La Chiesa cattolica punta su Mario Monti e lo sostiene in modo esplicito: l’uomo delle banche è anche l’uomo dei cardinali.
Negli ultimi giorni è emerso in modo netto quale sia il prezzo dell’appoggio della Chiesa: finanziamenti e privilegi per il cosiddetto terzo settore, sinora “penalizzato” dalle politiche ultraliberiste del presidente del consiglio. In realtà Monti non ha tagliato alcuna delle tante regalie fatte ai preti da Silvio Berlusconi, che la Chiesa ha costantemente appoggiato, nonostante la non dissimulata disinvoltura sessuale del cavaliere.
D’altra parte il potere della chiesa si esplica nella rete di strutture assistenziali e scolastiche con le quali mantiene un forte controllo sulla società. Nessuna delle scuole, ospedali, case per anziani, comumità per tossicodipendenti gestite dalla Chiesa potrebbe sopravvivere senza consistenti finanziamenti statali.
Resta tuttavia aperta la contraddizione tra una struttura che si da nell’eternità del proprio universo assiologico e il relativismo liberale con cui la chiesa è in competizione, proponendosi come alternativa alle incertezze e alle paure di chi vive una realtà sociale il cui perno è la il profitto.
Quello tra Bagnasco e Monti sarà quindi un matrimonio di interessi, dal quale il cardinale cercherà di trarre il massimo profitto.
Anarres ne ha parlato con il proprio vaticanista di riferimento, Paolo Iervese. Ne è scaturita un’intervista a tutto campo sulla attuale declinazione della Chiesa cattolica, sempre più nettamente orientata ad una restaurazione antimoderna di un principio di verità assoluto, come assoluta, senza legami né limiti, è l’aspirazione teocratica del Vaticano.
Ascolta l’intervista
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By anarres
– 3 Febbraio 2013
Venerdì 1 febbraio. La prima udienza del processo contro i No Tav accusati di aver resistito allo sgombero della Libera Repubblica della Maddalena dell’11 giugno 2011 e alla giornata di lotta del 3 luglio è stata spostata nell’aula bunker del carcere delle Vallette.
Un luogo dall’enorme valenza simbolica. Qui vennero fatti i grandi processi contro le formazioni armate e quelli per mafia. Per lunghi anni è rimasta chiusa.
Un ulteriore pezzo della trama tessuta dalla Procura torinese per criminalizzare il movimento No Tav, creando un abile cortocircuito narrativo su un movimento popolare capace di mettere in difficoltà tutti i governi che hanno provato a piegarlo. Con la violenza, le lusinghe, i soldi, le false promesse. Da oltre un anno e mezzo la parola è passata a polizia e magistratura, a codici e manganelli. Ma i No Tav non si piegano.
Eravamo alcune centinaia a sostenere la scelta dei compagni sotto processo di rifiutare l’aula bunker.
Un luogo enorme, spettrale nella crudezza della rappresentazione del potere dello Stato in tutta la sua ferocia. Sei sette gabbie con i vetri oscurati per ogni lato, la corte lontanissima dal pubblico, che è relegato in fondo. Tutti quelli che entrano sono perquisiti ed identificati, come nei processi di tanti anni fa. Per fortuna questa volta nessuno dei nostri è nelle gabbie. Anche gli ultimi prigionieri sono stati liberati. Alla fine solo a 80 persone viene permesso di entrare.
Il presidente Bosio comincia l’appello mentre alcuni imputati sono ancora fuori, impigliati nei controlli di polizia. La tensione sale. Poi si alza una voce femminile che legge il comunicato con cui i No Tav sotto processo annunciano di rifiutare l’aula bunker. Bosio minaccia e prova ad interrompere. Finirà con il testo letto da tutti, quelli alla sbarra e quelli del pubblico.
Poi usciamo tutti dall’aula. Si canta “Chiomonte come Atene, si parte, si va insieme…”.
La farsa continua: i giudici dichiarano contumaci tutti.
Ma non è finita. Fuori i carabinieri bloccano il cancello impedendo a tutti di passare se non accettano di farsi nuovamente identificare. Un’ultima provocazione. Dai due lati della cancellata i No Tav gridano la loro indignazione, il loro rifiuto di passare ancora per le forche caudine. Carabinieri e poliziotti distribuiscono manganellate dentro e fuori.
Arrivano gli avvocati, la situazione si calma: usciamo senza mostrare i documenti.
