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Morte al fascio! Scritta alla sede di Fratelli d’Italia

07 morte al fascioLa scritta “Morte al fascio!” è stata fatta sulla serranda tricolore della sede di Fratelli d’ Italia in Barriera di Milano, i fascisti che animano ronde contro gli immigrati, vogliono lo sgombero delle case occupate, soffiano sul fuoco dei pogrom contro i rom, fanno la guerra ai poveri.
Sono gli stessi del 1945. E’ tempo che una nuova primavera di lotta li spazzi via.
25 aprile ogni giorno!

Da un comunicato di Indymedia Svizzera

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Torino. Corteo antifascista a San Salvario

08 antifa23 aprile. Diverse centinaia di persone hanno dato vita ad una lunga giornata di lotta per le strade di San Salvario. San Salvario è il primo quartiere che incontra chi arrivava in treno a Torino, da sempre incrocio di gente diversa, la borghesia intellettuale di sinistra e gli immigrati dell’ultima ora, oggi è diventato uno centri della movida torinese. Localini alla moda, studenti e strisciante gentrification, accanto ad immigrati, kebabbari, gente senza casa.
Polizia, vigili urbani e militari fanno frequenti ronde per le strade.
Nella parte alta del quartiere, non lontano dal BAE Systems, fabbrica d’armi, contestata dai partecipanti al corteo con slogan e interventi, c’è “L’asso di bastoni”, il locale dove si ritrovano i fascisti di Casa Pound. L’Asso di bastoni è una ferita aperta in un quartiere, dove tante lapidi grigie ricordano chi è morto combattendo i fascisti.
0 antifaCasa Pound, spesso travestita da comitato spontaneo, da mesi prova a scatenare la guerra ai poveri, dando vita ad iniziative contro lo spaccio e la criminalità il cui obiettivo reale sono gli immigrati.
Gli antifascisti del quartiere contrastano attivamente ronde e presidi razzisti.
Il corteo del 23 aprile è stata una scommessa che ha coinvolto gli antifascisti torinesi. Una scommessa vinta.
San Salvario è stata attraversata da un corteo forte e comunicativo, che ha fatto il giro delle lapidi partigiane, dove ha sostato per un breve ricordo e i canti dell’Anonima Coristi della Val Pellice, quasi tutti della tradizione anarchica.
01 antifaAl corteo erano presente un folto gruppo di Alpi Libere, esponenti delle palestre antifasciste, qualche bandiera di Sinistra Anticapitalista, gli anarchici della FAT con lo striscione “Contro Stato e fascisti azione diretta!”
In piazza Carducci un imponente schieramento di carabinieri chiudeva l’ingresso di via Madama Cristina per impedire agli antifascisti di avvicinarsi troppo alla sede fascista, dove i camerati raccoglievano firme per presentarsi alle elezioni.
Il corteo ha sostato a lungo di fronte alla blocco poliziesco, prima di proseguire il giro e terminare ai giardini Anglesio, dove la Banda Terraneo ha suonato motivi popolari e canzoni anarchiche, mentre gli antispecisti distribuivano panini vegani.
I fascisti sono rimasti intanati nel loro localino, mentre un corteo con uomini, donne e tanti bambini, cui si sono uniti anche alcuni abitanti 02 antifadella zona, si è ripreso le strade e le piazze del quartiere in un 25 aprile lontano dalla retorica patriottarda, un 25 aprile dove chi lotta contro il razzismo, lo sfruttamento, la militarizzazione tutti i giorni, ha reso viva la memoria di chi in quel lontano aprile ha scelto di prendere le armi per conquistare una libertà, che certo non aveva confini.

Domani – 25 aprile – ci sono tanti appuntamenti in città.

Noi, come ogni anno, saremo in Barriera di Milano

05 antifaLunedì 25 aprile
ore 15
presidio alla lapide al partigiano anarchico Ilio Baroni
in corso Giulio Cesare angolo corso Novara, dove Ilio è morto combattendo i nazifascisti

Ricordo, deposizione di fiori, musica – banchetti informativi antifascisti e antirazzisti – volantinaggio in quartiere – bicchierata in ricordo delle tante vittime del fascismo di ieri e di oggi.

04 antifaNoi ogni 25 aprile ci ritroviamo alla lapide di Baroni: si parla, si brinda, si chiacchiera con chi passa. Non è solo una commemorazione. E’ la scelta tenace per i tanti di noi che in questo quartiere sono nati e continuano a vivere, di alimentare il venticello che segnala il mutare dei tempi.
Annodiamo i fili della memoria di ieri con le lotte di oggi.
Le lotte che vedono in prima fila altri partigiani, quelli che si battono contro l’occupazione militare in Val Susa, chi si mette di mezzo contro sfratti e deportazioni, contro il razzismo e il fascismo.

10 antifaOggi come allora i partigiani sono trattati da banditi, terroristi, delinquenti. Oggi come allora la gente delle periferie sta imparando da che parte stare.

I partigiani di Barriera in quel lontano aprile hanno combattuto perché volevano un mondo libero, senza schiavitù salariata.
Il loro sogno continua ogni giorno nella lotta per una società di liberi ed eguali. Senza Stato né padroni.

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Schiere Nere e altri anarchici tedeschi contro Hitler

indexLa Resistenza anarchica in Germania è poco nota. Da qualche anno grazie ai lavori di alcuni studiosi anche italiani ne sappiamo di più.

Anarres ne ha parlato con David Bernardini, autore di un libro su Rocker e di un altro libro sulle Schiere Nere.

Ascolta l’intervista con David

Di seguito un articolo che ha scritto per Anarres

La storia della resistenza anarchica tedesca non è molto conosciuta. Cercherò quindi di fornire molto schematicamente un minimo di orientamento all’interno di un argomento così poco trattato.

Per iniziare è necessario forse dire due parole sulla storia del movimento anarchico in Germania. Max Nettlau ha identificato le sue origini in quel Circolo dei Liberi di Berlino che si formò intorno al 1848, di cui faceva parte anche Max Stirner, i fratelli Bauer e altri. Nel corso della seconda metà dell’Ottocento si delinea progressivamente un movimento anarchico che deve però fare i conti con il più forte partito socialdemocratico d’Europa, la SPD. Il piccolo movimento anarchico tedesco vive un eclatante ma effimero boom negli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale, andando probabilmente incontro ad un diffuso antimilitarismo presente nella popolazione, stremata dal conflitto e dalle sue pesanti conseguenze sociali. L’anarcosindacalista FAUD (Freie Arbeiter Union Deutschlands – Libera Unione dei Lavoratori tedeschi), sorta nel 1919 sulle ceneri di un’organizzazione sindacalista rivoluzionaria del preguerra, arriva a toccare tra il 1921 e il 1922 la notevole cifra di 200.000 attivisti, affermandosi come la principale organizzazione anarchica (ma non l’unica) in Germania. Dal 1923 inizia però una grave fase di decadenza che porta la FAUD nel 1929 a poter contare ancora su solo poche migliaia di attivisti. È in queste condizioni che gli anarchici tedeschi iniziano ad affrontare la sempre più brutale e preoccupante ascesa del Partito nazista di Adolf Hitler.

