Provate a immaginare. E’ una sera d’estate e state affiggendo manifesti per strada. Una pattuglia vi vede con il secchio e, con manovra da film, sgomma, inverte, va contromano e finalmente vi intercetta. Non hanno visto niente, ma sostengono di avervi visto incollare i manifesti. Dentro di voi tirate qualche bestemmia ma vi preparate ad intascare il verbale per affissione abusiva.
Vi sbagliate. I due sceriffi vi stanno preparando una serata diversa. Vi buttano a forza in auto e vi portano in caserma. Qui il rituale è quello da film. Via i vestiti, perquisizione, minacce, arroganza.
Dopo qualche ora ne hanno a sufficienza e vi buttano in strada. Un compagno vi recupera e voi dimenticate presto la faccenda.
Non se ne dimentica la Procura, che vi rinvia a giudizio. Uno di voi due non ha ancora 18 anni: il giudice per i minori decreta il non luogo a procedere.
L’altro, ad anni di distanza, si ritrova in tribunale.
L’accusa? Imbrattamento aggravato. Una follia. Una lucida follia.
La degna conclusione di una serata di ordinario arbitrio.
Una storia piccola, quasi insignificante rispetto a tante altre vicende di sangue e violenza: eppure in tante storie piccole come questa si intreccia la trama della tela di ragno che si avvolge sulla nostra società.
Martedì 4 giugno c’é stata l’udienza filtro.
Mercoledì 19 giugno ore 9 aula 52 il processo entrerà nel vivo.
Un paio di sceriffi, due anarchici ed un giudice
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– 7 Giugno 2013
Turchia. Le radici della rivolta
Il 30 maggio la polizia turca si presenta con i bulldozer a Gezi Park, l’ultimo parco dell’area di Piazza Taksim, da giorni occupato pacificamente dal movimento che si oppone alla distruzione dell’ultimo spazio verde della zona.
Il parco viene sgomberato dalla polizia con brutalità. Oltre ai lacrimogeni e alle violenze sui manifestanti, la polizia incendia le tende degli occupanti e distrugge gli alberi che questi avevano piantato nel parco nei giorni precedenti.
L’occupazione di Gezi Park era cominciata il 28 maggio. Il parco si trova nella centrale Piazza Taksim, sulla sponda europea della città, una zona estremamente turistica ma anche un luogo simbolo di resistenza e di lotta per i lavoratori e per i rivoluzionari. La piazza in cui il Primo Maggio del 1977 furono uccisi 34 manifestanti. La piazza attorno alla quale anche quest’anno la polizia ha massacrato a forza di botte, lacrimogeni e idranti la folla scesa in piazza, nonostante i divieti, per la giornata internazionale dei lavoratori.
Questa volta la violenza della polizia ha incontrato però una reazione determinata e di massa.
Nonostante i continui attacchi della polizia, sempre più persone si sono unite alla resistenza di piazza. Dopo giorni di scontri ininterrotti, nei quali la polizia ha usato mezzi sempre più duri e violenti, alle 16 del primo giugno, i blindati iniziano a ritirarsi da Piazza Taksim, i cordoni dell’antisommossa arretrano e abbandonano la piazza. La resistenza di oltre un milione di manifestanti, la solidarietà praticata nelle strade, ha alla fine costretto il governo a fare almeno un passo indietro. In piazza ci sono tutti: donne e uomini, ecologisti, abitanti della zona, lavoratori, curdi, socialisti, anarchici, verdi, sindacati, repubblicani, ultras, attivisti delle ong.
La rivolta non si ferma con la ritirata della polizia da Piazza Taksim, i manifestanti restano a presidiare la piazza, le barricate restano in piedi. In decine e decine di altre città continuano gli scontri e le proteste, a Ankarea e Izmir la polizia interviene con estrema violenza.
Ormai si tratta di un’estesa rivolta contro un governo autoritario e conservatore, contro il terrorismo di stato, contro la devastazione capitalista.
Tutto questo per qualche albero?
“Nessuno ha il diritto di aumentare le tensioni in Turchia usando come scusa alcuni alberi tagliati”. Questo ha dichiarato il primo ministro turco Recep Tayyip Erdoğan. Per quanto i media ufficiali, in Turchia come a livello internazionale, abbiano cercato soprattutto nei primi giorni di parlare solo di Gezi Park e della difesa degli alberi, le radici profonde di questo movimento di lotta sono ormai evidenti a tutti quelli che le vogliono vedere.
Già lo stesso movimento in difesa di Gezi Park non mira alla semplice salvaguardia del verde pubblico, ma si oppone all’intero processo di gentrificazione urbana in atto nella zona di Taksim. Detto in parole semplici, con gentrificazione si intende la trasformazione di aree urbane povere in aree ricche. Questo processo si traduce da una parte in abbattimento e cementificazione selvaggia, dall’altra in esclusione dei più poveri da tali aree, con conseguente abbassamento del livello di vita per le classi popolari. Nelle aree centrali di Istanbul questo
processo è in corso già da anni. Interi quartieri vengono distrutti per lasciare spazio a complessi residenziali, grandi centri commerciali, alberghi di lusso, il costo della vita aumenta, aumenta la schiera degli emarginati, aumentano i profitti degli speculatori legati al partito di governo, l’AKP. Al posto del Gezi Park, Erdoğan vorrebbe far costruire un imponente centro commerciale, una moschea e un rifacimento delle caserme ottomane che si trovavano nella piazza prima della costruzione del parco.
Un progetto che sintetizza i cardini ideologici della sua politica: capitalismo sfrenato, conservatorismo religioso, nazionalismo in salsa neo-ottomana.