I No Tav sono evasi dall’aula bunker.
Poi parte un corteo che circonda le mura del carcere. Si va giù nel pratone a dare un saluto ai reclusi, che rispondono battendo e gridando.
La Procura di Torino vuole fare il processo ad un intero movimento, questo movimento sta facendo il processo alla magistratura.
La prossima udienza di questo processo sarà il 14 febbraio.
Lunedì 4 febbraio prenderà le mosse il processo contro 28 No Tav sotto accusa per la lotta alle trivelle dell’inverno 2010. Nel mirino il presidio permanente di via Amati a Venaria, dove, anche grazie ad un’ampia solidarietà popolare, i No Tav riuscirono a rallentare i lavori finché in fretta e furia il cantiere venne smontato.
Appuntamento al tribunale – corso Vittorio Emanuele 130 in aula 3 alle 9.
Ascolta le dirette di radio Onda d’urto e quelle di radio Blackout
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By anarres
– 1 Febbraio 2013
Una delle poste in gioco dell’intervento militare francese in Mali è il controllo dell’uranio, il combustibile che fa andare le 58 centrali francesi.
Due giorni fa le truppe francesi sono entrate a Timbouctou, la città del deserto famosa per i suoi mausolei e per la biblioteca di Avicenna, danneggiati o distrutti dalla furia delle milizie islamiste che hanno preso il controllo della regione abitata dalle popolazioni Tuareg.
La narrazione che i media ci propongono esalta il ruolo delle truppe francesi, giunte a riportare la civiltà in un territorio piegato dalla barbarie islamica, tra popolazioni cui è stata imposta la sharia.
Una narrazione che i francesi vestono con eleganza.
I grandi interessi del governo francese nella regione, pur noti e raccontati da molti osservatori, restano sullo sfondo. Il tema della battaglia di civiltà diviene centrale.
Il modo in cui si racconta una guerra è importante quanto la guerra stessa, perché rilegittima in chiave culturale e umanitaria il neocolonialismo, quello che prende ma sa dare.
Peccato che la triade rivoluzionaria francese che costituisce l’occidente liberale e democratico, si appanni un poco più a sud. Il vicino Niger, a sua volta attraversato dalle tensioni autonomiste della popolazione tuareg, è il deposito di combustibile per le centrali francesi.
Lì liberté, egalité, fraternité sono privilegi riservati ai francesi, privilegi da cui sono esclusi i minatori nigerini di Akokan e Arlit.
Vi proponiamo di seguito un reportage realizzato da Emmanuel Haddad per il sito informativo francese Basta!
I francesi illuminano e scaldano le loro case grazie al lavoro di centinaia di minatori nigerini che hanno lavorato per 20 o 30 anni all’estrazione dell’uranio. Spesso vittime delle radiazioni, soffrono e muoiono nell’indifferenza. Le loro malattie professionali non interessano il governo francese.
L’estrazione dell’uranio è una delle attività più sicure al mondo?
Areva ha sfruttato le due miniere dal principio degli anni Settanta ed impiega ancora oggi 2.600 persone. In mezzo secolo solo sette dossier relativi a malattie professionali che hanno colpito lavoratori delle miniere di Arlit e Akokan, nel nord del Niger, sono stati approvati dalla previdenza sociale nigerina. Di questi sette lavoratori ben cinque sono immigrati francesi, mentre sono solo due i nigerini. Ousmane Zakary, del centro di previdenza sociale di Niamey, rileva che ben il 98% dei minatori è nigerino. Una vera performance sanitaria!
L’estrazione dell’uranio non sarà mica più pericolosa della coltivazione del miglio o delle cipolle? I francesi, che godono dell’elettricità prodotta grazie al minerale nigerino dovrebbero essere felici dell’attenzione di Areva per la salute degli operai.
