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Ancona. Casa de Ni Antri

ancona 2Domenica 22 dicembre, un’ampia rete di realtà cittadine di base ha compiuto un gesto concreto e immediato per far fronte alla stringente emergenza abitativa, liberando l’ex scuola materna “Regina Margherita”, i cui locali erano vuoti dal 2010.  E’ la prima occupazione abitativa di Ancona . “Liberare spazi che ci appartengono e abitarli è un primo passo – scrivono gli occupanti –  ma soprattutto da una risposta, comunque insufficiente, a chi questo dicembre lo avrebbe dovuto passare sul marciapiede, perché secondo l’amministrazione è idonea la strada, è idoneo non avere un bagno, è idoneo essere separati dai propri familiari perché non si può più pagare un affitto, quando invece possiede tanti edifici vuoti che potrebbero ridare immediata dignità a moltissima gente. Siamo un centinaio di persone, tra cui migranti, richiedenti asilo, sfrattati per morosità incolpevole, donne, uomini e bambini che rivendicano per tutte e tutti e non per alcuni, il diritto a trovare alternative alle politiche di austerity. Intendiamo rivendicare pratiche di democrazia assoluta che superino la legalità e gli inadeguati regolamenti vigenti per mettere al centro i diritti fondamentali di ciascuno di noi. Da oggi Ancona si sveglia più ricca, con un nuovo grande spazio autogestito, solidale e antirazzista.”

Ascolta su radio Blackout l’intervista a Gianfranco del Gruppo Anarchico Malatesta:

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CIE. Una polpetta avvelenata e uno zuccherino

no-cie

28 dicembre. Il CIE di Modena, chiuso da mesi in attesa di ristrutturazione,  non riaprirà più. I lavori previsti non prenderanno avvio. Lo ha annunciato il Prefetto della città. Dopo 11 anni il CIE dove venivano spediti gli immigrati che più si erano distinti nelle lotte, chiude i battenti.

A Milano invece la struttura di via Corelli è stata completamente vuotata in vista della ristrutturazione.

25 dicembre. Il principale quotidiano spagnolo, “El Pais” pubblica in prima pagina la “notizia” della rivolta che sta squotendo il CIE italiani. I media francesi a loro volta danno ampio spazio alle vicende italiane. La lotta durissima degli immigrati senza carte che in tanti anni affogava nel silenzio, all’improvviso e non certo per caso travalica i confini nazionali. 

24 dicembre. Mentre il governo si esibisce in promesse la vita pressata dietro le sbarre urge.

A Roma, dove i reclusi con la bocca cucita erano diventati dieci, sono cominciate le prime, veloci esplusioni di chi lotta.

A Lampedusa, dove continua la protesta del deputato PD autorecluso nel CIE, sono cominciati, dopo tre mesi, i trasferimenti sulla terraferma degli scampati al naufragio.
Il quotidiano “La Stampa” ci serve in prima pagina alcune storie di vite spezzate, di profughi scampati al mare.

A Bari i reclusi danno vita ad una rivolta durissima.

A Torino i reclusi sono in sciopero della fame dopo un feroce pestaggio fatto nel settore femminile del giorno prima. Per “punire” una donna nigeriana che aveva morso il dito di un agente, i poliziotti avevano pestato a sangue tutte le nigeriane recluse. La ragazza del morso è stata successivamente trasferita in isolamento. 

23 dicembre. Questa mattina quotidiani ed agenzie hanno battuto la notizia che il governo avrebbe deciso di ridurre ad un mese il tempo di reclusione nei CIE prima dell’espulsione.
Ancora non è chiaro se faranno un decreto legge o presenteranno in Parlamento una proposta di legge più organica. Il primo ministro Enrico Letta, nella conferenza stampa di fine anno, ha dichiarato che “La discussione della Bossi-Fini sarà uno dei temi di gennaio e il governo ha anche intenzione di mettersi al lavoro subito per una revisione degli standard dei Cie” aggiungendo: “dobbiamo essere più efficaci anche nell’espletamento delle pratiche burocratiche”.
Se la detenzione nei CIE fosse ridotta ad un mese, come nel 1998, quando la Turco-Napolitano li istituì sarebbe comunque una bella notizia. Non bella come la fine della reclusione amministrativa ma comunque positiva. Anche se, ricostruendo gli avvenimenti degli ultimi mesi, la situazione potrebbe essere meno rosea di quanto appare.
Di un fatto siamo sicuri. Se davvero venissero cancellati i 18 mesi di CIE questo non sarebbe certo dovuto alla buona volontà del governo, ma alle lotte degli immigrati, che in questi anni li hanno fatti a pezzi, pagando un prezzo durissimo. Botte, umiliazioni, arresti, condanne.

Che qualcosa bollisse nella pentola del governo sul tema immigrazione era chiaro sin dal 3 ottobre con la strage di Lampedusa.
Il modo in cui venne trattata la vicenda, le prime dichiarazioni di Letta sulla volontà di superare la Bossi-Fini, erano i primi segnali di un campagna politico mediatica che preparava il terreno all’annuncio di oggi.

Mentre le notizie sulla situazione al limite del collasso nei CIE erano tenute in sordina, all’improvviso  l’immigrazione era trattata in modo diverso dal passato.
Di seguito una rapida ricostruzione degli eventi degli ultimi giorni e qualche ipotesi sugli scenari che potrebbero aprirsi.

22 dicembre. Un deputato del PD, Khalid Chaouki, dopo una visita al Centro di prima accoglienza di Lampedusa, ha deciso di non andarsene, facendosi rinchiudere con i profughi dimenticati lì da mesi. Tra loro i superstiti del naufragio del 3 ottobre, che suscitò commozione ed indignazione anche istituzionale, ma, al di là della pubblica esibizione di cordoglio, delle promesse di superamento della Bossi-Fini, nulla è cambiato. Chaouki ha dichiarato che non se ne sarebbe andato finché i reclusi non fossero stati trasferiti in un CARA.

21 dicembre. Quattro immigrati si sono cuciti le bocche per protestare contro il prolungarsi della detenzione nel CIE di Ponte Galeria a Roma. Immediatamente il quotidiano “La Stampa” ha pubblicato la notizia con il massimo del rilievo e il titolo “protesta choc”. Chi segue da anni le lotte degli immigrati nei CIE della penisola non può che constatare amaramente che si tratta di uno “choc” a scoppio ritardato, uno “choc” mediatico, studiato a tavolino per aprire la strada a qualche provvedimento sui CIE. Sono anni che gli immigrati si cuciono la bocca per protesta, sono anni che dai CIE filtrano le immagini che riprendono le bocche serrate da fili robusti, ferite dall’ago, simbolo di una resistenza che cerca di spezzare il silenzio. Inutilmente. A Torino nel lontano 2009 alcuni compagni fecero iniziative perché si parlasse di quelle bocche cucite, di quelle bocche serrate perché anche le urla si schiantano sul muro dell’indifferenza. I media parlarono del dito e nascosero la luna.
Oggi tutto sembra cambiato.
L’atteggiamento nei confronti dell’immigrazione clandestina si sta modificando. Sospettiamo tuttavia che probabilmente tutto debba cambiare, perché tutto resti come prima.

Anarres ne ha discusso con Federico, un compagno impegnato da anni nella lotta contro i CIE.
Ascolta la chiacchierata.