Riportare la Turchia ai fasti imperiali del periodo ottomano è uno dei ritornelli della retorica del governo turco. Per questo sono pronti già altri favolosi progetti: l’aeroporto più grande del mondo, la moschea
con i minareti più alti del mondo, ed un nuovo canale parallelo al Bosforo.
Contro questi progetti di vera e propria devastazione sociale ed ambientale si sono sviluppati movimenti popolari. In particolare nella regione del Mar Nero si sono tenute negli ultimi anni numerose manifestazioni contro discariche, centrali nucleari, fabbriche inquinanti, autostrade e dighe.
La rabbia esplosa nelle piazze affonda le sue radici anche nel sempre più selvaggio sfruttamento imposto alla classe lavoratrice in Turchia.
Milioni di persone nel paese lavorano in condizioni quasi servili, con salari bassissimi ed altissimi tassi di incidenti e morti sul posto di lavoro. Queste condizioni sono ancora più drammatiche negli appalti e nelle esternalizzazioni. A questo si accompagna una organizzazione fortemente gerarchica del lavoro e la repressione dei lavoratori che si organizzano autonomamente, nei sindacati rivoluzionari e di classe.
Un altro elemento determinante nell’esplosione delle rivolte è costituito dalle politiche islamiste conservatrici imposte dal governo.
Quelle che giornali come “Repubblica” hanno liquidato come “proteste della birra” o, più romanticamente, “dei baci”, sono in realtà una reazione compatta della società turca al barbaro attacco alle libertà personali. Non si tratta di difendere uno stile di vita occidentale o di rivendicare il laicismo militare di Ataturk. Chi scende in piazza ha capito che il governo vuole completare il proprio sistema di dominio legalizzando ed istituzionalizzando una repressione religiosa che punta ad eliminare ogni libertà individuale. Le politiche di Erdoğan comprendono divieti sugli alcolici, divieti sulle relazioni pre-matrimoniali, ma soprattutto un attacco alle donne. Il governo vorrebbe infatti intervenire contro aborto e contraccezione, inoltre sta cercando di limitare le libertà di scelta della donna su un piano più generale, imponendole il lavoro domestico secondo un modello di sottomissione patriarcale. Continued…
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– 4 Giugno 2013
Carcere. Tortura democratica
Lo scorso 8 gennaio l’Italia è stata condannata dalla Corte Europea per i Diritti Umani per i trattamenti inumani e degradanti inflitti ad alcuni detenuti rinchiusi nelle carceri di Busto Arsizio e Piacenza. Questi prigionieri erano stati obbligati a condividere con altri carcerati una cella di 9 metri quadrati, senza acqua calda e priva di una decente illuminazione.
La cifra di 14.000 euro è il prezzo stabilito dalla corte per le torture subite dei detenuti.
Ma non solo. I giudici hanno stabilito l’obbligo per l’Italia di porre rimedio al sofraffollamento carcerario entro un anno. Il governo italiano, già numerose volte nel mirino della corte, ha immediatamente fatto ricorso. Il ricorso è stato respinto lo scorso 27 maggio.
Questa decisione apre la possibiolità che tanti altri detenuti facciano ricorso, oltre obbligare l’Italia a porre fine alle terribili condizioni di vita nelle carceri del Bel Paese.
Nei giorni immediatamente successivi alla respingimento del ricorso parlamentari di quasi tutti gli schieramenti, nonché lo stesso ministro della giustizia Cancellieri hanno fatto dichiarazioni altisonanti. Dichiarazioni che stridono palesemente con il silenzio e l’immobilità di tutte le forze politiche istituzionali di fronte ad una situazione che dura ormai da anni.
Una situazione che solo un’immediata amnistia potrebbe sanare, una situazione che solo una radicale riforma del sistema penale potrebbe modificare, cancellando leggi come la Fini-Giovanardi sulle droghe, la Bossi-Fini sull’immigrazione, la Cirielli sulla recidiva, oltre a quelle che riguardano reati contro il patrimonio, puniti spesso in modo più grave di quelli contro la persona.
Anarres ne ha parlato con Eugenio Losco, avvocato milanese, da sempre in prima fila nella difesa di compagni, poveri, immigrati.
Eugenio, reduce dall’udienza odierna al processo ai No Tav accusati di resistenza allo sgombero della Libera Repubblica della Maddalena e per la giornata di lotta del 3 luglio 2011, ci ha aggiornato sul processo, dove i giudici hanno respinto la richiesta di costituzione di parte civile della presidenza del consiglio dei ministri, accettando invece quella di numerosi altri ministeri (interni, difesa, commercio…) oltre a vari sindacati di polizia.
Il suo intervento, basato sulla convinzione che il carcere dovrebbe essere semplicemente abolito, era molto pessimista sulla reale possibilità che l’attuale governo metta mano ad un provvedimento di amnistia, nè, tantomeno, che crei le condizioni per una riduzione strutturale della popolazione chiusa nelle gabbie della democrazia.
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– 31 Maggio 2013
Il rapido tramonto delle cinque stelle
Le recenti elezioni amministrative sono state un importante test dopo lo tsunami elettorale di febbraio alle politiche. Viene confermato il quadro emerso con il rinnovo del consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia: aumento dell’astensione, ridimensionamento secco del Movimento Cinque Stelle, tenuta nelle percentuali del PD, sconfitta di PDL e Lega.
A pochi mesi dalle politiche l’elettorato appare molto fluido, in movimento rapido, senza i solidi ancoraggi che avevano caratterizzato il periodo precedente.