Similmente a quella italiana, anche la resistenza anarchica al nazismo è “lunga”. Inizia infatti diversi anni prima dell’ascesa al potere di Hitler, come contrapposizione ad un partito (quello nazista) in lotta per il potere, per proseguire successivamente, allargandosi ben al di fuori dai confini tedeschi.

Prima del regime nazista

Gli anarchici si preoccupano presto dell’ascesa del nazismo, tanto che sulla stampa anarchica già sul finire degli anni Venti si possono leggere articoli che avvertono del pericolo nazista. Ma l’antinazismo degli anarchici non si esaurisce nell’attività pubblicistica. Dalle file della FAUD emerge sul finire del 1929 l’esperienza delle Schwarze Scharen (Schiere nere) una delle espressioni più eclatanti e dirompenti dell’antifascismo anarchico degli anni precedenti all’inizio del regime nazista. Le Schiere nere sono una rete di gruppi diffusi in alcune parti della Germania (Alta Slesia, Berlino, Assia, Turingia, Renania Settentrionale-Vestfalia) che praticano l’autodifesa militante in chiave antifascista, riconoscendosi come organizzazione integrativa ma indipendente della FAUD e presentandosi pubblicamente vestiti completamente di nero. Questi gruppi praticano l’antifascismo con la propaganda, anche attraverso giornali come Die proletarische Front di Kassel o Die Schwarze Horde (L’orda nera), e con l’azione militante. Le Schiere nere infatti ingaggiano dove presenti violenti scontri con i nazisti, e in particolare con le SA, anche con armi in pugno (revolver, fucili). La polizia nel maggio 1932 scopre addirittura un deposito clandestino di esplosivi e di armi allestito dalla Schiera nera di Beuthen (oggi in Polonia) in previsione della presa del potere da parte di Hitler. I militanti che animano le Schiere nere, in maggior parte giovani proletari disoccupati, sono pochi, si parla infatti di qualche centinaio di attivisti sparsi in tutta la Germania, ma nelle zone dove sono presenti fanno decisamente sentire il loro peso e cercano di stimolare la costruzione di una sorta di fronte unitario dal basso di tutti gli sfruttati, al di là e al di sopra dei partiti di appartenenza, basato sull’azione diretta antifascista.

Dopo il regime nazista dentro e fuori la Germania

La repressione che si abbatte già a partire dal 1932 sulle Schiere nere e sul movimento anarchico tedesco si intensifica ulteriormente nel 1933, quando Hitler assume il potere. Già nel corso del 1932 infatti la FAUD, riunita in congresso a Erfurt, aveva deciso di prepararsi alla clandestinità.

Da questo momento, schematizzando al massimo si potrebbero identificare grossomodo tre filoni all’interno delle vicende della resistenza anarchica al nazismo.

Dentro la Germania (1933-1937/38): poche ore dopo l’incendio del Reichstag (27 febbraio 1933), il poeta anarchico Erich Mühsam viene arrestato (verrà assassinato nel campo di concentramento di Sachsenhausen l’anno successivo), mentre Rudolf Rocker insieme alla sua compagna Milly riesce a rifugiarsi in Svizzera: due importanti esponenti del movimento anarchico tedesco sono così fuori gioco. Dopo un primo momento di sbandamento gli anarchici riescono comunque a organizzare una rete clandestina che può contare anche su alcuni appoggi all’estero (Amsterdam, Spagna). Già nel maggio 1933 vengono diffuse in Germania le prime pubblicazioni anarchiche clandestine. Tra queste è da ricordare Die Soziale Revolution di Lipsia, giornale promosso da Ferdinand Götze che verrà stampato tra il 1933 e il 1935 (otto numeri documentabili), con una diffusione di circa duecento copie a numero. Le attività di resistenza cessano tra il 1937/38 a causa della dura repressione che si abbatte sulle file degli anarchici, repressione che riduce la resistenza ad una dimensione “individuale”, anche se non cessano, per esempio, i sabotaggi nei grandi porti del nord come Amburgo. Tra queste attività di resistenza, certamente di dimensioni veramente ridotte ma comunque importanti e interessanti, mi piace ricordare la figura di Fritz Scherer, già custode del Rifugio Bakunin nel corso degli anni Venti (un rifugio in montagna autocostruito e autogestito dagli anarchici di Meiningen, piccola cittadina della Turingia). Durante il regime nazista Scherer, che in quanto pompiere nella capitale tedesca viene lasciato (più o meno) in pace dalla Gestapo, aiuta come può i suoi compagni in difficoltà e diffonde materiale antifascista e libertario. Inoltre riusce a salvare dalla furia del Terzo Reich e dalle distruzioni della seconda guerra mondiale molti libri e opuscoli anarchici, ricopertinandoli con titoli insospettabili politicamente. Saranno proprio i libri e gli opuscoli custoditi da Scherer ad essere letti e ristampati dalla nuova generazione di attivisti anarchici uscita dall’esperienza del Sessantotto tedesco… .

Fuori dalla Germania (1933-1945) in Spagna, Francia, Polonia ecc…: La FAUD sin dai primissimi anni Trenta segue con grande interesse lo sviluppo del movimento operaio spagnolo e della CNT. Nel 1932 alcuni militanti delle Schiere nere braccati dalla polizia si rifugiano non a caso in Spagna. Le file dell’anarchismo tedesco in esilio si ingrossano dall’inizio del 1933, tanto che nel 1934 viene fondato a Barcellona un Gruppe DAS (Gruppo Anarcosindacalisti tedeschi) che si dota anche di un proprio giornale. Il gruppo partecipa ai combattimenti di Barcellona nel luglio 1936, prendendo d’assalto il Club tedesco, un importante punto di riferimento del regime nazista in Catalogna. Attiviste e attivisti anarchici si ritrovano poi in varie esperienze della rivoluzione spagnola. Un Gruppo Erich Mühsam combatte a Huesca, militanti tedeschi prendono parte alla Colonna Durruti e attiviste come Etta Federn partecipano alle Mujeres Libres e alle scuole libertarie. Con la vittoria franchista, gli anarchici tedeschi si disperdono: chi inizia un lungo e doloroso viaggio per i campi di concentramento di mezza Europa (sia quelli allestiti dal governo francese per gli ex combattenti in Spagna, sia ovviamente quelli nazisti), chi prenderà successivamente parte alla resistenza francese, come l’ex membro delle Schiere nere Paul Czakon, o alla resistenza polacca, come Alfons Pilarski, fondatore della prima Schiera nera tedesca (quella di Ratibor), che viene ferito gravemente negli scontri della rivolta di Varsavia nel 1944.