Proviamo insieme a fare il punto.
Le galere per immigrati senza carte nell’ultimo anno si sono dimezzate. Ne rimangono aperte solo sei (Torino, Milano, Roma, Trapani Milo, Pian Del Lago, Bari), le altre sono state, una dopo l’altra, bruciate e fatte a pezzi dai reclusi. Il governo ha dovuto chiudere i CIE di Gradisca, Trapani Vulpitta, Bologna, Modena, Crotone. Ufficialmente sono tutti in attesa di ristrutturazione, ma non c’é nessuna notizia certa su una possibile riapertura.
Tutti i CIE ancora aperti sono stati a loro volta gravemente danneggiati dalle continue rivolte, la conclusione è una sola: la macchina delle espulsioni è ormai al collasso.
In base ai dati, ormai calcolati per difetto, dello stesso Viminale, degli oltre 1800 posti dei CIE ne sarebbero ancora agibili meno della metà ed effettivamente riempiti nemmeno un terzo.
Il governo tace, gli specialisti della guerra contro i poveri sono alle prese con la rovina dei loro leader, i poliziotti premono perché non ne vogliono più sapere di fare i secondini nei CIE, dove si rischia di incappare nella rabbia di chi si vede sfilare la vita giorno dopo giorno. Il CIE è un limbo, che precede la deportazione, una sala d’aspetto con sbarre e filo spinato in attesa di un treno che nessuno vuole prendere.

Si dice che a gennaio possa riaprire il Centro di Bologna e successivamente la struttura modenese ma ancora non si sa chi verrà chiamato a gestirli dopo il disastro della cooperativa Oasi, che si era aggiudicata l’affare vincendo la gara d’appalto con un ribasso enorme rispetto alla precedente gestione della Misericordia di Giovanardi.
A Santa Maria Capua Vetere (Caserta) e Palazzo San Gervasio (Potenza) potrebbero sorgere due nuovi CIE, dopo l’avventura presto finita dell’emergenza Nordafrica.
Il governo ha stanziato 13 milioni di euro ma non si sa se i lavori abbiano preso l’avvio e che punto siano.

Numerosi segnali indicano che la ricetta individuata dal governo potrebbe essere decisamente più complessa del “semplice” riattamento dei CIE distrutti e dell’eventuale apertura di nuove strutture.

La decisione di spedire gli immigrati reclusi nelle patrie galere a scontare gli ultimi due anni nei paesi d’origine assunta con il decreto svuotacarceri prenderebbe due piccioni con la solita fava. Alleggerire il sovraffollamento carcerario e, nel contempo, evitare il trasferimento nei CIE e la trafila del riconoscimento espulsione dell’immigrato. Difficile dire se funzionerà, perché molto dipende dalla disponibilità dei paesi di emigrazione ad accettare questo pacco/dono dall’Italia.

A fine novembre il governo Letta ha stipulato un nuovo accordo con la Libia per il controllo congiunto delle frontiere: droni italiani nel sud della Libia, militari libici e bordo delle unità della marina militare impegnate nell’operazione Mare Nostrum.

Al ministero stanno studiando la possibilità di introdurre dei secondini privati per le funzioni di sorveglianza a diretto contatto con i reclusi.
Qualche solerte e sinistro esperto del business dell’umanitario, come il consorzio Connecting People, propone di trasformare i CIE in campi di lavoro.

Il quadro che ne emerge ci pare chiaro. Outsourcing della repressione alla frontiera sud, riduzione degli internati con il trasferimento anticipato dei carcerati nei paesi d’origine, accoglimento delle proteste dei poliziotti, in parte esonerati dal compito di secondini, probabilmente una maggiore attenzione alle prescrizioni della direttiva rimpatri. La riduzione del periodo di detenzione ed esplulsioni più veloci sembra essere la ricetta del governo per evitare di spendere altri soldi per la ristrutturazione di centri che, prima o dopo, gli immigrati danno alle fiamme. Per condire il tutto un pizzico di umanità in più (se trovano i soldi).

Una polpetta avvelenata e uno zuccherino. Niente da eccepire: Letta dimostra un’abilità degna dei vecchi democristiani.

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Firenze. Scontri all’assedio al lusso

firenze 22 dicembre 2013Sabato 21 dicembre. Cariche e scontri al corteo contro il lusso convocato oggi a Firenze da alcune assemblee pubbliche tra movimento Movimento Lotta per la Casa, Sindacati di Base, realtà libertarie e antagoniste della città.
L’appuntamento era in piazza S. Marco, da dove la manifestazione avrebbe dovuto proseguire per il centro, dove i negozi di lusso fanno affari mentre in periferia si fa fatica a procurarsi il necessario per vivere dignitosamente.
La polizia ha caricato per impedire la partenza del corteo, che era stato vietato. Tra spintoni e trattative il corteo è riuscito infine a muoversi ed ora – 17,05 – si trova in piazza Duomo dove la situazione è ancora molto tesa.
Seguiranno aggiornamenti.
I manifestanti si sono mossi da piazza Duomo, infilandosi nei vicoli, la polizia ha caricato nuovamente con maggiore violenza. L’assedio al lusso è comunque riuscito a raggiungere il centro cittadino, turbando lo shoppimg dei ricchi.

Qui alcune sequenze degli scontri riprese da RAI News

Di seguito alcuni tralci del testo diffuso dall’USI, dall’Ateneo Libertario e da alcune individualità anarchiche per l’occasione.

“Perché oggi siamo qui a manifestare la nostra rabbia contro il lusso invece di  fare shoppimg?

– Perché avremmo ben poco da comprare, Gli stipendi quando esistono sono fermi, mentre i prezzi volano. Il lavoro non c’è o quando c’è è precario, è a intermittenza, è a capriccio di lor signori! Più di un italiano su 10 è povero in canna, uno su 3 è sull’orlo della miseria. In Grecia questi numeri sono doppi. Tra i lavoratori immigrati i poveri sono la larga maggioranza.

Continued…

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Brasile. Desaparecidos e controllo militare

rio_de_janeiroVivere in una favela in Brasile, specie a Rio De Janeiro, non è mai stata una villeggiatura delle più ambite. La coppa del mondo calcio nel giugno 2014 ed i giochi olimpici del 2016 hanno reso ancora più dura la vita dei poveri.
Tra sgomberi delle baraccopoli più vicine ai nuovi stadi, dove gli operai muoiono, e le nuove strutture crollano come castelli di sabbia, sono il segno di un’operazione di pulizia che non potrà che incrudirsi nei prossimi mesi.
L’ultimo morto ammazzato è un uomo di 81 anni colpito da un proiettile esploso dalle forze di polizia. L’uomo, José Joaquim de Santana, è stato ucciso mentre osservava dal balcone di casa sua una manifestazione degli abitanti di una delle tante periferie di Rio, che avevano bloccato la strada per protestare contro l’arresto di un ragazzino di 13 anni.
Dopo il suo assassinio i blocchi e le cariche sono andati avanti tutta la notte.

Le sommosse dello scorso giugno sono state il detonatore per una nuova stretta repressiva. Sebbene il governo abbia ceduto ad alcune richieste, revocando l’aumento del prezzo del biglietto dei trasporti urbani, dall’altro sono state messe in cantiere nuove misure repressive.
Non pago delle prodezze della propria polizia militare, il governo brasiliano ha stretto un accordo con la Francia per migliorarne l’addestramento antisommossa in vista delle due grandi kermesse sportive nelle quali il grande paese sudamericano gioca una partita di immagine che non vuole perdere. Costi quel che costi.
La CRS – Compagnia di sicurezza repubblicana – è andata ad addestrare agenti di polizia del Batalhão de Choque – BPCHq della Polizia Militare di Rio de Janeiro. Lo scopo esplicito dell’operazione è “insegnare come reagire durante le sommosse, le manifestazioni conflittuali e come controllare gruppi violenti in vista di eventi che possono aver luogo durante la World Football Cup e le Olimpiadi del 2016”.