La crisi economica, la rabbia verso un ceto politico dipinto come “casta” privilegiata, la spinta giustizialista, la non celata diffidenza verso l’immigrazione, la volontà di salvaguardia del territorio, il desiderio di partecipazione diretta, l’aspirazione all’equità fiscale, la richiesta di un salario di cittadinanza sono alcuni degli ingredienti del minestrone a cinque stelle. Il tutto impastato con tanta retorica, il gusto per l’invettiva, il sapore agre dell’ingiuria, il carisma del leader.
A ben vedere niente di davvero nuovo sulla scena del nostro paese: un pizzico di chiasso leghista, un tocco da PM alla Di Pietro, una spruzzata antifiscale come la prima Forza Italia, un tocco di welfare in salsa post comunista, un uomo della provvidenza di destra/sinistra/oltre.
L’impasto non ha tuttora retto alla cottura a fuoco lento del passaggio dalla piazza al parlamento, dall’invettiva alla proposta.
Secondo alcuni osservatori il rapido declino dell’M5S è imputabile alla scarsa capacità di muoversi sull’agone politico, secondo altri l’attitudine autoritaria del leader, la cialtroneria degli eletti, lo scontro interno permanente hanno contribuito a demolire rapidamente la ficucia conquistata due mesi fa.
Più concretamente la promessa mancata di aprire il parlamento come una scatola di sardine ha portato tra la metà e i due terzi dell’elettorato grillino a scegliere l’astensione.
Anarres ne ha parlato con Pietro Stara
Ascolta la diretta
Sullo stesso tema ascolta anche l’intervista a Marco Revelli realizzata dall’informazione di radio Blackout
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– 31 Maggio 2013
Siria. Armi e giochi di guerra
L’Unione Europea si è spaccata sulla questione dell’embargo alla vendita di armi ai ribelli siriani, revocato su spinta di Francia e Gran Bretagna, nonostante l’opposizione degli altri Stati membri. Non si è fatta attendere la risposta della Russia, nettamente schierata con Assad, che ha annunciato la fornitura di nuovi missili antiaerei al governo siriano.
Per la terza volta in tre anni la Francia imprime un’accelerazione bellica, che obbliga l’alleato/competitore statunitense a stare a ruota.
In questa prospettiva un compromesso sulla questione siriana pare allontanarsi. Se gli Stati Uniti potevano accontentarsi di un indebolimento del regime di Assad, se la Russia poteva accettare tale situazione di fatto, la scelta dell’UE mette a rischio ogni prospettiva di rapida risoluzione della guerra civile siriana.
Ascoltate l’intervista realizzata dall’informazione di Blackout con Antonio Mazzeo, giornalista e blogger, esperto di commercio d’armi e degli equilibri geopolitci.
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– 31 Maggio 2013
BRICS o del nuovo ordine del mondo
L’acronimo B.R.I.C.S. sta per Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. L’asse tra questi paesi che qualcuno definisce ancora come “emergenti” è quello sul quale ruota tanta parte dell’economia a livello mondiale. Durante il vertice svoltosi in marzo a Durban hanno raggiunto un’intesa per la creazione di una banca di sviluppo per il finanziamento congiunto di grandi progetti infrastrutturali. Lo ha annunciato, a margine del vertice, il ministro sudafricano delle Finanze Pravin Gordhan. I BRICS rappresentano un quarto del Prodotto Interno Lordo (Pil) del pianeta, il 43% della popolazione, riserve in valuta pregiata per 4.400 miliardi di dollari. Cifre impressionanti per i cinque paesi che stanno spostando a sud l’asse economico e, in prospettiva, anche militare, del mondo.
Un fatto del quale Stati Uniti e, soprattutto Europa, non colgono sino in fondo la portata. Il retaggio coloniale impresso nell’immaginario dell’occidente rende ciechi su una realtà la cui materialità ormai ci investe in modo sempre più diretto.
Basta pensare alla cialtronesca supponenza con la quale l’Italia ha creduto di poter risolvere la vicenda dei due marò assassini. Peccato nessuno abbia spiegato al ministro degli esteri del Bel Paese che l’India moderna non era quella di Kipling.
Diamo un’occhiata a qualche altra cifra.
La popolazione totale delle cinque nazioni è di poco inferiore ai 3 miliardi di persone, con una maggioranza di giovani, una classe media con un potere di acquisto equivalente ai nostri anni Sessanta e una superficie totale che equivale a poco più di un quinto delle terre emerse dell’intero globo. Russia, Sud Africa e Brasile sono grandi esportatori di risorse naturali, minerali ed energetiche. India e Cina sono i grandi consumatori del gruppo. La Cina e l’India in particolare, mirano ad estendere la propria influenza su nuovi territori che possano fornire cibo, energia, acqua pulita e materie prime per la loro crescente industria manifatturiera.
La penetrazione della Cina in Africa è tale da mettere in discussione l’egemonia, in reciproca competizione, delle potenza dell’occidente post coloniale.
La creazione della banca BRICS muta la scena economica e geopolitica mondiale. Questa banca mira a essere strumento attivo per lo sviluppo e la crescita infrastrutturale delle nazioni associate o che decideranno di associarsi.
Nel frattempo la spesa militare di paesi come la Cina e l’India è in costante crescita.
Anarres ne ha parlato con Salvo Vaccaro dell’Università di Palermo
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– 29 Maggio 2013
Fatih. Gli antirazzisti non dimenticano
Sono passati cinque anni. La storia di Fatih, l’immigrato tunisino morto nel CIE – allora CPT – di corso Brunelleschi nella notte del 23 maggio 2008, non la ricorda quasi più nessuno.
Fatih era un immigrato tunisino senza documenti. Nella notte del 23 maggio 2008 stava male. I suoi compagni chiesero aiuto. Nessuno li ascoltò. Racconteranno: “eravamo come cani al canile, urlavamo e nessuno ci ascoltava”.