Dentro la Germania (fine anni Trenta-1944 circa): quest’ultimo gruppo si tratta del caso di più difficile definizione. Semplificando, si può affermare che ci sono pezzi della gioventù che, pur essendo indottrinata e irregimentata dalle istituzioni del regime nazista come la Gioventù Hitleriana, sul finire degli anni Trenta si ribella al regime stesso, approdando in alcuni casi all’aperta resistenza. Faccio riferimento in particolar modo a quei gruppi usciti da un ambiente tendenzialmente operaio come gli Edelweisspiraten (Pirati della stella alpina) della Germania occidentale (specialmente, in città come Colonia, Wuppertal, Essen, Francoforte ecc) e i Meuten (Orde) di Lipsia. All’interno di questi gruppi giovanili c’era una presenza anarchica: il gruppo degli Edelweisspiraten di Wuppertal per esempio contava tra i propri membri un ex membro delle Schiere nere come Hans Schmitz (il quale narrerà le sue esperienze nel libriccino “Umsonst is dat nie”) così come anche nelle Meuten è stata recentemente rilevata una presenza libertaria (prima il gruppo era descritto come di tendenza comunista), tra cui Irma Götze, sorella di Ferdinand, che poi andrà in Spagna.

Per approfondire

In italiano ci sono a mia conoscenza due libri sulla resistenza anarchica tedesca:

Continued…

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No Tav. Chiesti 9 anni per Gabriele e Matteo

no tav 3 luglio 39 anni di reclusione. Questa la richiesta formulata dal PM Rinaudo al termine dell’ultima udienza del processo contro Matteo e Gabriele. I due No Tav sono accusati di aver sequestrato e rapinato un carabiniere nei boschi della Clarea il 3 luglio del 2011, il giorno dell’assedio al nascente cantiere di Chiomonte, a meno di una settimana dallo sgombero della Libera Repubblica della Maddalena.
Quest’inchiesta, destinata all’archiviazione, vista l’inconsistenza dell’apparato accusatorio, dopo il passaggio delle carte dal PM Ferrando, promosso Procuratore Capo ad Ivrea, al PM Rinaudo, è approdata in tribunale.
Il processo, celebrato a porte chiuse, come prevede il rito abbreviato scelto dai due No Tav, si concluderà il 10 maggio, quando verrà emessa la sentenza. In caso di condanna ci sarà la riduzione di un terzo della pena. Il rito abbreviato comporta che il processo si celebri sulla base delle prove documentali senza dibattimento.
Di fronte al tribunale di Torino, militarizzato più del consueto per l’udienza di ieri si sono radunati numerosi solidali, che hanno dato vista ad un presidio.
Fuori dal tribunale è stata riproposta una performance teatrale, costruita sulle testimonianze di chi c’era, sulla Libera Repubblica della Maddalena, luogo simbolo di una lotta che, al di là della resistenza, si è sostanziata nella liberazione di un’area dove sperimentare relazioni politiche e sociali libere. Il giorno prima alla Ramat era stata messa in scena la stessa performance, all’interno di una giornata di informazione sulla vicenda, ma, soprattutto, di ricostruzione di quei giorni del 2011, quando nei boschi di Clarea si è lottato per uno spazio di libertà fatto di barricate e autogestione.

Ascolta la diretta dell’info di radio Blackout con Silvia del Comitato No Tav Alta Valle Susa.

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Referendum. Una partita con dadi truccati

ft-no-tav scrittaDare una delega in bianco non è saggio, per chi ha scelto di essere protagonista e non mera pedina.
In occasione dei referendum molti pretendono di trovarsi di fronte all’eccezione che conferma la regola. Ma è proprio cosi?

I referendum sono diversi dalle “normali” consultazioni elettorali?
Molti, pure molto lucidi di fronte ai meccanismi di ricambio delle élite in forma democratica, scommettono sull’istituto referendario convinti di dare legittimazione più ampia alle lotte.
C’è chi si spinge a sostenere che il referendum sia uno strumento capace di ridare smalto alla stessa democrazia delegata. Un meccanismo che celebra la forza dei numeri ed ignora le ragioni di chi vive un territorio. La democrazia celebra la libertà formale ma nega quella sostanziale, garantendo a pochi l’accesso alla risorse di tutti, tutelando la proprietà privata, garantendo il profitto di pochi a discapito dei più.
Tra i corifei della democrazia tradita si annidano vecchi arnesi della politica istituzionale a caccia di rilegittimazione all’interno di quegli stessi movimenti, che quando potevano, non hanno esitato a scaricare.
Nel movimento No Tav tutti ricordano i partiti della sinistra radicale mietere voti, per scoprire che usavano la delega ricevuta per sostenere avventure belliche, grandi opere, e… la nuova linea ad alta velocità tra Torino e Lyon.
Purtroppo in questi anni settori importanti del movimento contro il supertreno sono scesi da un cavallo per salire su di un altro. In nome del realismo. Tanto realisti da aver preso, ancora una volta, una sonora cantonata. Con una differenza. Dopo la vittoriosa rivolta popolare del 2005, per provare ad incastrare il movimento, il governo mise su un tavolino pieno di doni. Oggi ai nuovi amministratori dialoganti butta a malapena un piatto di lenticchie fredde.

Il referendum sulla durata delle concessioni governative per le trivellazioni petrolifere in mare rischia di essere un altro foglio di carta moschicida in cui lasciare irragionevolmente le zampe.

La democrazia è un gioco con carte truccate. Il referendum non è da meno.
I referendum abrogano una legge o un suo articolo o comma, senza avere il potere di sostituirla. Il potere legislativo è e resta nelle mani del parlamento e delle maggioranze che ne hanno determinato gli orientamenti prima del referendum e torneranno a farlo dopo il referendum.

Il referendum è l’unica forma di consultazione democratica per la quale è richiesto il raggiungimento del quorum. Si può eleggere il parlamento e quindi il governo del paese sulla base del voto di meno della metà di quelli che ne hanno diritto che diventano ancora meno nel gioco delle percentuali, ma non si può cancellare – l’istituto referendario è meramente abrogativo – un semplice articolo di legge.
Un gioco tutto a favore del banco.
I referendum “vittoriosi” sono molto pochi. Quelli celebri sulle leggi sul divorzio e sull’aborto sono stati promossi da chi voleva cancellare norme che regolamentavano due pratiche vietate in precedenza. Dal punto di vista di chi li ha promossi quei referendum sono stati una sconfitta. Fu il colpo di coda clericale di fronte ad una società profondamente mutata, non disponibile a rinunciare al riconoscimento formale di libertà prima negate.
Il matrimonio era una condanna a vita, i figli fuori dal matrimonio erano figli di NN, le donne che abortivano a rischio della vita erano considerate e trattate da criminali.
I partiti cattolici erano stati sconfitti all’interno della società: il risultato referendario era in fondo scontato.

Molto più di recente il referendum sull’acqua, mosso da una forte spinta popolare, da decine di comitati locali, che hanno consentito sia la raccolta delle firme sia il raggiungimento del quorum e la vittoria nell’urna, si è trasformato in un secchio bucato da cui l’acqua è defluita nelle tasche dei soliti noti.
Il movimento per l’acqua “pubblica”, in realtà per l’acqua “statale”, è stato fatto a pezzi quando la vittoria nel referendum è durata meno di un palloncino alla fiera del paese.
Persino quando si “vince” si rischia di perdere tutto. I due referendum sul nucleare hanno avuto esito positivo, perché disastri nucleari di Chernobyl e Fukushima, sono scoppiati nelle urne come bombe atomiche.

