avrebbero sabotato la produzione durante uno sciopero interno, bloccando di fatto i carrelli che rifornivano le linee, e quindi il lavoro dei colleghi che non stavano scioperando. Nei giorni successivi, a sostegno dei tre operai ci furono manifestazioni e proteste contro la decisione del Lingotto.
Il giudice del lavoro, il 10 agosto, li reintegrò, ma la Fiat il 21 agosto 2010, con un telegramma comunicò che «non si sarebbe avvalsa delle prestazioni» dei tre lavoratori, estromettendoli quindi dalla produzione dopo la pausa estiva, e concedendo loro una saletta per l’attività sindacale. La sentenza però fu completamente ribaltata da un secondo giudice del lavoro il 14 luglio 2011, che diede ragione alla Fiat, licenziando nei fatti Barozzino, Lamorte e Pignatelli. Effetto del ricorso fu un nuovo «ribaltone» giuridico: la Corte di Appello di Potenza nel 2012 ha ordinato alla Fiat il reintegro poichè «non ci sarebbe stata nessuna volontà diretta a impedire l’attività produttiva». L’iter civile della vicenda dovrebbe concludersi il prossimo 13 giugno, con una decisione della Cassazione.
La decisione del PM di Melfi, Renato Arminio, è di fatto un’entrata a gamba tesa volta a criminalizzare una normale pratica di lotta.
Se lo sciopero non fa male al padrone, se non blocca la produzione è inutile.
Colpire con un rinvio a giudizio per violenza privata chi lotta è un avvertimento chiaro per tutti i lavoratori. Chi ferma la produzione non rischia solo il posto, rischia la galera.
L’ultimo colpo di piccone alla libertà di sciopero a meno di quindici giorni dall’accordo sulla rappresentanza che vieta di scioperare contro gli accordi tra CGIL, CISL, UIL e le organizzazioni dei padroni.
L’informazione di radio Blackout ha realizzato una diretta con Simone Bisacca, avvocato del lavoro.
Ascolta il suo intervento

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Turchia. La polizia attacca, la gente resiste

606x341_227842_turchia-polizia-controlla-piazza-taksimMartedì 11 giugno. Sin dalle prime ore dell’alba è partito l’attacco agli occupanti di piazza Takism. La polizia in un primo tempo aveva dichiarato di voler sgomberare la sola piazza, senza toccare il parco Gezi.
L’opposizione alla distruzione del parco e dei suoi seicento alberi è stata la scintilla della rivolta contro il governo che da due settimane scuote la Turchia.
La difesa degli alberi e l’opposizione alla costruzione dell’ennesima moschea e di un centro commerciale nel guscio di una caserma ottomana si è trasformata in un vasto movimento di opposizione alle politiche del governo.
Dopo ore di attacchi violentissimi alla piazza che resisteva la polizia ha cominciato a sparare lacrimogeni anche nel parco. I quattro presidi medici che vi erano stati installati sono stati obbligati a sgomberare. Numerose persone sono state ferite da candelotti sparati mirando ai corpi dei manifestanti.
I feriti sarebbero cento, di cui cinque versano in gravi condizioni.
Le notizie diffuse dai media e i comunicati dei compagni parlano di circa 120 arresti.
Tra gli arrestati anche cinquanta avvocati impegnati nella difesa dei manifestanti.
La repressione è durissima: da un comunicato diffuso dai compagni di Azione Anarchica Rivoluzionaria – Devrimci Anarşist Faaliyet – apprendiamo che la polizia ha sparato “lacrimogeni dentro la metropolitana, per impedire ad altri compagni di raggiungere la piazza”. Sono in corso perquisizioni nelle sedi dei partiti e delle organizzazioni di opposizione. Durante l’irruzione in quella del partito socialista la “polizia ha ammanettato e brutalmente picchiato i resistenti mentre li arrestava”.
Torture e stupri verso chi cade nelle mani della polizia sono molto frequenti in Turchia. Lo denunciano attivisti dei diritti umani e prigionieri usciti dalle caserme e dalle carceri.
Il capo del governo Erdogan, dopo alcuni giorni di calma tesa, ha deciso di sferrare l’attacco alla piazza simbolo di una rivolta che sta divampando nei maggiori centri del paese.
Sin da ieri Erdogan, in diversi discorsi incendiari davanti ai militanti del suo partito, l’Akp, ha di nuovo denunciato complotti, accusato “lobby finanziarie” di speculare destabilizzando il paese, descrivendo come «vandali» e «terroristi» le centinaia di migliaia di giovani che lo contestano.
In Turchia le libertà formali sono sancite da tutte le costituzioni di epoca repubblicana sin dal 1924, tuttavia possono essere sospese in nome della lotta al “terrorismo”. L’utilizzo della categoria “terrorismo” è molto esteso ed investe ogni forma di dissenso. Oltre ottanta giornalisti sono in galera per aver dato voce all’opposizione al governo islamico.
Ieri Edogan aveva dichiarato che la pazienza del governo «ha dei limiti» e che presto «parlerà il solo linguaggio che capiscono».
Alle parole sono seguiti i fatti.
Oggi Erdogan ha detto di voler riprendere con la forza il controllo di una situazione che gli sta(va) sfuggendo di mano.
Secondo un sondaggio diffuso nei giorni scorsi se si votasse oggi Erdogan sarebbe ben lontano dal plebiscito con il quale è stato rieletto nel 2011.
Il quadro turco è molto complesso, poiché assomma la protesta contro il restringimento le libertà civili, specie quelle femminili, e la resistenza alle politiche di gentrification che stanno modificando profondamente le città turche, dove la rapida crescita degli ultimi anni ha alimentato una vasta bolla immobiliare.
Per la prima volta il sapiente miscuglio di tradizione e sviluppo tipico dell’era Erdogan viene spezzato, portando in piazza sia la vecchia guardia kemalista, sia componenti islamiche dissidenti, che socialisti ed anarchici. La partita è aperta.