La Francia non è nuova a queste operazioni. Durante la “Operazione Condor “, la controrivoluzione preventiva che favorì la nascita delle dittature in Sudamerica negli anni ‘70, polizia francese portò in dote la “competenza” maturata durante la guerra per l’Algeria. Le tecniche insegnate – torture, tecniche di contro-guerriglia, controllo di vicinato – sono all’origine delle attività degli “squadroni della morte”. Migliaia di oppositori politici vennero uccisi o scomparvero.
In questi mesi, in Brasile, sono aumentate gli arresti e le sparizioni di oppositori politici. Scompaiono circa 15 persone al giorno per ragioni diverse, ma parecchie riconducibili ad operazioni di polizia coperte, per togliere di mezzo senza troppi problemi compagni e gente che resiste. Occorre rilevare che la lotta contro la repressione è comunque molto forte dopo gli arresti di giugno.
Sebbene il movimento sia riuscito a strappare qualche concessione – cancellazione della legge anti gay, eliminazione degli aumenti dei biglietti del trasporto pubblico – tuttavia i lavori per le olimpiadi vanno avanti senza tener conto delle proteste di chi ne sta facendo la spese.

Anarres ne ha parlato con Simone, un compagno che ha vissuto a lungo in Brasile, conosce bene il paese ed è in contatto con i compagni che lottano contro la gentrificazione olimpica.

Ascolta la diretta

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Due giorni di rivolta al CARA di Mineo

mineoNel CARA di Mineo sono ammassati oltre quattromila richiedenti asilo. La struttura di Mineo non ne potrebbe accogliere più di 2000. Venne aperta nel 2011 durante la guerra per la Libia per fare fronte all’ondata di profughi che approdarono a Lampedusa dopo l’attaco alla Libia. La rottura del trattato di cooperazione siglato dal governo italiano con quello libico riaprì la rotta verso Lampedusa, che la politica dei respingimenti di massa e della detenzione nelle prigioni di Gheddafi aveva chiuso per quasi due anni.
I CARA della penisola vennero vuotati per fare spazio ai nuovi arrivati, gli altri vennero concentrati a Mineo. Una soluzione perfetta per tutti. Perfetta per la ditta Pizzarotti di Parma, costruttrice e proprietaria del “Recidence Aranci”, vuoto da tempo dopo l’abbandono dei militari statunitensi di stanza a Sigonella per le cui famiglie era stato edificato. Perfetta per il governo che si toglieva le castagne dal fuoco. La società Pizzarotti non risuciva a venedere né affittare una struttura sorta in campagna, lontana dai centri abitati, lontana dagli sguardi, il governo aveva proprio bisogno di un posto così.
Dopo due anni la situazione è esplosiva. Pochi giorni fa si è tolto la vita un ragazzo eritreo, stanco di attendere un pezzo di carta che lo autorizzasse a ri-cominciare la sua vita interrotta dalla guerra, dalla diserzione, dal deserto, dai trafficanti di uomini, dai guardiani delle frontiere. La Commissione territoriale per la valutazione delle richieste di asilo venne installata a due mesi dall’apertura del maxi CARA di Mineo, dopo una prima rivolta degli immigrati.
Le cooperative che gestiscono la struttura, tra queste la Sisifo di Lampedusa, la stessa nell’occhio del ciclone per la pulizia etnica di Lampedusa, praticano la politica del “divide et impera”, spacciandola come autogestione da parte dei reclusi su base etnica. Di fatto i “rappresentanti” individuati dai gestori sono una sorta di kapò che fanno la spia e cercano di impedire l’unità tra i rifugiati. In cambio godono del privilegio di vivere in villette più grandi, pulite con ampi spazi a disposizione.
Mercoledì 18 nella struttura viene fatta un’assemblea cui partecipano anche gli antirazzisti catanesi, che promuove una protesta per il giorno successivo.
Giovedì 19 circa mille uomini, donne, bambini danno vita ad una lunga giornata di lotta. Tra i tanti cartelli e striscioni uno ricorda il giovane eritreo morto suicida la settimana precedente.
All’alba viene bloccata la Statale 417 che collega Catania e Gela. I blocchi sono due: uno sulla 417, l’altro in direzione di Mineo. I manifestanti vogliono andare a Catania, che però dista 40 chilometri. Troppa strada specie per i bambini. I rifugiati decidono di muoversi verso Palagonia: prima della cittadina la polizia li blocca. Parte una sassaiola, la polizia risponde con lacrimogeni. Un profugo eritreo viene arrestato e trasferito ai domiciliari nel CARA.
I profughi ce la fanno ad arrivare in paese, dove viene loro promesso un intervento.
Le associazioni antirazziste concordano una tregua di qualche giorno per esaminare le proposte fatte.
Venerdì 20 dicembre.
Anarres ne ha parlato con Alfonso di Stefano della rete antirazzista catanese.
In chiusura di collegamento è arrivata la notizia che i profughi erano nuovamente scesi in strada. Stanchi di promesse non erano più disponibili ad attendere una risposta, che secondo le stesse leggi, dovrebbe arrivare entro 35 giorni.
Centinaia di immigrati hanno nuovamente bloccato con grossi massi le strade statali 417 e 385.

Ascolta la diretta

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Lampedusa. Una devastante normalità

Iprofughil cortile di una prigione, i reclusi che si devono spogliare davanti a tutti, irrorati con un tubo di benzoato di benzina. Le immagini trasmesse in prima serata dal TG2 hanno mostrato una realtà che non ha nulla di eccezionale. Per anni dai CIE e dai CARA, uscivano furtivamente riprese sfocate della brutalità della polizia, degli insulti, botte umiliazioni inflitti a immigrati, profughi, richiedenti asilo. Una devastante normalità.
I politici hanno fatto la loro parte mostrandosi indignati e pronti a reagire. La commissaria UE Cecilia Maelstrom ha minacciato di far perdere all’Italia il sostegno europeo.
Inevitabilmente ci si chiede perché proprio oggi la quotidianità dei CIE e dei CARA irrompe nelle case degli italiani all’ora di cena. Perché ora? Cosa sta cambiando? Bisogna credere a Letta, che sostiene il superamento della Turco-Napolitano-Bossi-Fini?
La situzione nei CIE e nei Cara del nostro paese è insostenibile da anni. Due giorni fa un immigrato eritreo, rinchiuso nel CARA di Mineo, un limbo in cui sono ammassati e dimenticati migliaia di richiedenti asilo, si è tolto la vita. Pochi giorni prima al CARA di Bari è nuovamente scoppiata la rivolta. La situazione dei CIE è nota: la metà sono chiusi, gli altri sono in buona parte inagibili. Le continue rivolte degli immigrati hanno demolito, pezzo a pezzo, i centri italiani.
Se si osserva con attenzione l’azione concreta del governo, al di là delle dichiarazioni di facciata, la trama sottesa a quelle immagini esposte allo sguardo di tutti, rivelano una realtà ben più cruda dell’agghiacciante metafora concentrazionaria che evocano nell’immediato.
Oggi il governo ha approvato il decreto svuota-carceri, l’ennesimo pannicello caldo sulla piaga purulenta delle carceri italiane.
Tra i provvedimenti adottati la possibilità di far scontare agli stranieri gli ultimi due anni di detenzione nei paesi di origine. Un modo brillante – sempre che l’Italia riesca a stipulare accordi soddisfacenti con i paesi d’origine – per ridurre il numero dei detenuti ed espellerli senza passare dal CIE. Una vecchia proposta dellla sinistra perbene, che ora potrebbe trovare applicazione.
Se a questo si aggiunge una politica di accordi bilaterali con i paesi africani per una gestione in loco della reclusione e del controllo, il gioco è fatto. Il governo potrebbe ripulirsi l’immagine, riducendo la detenzione nei CIE e applicando in modo meno restrittivo la direttiva europea sui rimpatri sì da tenere aperte poche strutture. Umane, pulite tranquille. Il lavoro sporco, i corpi violati, la dignità calpestata trasferiti altrove, appaltati ad altri.
Non per caso, il governo Letta, non solo ha confermato il trattato italo-libico che dal 2009 sino alla guerra del 2011 aveva garantito la chiusura della rotta tra i porti libici e la Sicilia, ma lo ha di recente rinforzato.
Il 29 novembre il ministro della difesa Mario Mauro e il suo omologo libico Al-Thinni hanno sottoscritto un accordo per “rafforzare la cooperazione tra i due Paesi”.
L’intesa, spiega una nota della Difesa, riguarda “l’impiego di mezzi aerei italiani a pilotaggio remoto in missioni a supporto delle autorità libiche per le attività di controllo del confine sud del Paese”. L’altro riguarda l’addestramento di personale libico”. Potrà essere effettuato in Italia o Libia e “migliorando la sicurezza comune contribuirà alla pace e alla stabilità internazionale”.
Droni italiani a guardia della frontiera sud della Libia, militari libici a bordo delle unità navali italiane impegnate nell’operazione “Mare Nostrum”.
Il fronte delle guerra ai poveri si sposta ma non è meno feroce.