I fautori dell’avventura referendaria mettono l’accento sul valore simbolico del pronunciamento sulle concessioni petrolifere, un valore che travalica il quesito in se.
Probabilmente hanno ragione. Peccato che se verranno sconfitti nell’urna questa vittoria legittimerà ogni ulteriore mossa della lobby del petrolio.
Se dovessero portare a casa il risultato, l’arroganza del governo nell’ignorare il referendum sull’acqua, dovrebbe bastare ad evitare l’inganno.
Se la forza dei movimenti imponesse nuove regole del gioco, dando una ripulita alle carte, cambierebbe davvero qualcosa?
Ben poco. La legittimità di una scelta non dipende da una maggioranza numerica, ma dalla capacità di confronto territoriale, su piccola scala, all’interno di comunità che si autogovernano, avocando a se la facoltà decisionale, espropriata da ogni dimensione centralista, statuale, forte solo della violenza di polizia ed esercito.

Per quanto ci riguarda il 17 aprile è un giorno come un altro.
Non vogliamo delegare a nessuno le nostre vite, il mare, le montagne, la nostra libertà.
In ogni dove ci sono appuntamenti di lotta, solidarietà, autogestione.
In ogni dove ci sono occasioni da cogliere, percorsi da costruire, spazi da liberare. Ogni giorno.

m. m.

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Grecia. Blocco dell’autostrada e occupazione del municipio a Ioannina

mareIeri i rifugiati spostati a fine marzo dal porto del Pireo al campo di Filipiada alla periferia di Ioannina, sono scesi in strada per protestare contro le condizioni disumane in cui sono costretti a vivere un’attesa senza prospettive. La protesta è sfociata nel blocco dell’autostrada.
La polizia ha caricato profughi e solidali per sgomberare l’autostrada, arrestando alcune persone.
Questa mattina gli anarchici hanno occupato il municipio di Ioannina, uno dei principali centri dell’Epiro settentrionale, non lontano dal confine con l’Albania, dichiarando l’occupazione sarebbe durata sino alla liberazione di tutti i rifugiati e i solidali, finiti in carcere.
Il sindaco della città è a sua volta bloccato dentro al Municipio.
(da una corrispondenza degli anarchici di Ioannina)

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La truffa del petrolio lucano

eni total shellPiù di tremila giovani ogni anno lasciano la Basilicata. Le trivelle continuano a pompare una ricchezza che non li sfiora. E loro vanno via dalla regione più povera d’Italia dove il 31,6% di chi ha dai 15 ai 34 anni non ha uno straccio di lavoro, e più del 28% delle famiglie vive al di sotto della soglia di povertà.
Dai pozzi di petrolio non sono usciti né lavoro, né sviluppo. Altro che Texas, altro che “Libia di casa nostra”, come sosteneva il governatore Vito De Filippo, Pd. Dopo decenni di trivellazioni Potenza non è Dubai, la Val d’Agri non ha l’aspetto di un emirato e la “Basilicata coast-to coast” è solo un bel film.

Per capire il grande inganno del petrolio bisogna dare un’occhiata ai numeri. Dai 25 pozzi attivi in Val d’Agri, la Basilicata estrae l’80 per cento della produzione petrolifera italiana, il 5-6 del fabbisogno nazionale. Le compagnie petrolifere, l’Eni e la Shell, in particolare, puntano a passare dagli attuali 80mila barili al giorno ai 104 mila previsti da un accordo del 1998, più altri 25 mila che dovrebbero venir fuori dal miglioramento delle tecniche estrattive. Con l’ampliamento del Centro oli di Viggiano e l’entrata in funzione dell’impianto Total di Tempa Rossa, a Corleto Perticara, la Basilicata raddoppierebbe la sua produzione petrolifera fino a 175 mila barili al giorno, il 12% del consumo italiano.

L’illusione di un improvviso benessere si chiama royalty, la quota che le compagnie pagano allo Stato italiano per lo sfruttamento dei pozzi. Una legge del 1957 definiva un sistema di sliding scale royalty che andava dal 2 al 22% a barile, nel ‘96 una nuova normativa bloccò la percentuale al 7. Un vero eldorado per le compagnie. Che in Italia pagano molto di meno rispetto alla Norvegia e all’Indonesia, dove le royalty sono all’80%, o alla Libia, 90, mentre in Canada i governi locali si lamentano perché giudicano insufficiente il 45% che incassano su ogni barile. Solo le briciole di un grande business che arricchisce multinazionali e Stato italiano.

Nel 2010, anno d’oro per l’Eni (utile netto di 6,89 miliardi), la quota destinata alla regione e ai comuni lucani, più il 2,10% per il fondo benzina, è stata di 110 milioni. Pochissima cosa rispetto a quella che qui chiamano la “royalty camuffata”, quel 42% di tasse che lo Stato impone alle compagnie petrolifere.

Un bel business. La recente inchiesta che ha obbligato alle dimissioni la ministra Guidi e fatto traballare il governo non è destinata a cambiare gli affari ma solo a regolare i conti all’interno dell’attuale classe dirigente.
Il malaffare è normale nell’assegnazione di appalti e concessioni. Di tanto in tanto un’inchiesta manda all’aria equilibri consolidati. Ma è solo questione di tempo. Il tempo necessario a mettere in sella altri attori nell’eterna sceneggiata della spartizione dei beni pubblici a fini privati.
In Basilicata restano i danni alla salute e all’ambiente, senza neppure i benefici delle royalty.

Per capirne di più ascolta la diretta dell’info di Blackout con Francesco

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Francia. L’onda cresce

paris 9 avrilIl movimento contro il nuovo codice del lavoro del governo Valls sta crescendo e allargando i propri orizzonti. La giornata più importante è stata il 31 marzo, quando è stato proclamato uno sciopero generale che ha bloccato fabbriche ed uffici, dilagando nelle strade di tutto il paese.

I cortei del 5 e del 9 aprile, pur con numeri meno importanti, hanno riempito le piazze, nonostante una reazione poliziesca molto dura.

Le Nuit Debut, partite da Parigi e dilagate in tutto il paese, hanno dato il via ad un diversificarsi sia delle tematiche, sia delle pratiche di lotta, sia della spinta alla partecipazione diretta.

Le assemblee di place de la Republique, che per una decina di giorni si sono trasformate una sorta di “acampada” sul modello di Puerta del Sol o di Occupy Wall Street, mettono in campa una presa di parola, crescita di relazioni, moltiplicazione di prospettive.
Lunedì scorso la polizia ha sgomberato le strutture della piazza, che ne stavano poco a poco mutando la geografia, ridisegnandola quotidianamente.
Il giorno successivo la piazza è stata nuovamente occupata con un’assemblea serale, senza tuttavia consentire un’occupazione stabile.
Una prima analisi di questo movimento mostra una tensione partecipativa forte, che mette in campo una soggettività che si costituisce a partire dalla situazione, dalla piazza come luogo di reinvenzione di una comunità che riterritorializza il conflitto, costruendo relazioni ed intersezioni tra ambiti sociali e di lotta frammentati e sparsi. Resta tuttavia sullo sfondo la questione della trasformazione sociale che pure aveva caratterizzato le piazze altermondialiste francesi tra la fine del ‘900 e i primi anni di questo secolo.