Il mattino successivo, quando finalmente quelli della Croce Rossa entrarono nella sua cella, per Fatih non c’era più nulla da fare.
Su questa vicenda sarebbe calato il silenzio, se alcuni compagni di Fatih non fossero riusciti ad intercettare un giornalista che raccontò questa storia sulle pagine di Repubblica.
Due giorni dopo il responsabile del CIE Antonio Baldacci dichiarerà alla stampa che “gli immigrati mentono sempre, mentono su ogni cosa”.
Il colonnello e medico Antonio Baldacci non ebbe nemmeno il pudore di tacere di fronte ad un uomo lasciato senza cure nel Centro affidato alla sua responsabilità.
Poi calò il silenzio stampa. Troppo scottante questa vicenda. In quegli stessi mesi il governo Berlusconi stava varando il secondo “pacchetto sicurezza”, un insieme di norme costruito per rendere ancora più dura la vita degli immigrati e per colpire l’opposizione politica nel nostro paese.
Il caso venne subito chiuso.
I testimoni furono espulsi in gran fretta.
Nessuno sa di cosa sia morto Fatih. Si sa tuttavia che in un centro gestito dalla Croce Rossa nessuno lo ha assistito.
Il 2 giugno 2008 un gruppo di antirazzisti andò a casa di Antonio Baldacci.
Fecero rumore con le casseruole, distribuirono volantini, appesero striscioni.
La protesta di persone che non potevano tollerare una morte senza senso.
Oggi quella protesta è entrata nel fascicolo del doppio processo a 67 antirazzisti torinesi, un processo contro chi ha lottato e lotta contro le deportazioni, la schiavitù del lavoro migrante, la militarizzazione delle strade.
67 attivisti sono accusati di fare volantini, manifesti, di lanciare slogan, di dare solidarietà ai reclusi nei CIE, di contrastare la politica securitaria del governo e dell’amministrazione comunale.
L’impianto accusatorio della procura si basa su banali iniziative di contestazione.
L’occupazione simbolica dell’atrio del Museo egizio – 29 giugno 2008 – per ricordare l’operaio egiziano ucciso dal padrone per avergli chiesto il pagamento del salario; la contestazione – 17 luglio 2008 – dell’assessore all’integrazione degli immigrati Curti, dopo lo sgombero della casa occupata da rom in via Pisa; la giornata – 11 luglio 2008 – contro la proposta di prendere le impronte ai bambini rom di fronte alla sede leghista di largo Saluzzo; la protesta – 20 marzo 2009 – alla lavanderia “La nuova”, che lava i panni al CIE di corso Brunelleschi… ma l’elenco è molto più lungo. Decine iniziative messe insieme per costruire un apparato accusatorio capace di portare in galera un po’ di antirazzisti.
Da mesi è partita una campagna per portare il CIE – e la storia tragica di Fatih – per le strade di Torino.
Nel quinto anniversario della sua morte il gruppo di compagni di “Ti ricordi di Fatih? Antirazzisti contro la repressione” ha organizzano tre giorni contro i CIE.
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Giovedì 23 maggio al presidio di fronte al CIE di corso Brunelleschi c’erano un centinaio di persone.
Si è cominciato con l’apericena vegetale preparato dagli attivisti di Antispeck Torino e Food not bombs. C’erano anche i compagni della microclinica Fatih e quelli del collettivo antipsichiatrico “Francesco Mastrogiovanni” con un volantino sull’utilizzo delle catene chimiche per contenere i prigionieri dei CIE.
Tra interventi, slogan, saluti Alessio Lega ha cantato le sue canzoni in memoria di Fatih. Non era la prima volta che Alessio cantava di fronte a questa galera: nel 1999, durante la lotta per impedirne l’apertura, era con noi per esprimere alla sua maniera l’opposizione a queste prigioni per immigrati. Allora, mentre cantava una canzone non proprio tenera verso i carabinieri, questi circondarono il palchetto minacciando una carica. Lui pudicamente dichiarò che, complice la miopia, non si era accorto di nulla. 14 anni dopo, alle spalle una Targa Tenco e diversi dischi, tutti autoprodotti e liberamente scaricabili, è tornato sotto al CIE, per dare il suo contributo a questa lotta.
Da dentro i prigionieri si sono fatti sentire con grida, saluti, fischi.
Una trentina di palline da tennis sono state gettate oltre il muro. Dentro, in arabo e in italiano, la storia di Fatih. Alcune palline sono tornate indietro con saluti, scritti, richieste.
La serata si è conclusa con una passeggiata lungo il muro: in testa la samba band, dietro tutti gli altri. Per un po’ il traffico tra corso Brunelleschi e via Monginevro è stato bloccato, mettendo in agitazione digos e antisommossa.
Il giorno successivo punto info in via Po con banchetti e volantinaggio.
Sabato 25 maggio l’appuntamento era al Balon.
Partiamo in corteo con gabbia e striscione in mezzo ai banchi. Ad ogni spiazzo una sosta.
Si sistema la gabbia, un tavolino, due sedie, qualche cartello e un mazzo di carte.
Un po’ di teatro di strada, tanti volantini e tanta gente che si ferma, domanda, commenta.
In centro c’è sempre il corpo di Fatih, emblema delle migliaia di immigrati senza nome morti nelle intercapedini dei Tir, annegati in mare, precipitati da un ponteggio, annegati in una fogna.
Abbiamo portato questa storia nel salotto di Torino e per le strade della movida di San Salvario, oggi siamo tra i banchetti di chi campa la vita come può, cercando di vendere qualcosa. Si unisce a noi anche qualche immigrato e qualche immigrata. Tanti tra quelli che si fermano ad ascoltare sono stranieri, che in questa storia riconoscono brandelli della propria, di quella di parenti o amici.