Ascolta l’intervista  con Antonio Mazzeo, giornlista e blogger siciliano, realizzata dall’info di Blackout

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Dalle navi dei veleni alla terra dei fuochi

le-iene-terra-dei-fuochi col18 dicembre. E’ di questa mattina la notizia del rinvio a giudizio del capo della polizia Pansa e degli altri ex commissari straordinari alla gestione dell’emergenza rifiuti, Bertolaso e Bassolino.
E’ l’ultimo atto ma certo non quello definitivo nella storia dell’ecocidio della Campania. Una storia che comincia dove ne finisce un’altra, non meno vergognosa.

Nel 1998 approdava a Livorno l’ultima nave dei veleni. Era stata respinta e tornava in Italia con il suo carico di morte. Per decenni i rifiuti tossici e nocivi del Belpaese venivano imbarcati e spediti lontano, in Africa. Poi il business finì. Anche i poveri preferiscono vivere.
La Camorra fiutò l’affare: ne nacque una santa alleanza tra politici, malavitosi e imprenditori, che per quasi vent’anni hanno avvelenato in modo gravissimo l’intera Campania. E non solo. Terreni a vocazione tradizionalmente agricola si trasformarono in discariche più o meno legali.
Terra dei fuochi è una locauzione dal sapore romantico, ma la realtà che si respira di romantico non ha nulla. Chi viaggia sulla Strada Statale 7, la Nola-Villa Literno o sull’Asse Mediano, vede tutt’intorno il fumo salire dalla terra, sente un odore acre che brucia in gola lasciando un sapore acido. Un odore cui non è possibile assuefarsi.
Come è potuto accadere? Come è stato possibile intombare tanti rifiuti tossici, fino a renderne difficile se non impossibile l’estrazione dal suolo?
Continued…

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Forconi a Torino. I figli del deserto

torino piazza castello 9 dicDecodificare quanto è accaduto a Torino nell’ultima settimana non è facile. Specie se lo si fa con lo sguardo interessato di chi sceglie un punto di vista di classe, di chi ha l’attitudine alla partecipazione diretta, di chi mira alla costruzione di esperienze di autogoverno territoriale fuori tutela statale, definendo uno spazio e un tempo capaci di attraversare l’immaginario sociale, facendosi pratica concreta.

Anarres ne ha discusso con Pietro e con Stefano, uno di Genova, l’altro di Torino per cercare di capire quello che stava succedendo nelle piazze ed il dibattito che ne era scaturito in città, tra fascinazioni e ripulse.
Ne è scaturito un dibatto intenso, sovente intervallato dagli sms dei nostri ascoltatori.
Ve lo proponiamo nella sua interezza, auspicando che possa innervare un ulteriore riflessione.
Di seguito anche una nostra valutazione.
Buon ascolto e buona lettura.

Ascolta la diretta con Pietro

e i commenti arrivati

Ascolta la lunga chiacchierata con Stefano e i commenti arrivati.
Prima parte

Seconda parte

Nella sinistra civilizzata e di governo c’è da decenni un netto disprezzo per l’Italia a cavallo tra Drive in e il presidente operaio e puttaniere. L’Italia che si è affidata per vent’anni ad un partito capace di attuare politiche ultraliberiste, garantendo altresì la sopravvivenza di figure sociali che altrove la globalizzazione ha spazzato via: commercianti, artigiani, padroncini, agricoltori su scala familiare o con pochi dipendenti.

La settimana precedente quella del 9 dicembre, il governo, intuendo la miscela esplosiva che si stava preparando, ha concesso tutto quello che volevano alle organizzazioni degli autotrasportatori, mentre la moderatissima Coldiretti ha organizzato la manifestazione al Brennero, dove venivano bloccati e perquisiti i camion con la benedizione del ministro. Dopo i blocchi e le “perquisizioni” sulla A32 durante l’estate No Tav, Alfano ordinò cariche, arresti e l’invio di altri 250 militari in Clarea. Evidentemente questo governo, soprattutto nella sua componente di destra, mira a evitare lo strappo con alcuni dei propri settori sociali di riferimento, concedendo spazi di manovra negati ad altri.
La sinistra civilizzata, nei brevi periodi in cui è riuscita a saltare in sella al destriero governativo ha garantito la vita facile alla grande industria, facilitando la demolizione mattone su mattone di ogni forma di tutela per il lavoratori dipendenti e collaborando attivamente nella trasformazione di tanti di loro in lavoratori indipendenti ma di fatto subordinati. In tempi di crisi il popolo delle partite IVA si ritrova nella stessa condizione dei mercatari torinesi cui il comune chiede 500 euro al mese per la pulizia dei mercati. A tutti questi si aggiungono i tanti giovani – uno su quattro dicono le statistiche – che non hanno né un lavoro né un percorso formativo. Per non dire dei ragazzi degli istituti professionali che sanno di essere parcheggiati in attesa di disoccupazione.

Nelle piazze torinesi animate dal popolo delle periferie, quello cresciuto tra facebook e il bar sport, si sono ritrovati quelli dei banchi dei mercati, qualche disoccupato, i ragazzi degli istituti professionali.

 Nella sinistra intorno alle giornate di lotta indette dal “coordinamento 9 dicembre” si è sviluppato un dibattito molto ampio, spesso anche aspro.

Di fronte all’ampiezza della partecipazione, alcuni hanno osservato che era difficile che il mestolo stesse in mano alla destra cittadina. A Torino sia la Destra istituzionale – Fratelli d’Italia – sia chi – come Forza Nuova e Casa Pound – vive nel limbo tra istituzioni e velleità rivoluzionarie – non avrebbero un peso ed una capacità organizzativa tali da poterlo fare.

Un fatto è certo: nelle piazze di Torino e dintorni i rappresentanti di queste formazioni si sono fatti vedere più volte accolti dagli applausi della gente. Come è certo che buona parte delle tifoserie torinesi, ben presenti nei giorni più caldi, siano ormai da lunghi anni egemonizzate dall’estrema destra. In almeno un caso un esponente di “Alba Dorata” è stato cacciato dal blocco di piazza Derna grazie alla presenza di esponenti di sinistra, che avevano deciso di partecipare all’iniziativa. È tuttavia un caso isolato che non cambia il quadro. Anche la favola dei profughi africani, accolti con un applauso da quelli del “coordinamento 9 dicembre” è stata è stata ampiamente sfatata da resoconti circolati successivamente.
La questione è comunque mal posta. Qualunque sia stato il peso della destra, nelle sue varie componenti, la domanda vera è un’altra. Il movimento che si è espresso nelle piazze in un garrir di tricolori, inviti alla polizia a fraternizzare, richiami all’unità della nazione contro la casta corrotta e asservita ai diktat dell’Europa delle banche è un movimento di destra o no?
Noi pensiamo di si.