Aggiornamento delle 18. Migliaia di persone stanno convergendo su piazza Taksim. Anche ad Ankara il centro cittadino si sta riempiendo di manifestanti.

Mercoledì 12 giugno. Dopo il violento sgombero di ieri, in serata piazza Taksim si è riempita di decine di migliaia di manifestanti che si sono scontrati con la polizia per tutta la notte. Centinaia di agenti anti-sommossa con mezzi blindati, cannoni ad acqua e gas lacrimogeni, hanno combattuto per otto ore contro le decine di migliaia di manifestanti tornati sulla piazza simbolo della rivolta di queste settimane.
Duri scontri nella notte anche ad Ankara.

Ascolta la diretta realizzata da radio Blackout con Stefano, un compagno che analizza le dinamiche della rivolta contro il governo di Erdogan.

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Saluzzo. Braccianti sotto sgombero

saluzzoMartedì 11 giugno. Dal 5 giugno era ormai esecutiva l’ordinanza del sindaco Allemano che sanciva lo sgombero dell’area dietro il Foro Boario a Saluzzo. Alternative non se ne vedono, il paradosso è il solito. Non ci sono le condizioni igienico-sanitarie minime perché gli immigrati abitino quell’area, allo stesso tempo però quelle braccia a basso costo servono. Soluzione: si accampino alla spicciolata senza creare problemi che acquistino una dimensione pubblica, si rendano più invisibili.
Riportiamo di seguito il comunicato diffuso su facebook dal Comitato antirazzista:
“150 migranti giunti per la raccolta della frutta e accampati sotto teli di fortuna non hanno trovato posto nelle strutture. Molti di loro non hanno un luogo dove stare dopo la chiusura, il 28 febbraio di quest’anno, dei campi per l’emergenza Libia. Un telo, un cartone bagnato e la speranza di un lavoro nella campagna della frutta sono le uniche cose che gli rimangono. Portiamo la solidarietà adesso.”
Nonostante la trattiva aperta con il comune all’alba dell’11 giugno si è presentata la polizia in assetto antisommossa per attuare lo sgombero della tendopoli. Sul posto sono accorsi alcuni solidali che hanno bloccato la strada per impedire ai camion dell’azienda per la raccolta dei rifiuti di entrare nel campo e alcuni avvocati che sono riusciti ad entrare.