«I minatori di uranio sono esposti a radiazioni ionizzanti sia per irraggiamento interno che esterno. Sono esposti nelle cave, nelle miniere sotterranee, nelle officine di lavorazione del minerale grezzo, ma anche nelle città e nelle loro case.» Scrive Bruno Chareyron, direttore del laboratorio della Commissione d’Informazione e di ricerca indipendente sulla radioattività, il Criirad. Questo organismo ha fatto numerose ricerche sulla presenza di gas radiottivi nell’aria, nell’acqua e nel cibo ad Arlit. In questa zona 35 milioni di scorie radioattive sono raccolte all’aria aperta sin dall’inizio dell’attività estrattiva. Grazie al vento gas radon e altri derivati si spargono nell’ambiente. «Si tratta di sostanze considerate cancerogene per l’uomo dall’IARC (centro di ricerca sul cancro) sin dal 1988», precisa l’ingegnere e fisico nucleare. Continued…
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– 30 Gennaio 2013
La maggiore fonte energetica per la Francia sono le sue 58 centrali nucleari. Il combustibile per le centrali è l’uranio, un minerale raro, che probabilmente si esaurirà nel giro di pochi decenni.
L’uranio che alimenta le centrali francesi proviene tutto da due miniere in Niger, quelle di Akokan e di Arlit, dove sino a pochi anni fa i lavoratori non indossavano nemmeno un banale paio di guanti: pochi di loro sono ancora vivi per raccontarlo.
Solo di recente l’Areva ha accettato di effettuare dei controlli del livello di radioattività nelle due città.
Da ormai qualche anno il governo nigerino ha dato concessioni di sfruttamento delle risorse minerarie del paese ad imprese cinesi e canadesi, spezzando il monopolio francese.
A completare il quadro nel quale è maturato l’intervento della Francia occorre tenere contro che anche in Niger è attivo sin dal 2007 un movimento tuareg che rivendica maggiori benefici per le popolazioni locali.
Significativamente una delle prime mosse della guerra della Francia in Mali è stato schierare le truppe lungo il confine con il Niger per sigillarlo.
Anarres ne ha parlato con Marco Tafel. Ascolta l’intervista
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– 27 Gennaio 2013
Dieci anni dopo la sua morte, Gianni Agnelli, che pure ha segnato la transizione al post capitalismo, è oggi l’emblema di un modello ormai scomparso. Il modello della fabbrica pesante, della fabbrica che si fa città e modella intorno a se lo sviluppo urbano: basta guardare la pianta di Torino per rendersene conto. L’area che delinea gli stabilimenti di Mirafiori è enorme, un gigantesco quadrato che ci racconta una storia con la sola arroganza del proprio esserci.
È venuto il presidente della Repubblica, il post comunista Napolitano, il vescovo Nosiglia ha celebrato la messa, il tristo Fassino ha benedetto la giornata, poi, con il laborioso rituale di una Torino che ha elevato il proprio provincialismo a vezzo sottilmente intellettuale, la visita al quotidiano del padrone e il pranzo al Cambio, simbolo decisamente retrò, tra agnolotti e decori un po’ appassiti.
Oggi i ricchi mangiano altrove. Tra gelatine e frullati, odori e suggestioni anche il cibo si smaterializza, si fa gioco di inganni, esperienza estetica.
Non poteva mancare la commozione dell’operaio che ricorda la stretta di mano nel giorno della pensione, il ringraziamento per i 40 anni di vita rubata, la memoria di un giorno indimenticabile.
La “nuova” Torino, quella del Lingotto trasformato in centro commerciale, del grattacielo della Banca, di una Mirafiori ridotta a cinquemila cassaintegrati, scatola vuotata, mero simbolo di un potere la cui materialità è altrove, resta sullo sfondo, impalpabile.
La Fiat si è lasciata Torino alle spalle ma ha ancora bisogno del fantasma della Fabbrica pesante, della fabbrica che incide il territorio, per portare a termine la transizione. E per celebrare la propria vittoria. Ci sono voluti tren’anni per piegare la classe operaia di questa città, quella che tante volte ha fatto tremare i padroni.
Oggi nelle periferie schiacciate dalle ricette contro la crisi il ricatto del lavoro è una cappa pesante. Il disciplinamento dei lavoratori immigrati ha fatto da modello per il disciplinamento di tutti i lavoratori, scommettendo sulla guerra tra poveri e sulla paura.
Ma proprio nelle periferie dove campare la vita è più difficile comincia a sentirsi un’aria nuova. Per ora è solo un borbottio, una lieve effervescenza, un’invettiva lanciata tra i banchi del mercato di piazza Cerignola, tra i vecchi dell’immigrazione di ieri e i ragazzi di quella di oggi. Domani chi sa?