Ascolta l’intervista di radio Blackout a Gianni Carrozza, corrispondente da Parigi di Collegamenti, redattore di radio Frequence Paris Plurielle.

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Grecia. I profughi, la trojka, il governo Tsipras

noborderkitchenLesbo. Nella mattinata di venerdì 8 aprile quarantacinque di pakistani sono stati deportati in Turchia da Lesvos. Quattro attivisti hanno tentato di bloccare la nave, gettandosi in mare e cercando di scalare l’ancora. Sono stati bloccati, fermati e poi rilasciati.
Due pakistani deportati martedì 5 aprile, appena giunti nel campo di detenzione in Turchia avrebbero tentato il suicidio. Secondo una notizia diffusa nei social media ma non confermata da altre fonti uno di loro sarebbe morto.
Mercoledì è stata diffusa la notizia che il governo greco avrebbe sospeso le deportazioni, per avere il tempo di esaminare le richieste d’asilo fioccate dopo le prime espulsioni forzate.
Le persone provenienti da paesi considerati “sicuri”, tra cui Pakistan, l’Afganistan e il Bangladesh probabilmente verranno respinte. Gli stessi siriani si trovano intrappolati, perché, anche in caso di risposta favorevole, sarebbero obbligati ad interrompere il proprio viaggio verso le destinazioni prescelte.
Fare richiesta di asilo è però il solo modo per evitare le deportazioni, la detenzione in Turchia e il rimpatrio.
Negli ultimi giorni si sono drasticamemente ridotti gli sbarchi a Lesvos, Chios, Samos e le altre isole greche di fronte alla costa turca. Le vie dell’esodo presto saranno altre, probabilmente più costose e pericolose. Un viaggio clandestino dalla Turchia verso l’Italia potrebbe costare sino a cinquemila euro. Crescono le difficoltà, si alzano i prezzi della carne umana nello spaventoso risiko delle frontiere.
Il governo greco continua a lavarsene le mani. Le deportazioni sono fatte dagli uomini di Frontex, mentre i poliziotti greci assistono da lontano. Per la Grecia la Turchia non è un paese sicuro: per questa ragione non collaborano alle espulsioni.
A Idomeni la polizia ha sparato proiettili di gomma e lanciato lacrimogeni contro i profughi, annegati nel fango e nella disperazione, che domenica hanno provato a bucare la frontiera. La polizia greca assisteva da lontano senza intervenire. Le equipe di Medici Senza Frontiere (MSF) hanno trattato centinaia di intossicati, tre profughi sono stati ricoverati in ospedale. La violenza è divampata dopo ore di manifestazione pacifica. Sin dalla mattina 500 rifugiati si sono avvicinati alla barriera che divide la Grecia dalla Macedonia, finché la polizia ha cominciato a sparare gomma e gas.
A Idomeni ci sono cinquantamila persone ostaggio di un gioco di cui sanno poco o nulla. Sopravvivono grazie alla solidarietà della popolazione, stremata dalla crisi, da una disoccupazione che ha traforato il 25%, dalla secca riduzione delle attività produttive, scese in un anno del 13,5%, ma capace di mutuo aiuto con chi si trova a stare ancora peggio.
In prima fila i nemici di ogni frontiera, gli anarchici che si battono per la libera circolazione e offrono una mano ai dannati di questa frontiera.
Il governo Tispras ha deciso di gettare la questione dei profughi sul tavolo delle trattative con il Fondo Monetario per evitare ancora una volta il default.

L’info di Blackout ha intervistato Cosimo Caridi, corrispondente da Lesbo del Ftato Quotidiano. Ascolta la diretta

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Grecia. Prime deportazioni

moriaMartedì 5 aprile. Ieri sono cominciate le deportazioni di profughi e migranti dalla Grecia alla Turchia. Intorno alle nove del mattino sono approdate a Dikili due imbarcazioni provenienti da Lesvos. Il viaggio è stato anticipato di molte ore, forse per dribblare possibili contestazioni.
I deportati sono stati fatti scendere uno ad uno dalla la Nazli Zale. Ognuno era scortato da poliziotti dell’agenzia Frontex, che si mettevano in posa per le telecamere sfoderando ampi sorrisi.
Per i deportati non c’era modo di opporre resistenza.
Un’altra imbarcazione proveniente da Chios è stata lasciata nella rada per ore, finché l’altra barca non è stata svuotate. I prigionieri sono stati avviati ad un centro di detenzione. Non è chiaro cosa farà il governo turco.
Nel pomeriggio un gruppo di attivisti locali ed altri provenienti da Izmir sono riusciti ad aprire uno striscione con la scritta “Basta deportazioni. Aprire le frontiere”. La polizia ha strappato lo striscione e cercato di fermare i No Border. Solo la presenza dei media ha impedito i fermi.
A quanto si è appreso c’erano solo due rifugiati siriani, gli altri – 136 da Lesbo, 66 da Chios – erano algerini, pachistani, bangla e dello Sri Lanka.
Altre imbarcazioni sarebbero partite dal porto di Atene, il Pireo, dirette in Turchia.
Questa mattina non ci sono state altre partenze dal Lesbo, dove i prigionieri del campo di Moria, dopo aver capito che erano cominciate le deportazioni, hanno protestato nel campo, circondato dagli uomini di Frontex, cui il governo greco ha delegato la gestione dell’operazione, assumendo un atteggiamento pilatesco di non collaborazione né contrasto.
É molto improbabile che i poliziotti di Frontex abbiano informato i reclusi di Moria, il campo di accoglienza che in due settimane si è trasformato in prigione amministrativa, dei loro diritti e della possibilità di chiedere asilo politico in Grecia.

Ne abbiamo parlato con Alessandro Dal Lago, autore di un articolo uscito sul Manifesto di oggi e con Cosimo Caridi, corrispondente del Fatto Quotidiano, che si trovava a Lesvos, di fronte al centro di Moria.

Ascolta la diretta con Alessandro Dal Lago

… e quella con Cosimo Caridi

8 aprile. Aggiornamenti
Questa mattina una quarantina di pakistani sono stati deportati in Turchia da Lesvos. Due attivisti hanno tentato di bloccare la nave, gettandosi in mare e cercando di scalare l’ancora. Sono stati bloccati ed arrestati.
Due pakistani deportati martedì 5 aprile, appena giunti nel campo di detenzione in Turchia avrebbero tentato il suicidio. Secondo una notizia diffusa nei social media ma non confermata uno di loro sarebbe morto.
Mercoledì è stata diffusa la notizia che il governo greco avrebbe sospeso le deportazioni, per avere il tempo di esaminare le richieste d’asilo fioccate dopo le prime deportazioni. Questa decisione, se confermata, non si applica comunque alle persone provenienti da paesi considerati “sicuri”. Tra questi ci sono il Pakistan, l’Afganistan e il Bangladesh.