Il giorno successivo apprendiamo da Indymedia Piemonte che nella notte gli Antirazzisti “Louise Michel” hanno fatto visita a casa del colonnello Antonio Baldacci. A Chieri, di fronte alla sua villetta, è stato lasciato un manichino sporco di sangue, uno striscione, una secchiata di vernice rossa in terra.
Sullo striscione appeso alla cancellata c’era scritto “Ti ricordi di Fatih? Gli antirazzisti non dimenticano”.
La seconda udienza del processo agli antirazzisti si svolgerà giovedì 30 maggio alle 9 in maxi aula 3 del tribunale di Torino.
Lunedì 27 maggio. Aggiornamento
Nel pomeriggio di sabato due reclusi sono saliti sul tetto del CIE intenzionati a non scendere per evitare la deportazione.
Nel CIE di Torino, e in quelli di tutt’Italia, le lotte, le rivolte, la resistenza degli immigrati ad una macchina costruita per mantenere costante la pressione su di loro, è quotidiana.
Il disciplinamento dei lavoratori immigrati è stata la grande posta nel gioco feroce della guerra ai poveri. Il legame tra permesso di soggiorno e lavoro è una minaccia sia per chi ha le carte – e rischia di perderle – sia per chi non le ha – e rischia l’espulsione.
Poco a poco, anche tra i lavoratori italiani cresce le consapevolezza che le leggi che ricattano la vita degli immigrati sono state fatte per disciplinare tutti i lavoratori.
Ai padroni interessa il colore dei soldi, non quello della pelle.
Mercoledì 29 maggio. Alcuni avvocati domani faranno sciopero.
Pertanto l’udienza al processo agli antirazzisti verrà rimandata.
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– 26 Maggio 2013
Le delizie del sistema penale USA
È notizia del 30 aprile che al giudice statunitense Mark Ciavarella è stata confermata la condanna a ventotto anni di carcere per il suo coinvolgimento nel caso “kids for cash”. Ciavarella è stato per anni giudice presso il tribunale minorile di Wilkes-Barre, Pennsylvania, ed era famoso per la durezza delle condanne inflitte. Il magistrato era a libro paga della compagnia che gestisce un carcere minorile privato nella contea di pertinenza del suo tribunale.
Ciavarella non è una mela marcia. Ciavarella è un perfetto rappresentante del sistema penale statunitense. La sua colpa, semmai, è stata di aver agito in maniera troppo sfacciata e di avere smascherato, con il suo agire, l’illusione di un sistema “duro ma giusto”.
Da ormai trenta anni il sistema penale statunitense vede una sempre maggiore presenza dei privati nella gestione delle prigioni. Le compagnie vengono pagate “un tanto al detenuto” e, di conseguenza, hanno tutto l’interesse nel vedere un aumento della repressione.
Il bestiale inasprimento delle pene per i piccoli reati, con pene per i recidivi che possono arrivare all’ergastolo, è stato solo l’ultimo atto di un processo che parte dlla “war on drugs” scatenata trent’anni fa per colpire le classi popolari in generale e i turbolenti ghetti neri in particolare.
Nel decennio 1998-2008 l’uso di oppiacei è aumentato del 34% e quello di cocaina del 27%, segno che la politica proibizionista è stata un totale fallimento, se l’obiettivo era la riduzione del consumo di sostanze proibite. Se invece lo scopo vero era la moltiplicazione dei meccanismi disciplinari e del mercato della coercizione allora siamo di fronte ad un totale successo. E’ nato un gigantesco mercato per le società che gestiscono prigioni e centri di riabilitazione privati. Ci hanno lucrato soprattutto i gruppi religiosi, come Scientology e le varie congrezioni evangeliche.
Anarres ne ha parlato con Lorenzo autore di un articolo comparso sul penultimo numero di Umanità Nova.
Posted in Inform/Azioni, repressione/solidarietà.
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– 26 Maggio 2013
Milano. Facchini occupano l’INPS
24 maggio. Prosegue ad oltranza l’occupazione della direzione regionale dell’INPS partita nella mattina del 23 maggio. Una ventina tra solidali e di lavoratori licenziati dall’appalto logistica e facchinaggio Inps hanno deciso di rispondere con la lotta alla decisione della ditta che gestisce facchinaggio e pulizie di far fuori i lavoratori più combattivi.
Tutto parte dall’esternalizzazione dei servizi di pulizia e facchinaggio attraverso un appalto pubblico al massimo ribasso.
Così è partita la catena dei subappalti, caratterizzata da gravi irregolarità, che ha visto susseguirsi: Siram e Consorzio Stabile Miles, poi Generale Servizi Srl e Irbis Società Cooperativa, infine Romeo Gestioni e, nuovamente, Generale Servizi Srl (che, insieme a Irbis, la stessa INPS cinque mesi fa aveva escluso dall’esecuzione dell’appalto proprio per le irregolarità nella sua gestione denunciate dai lavoratori).
Ora Generale Servizi rifiuta di riaffidare le mansioni a quei lavoratori che avevano denunciato le irregolarità.
Abbiamo intervistato un lavoratore ed un solidale che prendono parte all’occupazione degli uffici.
Ascolta le loro testimonianze 2013 05 24 occupazione inps milano
Posted in Inform/Azioni, lavoro.
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– 26 Maggio 2013
Ultimo spettacolo a Notre-Dame
Dominique Venner, intellettuale di spicco nel panorama della nuova destra francese, ha scelto un’uscita di scena di grande effetto. A Notre-Dame de Paris si è infilato in bocca una pistola e si è bruciato il cervello e la vita.