Qui, in un sabato di gennaio, con una mostra montata su trabiccolo di cassette per la frutta, che raccontava delle baracche di Rosarno, del cottimo, dei caporali, della rivolta, qui abbiamo incontrato gente capace di memoria, la memoria delle lotte dei propri padri braccianti, del proprio lavoro nella città della Fiat, gente consapevole che cambiare si può solo con la lotta.
Ascolta la lunga chiacchierata radiofonica con Simone, avvocato del lavoro e anarchico. Una chiacchierata su questa città, dove il futuro che non è più quello di una volta.
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– 27 Gennaio 2013
25 gennaio. La lotta contro il Muos continua con quotidiani blocchi degli accessi alla base militare statunitense. Questi blocchi stanno considerevolmente rallentando i lavori, ed hanno sinora impedito il passaggio di alcuni componenti essenziali per il montaggio del mega sistema di collegamento satellitare. Nonostante lo sgombero violento dei blocchi della notte del 10 gennaio, che ha consentito il passaggio di una grossa gru, i No Muos non si arrendono.
Questa mattina la digos, accompagnata da un folto nugolo di celerini, ha tentato di consegnare alcuni fogli di via, ma la determinazione delle “mamme” del presidio ha impedito che le notifiche venissero effettuate. I poliziotti si sono innervositi, hanno minacciato arresti e interventi più muscolari, ma, di fronte ai numerosi cittadini accorsi in difesa del presidio, hanno deciso di fare retromarcia.
Nei giorni scorsi a Niscemi si è riunita in seduta pubblica la commissione ambiente della Giunta Regionale Siciliana, che ha promesso di revocare i permessi, di fare verifiche, di opporsi alla prosecuzione dei lavori. Ma in concreto non ha fatto nulla. I comitati No Muos, in un loro comunicato, hanno detto chiaro che solo l’azione diretta dei cittadini può bloccare questa pericolosa installazione militare.
Grazie al Muos i militari statunitensi potranno migliorare sensibilmente le prestazioni dei loro velivoli senza pilota, i droni. In altre parole riusciranno ad ammazzare molto di più. Va da se che la base di Niscemi, se dotata del Muos, potrebbe diventare obiettivo di grande importanza strategica.
Gli abitanti di Niscemi l’hanno capito e non sono disponibili né a morire di tumore per le conseguenze dell’inquinamento elettromagnetico, né a recitare il ruolo di “effetti collaterali” della prossima guerra.
Sulla giornata di oggi senti la diretta con Peppe da Niscemi
Sul Muos ascolta l’intervista con l’ingegner Massimo Coraddu, consulente tecnico dei comitati No Muos:
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– 26 Gennaio 2013
25 gennaio 2013. Sono trascorsi due anni da quando un giovane tunisino si diede fuoco in piazza innescando la rivolta che ha portato alla caduta di Ben Alì e poi, a cascata, di Hosni Mubarak in Egitto. I frutti politici di quelle primavere li hanno raccolti i partiti islamici, radicati nelle campagne, con un ceto politico solido, ed una tradizione caritativa che ne ha consolidato le clientele. I ragazzi disoccupati, sia dei ceti medi, che delle periferie più povere, che pure sono stati i protagonisti delle rivolte, non avevano i mezzi per contrastare il ritorno della mediazione politica incarnata da forze reazionarie ma radicate e molto abili nei giochi di potere.
In Egitto i Fratelli Musulmani nelle pieghe del regime si erano conquistati fette di potere significative. Non per caso alla rivoluzione hanno preso parte senza troppo slancio, ma oggi hanno la maggioranza in parlamento e hanno imposto una nuova costituzione basata sulla sharia.
Sarebbe tuttavia un errore pensare che i giochi siano fatti.
Lo dimostrano gli scontri di piazza che hanno segnato questo secondo l’anniversario della rivoluzione in Egitto. In tutto il paese il governo ha reagito con estrema violenza. In piazza Tahrir al Cairo, ci sono stati 6 morti e 250 feriti: la polizia ha sparato contro i manifestanti che assediavano il ministero dell’Interno, il palazzo presidenziale e la sede della TV di Stato. A Suez la folla ha dato l’assalto al governatorato, la polizia ha risposto sparando sulla folla: il bilancio, purtroppo destinato a salire, è di 8 morti e numerosi feriti. Ad Alessandria la polizia ha lanciato lacrimogeni contro i manifestanti nei pressi del municipio, mentre ad Ismaylia è stata bruciata una sede dei Fratelli Musulmani.