Leggi l’articolo di Dal Lago:
Su catamarani e altri mezzi di fortuna, ma sotto la solerte vigilanza di funzionari Frontex, è iniziata la deportazione di migranti e profughi da Lesbo e altri porti greci in Turchia. Verso dove? Nessuno lo sa. Alcuni giorni fa Amnesty International ha accusato il governo turco di espellere centinaia di siriani in Siria, in un paese, cioè in cui la guerra c’è, benché se ne parli sempre meno. Intervistata sulla questione, una funzionaria Ue ha risposto. “È da escludere. L’accordo tra Ue e la Turchia non lo prevede. È scritto nero su bianco ”.
Ecco una risposta che meriterebbe una citazione in un’enciclopedia universale dell’insensatezza. La Ue fa un patto miserevole con Errdogan: 6 miliardi di Euro in cambio del ritorno in Turchia di migliaia di migranti e profughi. Si noti: con lo stesso Erdogan che mezzo mondo, compresa l’Europa (quando le fa comodo), accusa di imprigionare i dissidenti e imbavagliare la stampa. Dunque, un paese in cui nessun controllo si può esercitare su un governo semi-dittatoriale. E ora arriva una tizia, finita chissà perché a dirigere qualcosa in Europa, a dirci che la Turchia non deporta nessuno perché nell’accordo con la Ue non c’è scritto nulla al riguardo!
Ma questo è nulla. Interrogato sulla questione, un giurista ha affermato tempo fa che non si può parlare di deportazioni perché “Il termine implica un atto criminale e utilizzarlo significa quindi ammettere che l’accordo tra Unione Europea e Turchia preveda un crimine”. Assolutamente geniale. Questo esempio di logica deduttiva ricorda una dichiarazione del penultimo presidente della Repubblica, secondo il quale, mentre i nostri aerei bombardavano la Libia, l’Italia non era in guerra perché non aveva dichiarato guerra a nessuno. Ma il citato giurista va oltre. Alla domanda se la Turchia sia uno stato sicuro, risponde di sì. E come si fa a stabilire se uno stato è sicuro? “È tale uno stato che accoglie i migranti in autonomia”. Il nome La Palisse vi dice qualcosa?
Ma non c’è proprio da ridere. Dietro questo formalismo alla Gogol c’è un cinismo terrificante – l’uso delle parole ingessate del diritto per giustificare il rinvio ai mittenti, cioè la guerra, la fame e la morte, di decine di migliaia di esseri umani. Era già successo ai tempi degli accordi che Amato e Pisanu stringevano con quei campioni del diritto di Gheddafi e Ben Ali. Tutti sapevano che i migranti, espulsi in cambio di un po’ di dollari ai governi, finivano nel deserto, vittime di inedia, militari e predoni. Ma poiché nessuno lo diceva, ecco che non era successo nulla.
L’accordo Ue-Erdogan si muove sulla stessa falsariga. Che fine faranno siriani, afghani, pakistani prelevati dalla Turchia? Nessuno lo saprà mai con certezza. Magari Amnesty International verrà a conoscenza di qualcosa e denuncerà i fatti. Ma, poiché l’accordo siglato dalla Ue non prevede nulla del genere, otterremo le solite risposte nel vacuo burocratese citato sopra. D’altra parte, in un’area in cui sarebbero morte cinquecentomila persone in cinque anni, che volete che significhi la sorte di poche migliaia di migranti?
Tempo fa, la signora Frauke Petry, figlia di un pastore protestante e leader del partito xenofobo Alternative für Deutschland, ha dichiarato che bisognerebbe sparare ai migranti che attraversano illegalmente le frontiere. Eccola accontentata. E senza rumore di spari, sangue e inchieste. Ci pensa il nostro alleato Erdogan. Con ciò le mani d’Europa restano immacolate. Come quelle di chi commissiona un delitto a qualcuno e poi se ne va serenamente a cena.

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Ridi pagliaccio

petit-clownIl ghigno del clown è più triste e duro di una disperata pietà marmorea (Euf.)

Nel “18 di Brumaio” Karl Marx sosteneva che le tragedie, quando si ripetono, si volgono in farsa. La parabola di questi primi due decenni del nuovo millennio, lungi dal chiudere i conti con il secolo breve, ne mima tragedie ed utopie in farse spesso tragiche. Mai, però, davvero serie.

Viviamo i tempi dell’usa e getta, della vita regolata dal ritmo della merce. L’obsolescenza programmata è garanzia di crescita economica, lo spreco criminale un mero effetto collaterale.
Il pianeta che arde, i mari che si innalzano, il deserto che cinge d’assedio le vite di milioni di persone è solo uno show tra i tanti. I Grandi della terra hanno suonato la grancassa sulla salvezza del pianeta prima dell’ultima conferenza sul clima di Parigi, ma nulla si è mosso dopo il clamoroso flop finale. Le emozioni si erano ormai esaurite: era tempo di guardare altrove.
La distopia orwelliana del controllo globale si è consumata nell’acquario del Grande Fratello televisivo, mentre, senza traumi, le tecniche del controllo globale irrompevano nella quotidianità, trasformando ogni luogo in un set cinematografico. Come lumache ci muoviamo lasciandoci alla spalle una traccia di bava elettronica. Sottrarsi è quasi impossibile. Molti nemmeno lo vorrebbero.
Nel magico mondo di Facebook le persone si espongono allo sguardo di centinaia di “amici” mai visti e si sottopongono a continui sondaggi per ogni genere di marketing ed inchiesta.
Non c’è nessuna forma di coercizione, basta un click per fuggire, ma non c’è bisogno di psicopolizia, perché tutti sono felici di entrare nel Luna Park. E la giostra gira senza fine. Chi non sale è fuori dalla società, non è dentro il flusso delle cose che succedono, degli “eventi”, delle “relazioni”.
Nel libro delle facce scorre tutto: dalle teste mozzate esibite dagli adepti del jihad globale, alle tecniche di coltivazione dell’orto bio.
Il Novecento ha inaugurato la dittatura del nuovismo, della giovinezza come categoria politica, ma non è riuscito a liberare l’umanità dalla schiavitù del futuro. Oggi invece viviamo intrappolati nel presente, senza un domani, che non sia un “altro” oggi. Persino l’indignazione di fronte alla guerra, alle migliaia di morti, feriti, torturati si esaurisce in fretta. Quest’estate le immagini dei profughi siriani, la fotografia  di un bimbo piccolo, rannicchiato come nel sonno, le onde e la sabbia come sudario, si è presto sciolta nella memoria.
Click, click, click! Gira ossessiva, un pungolo per le coscienze, poi la foto del bambino scompare: al suo posto c’è la gatta Kitty e i suoi cuccioli, un tramonto al mare, una barzelletta, una carica della polizia, un articolo sui danni del cioccolato… Un bombardamento si mescola con le prime istantanee del nipotino di chissachi da qualche parte.
Tutto scorre ma nulla si ferma, neppure le tragedie vere balzano fuori dal Luna Park. Anzi. Vi si installano come gli orrori di cartapesta di una casa di fantasmi che svetta accanto al banchino del torronaio e al tirassegno.
La messa in scena della guerra la rende irreale, parte dello spettacolo. Nulla che ci riguardi davvero.