Ascolta la diretta con Lele del Comitato antirazzista di Saluzzo realizzata dall’info di Blackout

Mercoledì 12 giugno
Ieri la polizia si è “limitata” a portare via le tende, senza cacciare i braccianti dall’area. Tutti gli immigrati hanno un permesso di soggiorno: sono in parte ragazzi reduci dall’emergenza nordafrica, altri vengono dalle regioni dell’est dove la crisi ha buttato in strada molti lavoratori stranieri, obbligandoli a migrazioni stagionali. Quest’inverno nella piana di Gioia Tauro, in estate in provincia di Cuneo.
Il comitato antirazzista ha cominciato una trattativa con il comune per avere un altro spazio, migliore, perché dotato di allacciamento elettrico e idrico.
I lavoratori e i solidali sono decisi a resistere e ad impiantare lì o altrove un nuovo campo.
Fanno appello alla solidarietà per le tende e alcuni tendoni per le cucine autogestite.
Venerdì 14 giugno una delegazione sarà a Torino nell’ambito della festa antirazzista promossa dalla CUB in largo Saluzzo. Appuntamento alle ore 18.

Ascolta l’aggiornamento di Lele
Qui puoi vedere il servizio del Fatto Quotidiano realizzato prima dello sgombero
Qui un articolo scritto da Lele per il blog Terre Libere, in cui viene raccontata la dinamica che porta allo sgombero.

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Uno sguardo sui Balcani

bab2013-3Si è svolta due settimane fa a Lubiana l’annuale fiera del libro anarchico. All’edizione di quest’anno, particolarmente ricca, hanno preso parte compagni provenienti da tutti i balcani e da diversi paesi dell’Europa occidentale. Un’occasione di confronto e scambio di idee ed esperienze molto preziosa, culminata con un corteo spontaneo per le strade della capitale slovena. In Slovenia da molti mesi si è sviluppato un movimento di opposizione alle politiche governative sul modello delle piazze “occupy” che da un paio di anni hanno segnato le pratiche politiche di movimenti trasversali, plurimi, attraversati da forti tensioni libertarie di partecipazione diretta, pur in un quadro rivendicativo che raramente assume caratteristiche di rottura radicale. Il confronto è stato molto interessante anche con i compagni serbi, macedoni, bulgari che vivono situazioni caratterizzate dalla crescita della destra, dalle spinte di opposti nazionalismi e da latenti tensioni sociali.
Erano presenti all’incontro di Lubiana anche numerosi anarchici greci, con i quali è stato fatto il punto della situazione nel paese.
Anarres ne ha parlato con Simone, un compagno che conosce bene la situazione ellenica.
In Grecia metà degli abitanti vivono nella capitale, campando di servizi e di sfruttamento delle braccia a basso costo degli immigrati. Oggi gli ateniesi non hanno le risorse per pagarsi le derrate alimentari, che marciscono nelle zone agricole.
Sul piano politico, dopo l’affensiva di quest’inverno contro gli spazi occupati di Atene, gli anarchici sono riusciti a bloccare l’ondata di sgomberi ed hanno fatto nuove occupazioni.
Il quadro che emerge dai loro racconti ci disegna un paese dove la povertà investe fasce sempre più larghe di popolazione, la disoccupazione è alle stelle e la scommessa di costruire percorsi di autogestione che sappiano offrire una chance di sopravvivenza fuori dal capitalismo stentano a radicarsi. Arginare il radicamento sociale dell’estrema destra, che gode di ampi appoggi ed offre derrate alimentari ed appoggio su base etnica, significa uscire dalla dicotomia tra scontro diretto e sottrazione senza conflitto. Una prospettiva con la quale è possibile che a breve ci ritroveremo a fare i conti anche in Italia.