In altre zone del paese i manifestanti hanno bloccato i binari in varie zone del paese.
Ascolta la chiacchierata fatta la scorsa settimana con Salvo Vaccaro, una chiacchierata partita dal nord africa per estendersi alle politiche di casa nostra.
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– 25 Gennaio 2013
Un treno contenente bidoni di uranio impoverito, proveniente dalla centrale di Tricastin nel Drome e diretto in Olanda, è deragliato lunedì 21 gennaio a Saint-Rambert-d’Albon, un piccolo paese nei pressi di Grenoble, meno di 200 chilometri da Torino.
Le autorità francesi hanno come di consueto minimizzato l’episodio, sostenendo che non vi sono state conseguenze per la salute delle persone che vivono nella zona.
Questo incidente la dice lunga sui rischi gravissimi dei trasporti di materiale radioattivo, specie le scorie delle centrali che viaggiano dall’Italia verso la Francia per oltre tre giorni, attraversando il Piemonte e tutta la Francia.
Per approfondimenti ascolta l’intervista che Lorenzo, attivista antinucleare, ha rilasciato all’informazione di Blackout.
Nel frattempo si è diffusa la notizia di un nuovo incidente alla centrale di Belleville sur Loire. Ieri una delle pompe per il raffreddamento della centrale è andata in avaria in seguito ad un principio di incendio, mentre l’altra pompa era in manutenzione dal 10 gennaio.
Pare che l’emergenza sia rientrata ma, come denunciano gli attivisti di Sortir du Nucleaire, il rischio corso è stato gravissimo, perché il mancato raffreddamento del nocciolo, può portare ad una reazione a catena e alla fusione del nocciolo, come è accaduto a Fukushima dopo lo tsunami.
Ovviamente di queste bombe nucleari a due passi da casa nostra i media evitano con cura di parlare.
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– 24 Gennaio 2013
Dopo aver intervistato 29 bimbi e adulti respinti dai porti nostrani, Human rights watch ha stilato un rapporto in cui denuncia il comportamento delle autorità italiane che imbarcano in massa verso la Grecia profughi provenienti da paesi in guerra. Agli adulti non viene data la possibilità di fare domanda d’asilo, ai bambini non viene concessa l’ospitalità prevista dalle stesse leggi italiane.
In Grecia, i profughi, spesso provenienti dall’Afganistan, sono sottoposti ad abusi delle forze dell’ordine, condizioni detentive inumane e degradanti in un ambiente ostile, segnato da violenze xenofobe.
Nell’ultimo anno si sono moltiplicate le aggressioni contro gli stranieri dei neonazisti di “Xrisi Argi”, coperti e appoggiati dalla polizia. Solo le ronde antifasciste nei quartieri pongono un argine alle violenze naziste.
La maggior parte dei profughi considera la Grecia e l’Italia tappe di un viaggio con destinazione Gran Bretagna, Svezia, Norvegia, ma la legislazione europea, che impone di fare richiesta di asilo nel primo paese dell’Unione in cui si arriva, rende questo percorso molto difficile e rischioso.
Non è la prima volta che l’Italia entra nel mirino delle istituzioni umanitarie o transnazionali per il trattamento inflitto ad immigrati e richiedenti asilo.
Basti pensare alla condanna della corte di Strasburgo per tortura e trattamenti inumani per i respingimenti verso la Libia.
Ascolta l’intervista a Gabriele Del Grande, blogger di Fortresse Europe, realizzata da radio Blackout
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By anarres
– 24 Gennaio 2013
Era la primavera del 2011. Migliaia di tunisini presero la via del mare per cercarsi un’altra vita in Europa. La rivolta che aveva scosso il paese, contagiando quelli vicini, aveva reso meno chiuse le frontiere. Il ministro dell’Interno, il leghista Maroni, affrontò l’ondata di sbarchi da par suo, trasformando Lampedusa in un gigantesco carcere a cielo aperto, nella vana speranza di scaricare la patata bollente agli altri Stati Europei. Quando la situazione divenne incandescente decise di aprire campi-tenda e vecchie caserme per rinchiudere gente che voleva solo proseguire il proprio viaggio.
Finì all’italiana. Quelli arrivati entro il 5 aprile ottennero un permesso di sei mesi, quelli sbarcati dopo erano clandestini.