I resoconti fatti girare dalla sinistra radicale torinese hanno privilegiato l’immagine di piazze ambiguamente acefale: prive di capi, prive di organizzazione, prive di reale comprensione delle ragioni che li avevano condotti lì. Una sorta di creta che chiunque avrebbe potuto plasmare e dirigere. Una descrizione a mio avviso inconsapevolmente intrisa di orgoglio intellettuale e del mai sopito sogno di poter governare o alimentarsi delle jacquerie. Alcuni ne hanno assunto il mero contenuto antisistema, nella vecchia convinzione che il nemico del tuo nemico è un tuo amico. Una mostruosità ideologica che abbiamo visto annegare nel sangue tra Baghdad e Kabul ma sinora non ci aveva toccato da vicino.

Bisogna  guardare in faccia la realtà. Una realtà che certo non ci piace, ma il mero desiderio di vederla diversa non si concreta, se non la si sa vedere per quello che è. I protagonisti di questi giorni di blocchi e serrate sono i figli del deserto sociale degli ultimi trent’anni. Gente che credeva di avere ancoraggi e certezze e oggi si trova sospesa sul nulla. 
L’analisi della composizione di classe di questo movimento, della sua natura popolare, periferica,perché avvertivamo forte la necessità di capire ed intervenire per poter fermare l’onda lunga di destra che ha messo a loro disposizione un lessico comune, una chiave di lettura ed un orizzonte progettuale.

Continued…

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No Tav. Due presidi e tre processi

2013 12 14 bussoleno fiaccSabato 14 dicembre. Siamo sul limite di un nulla metropolitano, nel piazzale del capolinea del tram 3, a pochi passi dalle recinzioni che delimitano il perimetro del carcere delle Vallette.
Dal 9 dicembre nei bracci che soffocano le vite di un’umanità pressata dentro quattro mura sempre più strette ci sono quattro No Tav, accusati di terrorismo. Secondo i PM Rinaudo e Padalino, nella notte tra il 13 e il 14 maggio, avrebbero partecipato all’azione di lotta al cantiere/fortino della Maddalena. In quell’occasione i No Tav riuscirono a cogliere di sorpresa la polizia, ad entrare nel cantiere, mandano in fiamme un compressore.
Ad attendere i No Tav c’é un imponente apparato poliziesco, che ha chiuso ogni casso ai due pratoni limitrofi al carcere ed impedisce al camion dei manifestanti di avvicinarsi alla recinzione con il camion con l’amplificazione.
I No Tav tagliano per il prato e si avvicinano alle reti dove partono saluti, slogan, canti, petardi e fuochi d’artificio: dopo circa mezz’ora partono per un giro intorno al carcere, placcati da vicino dalla polizia, che evidentemente avrebbe voglia di menare le mani.
Dopo due ore gli attivisti tornano al piazzale, i poliziotti restano a bocca asciutta.

Domenica 15 dicembre. Circa 400 No Tav si ritrovano in piazza dei Mulini a Bussoleno per un presidio che si trasforma presto in fiaccolata per le strade del paese. In testa lo striscione con la scritta “Terrorismo=Tav. Claudio, Mattia, Chiara, Nicco liberi!”.
Ancora una volta il popolo No Tav si stringe intorno quattro attivisti colpiti dalla repressione, segno chiaro che la resistenza all’imposizione violenta di un’opera inutile e dannosa è patrimonio comune di chi si oppone alla Torino Lyon.
Qui un set di foto del corteo.

Lunedì 16 dicembre. In maxi aula 3 del tribunale di Torino si celebra la quinta udienza del processo contro 28 No Tav accusati di “violenza privata” per aver cercato di contrastare attivamente il sondaggio Tav di via Amati a Venaria.
In via Amati la trivella arrivò nel tardo pomeriggio del 26 gennaio, accompagnata da un imponente nugolo di poliziotti, carabinieri e finanzieri in assetto antisommossa.
In breve arrivano i primi No Tav che presto saranno centinaia: bidoni, legna, qualcosa da mangiare.
Un camion con le luci rimase bloccato dal gran numero di persone che si riversarono in strada: gli attivisti di sempre e la gente della zona. Furono tre giorni di presidio permanente, con assemblee, incontri, cene collettive.
Due anni dopo, nelle aule di tribunale, non restano che i soliti ben noti, accusati di aver partecipato, a fianco di tanti altri a tre giorni di resistenza popolare.
I due digos chiamati a testimoniare ricordano bene a memoria i nomi degli imputati: quello che si occupa di anarchici cita gli anarchici, quello che cura gli antagonisti elenca quelli che “ricorda”. Nessuno dei due rammenta niente altro: non ricordano se c’era l’antisommossa, non ricordano i vigili urbani, non sanno niente che non sia la loro scaletta.
Si torna in scena il 2 aprile: maxi aula 3 ore 9,30.

Nel pomeriggio viene emessa la sentenza nei confronti di 24 No Tav per le azioni di lotta del 17 febbraio 2010. A Coldimosso di Susa era stata piazzata una trivella per i sondaggi. Nel tardo pomeriggio la polizia carica e pesta con grande violenza i No Tav tra le vigne e i prati. Due No Tav vengono feriti gravemente: Marinella viene manganellata selvaggiamente sul volto, presa a calci e pugmi, Simone viene abbattuto con un violentissimo colpo al capo e subisce un’emorragia cerebrale. Ricoverato alle Molinette resta in prognosi riservata per tutta la notte. Nonostante ciò la Digos provoca i suoi amici accorsi in ospedale, sino a formulare l’accusa di rapina per un’agendina persa da un agente. Più tardi, sempre a Torino, alcuni No Tav bloccano l’uscita dei camion con il quotidiano La Stampa, ormai organo ufficiale della lobby Si Tav.
In valle la risposta è immediata e corale: blocco dell’autostrada e delle due statali, polizia accolta a sassate e costretta alla retromarcia verso l’alta valle e il Sestriere.
Due anni dopo i PM chiedono pene elevatissime per i resistenti di Coldimosso e per i solidali torinesi. Il giudice condanna tutti ma rigetta l’accusa di rapina. Il tutto si chiude con condanne tra i 4 e i nove mesi.

Martedì 17 dicembre. Presidio solidale davanti al tribunale, dove, a porte chiuse, si celebra l’udienza preliminare per tre No Tav accusati di “tentata rapina” e sequestro di persona. L’udienza è a porte chiuse: intorno alle 11,40 il GUP emette la sentenza di rinvio a giudizio per tutti e tre gli attivisti, tutti sottoposti a misure di privazione della libertà. Andrea ha da otto mesi l’obbligo di firma quotidiano, Giobbe è da agli arresti domiciliari con tutte le restrizioni, Claudio è uno dei quattro arrestati per terrorismo il 9 dicembre.
I fatti?
Era il 16 novembre del 2012. I No Tav che, come ogni mattina fanno colazione davanti al check point della centrale, pescano un tizio in borghese che scatta foto al presidio, chiedendogli spiegazioni. Lui nicchia, fa spallucce, poi dichiara di essere incaricato dalla Procura: si guadagna qualche insulto ma non viene toccato. Andrea, gli scatta a sua volta qualche foto. Dopo che se ne è andato sulla sua auto e con la sua macchina foto, arrivano i carabinieri che fermano Andrea e un altro compagno, Claudio. Li portano nel fortino e li obbligano per sette ore a stare in piedi su un gradino senza potersi sedere: verranno rilasciati solo in tarda serata. Sei mesi dopo la polizia gli farà una perquisizione domiciliare. Giobbe verrà arrestato il 13 agosto.
Un banale episodio di resistenza viene trasformato in un’accusa grave. Il processo comincerà in aprile.