Ascolta l’intervento di Simone

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Accordo sulla rappresentanza e scontro di classe. Riflessioni a margine

lotta-di-classeL’accordo sulla rappresentanza sindacale sottoscritto da Cgil,‭ ‬Cisl,‭ ‬Uil e Confindustria il‭ ‬31‭ ‬maggio‭ ‬2013 è una corda al collo dei lavoratori.
Sono state stabilite nuove regole per misurare la rappresentatività delle organizzazioni sindacali e per dare “certezza” agli accordi sindacali, che una volta approvati e ratificati a maggioranza semplice varranno coattivamente per tutti.
Nessuno potrà scioperare contro un contratto non condiviso. Nuovi lacci imbriglieranno il diritto di sciopero e chi non rispetterà i paletti fissati da sindacati di Stato e Confindustria incorrerà in sanzioni. Solo i sindacati firmatari dell’accordo saranno ammessi ai tavoli di trattativa a qualsiasi livello.
Ai sindacati sottoscrittori del Patto verrà misurata la rappresentatività‭ ‬incrociando i dati‭ ‬ “fra le percentuali degli iscritti‭ ‬(dedotte dalle ritenute in busta paga‭) ‬e le percentuali dei voti ottenuti nelle elezioni delle RSU con un peso pari al‭ ‬50%‭ ‬per ognuno dei‭ ‬due dati‭”‬.‭ ‬Nel settore privato spesso le aziende rifiutano la ritenuta‭ ‬sindacale in busta paga ‬garantita solo alle organizzazioni sindacali firmatarie dei CCNL.
Inoltre per poter partecipare alle contrattazioni collettive nazionali,‭ ‬oltre ad essere sottoscrittori del patto,‭ ‬dovranno avere il‭ ‬5%‭ ‬di rappresentanza sulla base degli stessi criteri.
L’acccordo inoltre prevede l’estensione alle aziende private‭ ‬della pratica del‭ “‬raffreddamento‭”‬,‭ per cui non sarà più possibile proclamare semplicemente lo sciopero quando e come si vuole.
Lo scopo di questo accordo è ricompattare i sindacati confederali e garantire loro il‭ ‬“monopolio‭”‬ della rappresentanza sindacale.
Per quale ragione la principale organizzazione padronale, dopo aver cercato di spingere fuori dalla stanza dei bottoni CGIL CISL e UIL ha lavorato per mesi ad un accordo che ne rileggitima il ruolo?
Forse l’acuirsi della crisi e delle tensioni sociali suggerisce prudenza a Confindustria? Forse una qualche forma di mediazione sociale per far ingoiare bocconi sempre più amari ai lavoratori è nuovamente necessaria?
In tal caso, basterà l’utilizzo‭ ‬ degli accordi e delle leggi come‭ “‬camicia di forza‭” ‬per impedire le lotte sociali‭?

Anarres ne ha discusso con Claudio dell’Unione Sindacale Italiana. Ne è scaturito un confronto a tutto campo che ha investito limiti e prospettive dell’esperienza sindacale di base, per poi spaziare sulla necessità di una sottrazione conflittuale dalla macchina capitalista come tassello di una lotta che sa coniugare radicalità dello scontro e concreti percorsi di autogestione.

Ascolta la diretta

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Stoccolma. Alle radici della rivolta

HUSBY 20130520 Oroligheter i Husby då ett 100-tal ungdomar kastade sten mot polis och satte eld på sju bilar under natten mot tisdag, 20 maj 2013. Foto: Alexander MahmoudCorrispondenza da Stoccolma. I sobborghi nordovest e sud ovest della capitale svedese sono stati teatro di scontri dal 20 al 25 maggio 2013.
In sintesi le cifre della rivolta.
Oltre 50 le auto bruciate a Stoccolma, alcune decine sono andate in fumo ad Orebro.
2 commissariati di polizia sono stati attaccati e vandalizzati uno a Jakobsberg (Stoccolma), il secondo a Orebro (ciità a circa 100 km dalla capitale svedese).
2 scuole bruciate a Stoccolma e Orebro.
30 le persone arrestate per la rivolta a Stoccolma.
L’età media degli arrestati si aggira sui 20 anni.