Venner, volontario nella guerra di Algeria e membro della famigerata OAS, era un fascista a tutto tondo, razzista, tradizionalista, omofobo.
Sul suo blog le ragioni di un gesto volutamente spettacolare per aggredire le radici culturali della legge che consente alle coppie omosessuali di sposarsi. Scrive Venner “che occorre una “riforma intellettuale morale”, perché non basta opporsi alle nozze gay, ma serve ricordare che “l’essenza dell’uomo è nella sua esistenza e non in un ‘altro mondo’. E’ qui e ora che si gioca il nostro destino fino all’ultimo secondo. E questo ultimo secondo ha importanza quanto tutto il resto della vita. (…) E’ decidendo noi stessi, volendo veramente il nostro destino, che si è vincitori del nulla”. Un fascista laico, che pratica il proprio sogno di onnipotenza, abbracciando con violenza il proprio “destino”, nel corto circuito della libertà che si afferma negandosi.
Una sorta di monito ad essere se stessi.
In quest’epoca dai gusti forti ed annoiati la scena è più importante del gesto. Peccato che oggi Notre-Dame sia più un supermerket che un tempio. La notizia dura lo spazio di un mattino.
Abbiamo colto l’occasione per una riflessione sull’omofobia “laica”, che Venner rivendica nel richiamo alla costruzione di se dell’esser-ci dell’Heidegger di “Sein und Zeit” , per una riflessione più ampia sulle radici di un odio identitario, che paradossalmente rivendica nella libertà la propria radice. In qualche modo speculare nella rivendicazione di certa destra gay dell’identità occidentale come percorso di autonomia individuale.
Ne abbiamo parlato con Maurizio del circolo GLBTQ “Maurice”, che ha esordito sostenendo che “l’omofobia fa male soprattutto e chi ne soffre”.
Ascolta il suo intervento
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– 22 Maggio 2013
CIE. L’eredità del governo Monti
Il fronte del CIE è sempre caldo. Nel presentare il programma della tre giorni contro il CIE del 23-24-25 maggio a Torino, abbiamo fatto una chiacchierata con Alberto, un compagno di Trapani, dove i due CIE – uno al momento chiuso per lavori – sono da sempre al centro di lotte durissime e di numerose rivolte ed evasioni.
Ne è scaturita una discussione a tutto campo centrata soprattutto su un documento sui CIE prodotto da una commissione nominata nel giugno 2012 dall’ex ministro dell’Interno Cancellieri.
Una delle tante eredità lasciate dal governo Monti a propri successori.
Su questo tema vi riportiamo alcuni stralci di un articolo uscito di recente per il settimanale Umanità Nova.
Il “La responsabile del Viminale voleva vederci chiaro, anche e soprattutto per risolvere le “criticità” emerse negli ultimi anni. Otto alti funzionari coordinati dal sottosegretario di stato Saverio Ruperto, hanno partorito un documento che, ancora una volta, conferma l’attitudine “umbertina” di chi intende risolvere i problemi solo e soltanto con la repressione.
Il testo è stato diffuso, in anteprima, il mese scorso da una sconcertata Sandra Zampa, parlamentare bolognese del PD. E in effetti i motivi di sconcerto sono davvero tanti.
Schematicamente, si può dire che gli estensori del testo abbiano individuato una serie di “direttrici” sulle quali intervenire dopo una analisi di quello che è successo in questi anni nei Cie, anche alla luce dell’inasprimento delle normative in materia di immigrazione che, com’è noto, prevedono un allungamento dei tempi di detenzione fino a diciotto mesi (un anno e mezzo dietro le sbarre per il solo fatto di essere considerati “irregolari”). Nel documento lo si ammette: la administrative detention non consegue alla commissione di un reato, ma si riferisce a uno status giuridico. In Europa, però, «la possibilita di trattenere per via amministrativa gli stranieri irregolarmente presenti sui territorio, in attesa della lora espulsione, ha una storia ormai più che secolare (il primo Paese europeo a introdurre nel proprio ordinamento la detenzione amministrativa fu la Francia nel 1810)».
Pertanto, «i C.I.E. fanno ormai stabilmente parte dell’ordinamento e risultano indispensabili per un’efficiente gestione dell’immigrazione irregolare». Quindi, possiamo metterci il cuore in pace. Continued…
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– 22 Maggio 2013
No Tav. I partigiani e l’insurrezione
Sono settimane di fuoco per il movimento No Tav. L’innesco lo hanno dato due episodi dell’8 e del 13 maggio: la sassaiola contro un camion della ditta Martina, intercettato per strada dopo l’uscita dal cantiere di Chiomonte, l’assalto notturno al fortino con il danneggiamento di un compressore.
Per uno dei tanti paradossi che segnano la comunicazione politica, l’attacco al camion, con il ferimento lieve del conducente, ha suscitato meno clamore dell’incursione al cantiere, dove non ci sono stati feriti ma solo danni alle cose.
Il giorno successivo all’incursione notturna si è riunito in Prefettura a Torino il comitato per l’ordine e la sicurezza. C’era il vicepremier Alfano, il ministro Lupi, i capi di polizia e carabinieri, il presidente della Provincia, il capo della Procura Caselli e vari altri papaveri istituzionali. Dopo il vertice in una Torino militarizzata e piovosa sono uscite dichiarazioni altisonanti, promesse di aumentare il contingente militare, di allargare la zona rossa, di procedere con durezza contro il responsabili. Si è parlato esplicitamente di terrorismo ed eversione. Il giorno successivo la procura ha annunciato di aver aperto un fascicolo per tentato omicidio.