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Il 9 dicembre dei profughi

Taranto, arrivo dei profughi libici da LampedusaQuando, dopo l’incontro del 26 novembre con l’assessore Tisi, la decisione sulle richieste di residenza dei rifugiati e profughi che occupano l’ex MOI, era stata rimandata al 9 dicembre, nessuno o quasi pensava alla coincidenza con la serrata di negozi e mercati nel primo giorno di blocchi del “coordinamento 9 dicembre“.

Per quelli dell’ex MOI e per altri occupanti di case la posta in gioco era molto importante: la residenza apre le porte a numerosi servizi, dalla sanità all’asilo per i figli, alle liste per il lavoro.
Il sabato precedente sulla stampa era apparsa la notizia di una risposta positiva da parte del comune, che avrebbe concesso a tutti la residenza in una via che non c’è, inventata per l’occasione.
In bilico tra il radical chic e il kitch, il comune, approfittando anche dell’occasione per celebrarlo, avrebbe assegnato loro la residenza in via Mandela. Sono tutti neri, Nelson Mandela li rappresenterà benissimo…
Per gli altri occupanti niente via Mandela, niente residenza. Tutti, italiani e stranieri, sono tornati davanti al Municipio per ribadire che la residenza è un’esigenza per tutti, italiani ed immigrati, profughi e non.

Da via XX Settembre partiamo in circa 200 alla volta del Comune in piazza Palazzo di Città. Mentre si va ci informano che nella piazza la polizia sta caricando quelli del “Coordinamento 9 dicembre”.
In piazza troviamo esponenti dei centri sociali, altri occupanti di case oltre ad un folto gruppo di forconati.
Ci piazziamo davanti ai cordoni di polizia schierati in assetto antisommossa con slogan, canti e balli.
Una parte di manifestanti si unisce ai cori appropriandosene e scandendone di nuovi, con uno stile più vicino al tifo da stadio che alle istanze sociali.
La situazione è surreale.
Tanti di quelli che sono lì capiscono ben poco di quello che succede, ma è chiaro che le istanze degli uni e degli altri di fatto dividono in due la piazza.
Dopo l’entusiasmo iniziale è presto chiaro che le due anime faticano a comunicare: non mancano neppure un paio di zuffe tra ultrà visibilmente ubriachi e alcuni compagni.
Fortunatamente la notizia di un nuovo blocco in piazza Statuto induce la maggioranza degli aderenti al “coordinamento 9 dicembre” ad abbandonare la piazza.
L’incontro con il sindaco salta perché la Digos teme che i “forconati” possano reagire male, anche tra chi manifesta c’è timore di strumentalizzazioni da parte dell’altra parte della piazza. Alla fine una delegazione viene ricevuta e all’uscita annuncia che anche agli altri occupanti sarà concessa la residenza.
Saranno i fatti a dimostrare se la giunta rispetterà i patti o meno. Altrimenti riprenderà la lotta con l’auspicio di una migliore compagnia.

(queste note sono liberamente tratte dal resoconto di Matteo, un antirazzista che sostiene la lotta dei rifugiati dell’ex MOI. In questi giorni abbiamo sentito più volte la favola della fraternizzazione tra profughi e forconi, che questo racconto contribuisce ampiamente a smitizzare)

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Fronte del Tav. Perquisizioni e arresti

imagesDue settimane molto intense di lotta No Tav tra Torino e la Val Susa, che si sono concluse con perquisizioni ed arresti tra Torino e Milano. Un’operazione repressiva che, come abitudine della procura torinese, arriva subito dopo un periodo molto intenso di iniziative.

9 dicembre. All’alba la polizia esegue numerose perquisizioni in abitazioni private, all’Asilo di via Alessandria, in una casa occupata in via Lanino a Torino e nell’alloggio di un No Tav milanese. In qualche caso la perquisizione è molto dura.
Sequestrate pubblicazioni No Tav, materiale informatico e… libri di fantascienza, in particolare quelli di Philip K. Dick. Un segnale che persino i poliziotti colgono la natura potenzialmente sovversiva della narrativa di anticipazione.
Sono stati arrestati quattro No Tav, con l’accusa di “atti di terrorismo con ordigni micidiali o esplosivi” (articolo 280 bis) oltre a detenzione e porto di materiale da guerra. Uno dei No Tav nel mirino della magistratura era già alle Vallette, altri due vengono arrestati subito, il quarto qualche ora dopo. Il provvedimento ha la firma di Padalino e Rinaudo, la coppia di PM specializzata nella repressione dei No Tav
Nel mirino la serata di lotta al cantiere/fortino della Maddalena del 13 di quest’anno. In quell’occasione la polizia venne presa alla sprovvista e un generatore venne danneggiato. L’eco mediatica dell’episodio fu enorme: sin da allora i media parlarono di “terrorismo”, creando il clima per l’operazione repressiva odierna. Vale la pena segnalare che il 15 maggio, in un’assemblea convocata per far conoscere alla popolazione l’impatto dei cantieri, le aree soggette ad esproprio, i rischi per la salute sul territorio del paese, si parlò anche dell’incursione al cantiere. Gli interventi di chi definì i sabotaggi come atti di resistenza vennero accolti con fragorosi applausi nella stipatissima sala del donBunino di Bussoleno.
Il giorno successivo il Coordinamento Comitati No Tav uscì con un comunicato in cui si rivendicavano i sabotaggi alle cose, senza colpire le persone. Le azioni del 13 maggio in Clarea ne facevano parte a pieno titolo. Nonostante ciò i media continuarono a battere sul tasto falso della divisione tra buoni e cattivi, tra gente comune e attivisti autonomi e anarchici. Una tesi che viene ripetuta come un mantra anche in questi ultimi giorni, nonostante una manifestazione popolare di decine di migliaia di persone il 16 novembre abbia ribadito la decisione di continuare a resistere attivamente all’occupazione militare e all’imposizione di un’opera inutile a dannosa.
Nessun No Tav è disponibile a recitare il ruolo di mero testimone della devastazione del territorio e del saccheggio delle risorse.
Ci saranno tante altre notti e giorni agitati per i collaborazionisti e per le truppe di occupazione.
La resistenza continua…

susaAggiornamento all’11 dicembre.

Il Procuratore di Torino Giancarlo Caselli, con i suoi vice Beconi ed Ausiello, nelle dichiarazioni rilasciate dopo gli arresti si spinge più in là delle stesse accuse formulate dai PM Padalino e Rinaudo, sostenendo in maniera tanto fantasiosa quanto improbabile, che quella notte i No Tav avessero cercato di uccidere i 14 operai che si trovavano nel cantiere. Lo scopo di queste dichiarazioni, che travalicano le stesse gravissime accuse di terrorismo, è evidente: tentare di separare i compagni arrestati dal movimento, alludendo ad una loro volontà di andare oltre il sabotaggio, per colpire le persone.
Questa tesi è stata immediatamente rispedita al mittente perché il Movimento No Tav ha emesso un comunicato di solidarieà che riportiamo sotto.