Anarres ne ha parlato con un compagno, che a vissuto a lungo in Svezia, ed oggi vi è tornato per lavoro.
Ascolta la diretta

Lo scenario. Nella zona Nord Ovest di Stoccolma ci sono i quartieri di Husby, Jakobsberg, Rinkby, Tensta, a Sud Est quelli di Jakobsberg e Norsborg. In questi quartieri c’è un’alta presenza di immigrati dove la percentuale di disoccupati è decisamente maggiore di quella della popolazione di origini svedesi (il 16,5% tra gli immigrati, il 5,7% tra gli svedesi).
La Svezia è il paese simbolo della socialdemocrazia, negli anni della guerra fredda una sorta di terza via tra socialismo e capitalismo. Dal 1990 è cominciata un’ondata liberista che ha lentamente corroso dall’interno l’ organizzazione sociale dei decenni precedenti.
Tuttavia la facciata del modello sociale svedese resta, i quartieri periferici non hanno le caratteristiche di degrado urbano tipici del sud europeo, i servizi sociali funzionano anche se con qualche affanno.
Il diritto allo studio garantito e il sussidio di disoccupazione anche se ridotto resta all’ 80% dell’ ultimo salario percepito per il primo anno ed il 70% nei 450 giorni successivi. Come diritto costituzionale tutti i cittadini svedesi al disopra dei 20 anni hanno un salario sociale di 9200 corone al mese (circa 1200 euro). Vengono dati circa 100 euro al mese per figlio, circa un anno retribuito per assistere il bambino con problemi di salute e un assegno aggiuntivo in base alla fascia di reddito per l’ affitto della casa.
Il sistema di tutela resta in piedi, sebbene negli ultimi tre anni il governo di destra abbia introdotto alcune limitazioni come la ricerca coatta del lavoro dopo il secondo anno di disoccupazione.
Husby, il quartiere da cui è partita la rivolta di fine maggio, non è simile alle banlieau parigine: i servizi di trasporto pubblico ci sono e funzionano bene.
Perché allora negli ultimi anni sono scoppiate rivolte? Continued…

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La partita di potere in Niger e Mali

gal_6487Nord del Niger. Lo scorso 23 maggio due attacchi condotti con autobomba hanno colpito una caserma militare ad Agadez e il sito minierario ad Arlit, di proprietà di Areva, il colosso francese del nucleare. Il ministro della difesa nigerino, Mahamadou Karidjo, ha riferito di 17 morti nell’attentato contro la caserma. Il giorno successivo Mokhtar Belmokhtar, considerato il capo di AQIM – Al Quaeda nel Magreb – diffuse un comunicato nel quale rivendicava di aver partecipato alle azioni a fianco del MUJAO – Movimento per l’unicità e il jihad in Africa occidentale.
Le autorità nigerine hanno immediatamente puntato il dito sulla Libia, che, dopo la caduta del regime di Muammar Gheddafi, sarebbe divenuta base per formazioni armate islamiche.
Quest’attacco e, quello successivo del 31 maggio, sono stati probabilmente più gravi di quanto hanno raccontato le agenzie, perché dopo il secondo attentato alla miniera di Somair, l’Areva aveva disposto la chiusura degli impianti per due mesi.
Queste miniere hanno un’importanza strategica notevole per la Francia, che ha puntato in modo netto sul nucleare, una tecnologia che necessita di combustibile d’uranio, un minerale abbastanza raro e disponibile solo in poche zone del pianeta. In Niger ci sono alcuni tra i più importanti giacimenti al mondo. Areva li sfrutta da oltre trent’anni in condizioni di monopolio, imponendo condizioni di lavoro spaventose ai lavoratori nigerini. Un quinto delle 58 centrali francesi funziona con l’uranio nigerino.
L’uranio è stata una delle poste in gioco per l’intervento francese in Mali. Ricordiamo che il primo atto dei francesi è stato tentare di sigillare le frontiere con il Niger per mettere al sicuro i propri interessi messi a rischio dalla guerriglia tuareg, che si estendeva ormai da anni anche in territorio nigerino. Continued…

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SenzaFamiglia. L’orgoglio della diversità

cieloQuest’anno il Pride di Torino, la giornata dell’orgoglio glbtq, avrà come tema la famiglia. Su questa questione si è aperto un dibattito che ha portato all’elaborazione dell’appello per lo spezzone “FAMoLO!”, lo spezzone dei “senza famiglia”.