L’attacco al cantiere dell’8 febbraio scorso, del tutto analogo a quello del 13 maggio, ha avuto un’eco mediatica assai minore: pagine interne, niente rilievo nazionale, toni bassi, nessun vertice di ministri, poliziotti e giudici. Subito dimenticato.
In quel momento di transizione politica nazionale non conveniva a nessuno accendere i riflettori su quella notte di lotta radicale.
Mercoledì 15 maggio, ad un’assemblea convocata per far conoscere alla popolazione l’impatto dei cantieri, le aree soggette ad esproprio, i rischi per la salute sul territorio del paese, si è parlato anche dell’incursione al cantiere. Gli applausi di una sala dove si sono stipate circa 150 persone, hanno accolto gli interventi di chi ha definito i sabotaggi come atti di resistenza.
Il giorno successivo il Coordinamento Comitati No Tav è uscito con un comunicato in cui si rivendicano i sabotaggi alle cose, senza colpire le persone.
Sui tre giorni di campeggio previsti a Chiomonte nel fine settimana dal 17 al 19 maggio l’ha fatta da padrone la pioggia battente che ha trasformato questa primavera in un monsone. Gruppetti di No Tav hanno comunque fatto qualche giro intorno alle reti, creando la consueta agitazione tra le forze di polizia e i militari.
Lunedì 20 maggio, stava per cominciare a Villarfocchiardo la riunione del comitati No Tav, quando si è diffusa la notizia che al dopolavoro ferroviario di Bussoleno era in corso una riunione del PD, cui partecipava il senatore piemontese Stefano Esposito, noto per la violenza dei suoi attacchi al movimento contro la Torino Lyon. Sospesa la riunione i No Tav si sono uniti agli attivisti di Bussoleno in un lungo assedio al blindatissimo locale. Tra slogan e interventi il blocco è durato ore. Intorno alle 23 un blackout No Tav ha lasciato al buio il senatore Esposito e i suoi compagni di merende, poco dopo con un colpo di mano alcuni attivisti riuscivano a chiudere il cancello d’ingresso, lasciando di stucco carabinieri e digos, rimasti prigionieri nel cortile antistante la struttura. Qualche spintone e il blocco si trasferisce in strada. Da un lato i carabinieri e la digos, dall’altra i No Tav.
Intorno all’una, ben stretto in un’auto della digos, Stefano Esposito esce di scena.
Una ben magra figura per l’uomo che si è messo al servizio dei grandi interessi di un affare inutile ma lucroso per chi riesce ad aggiudicarsi gli appalti per i lavori.
Sin qui la cronaca. Continued…
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– 21 Maggio 2013
Confindustria e sindacati di Stato: la santa alleanza contro i lavoratori
Il 30 aprile CGIL, CISL e UIL hanno stretto un accordo per la ridefinizione delle regole sulla rappresentanza sindacale.
Di fatto, chi non firma i contratti, resterebbe fuori.
La trattativa con Confindustria è ancora in corso, improbabile tuttavia che dal confronto con la maggiore organizzazione padronale possa scaturire un accordo che lasci qualche libertà ai lavoratori.
In sostanza i sindacati che concorreranno alle elezioni per le RSU – Rappresentanze sindacali unitarie aziendali – dovranno accettare preventivamente di non poter dichiarare sciopero su accordi firmati da almeno il 51% dei rappresentanti aziendali. In altri termini chi vuole partecipare alle elezioni dovrebbe impegnare a non scioperare e quindi ad accettare acriticamente ciò che viene deciso da Cgil, Cisl, Uil e Ugl.
Siamo di fronte ad un ulteriore attacco al diritto di sciopero, che, anche se qualcuno lo dimentica, non è delegato alle organizzazioni sindacali, ma secondo la costituzione è diritto individuale di ciascun lavoratore.
Va da se che quando l’autorganizzazione dei lavoratori è forte, non c’è accordo che tenga, tuttavia quando i sindacati di base, autogestionari sono in minoranza, la loro possibilità di accesso alle trattative, già oggi assai limitata verrebbe sostanzialmente azzerata.
Anarres ne ha discusso con Cosimo della CUB.
Ne è scaturita una discussione a tutto campo sulla lotta di classe nel nostro paese anche alla luce della recente vertenza al San Raffaele di Milano.
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– 13 Maggio 2013
Sangue, terra e razzismo
La proposta della ministro Kyenge di applicare, sia pure a certe condizioni, lo jus soli ai bambini nati in Italia da genitori stranieri, ha scatenato ampie e prevedibili polemiche che hanno avuto tra i protagonisti fascisti e leghisti. L’ultimo ad allinearsi alla canea è stato il portavoce del M5S Giuseppe Grillo, che ha invocato un referendum.
L’uguaglianza tra esseri umani è sempre stata un’astrazione rispetto alle altisonanti dichiarazioni di principio liberali: solo lotte durissime hanno allargato progressivamente il diritto formale di cittadinanza, pur mantenendo la terrificante materialità della piramide sociale.
In questi anni l’elaborazione del concetto di clandestinità ha spezzato nell’immaginario non meno che nell’apparato legislativo l’idea dell’uguaglianza, foss’anche meramente formale, tra esseri umani.
In questo modo il pregiudizio contro i figli degli immigrati, considerati “estranei” anche se nati nel nostro paese, si è radicato profondamente. La legislazione italiana è basata sullo jus sanguinis: solo i figli degli italiani acquisiscono la cittadinanza alla nascita. Lo stesso principio è applicato in tutti i paesi europei, esclusa la Francia, ma in modo molto meno rigido che nel nostro paese. Diversa è la legislazione in paesi la cui popolazione è prevalentemente costituita da immigrati come quelli del nord e del sud america, dove invece prevale lo jus soli. Lo jus soli peraltro non impedisce a chi lo applica di avere una legislazione durissima contro gli immigrati «illegali». Le frontiere insanguinate tra gli Stati Uniti e il Messico ne sono un buon esempio.