“Comunicato in solidarietà agli arrestati del 9 dicembre 2012
9 dicembre 2013: l’ennesima operazione repressiva contro il movimento no-tav.
Quattro persone in carcere (Chiara, Nico, Mattia, Claudio), arrestate tra Torino e Milano, con l’imputazione (tra le altre) di associazione sovversiva con finalità di terrorismo, accusati di aver partecipato a una iniziativa notturna in Clarea, tra il 13 e il 14 maggio 2013, una delle tante camminate e manifestazioni popolari organizzate quest’anno contro il cantiere di Chiomonte.
Terrorista è chi devasta e saccheggia il territorio e la vita di chi lo abita!
Il movimento No Tav rivendica il diritto alla resistenza attiva contro la militarizzazione del territorio, l’imposizione violenta di una grande opera inutile e dannosa, la criminalizzazione del movimento e la negazione di diritti.
Chiara, Nico, Mattia, Claudio sono tutti noi e ne esigiamo l’immediata liberazione!″

La risposta solidale si è manifestata concretamente la sera stessa degli arresti.
Una cinquantina di No Tav hanno dato vita ad un presidio a sorpresa di fronte all’hotel della stazione a Susa, che da qualche tempo ospita e nutre i carabinieri di stanza al cantiere/fortino di Chiomonte. In quell’occasione, oltre al consueto striscione contro le truppe di occupazione, ne è stato fatto uno con una scritta nera in campo bianco “Terrorismo=Tav. Libertà per Claudio, Mattia, Chiara, Nico”. La serata è poi proseguita di fronte all’hotel Napoleon, storica residenza dei carabinieri nel centro segusino.
A Torino la stessa sera c’era stato un corteo di solidali per le vie di Porta Palazzo. Ieri sera breve saluto a sorpresa al carcere delle Vallette, dove sabato 14, alle 17,30 ci sarà un presidio solidale. Altre iniziative sono in cantiere per il fine settimana.

Per approfondimenti puoi ascoltare la diretta fatta dall’info di blackout con Daniele, No Tav dell’Alta Valle Susa

Aggiornamento al 12 dicembre.

Sabato 14 dicembre presidio al carcere delle Vallette – capolinea del tram 3 – alle ore 17,30

Il coordinamento comitati No Tav ha indetto un presidio di solidarietà a Bussoleno domenica 15 dicembre alle 17,30 in piazza dei Mulini

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Grecia. Scontri ed arresti a 5 anni dall’assassinio di Alexis

alexis viveTredici arresti e 191 fermi. Questi i numeri della repressione delle manifestazioni svoltesi in tutta la Grecia nel quinto anniversario dell’assassinio di Alexandros Grigoropulos, ucciso dalla polizia.  I controlli soffocanti sono stati la premessa di una violenza fuori dall’ordinario scatenata dalla polizia.

6 dicembre. Ad Atene in mattinata si è svolto un corteo studentesco animato sia dai ragazzi delle superiori che dagli universitari. Ci sono stati scontri con le forze dell’odine che hanno portato a centinaia di fermi: dieci sono stati subito tramutati in arresti.
Nel pomeriggio dello stesso giorno, c’è stata una manifestazione indetta dagli anarchici e da esponenti dei gruppi di sinistra, dopo la quale ci sono stati degli scontri molto duri e prolungati per le strade del quartiere di Exarchia, nella zona dove era stato assasinato l’anarchico quindicenne. Le forze della polizia hanno sommerso la zona di lacrimogeni, usando in grande quantità anche le terribili “flashbang”, le granate stordenti.

Nelle altre città greche protagonisti delle manifestazioni sono stati migliaia di studenti delle scuole medie e superiori. Anche a Salonicco, Agrinio, Volos vi sono stati scontri, seppure meno duri di quelli della capitale.

Guarda le foto  e un video del corteo studentesco della mattina del 6 dicembre.

video relativi:

Qui il video degli scontri ad Atene, nel quartiere di Exarchia

Video e immagini della giornata a Salonicco, Volos e Agrinio.

(da una corrispondenza del Gruppo Comunisti Libertari di Atene)

A Torino, in occasione dell’anniversario della morte di Alexis, ucciso da un poliziotto ad Exarchia il 6 dicembre del 2008, sui muri del palazzo che ospita il consolato greco, in corso Galileo Ferraris 65 è comparsa la scritta “Alexis vive. Stati assassini” siglata con una A cerchiata. Qui una foto pubblicata sul sito Indymedia Piemonte.
Il 12 dicembre del 2008 un gruppo di anarchici occupò il consolato in solidarietà con i compagni che avevano dato vita ad una rivolta che scosse il paese. Simbolo di quella rivolta era il gigantesco albero di Natale di fronte al parlamento in piazza Syntagma, che venne dato alle fiamme.

A cinque anni di distanza la Procura ha intentato un grande processo contro gli anarchici torinesi. Quella giornata di lotta è entrata a far parte del procedimento.
La prossima udienza è fissata per mercoledì 18 dicembre alle 9 in maxi aula 3

Alexis vive nelle lotte, gli anarchici non dimenticano.

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Folletti No Tav a Torino

Geodata 2Questa notte – lo scrive il sito Indymedia Piemonte – ci sono state alcune azioni di disturbo di alcune ditte di Torino e dintorni che lavorano per il cantiere/fortino della Maddalena.
Di seguito il comunicato diffuso.

“8 dicembre. Nell’ottavo anniversario dell’Immacolata ribellione del dicembre 2005 Giacu Trus, cugino torinese del più noto Giacu d’la Clarea, ha visitato alcune delle ditte che hanno scelto di lavorare nel cantiere/fortino della Maddalena.

Ditte che, pur di guadagnare, non si vergognano di collaborare con chi sta cercando di imporre con la forza la realizzazione di un’opera contro cui si batte da quasi 25 anni un movimento popolare, che resiste nonostante l’incrudirsi della repressione.

no tav Marazzato pAlla Marazzato di corso Giulio Cesare, una ditta che si occupa di spurghi ed ha lavorato a Chiomonte, è apparsa sulla porta di ingresso una scritta No Tav.

In strada Fantasia 69 a Leinì, sul cancello di ingresso della Italmatic, che rifornisce le macchinette del caffé per tecnici, operai, poliziotti e militari nel cantiere, è stato appeso uno striscione con la scritta “Niente caffé per chi devasta. No Tav”.

Il giro di Giacu Trus si è concluso alla Geo Data/GD Test di corso Duca degli Abruzzi 48/e. Il cancello di ingresso, cui è stata appesa una bandiera con il treno crociato, è stato serrato con una robusta catena munita di lucchetto.
Sul loro sito quelli della Geodata, una società di progettazione ingenieristica, dichiarano che la loro “missione” è “valorizzare il sottosuolo per rispondere alla moderna esigenza dello sviluppo sostenibile e del trasporto”. Una beffa di fronte ad un’opera inutile, costosa e dannosissima come la Torino Lyon.
italmatic No TavBasta una veloce occhiata agli altri progetti cui hanno lavorato per capire quale tipo di lavoro realmente faccia questa ditta. Progettazione di devastazioni ambientali ad ogni latitudine del pianeta.
Ci piace pensare che ad ogni latitudine incontrino gente con la testa dura, gente come Giacu e suo cugino Giacu Trus, gente che non molla. Resiste. Bugianen.