Di seguito il nostro contributo al dibattito.
Libertà, uguaglianza, solidarietà. I tre principi che costituiscono la modernità, rompendo con la gerarchia che modellava l’ordine formale del mondo hanno il loro lato oscuro, un’ombra lunga fatta di esclusione, discriminazione, violenza.
Principi cardine che alle origini mantenevano saldamente fuori tanta parte dell’umanità. Poveri, donne, omosessuali, bambini erano esclusi dall’accesso a questi diritti. La loro universalità, formalmente neutra, era modellata sul maschio adulto, benestante, eterosessuale. Il resto era margine. Chi non era pienamente umano non poteva certo aspirare alle libertà degli uomini.
Una libertà soggetta a norma, regolata, imbrigliata, incasellata. La cultura dominante ne determina le possibilità, le leggi dello Stato ne fissano limiti e condizioni. Per chi ne è escluso si tratta di privilegi, per chi vi è incasellato diviene una gabbia normativa.
Il matrimonio è stato a lungo un legame sancito dallo Stato (e dalla chiesa) che fissava la diseguaglianza e l’asservimento delle donne, sottomesse al marito alla cui tutela venivano affidate. Eterne minorenni passavano dalla potestà paterna a quella maritale.
Le lotte che hanno segnato le tante vie della libertà femminile hanno in buona parte cancellato quella servitù. Ma ne hanno pagato il prezzo. Il prezzo dell’emancipazione femminile è stato l’adeguamento all’universale, che resta saldamente maschile ed eterosessuale. Lo scarto, la differenza femminile, in tutta l’ambiguità di un percorso identitario segnato da una schiavitù anche volontaria, finisce frantumata, dispersa illeggibile, se non nel ri-adeguamento ad un ruolo di cura, sostitutivo dei servizi negati e cancellati negli anni.
Lo spazio della sperimentazione, della messa in gioco dei percorsi identitari, tanto radicati nella cultura, da parere quasi «naturali», tende ad estinguersi, polverizzato dalle tante cazzutissime donne in divisa, dalle manager in carriera, dalle femministe che inventano le gerarchie femminili per favorire operazioni di lobbing.
Lo scarto femminile non è iscritto nella natura ma nemmeno nella cultura, è solo una possibilità, la possibilità che ha sempre chi si libera: cogliere le radici soggettive ed oggettive della dominazione per reciderle inventando nuovi percorsi.
Percorsi possibili solo fuori e contro il reticolo normativo stabilito dallo Stato, che, non per caso, nega diritti e tutele alle persone che scelgono di non sposarsi.
La strada del movimento glbtq è stata ed è ancora in netta salita. Le discriminazioni, la violenza statale e culturale pongono pesanti limiti alle persone glbtq. Facile capire il desiderio di accedere alle stesse possibilità degli eterosessuali: adozioni, pensione di reversibilità, diritto alla cura del partner…
Tutto questo però passa dalle forche caudine del matrimonio, della legalizzazione dei sentimenti, delle passioni, della tenerezza. Dall’imposizione di un modello rigido di relazione, costruita sulla coppia e sui loro figli.
Chi sceglie di starne fuori, di fare altre strade, non può accedere a queste possibilità anche se eterosessuale.
Possibile che la strada della liberazione debba passare dal riconoscimento dello Stato? Non si finisce con lo scambiare la libertà con un pizzico di sicurezza in più?
Ne vale la pena?
Ben vengano per chi li desidera i matrimoni omosessuali: lasciamo a fascisti e preti le loro vergognose crociate per escludere dall’umanità una sua parte.
Riteniamo però che la lotta per l’accesso ad alcune libertà possa evitare di infilarsi nella cruna dell’ago imposta dallo stato, separando l’accesso a queste libertà dal matrimonio.
La normalizzazione delle nostre identità erranti è il prezzo matrimonio, del legame sancito dallo Stato.
Vogliamo continuare ad attraversare le nostre vite con la leggerezza che ha solo chi si scioglie da vincoli e lacci.
Un percorso di autonomia che si costruisce nella sottrazione conflittuale dalle regole sociali imposte dallo Stato e dal capitalismo. La solidarietà ed il mutuo appoggio si possono praticare attraverso relazioni libere, plurali, egualitarie.
Una scommessa che spezza l’ordine. Morale, sociale, economico.
Qualche foto del Pride