Grillo ha sostenuto che lo jus soli nel nostro paese c’è già, perché i bambini nati in Italia da genitori stranieri, possono, al compimento dei 18 anni, acquisire la cittadinanza. In realtà questa sorta di automatismo è una mera illusione, perché se i genitori non sono sempre stati regolari, se il ragazzo non ha sempre vissuto in Italia, se è incappato nelle maglie della legge la cittadinanza non viene concessa. Come sappiamo la vita di ogni immigrato è una roulette russa disegnata da leggi fatte apposta per imbrigliarlo: ben pochi ragazzi, al compimento dei 18 anni, riescono a continuare la propria vita, senza dover rincorrere un permesso di soggiorno legato ad un lavoro regolare che ben pochi trovano.
Occorre peraltro rilevare che la proposta sostenuta da Cecile Kyenge è molto moderata. Il testo di legge, è stato presentato alla Camera il 21 marzo con il titolo “Disposizioni in tema di acquisto della cittadinanza italiana”. Il sintesi propone che “è italiano chi nasce in Italia da genitori regolarmente residenti da almeno cinque anni, oppure chi arriva qui entro i dieci anni e conclude un ciclo scolastico (scuole elementari, medie o superiori) o un percorso di formazione professionale”.
Nulla di particolarmente rivoluzionario. Sempre troppo per i razzisti di ogni colore politico.
Per capirne di più Anarres ne ha parlato con Gianluca Vitale, avvocato da sempre in prima fila sul fronte dell’immigrazione.
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– 12 Maggio 2013
Siria. Un colpo al cerchio, un colpo alla botte
Dopo i recenti attacchi israeliani alla Siria si è riaccesa l’attenzione sulla guerra civile che sta insanguinando il paese.
Anarres ne ha discusso con Stefano Capello, per cercare di capire meglio la partita in corso, una partita che, ben lungi dall’esaurirsi sul piano “interno”, ha fatto parlare Limes una sorta di guerra mondiale per procura. Per procura sono stati indubbiamente gli attacchi di Tsahal in territorio siriano, la cui regia era più a Washington che a Tel Aviv.
In Siria si giocano molte partite. La Siria è un paese a maggioranza sunnita non governato dai sunniti ma dalla minoranza alauita. Assad e la sua famiglia, espressione di un vecchio nazionalismo arabo, storicamente alleato dell’Iran e della Russia provano a mantenere il potere. L’opposizione sunnita, che è un blocco sostenuto dalle monarchie del Golfo e dalla Turchia in funzione anti Assad e anti iraniana è a sua volta attraversata dal conflitto con la componente salafita, che gode del potente appoggio economico del Qatar.
La partita è tuttavia tutt’altro che lineare, perché la Siria è stata sia per gli Stati Uniti che per Israele il miglior nemico possibile. Grazie all’accordo stretto tra USA e Siria in occasione della prima guerra del Golfo, le truppe di Bush padre ebbero strada facile in Iraq. Israele, pur formalmente in guerra con la dinastia Assad, di fatto ha goduto di una tranquilla tregua sin dal lontano 1973.
In questo momento non è interesse degli Stati Uniti una veloce caduta di Assad, che potrebbe aprire le porte ad un regime islamico alleato sia della Turchia che dell’Arabia Saudita, rinforzando un asse di amici assai insidiosi.
Nelle settimane precedenti l’attacco israeliano in Siria i giornali libanesi sunniti e cristiani lamentavano il mancato intervento statunitense in Siria, perché sperano che la caduta di Assad spezzi il sostegno siriano ad Hazbollah. Dopo gli attacchi dell’aviazione di Tel Aviv, la pressione dei media libanesi si è allentata.
Tramite Israele, gli Stati Uniti hanno mandato un duplice messaggio: da un lato non sono disponibili ad un intervento diretto nel paese, dall’altro vogliono spezzare l’asse tra la Siria e l’Iran, isolando maggiormente il regime degli hajatollah ed indebolendo la forza militare di Hezbollah che preme ai confini con Israele. Un modo per tenere i piedi nelle classiche due paia di scarpe. L’Iran, d’altra parte, è un boccone troppo grosso sia per gli Stati Uniti che per Israele: un attacco diretto alla repubblica islamica rischierebbe di scatenare un conflitto capace di coinvolgere direttamente anche la Russia, mettendo in seria difficoltà Obama e i suoi alleati.
Una partita complessa, dove gli Stati Uniti mantengono un interesse forte per le risorse petrolifere del Medio Oriente, la Russia non ha nessuna intenzione di mollare l’alleato, ma non può impedire un assottigliarsi dell’asse con l’Iran.
Sullo sfondo il declino economico degli Stati Uniti, la difficoltà a mantenere il ruolo di gendarme del mondo, l’ambiguità di un fronte alleato che alla prima occasione gira le armi verso chi l’ha appoggiato, finanziato, sostenuto. Per questa ragione una Siria più debole ma non islamizzata può apparire la prospettiva interessante per l’amministrazione Obama, che, certo non per caso, ha dimenticato le minacce ad Assad in caso di utilizzo di armi chimiche.
D’altro canto gli Stati Uniti hanno da decenni scelto di appoggiare le forze religiose antimodernizzatrici a discapito di regimi liberal democratici. Un segno inequivocabile del fallimento anche ideale del gigante USA.
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– 10 Maggio 2013