In una notte che ne ricordava tante altre, fredda e stellata, nel tempo sospeso che precede le Geodata No Tav 1prime ore del mattino, Giacu Trus e i folletti di città hanno festeggiato, consapevoli, che ogni giorno è possibile gettare una manciata di sabbia negli ingranaggi dell’occupazione militare.
La resistenza continua…
Giacu Trus NoTav”

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Feste, farina e forconi

LA-RABBIA_g9 dicembre, giorno della rivoluzione. Sino ad una settimana fa molti non ne sapevano nulla. Sui media non ce n’era traccia. Chi non frequenta il magico mondo di “faccia libro” è proprio tagliato fuori. Venerdì 29 novembre, durante la puntata di Anarres, arriva in radio un messaggio semplice e perentorio. Mi si chiede quale sia la posizione della Federazione Anarchica sul 9 dicembre. Precipito giù da un pero e provo a capirne di più, al di là della certezza che la mia interlocutrice radiofonica capisse ben poco di cosa sia una Federazione di anarchici.
Nel micromondo della sinistra radicale italiana cominciano a circolare le prime informazioni, da cui emerge che tra gli animatori dell’iniziativa, c’è il fior fiore di fascisti e leghisti, sia pure sotto forma di associazioni di contadini e commercianti. In contemporanea era previsto lo sciopero di due tra le principali organizzazioni italiane degli autotrasportatori. Chi ha pensato di lanciare un appello per il blocco del paese da lunedì a venerdì probabilmente ci faceva conto, ma il governo è corso ai ripari siglando un accordo, in seguito al quale sono state annullate le iniziative previste. Dal canto suo la principale organizzazione degli agricoltori, la moderatissima Coldiretti, ha promosso una manifestazione di stampo protezionista al Brennero, bloccando in un fiorire di gialle bandiere e di tricolori i tir che trasportavano derrate alimentari dall’estero.
Segnali che il governo e le organizzazioni moderate del mondo contadino temevano l’avanzare di un’onda populista, che saldandosi con le rivendicazioni dei piccoli commercianti, dei microimprenditori, del popolo anti casta potessero mettere in campo azioni clamorose e radicali.
In qualche modo lo ha colto anche il quotidiano “La Stampa”, che mercoledì 4 dicembre proponeva in prima pagina un articolo di Michele Brambilla dall’emblematico titolo “La Lega è morta il leghismo è più vivo che mai”. Brambilla sostiene che, se la rappresentazione politica della “rabbia del nord” è morta, tuttavia le radici cui attingeva sono più vive che mai.
Da un paio di giorni anche i quotidiani si sono accorti che qualcosa stava succedendo. Un fiume sotterraneo di voci che si rincorrono, dove nulla è certo ma qualcosa succederà. A Torino giovedì c’é stata un’assemblea con oltre 500 persone, in un garrire di tricolori e inni di Italia.
Nel pomeriggio di venerdì, tre giorni prima della giornata che dovrebbe bloccare il paese, i supermercati subalpini erano affollati di gente che faceva scorta di alimentari.
Sempre venerdì è arrivata l’adesione dei due principali gruppi della destra neofascista “Forza Nuova” e “Casa Pound”. Il presidente dell’Anpi torinese ha emesso un comunicato in cui l’iniziativa è bollata come fascista, associazioni moderate come Confartigianato ed Ascom prendono le distanze ma non sono in grado di dire in modo chiaro se lunedì i loro associati si uniranno o meno alla protesta.
Glia autonomi di info_aut hano dicharato che si tureranno il naso e andranno a dare un’occhiata, e, se ce ne sarà l’occasione, tenteranno anche di “riorientare” la piazza. Un’ambizione forse eccessiva che tuttavia segnala il timore di perdere un possibile treno di passagio in città.
Un fatto è certo: la nobile categoria italica dei rivoluzionari da bar, degli spaccamondo da pausa caffé, dei rodomonti dell’aperitivo, quelli che incespicano sui congiuntivi ma sanno farsi bene i conti in tasca pare intenzionata a uscire in strada. Nei loro proclami parlano di bloccare tutto, e, chi sa? Magari a metà settimana andare a Roma e far cadere il governo. Una farsa? Forse. Nel nostro paese la memoria di una farsa fattasi tragedia di un ventennio non è ancora sopita.
Un fatto è sicuro. Questa marea sotterranea sta montando ad una settimana dalla decadenza di Berlusconi da senatore, con un governo indebolito che pasticcia tra IMU e tasse, dopo che la sfera giudiziaria si è – ancora una volta – sostituita a quella politica, tirando una riga sul Porcellum.
Nel mezzo lo spettacolo della politica va avanti con Matteo Renzi che si esibisce al Lingotto, in casa Fiat, per il rash finale della primarie PD. Nei bar di Torino le clientele orfane di Berlusconi parlano di far cadere il governo. Qualcuno dei leader dei “forconi” estesi alla penisola parla di un governo di transizione fatto dai militari. Deliri ridicoli? Anche Bossi, Berlusconi e Mussolini per un po’ hanno fatto ridere.
Vale comunque la pena di cercare di capire queste piazze, per non rischiare di venirne dolorosamente sorpresi.

Lunedì sapremo se il 9 dicembre sarà una bolla di sapone o meno.
Resta il fatto che la variegata area di lavoratori subordinati e parasubordinati, tra i quali la destra sociale e, più in generale il populismo di stampo post leghista e grillino affondano i denti, non ha alcuna destinazione genetica all’insurrezione fascista. Anzi. La saldatura tra questi ceti impoveriti e i lavoratori subordinati triturati da trent’anni di macelleria sociale, potrebbe essere una miscela molto potente nel suo deflagrare. Sempre che si sappia trovare i modi per costruire un lessico comune. Impresa indubbiamente difficile.
Vi proponiamo l’intervista rilasciata a radio blackout da Cosimo Scarinzi cui segue un suo articolo  in uscita sul numero di questa settimana di Umanità Nova, che offre interessanti spunti di analisi e proposta.
Ascolta la diretta

È mio vecchio convincimento, che con il tempo si è rafforzato, che gran parte di ciò che è veramente interessante avviene al di fuori del cono di luce mediatico e che anzi, paradossalmente ma non troppo, alcune vicende che trovano uno spazio enorme nei media sono assolutamente prive di interesse reale.
Basta pensare, a questo proposito, a discussioni infinite su pregi e difetti di Matteo Renzi, sulla vita sessuale di Silvio Berlusconi, sulle strategie politiche di Giorgio Napolitano.
Lo schema “politico contro sociale” che sovente utilizziamo rende conto sino ad un certo punto di questa dicotomia a causa di un doppio processo di degrado/scomposizione del ceto politico e di frantumazione/ricomposizione del corpo sociale.
In questo contesto la ricerca/azione è simile a un naviglio che attraversa un tratto di mare coperto da banchi di nebbia e ciò che è più interessante si individua piuttosto attraverso gli indizi che grazie a limpide e coerenti raffigurazioni. Continued…

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No Tav. Notti agitate per le truppe di occupazione

17426483_protesta-no-tav-alla-stazione-di-bussoleno-1Fronte del Tav. Giorno dopo giorno, si moltiplicano le azioni contro le truppe di occupazione e le ditte collaborazioniste.
Nella settimana tra il 21 e il 29 novembre i folletti No Tav hanno più volte disturbato il sonno e la tranquillità dei militari.
Il 21 novembre è toccato ai cacciatori che dormono all’hotel S. Giorgio di Sangano, svegliati da un gruppo di No Tav e folletti scesi dai monti, Il 28 novembre Maddalena Libera e un’allegra brigata di burloni ha chiuso con una catena l’ingresso carrabile della Caserma Ceccaroni di di Rivoli, dove sono di stanza gli alpini, in servizio nel cantiere. Il 29 novembre è toccato ai finanzieri che fanno un soggiorno dorato all’hotel Bucaneve di Bardonecchia: un gruppone di No Tav li hanno salutati rumorosamente con slogan, striscione e “Bella ciao”. Sulla strada del ritorno i No Tav della Bassa Valle e di Torino si sono fermati per un breve ma caloroso saluto ai carabinieri che dormono al Napoleon di Susa.
Notti agitate per i collaborazionisti e per le truppe di occupazione.

La resistenza continua…

Aggiornamento. Venerdì 6 novembre passaggiata notturna in Clarea con slogan, canti e qualche petardo sin oltre la mezzanotte. Sulla via del ritorno saluto rumoroso ai carabinieri che dormono al Napoleon.

Qui un video.

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