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8 giugno. Corteo No Tav a Reggio Emilia

mediopadanaCi sarà anche il Primo ministro Enrico Letta all’inaugurazione della nuova stazione dell’alta velocità a Reggio Emilia che si svolgerà sabato 8 giugno. Oltre al premier è annunciata la presenza del ministro e sindaco della città Del Rio e dell’incaricato alle infrastrutture Lupi.
Non potevano mancare i No Tav reggiani, decisi a denunciare questa cattedrale nel deserto, costata una montagna di soldi pubblici, intascata dalla lobby del cemento e del tondino. Il business delle costruzioni in Emilia è rappresentata dalle grandi cooperative rosse. Tanti soldi per una stazione dove (forse) fermeranno nove treni Italo della compagnia di Montezemolo e soci.
Soldi sottratti alla manutenzione delle linee e al trasporto dei pendolari tagliato per risparmiare. Ogni giorno per andare da Guastalla a Reggio Emilia un pendolare impiega un’ora in treno. Tra le due località ci sono 35 chilometri. Molto pochi sono i pendolari che fanno la spola tra Reggio e Milano.
La colata di cemento intorno alla stazione continuerà nei prossimi mesi: in cantiere alcuni parcheggi, un centro commerciale, un albergo a cinque stelle.

All’inagurazione ci saranno anche i No Tav. L’appuntamento è alle 10,30 dal piazzale delle Fiere di Mancasale

Ascolta la diretta con Lorenzo, un No Tav reggiano, realizzata dall’info di Blackout

Di seguito il comunicato della Federazione Anarchica Reggiana e dell’Unione Sindacale di Reggio Continued…

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Resistenza alle trivelle. Condannati 5 No Tav

no tav non si arrestaSi è concluso martedì 4 giugno al tribunale di Torino il processo contro sette No Tav accusati di resistenza per la giornata di lotta alle trivelle del 7 febbraio 2010.
Quattro condanne a cinque mesi, una da un mese, due assoluzioni, questa la decisione del giudice.
Quel giorno il freddo era intenso all’autoporto di Susa, dove si tenevano le assemblee di movimento per decidere le iniziative di contrasto di quel primo gigantesco sondaggio politico nei confronti del movimento No Tav, che resistette con molta determinazione, al punto da obbligare il governo a interrompere le verifiche geognostiche quando ne erano stati fatte poco più di un terzo.
In quei giorni di gennaio, febbraio e marzo la polizia dispiegò centinaia di uomini in armi a difesa di pochi metri quadri di terreno dove venivano fatti i lavori, luoghi scelti con cura tra quelli più facilmente isolabili e controllabili.
Un corteo partì sull’autostrada verso la zona delle trivelle, quando un gruppo dell’antisommossa si parò davanti e fece una carica breve ma violenta, travolgendo anche un compagno disabile sulla carrozzella. In tanti avevano in mano i grossi randelli con cui erano soliti percuotere il guard rail come colonna sonora della protesta. Tre scudi di plexiglas furono danneggiati, la polizia si ritirò e il corteo proseguì sin di fronte alla trivella circondata da centinaia di uomini e mezzi per poi tornare all’autoporto.
Per questa giornata di lotta cui parteciparono centinaia di No Tav sono stati processati sette attivisti. Il PM Ferrando ha tentato di portare in tribunale la tesi falsa dei cattivi estremisti in testa ad un corteo di buoni e mansueti valligiani. Un’immagine falsa, che diventa verità nelle aule di giustizia grazie al ruolo chiave giocato dalla polizia politica, che segnala i compagni più noti, solo perché presenti a questa o quella manifestazione.
Ferrando è riuscito solo in parte nell’intento, perché le condanne sono state molto più lievi delle pesanti richieste.

Ascolta l’intervista realizzata dall’info di radio blackout con Nicoletta Dosio del Comitato di Lotta Popolare di Bussoleno, che quella sera, come tante altre volte, era in prima fila e venne travolta dalla carica.

E’ stata anche occasione per fare il punto sulle ultime notizie diffuse dai media sul cantiere di Chiomonte, la firma del trattato italo-francese, spostata dalla Reggia di Venaria a Roma.

Ascolta la diretta

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