I fantasmi del Novecento
Non c’è ragionare ed agire di trasformazione sociale che possa prescindere dal Luna Park.
I movimenti che si sono sviluppati negli ultimi vent’anni hanno provato a chiudere definitivamente i conti con il Novecento, ma ci sono riusciti solo in parte. Il tramonto delle filosofie della Storia, l’annullarsi dell’ipoteca del futuro sul presente, la coerenza tra mezzi e fini sono tasselli importanti in un processo rivoluzionario di segno libertario. In questi anni è stata netta la chiusura di credito nei confronti della tradizione autoritaria dei movimenti anticapitalisti.
Scrollarsi di dosso il peso delle grandi narrazioni ha liberato energie che si sono espresse nella tensione a processi di trasformazione sociale i cui primi frutti maturano già ora, rendendo fertile il terreno per forme di esodo conflittuale dall’ordine politico e sociale nel quale siamo forzati a vivere.
Tuttavia smuovere i macigni è più facile che uscire dalla vischiosità del presente, dalla volatilità del fluire informativo, dal ritegno a confrontarsi con una prospettiva rivoluzionaria, che non appare né vicina né probabile. L’ansia per la concretezza smorza la tensione progettuale, condizionando fin anche la riflessione sulla situazione e sulle possibilità che si offrono.
La democrazia (e il capitalismo) sono divenuti a tal punto pervasivi da farci credere di essere l’unico orizzonte possibile. Non il meglio, ma il meno peggio. La tensione al rovesciamento dell’ordine politico è sociale si inabissa con il Novecento.
Tanta parte dei movimenti non riesce ad andare oltre lo spazio di una singola, specifica lotta, perché non riesce ad immaginare come costruire un percorso che, al di là dell’occasionale radicalità dell’agire, sappia porre in primo piano la forza sovversiva dei propri fini.
Eppure oggi farla finita con l’ordine gerarchico e con la logica del profitto, non è mero esercizio di prefigurazione utopica, ma deflagrante necessità imposta dalla furia distruttrice che devasta e saccheggia il pianeta, condannando a morte e miseria la gran parte di quelli che ci vivono.
I movimenti degli ultimi anni, specie in Europa, chiudono la loro parabola nella desolante “concretezza”, di una lista elettorale o nell’illusione che il cocktail di demagogia più internet offra spazi partecipativi altrimenti inattingibili. È l’esito delle piazze “indignate”, dove la ri-scoperta dell’autonomia dello spazio politico ha ceduto il passo alla rincorsa alle poltrone, smarrendo la forza dirompente del momento istituente. È l’approdo delle piazze greche, che nel febbraio del 2012, negavano legittimità ad ogni governo, bruciando banche e ministeri. Quel febbraio si è smarrito nel realismo che ha portato ad un governo dei “movimenti”, l’unico che poteva (potrà?) tenere a bada le piazze elleniche.
Il consenso, registrato qua è là, verso pratiche di lotta più radicali, che parevano sepolte nel passato, non basta a spezzare la fascinazione istituzionale, quando non si traduce in reale, concreta sottrazione al gioco elettorale, nella pratica di forme di autogoverno, nell’apertura di spazi pubblici non statali.

In tanta parte del nord africa e in Siria le primavere di rivolta si sono inacidite in dittature e jihad. Una tragedia vera che ha il sapore della farsa.
Troppo facile una lettura in chiave meramente reattiva. Le dinamiche neocoloniali che hanno investito questi paesi hanno contribuito ad alimentare un potente risentimento, una desiderio di riscatto, un rifiuto di ogni prospettiva, foss’anche rivoluzionaria, che abbia il retaggio dell’Occidente.
Se fosse tutto qui gli esiti avrebbero potuto essere ben altri, come dimostra il percorso delle comunità del Bakur e del Rojava, passate da un nazionalismo in salsa marxista al rigetto dell’idea di Stato-nazione in chiave di autogoverno, femminismo ed ecologia sociale.

Nel barile della jihad, come in quello dei movimenti xenofobi, ultranazionalisti e razzisti che crescono nel cuore dell’Europa, c’è l’horror vacui di fronte ad un ordine del mondo che non ha più futuro. Nemmeno nella ripetizione dell’oggi.
Il nemico non è l’Occidente o la Democrazia o la Globalizzazione, ma la paura. La paura che si nutre di fantasmi, tanto potenti quanto invisibili. L’estrema destra ha trovato spazio in paesi come l’Ungheria o la Slovacchia, paesi che certo non attraggono immigrati e profughi, ma dove il futuro appare incerto.
Il vento della jihad soffia nelle banlieue francesi come in paesi ricchi come la Libia. La guerra santa offre un luogo dove ri-trovare se stessi, uno spazio identitario forte, un vaccino contro la paura.
Chi ne da una lettura anticapitalista e banalmente antimperialista non coglie che gli stessi che fracassano gli strumenti musicali e riducono in schiavitù le donne viaggiano in rete, usano i satellitari, sono, a pieno titolo, uomini ultramoderni.
Non si contentano di mostrare decapitazioni, torture e crocefissioni: sono ormai passati dalla spettacolarizzazione della morte all’esibizione di morti sempre più spettacolari.
Nulla dura: se si vuole mantenere alta l’audience servono numeri sempre più scenografici. I jihadisti sono a pieno titolo dentro il Luna Park.

La guerra mondiale che ha l’epicentro in Siria potrebbe presto allargarsi in modo incontrollato.
Incepparla non sarà facile, perché la paura rischia di crescere ancora, perché la scelta di rifugiarsi sotto una bandiera potrebbe trovare nuovi adepti.
Coniugare la pratica autogestionaria dei movimenti e una prospettiva di trasformazione globale chiude davvero i conti con quella parte del Novecento, che pretendeva di ipotecare l’oggi al domani. Liquidato il peso della Storia, si tratta di sciogliere la vischiosità del presente senza resuscitare la dittatura del futuro.
(Quest’articolo è uscito questo mese su A rivista)

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18 marzo. Voci dallo sciopero generale

scioperoIl 18 marzo i sindacati che hanno rifiutato di firmare l’accordo sulla rappresentanza, che stabilisce che solo se si firmano gli accordi e si li si accettano senza lottare si ha accesso ai “diritti” sindacali hanno indetto sciopero contro la limitazione delle libertà in materia di sciopero e contro la guerra.

Anarres ha sentito in diretta compagni da alcune delle piazze dello sciopero generale.

Raffaele da Trieste

Massimo da Milano all’apertura del corteo

e al termine, dopo la contestazione al consolato turco

Claudio da Firenze

Massimiliano da Parma

Di seguito il volantino distribuito a Torino dalla FAT

Espropriamo i padroni!