In questo caos in cui la criminalità del governo era pari solo alla sua cialtroneria i CIE si riempirono all’inverosimile di gente più che disponibile ad animare rivolte su rivolte. L’intero sistema concentrazionario italiano andò in crisi. In questo clima maturò l’affare Mineo.
A Mineo, 35 chilometri dalla base militare di Sigonella, la ditta della famiglia Pizzarotti aveva costruito un residence per le famiglie dei militari statunitensi. Nella primavera del 2011 il residence è vuoto, perché gli americani hanno optato per soluzioni più comode ed economiche.
Pizzarotti si ritrova una patata bollente che non riesce a piazzare in nessun modo, finché un governo amico non decise di togliergli le castagne dal fuoco trasformando il residence in CARA, ossia un centro per richiedenti asilo. Lì vennero deportati richiedenti asilo da ogni angolo di’Italia, interrompendo le pratiche già in atto, spezzando le relazioni con la gente del luogo. In questo modo i CARA si potevano trasformare in CIE e la famiglia Pizzarotti non ci rimetteva un euro.
Due anni dopo il CARA di Mineo è strapieno, luogo di proteste e rivolte da parte di profughi e rifugiati, dimenticati in questa prigione nel deserto. Le pratiche, tutte concentrate a Catania, si sono allungate all’infinito, le risposte tardano, Mineo è diventata una polveriera.
Anarres ne ha parlato con Antonio Mazzeo. Ascolta l’intervista a radio blackout
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– 23 Gennaio 2013
Lunedì 21 gennaio. È ripreso oggi il processo ai No Tav accusati della resistenza allo sgombero della Libera Repubblica della Maddalena del 27 giugno e della giornata di lotta del 3 febbraio 2011.
Lo scorso anno, proprio in questi giorni scattavano gli arresti. Ad un anno di distanza è ancora ai domiciliari Juan Sorroche.
Nell’udienza di questa mattina, l’ennesima di carattere procedurale, il tribunale, presieduto da Bosio ha deciso l’accorpamento dei due procedimenti contro i No Tav chiesto dalla difesa.
Uno dei compagni sotto processo ha chiesto di fare una dichiarazione spontanea a nome di tutti gli imputati al processo, il presidente ha detto di no, ma Tobia ha letto ugualmente la dichiarazione, nella quale si chiedeva la scarcerazione di Juan.
La prossima udienza, ancora di carattere procedurale, è stata fissata per il 1° febbraio, mentre il dibattimento comincerà il 14.
La novità della procura è la decisione di trasferire il processo nell’aula bunker del carcere delle Vallette.
I motivi addotti sono di carattere tecnico ma la verità è un’altra. La procura torinese, con il pretesto dell’ordine pubblico, sta concentrando a Torino tutti i processi No Tav.
Quello contro i Tav del 27 giugno e 3 luglio 2011 doveva tenersi a Susa, così come il processo per la trivella di Susa. Come a Torino è stato trasferito il processo contro 28 No Tav rinviati a giudizio per aver contrastato il sondaggio di via Amati a Venaria. Questo processo doveva svolgersi a Ciriè.
La decisione presa oggi di trasferire nell’aula bunker del carcere delle Vallette uno di questi tre processi No Tav ha una valenza simbolica molto forte. Inaugurata per i grandi processi contro le formazioni armate, divenuta poi teatro di importanti processi contro mafia e ‘ndrangheta, era rimasta chiusa per anni. La prima volta l’hanno riaperta per due sindaci No tav accusati e poi assolti dall’accusa di resistenza per i fatti del 2005.
Dal primo febbraio ospiterà i ribelli della Libera Repubblica.
È l’ultimo tassello di una strategia comunicativa in cui i No Tav hanno il ruolo di pericolosi estremisti, una minoranza di violenti da isolare nel deserto militarizzato delle Vallette.
Il primo febbraio è già stato fissato un presidio solidale.
Aggiornamento. Juan l’ultimo dei No Tav ancora privato della libertà è stato liberato dopo due giorni dall’udienza. Ha tuttavia il divieto di recarsi in Piemonte.
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– 21 Gennaio 2013
Le arance, i mandarini, le clementine che fanno mostra di se nei mercati di Torino, sono state raccolte da lavoratori stagionali, che vengono pagati 50 cent alla cassetta di arance, 1 euro per cassetta di mandarini. Ogni cassetta pesa una media di 18/20 chili. In una giornata di lavoro la media arriva a 25 euro. In nero, non tutti i giorni ma solo quelli che il caporale ingaggiato dai padroni decide di sceglierti. Se alzi la testa, se reclami per i ritmi o per la paga, puoi anche andartene, perché nessuno ti chiamerà più.