Ci raccontano che viviamo nel migliore dei mondi possibili, che liberismo e democrazia garantiscono pace, libertà, benessere. Ci raccontano le favole e pretendono che ci crediamo. Intanto piovono pietre.
Nelle nostre periferie tanti non ce la fanno a pagare il fitto e il mutuo e finiscono in strada. A Torino si moltiplicano gli sfratti, mentre ci sono migliaia di appartamenti vuoti.
Continued…

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Cuba. Quali prospettive?

cubaLa visita di Obama a Cuba ha un enorme valore simbolico, perché rappresenta l’inizio di un possibile disgelo delle relazioni tra i due paesi.

Il primo risultato pratico è stata la stipula di alcuni contratti commerciali, segno che, al di là delle chiacchiere, Washington è interessata a cercare di sottrarre alla Cina fette di mercato sull’isola.

Tra gli oppositori al governo della famiglia Castro ci sono opinioni discordi sull’incontro dell’Avana, la stretta di mano, che nonostante le reciproche punzecchiature sul tema dei diritti umani, rappresenta nei fatti una legittimazione da parte dell’amministrazione statunitense del governo cubano. Tra gli esuli a Miami, specie quelli più conservatori, è forte il timore di uno sdoganamento del regime, che potrebbe anche preludere ad un venir meno dello status privilegiato di cui godono i cubani espatriati in Florida.
Più possibilisti sono gli oppositori interni, che spingono per una democratizzazione del regime ed una progressiva apertura all’economia di mercato, nell’illusione di migliorare le proprie condizioni di vita.

Tra gli anarchici cubani prevale il timore che le aspettative dell’opposizione più moderata possa davvero portare all’imporsi dell’economia capitalista e lottano per una trasformazione in senso rivoluzionario del periodo di transizione che inevitabilmente ci sarà quando l’anziano Raul Castro giungerà a fine mandato.

L’info di Blackout ne ha parlato con Alfredo, un compagno che ha vissuto per vent’anni nella Repubblica Dominicana e conosce bene la realtà cubana, per aver partecipato alla recente costituzione della federazione anarchica di Cuba e del Caribe.
Ascolta la diretta

 

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Profughi, prigioni e filo spinato: il sapore dell’Europa

A Syrian refugee reacts as he waits behind border fences to cross into Turkey at Akcakale border gate in Sanliurfa province, TurkeyL’accordo appena stipulato tra l’Unione Europea e il governo turco sul respingimento dei profughi è oggi alla prova dei fatti. La Turchia si trasformerà in un gigantesco campo di concentramento per i profughi di guerra e i migranti rimasti intrappolati all’ombra della Mezzaluna, dopo la chiusura del mercato di carne umana aperto dall’Europa dei diritti e delle libertà.
Erdogan farà il lavoro sporco. I profughi, con il loro carico di bambini, anziani e disabili non premeranno più alle frontiere. Quelli rimasti in Grecia li stanno chiudendo negli hotspot, che nei fatti e nelle intenzioni saranno veri centri di detenzione.
Difficile tuttavia che davvero chi ha varcato una frontiera voglia tornare indietro, chi è in viaggio vuole andare avanti. Costi quel che costi. Nuove rotte, nuovi mercati, nuovi morti in mare.
Ma nulla di nuovo in questa Europa fatta di filo spinato e frontiere.

Ascolta l’intervista dell’info di Blackout con Murat, blogger e mediattivista di origine turca.

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Francia. Legge sul lavoro, movimenti di piazza e tentazioni xenofobe

part-par-arp4377111-1-1-1All’inizio di marzo ci chiedevamo se la petizione contro la riforma del diritto del lavoro in Francia sarebbe rimasta sulla carta o si sarebbe sostanziata in un movimento di opposizione di piazza in grado di mettere in difficoltà il governo francese.

Oggi possiamo dire che, diversamente dall’Italia, dove il job act è stato contestato solo da minoranze di lavoratori, studenti, precari, in Francia un nuovo movimento sta mettendo in difficoltà il governo Valls che è già stato obbligato ad un parzialissimo dietro-front.
Il successo del nuovo codice del lavoro è tutt’altro che scontato.

Il governo socialista e il presidente Hollande sono sempre più in difficoltà, sostanzialmente accerchiati. Nonostante abbiano provato a fare concorrenza al Front Nationale sul suo stesso terreno, estendendo per mesi la militarizzazione delle città e il restringimento delle libertà formali, i sondaggi continuano a ribadire la crescita di consensi della formazione guidata da Marine Le Pen.
Sul fronte sociale la frantumazione del diritto del lavoro non andrà in porto troppo facilmente.
La manifestazione dello scorso giovedì ha messo in campo decine di migliaia di persone.

Ascolta l’intervista dell’info di Blackout a Gianni Carrozza, corrispondente da Parigi di Collegamenti Wobbly.

Proviamo a delineare i tratti essenziali del progetto governativo.
Gli straordinari verranno pagati il 15% in meno.
Sulla carta, i francesi non possono lavorare più di 10 ore al giorno, 48 alla settimana e 44 in media nell’arco di tre mesi.
In realtà, ovviamente, le statistiche dicono che la media delle ore lavorate è ben più alta.
Ma la legge Aubry prevede che ogni ora oltre le 35 sia pagata il 25% in più per le prime otto e il 50% dalla nona in poi.
La maggiorazione può essere ridotta al 10% in più, ma solo nel caso ci sia un accordo collettivo di settore.
La nuova riforma, la “loi El Khomri” dal nome dell’attuale ministro del lavoro, permette di superare la barriera del sindacato di settore, dando centralità alle intese su base aziendale. Più precisamente la riduzione del pagamento degli straordinari può essere proposta anche da un sindacato che rappresenta meno del 30% della forza lavoro che proponga un referendum tra i lavoratori.
Gli straordinari possono arrivare così a 13 ore settimanali ed essere pagati il 10% in più.
Le imprese sotto i 50 dipendenti, anche in assenza di referendum, possono chiedere la deroga alle norme su 35 ore e straordinari, calcolando un tempo ore su base annua.
Gli imprenditori possono inoltre invocare circostanze eccezionali in fasi di difficoltà economica per ridimensionare i salari, aumentare i tempi di lavoro, ma anche per licenziare.
La legge infatti definisce, ma allo stesso tempo amplia, le condizioni del licenziamento per motivi economici rendendolo possibile, come già accade in Spagna, in caso l’azienda registri risultati peggiori per «diversi trimestri consecutivi», debba affrontare una fase di riorganizzazione o di transizione tecnologica.
C’è poi la questione spinosa delle indennità di licenziamento, modellata sul nostro Jobs Act e al centro delle contestazioni dei sindacati.
Il governo francese ha deciso di mettere un tetto alle indennità di licenziamento senza causa realistica legandole all’anzianità del lavoratore, creando una griglia che sottrae la materia, ad eccezione dei licenziamenti discriminatori, alla decisione dei tribunali.
Un licenziamento entro i primi due anni farà ottenere un’indennità pari a tre mesi di salario, tra i due e i cinque a sei mesi, e così via. E tanto basta. I detrattori in Francia hanno già annunciato la fine del Cdi, il contratto a tempo indeterminato.

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