I media ci raccontano di migrazioni epocali, di emergenze continue per giustificare le condizioni di vita indecenti di questi lavoratori. Per loro non ci sono tende o gabinetti funzionanti quando arrivano nella piana di Gioia Tauro per la raccolta degli agrumi. Di affittare una casa non se ne parla nemmeno: a Rosarno o a San Ferdinando una stanza costa come nel centro di Milano o Roma.
In realtà basterebbero pochi soldi per mettere su strutture decenti, basterebbero liste publiche per tagliare fuori i caporali, basterebbe che chi guadagna, e bene, sul lavoro degli stagionali, ci mettesse qualcosa del suo per garantire loro un letto e una doccia. Invece no. Così le tendopoli scoppiano subito, circondate da baracche fatte di lastre di amianto e teli di plastica, così per i bisogni ci sono buche a cielo aperto.
Quella dell’emergenza è una bufala che ci raccontano perché è più facile immaginare una fame tutta africana, che vedere la realtà. La realtà è fatta di operai del nord che hanno perso il lavoro e vengono a fare la raccolta per rimediare un salario, la realtà è fatta di richiedenti asilo che attendono da oltre due anni la risposta che consentirebbe loro di andare via, di cercarsi un lavoro stabile. La guerra in Libia è finita da due anni, ma i profughi di quella guerra vivono ancora in un limbo apolide.
Se vedessimo la realtà vedremmo che la condizione degli africani di Rosarno è ormai la condizione di tanta parte dei lavoratori italiani. L’unica emergenza è quella quotidiana di uno sfruttamento senza limiti, perché per i padroni non conta il colore delle pelle, ma quello dei soldi.
Le arance che mangiamo sono sempre più amare.
Anarres ne ha parlato con Antonello Mangano, autore de “Gli africani salveranno Rosarno”, giunto oggi alla seconda edizione.
Ascolta l’intervista ad Antonello
Sabato 26 gennaio mostra itinerante e volantinaggio nei mercati delle zone popolari di Torino. Appuntamento alle 9,30 in corso Palermo 46
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– 19 Gennaio 2013
Sabato 19 gennaio. Circa 200 i partecipanti al corteo indetto dall’assemblea contro gli sfratti di Porta Palazzo, uno spazio di incontro e relazione dove si auto organizzano sfrattati e solidali sia per resistere agli sgomberi sia per prendersi una nuova casa, occupando stabili abbandonati.
Lo schieramento di polizia è imponente ma invisibile. Nelle vie adiacenti ai giardinetti di via Montanaro, ci sono circa una decina di blindati. La maggior parte sono in via Martorelli per difendere la sede dei post-fascisti di “Fratelli d’Italia”, la piccola banda di Marrone e Montaruli, che nei giorni scorsi, abbandonato il matrimonio di interesse con il PDL, hanno dato vita alla nuova formazione elettorale. La gente guarda e passa, senza curarsi troppo di nulla.
Prima la sede l’avevano proprio di fronte ai giardini di via Montanaro, quelli adiacenti alla vecchia mutua, ma per loro lì non era aria. Iniziative come la raccolta firme per la casa agli italiani non avevano sortito gran successo in un angolo di Torino dove la metà della gente è nata altrove, e gli autoctoni faticano come gli altri e mettere insieme il pranzo con la cena.
Ci avevano poi pensato gli anarchici che da trent’anni operano in zona a fargliela trovare lunga tra striscioni e presidi ai giardinetti.
Alla faccia della militarizzazione e degli allarmi mediatici lanciati dai “Fratelli d’Italia”, il corteo si snoda tranquillo per le strade del quartiere. Molti compagni hanno portato alla manifestazione i loro bambini, i negozi sono tutti aperti. In testa c’è uno striscione con la scritta “basta sfratti”, ripetuta su due cassonetti che fanno da battistrada come nei giorni della resistenza agli ufficiali giudiziari e ai loro guardiani in armi.
I vari interventi si snodano intorno a pochi semplici concetti: l’affitto non si paga, la casa si occupa, resistere insieme si può. Questi slogan riassumono in un lampo il senso della lotta che si è sviluppata in questi mesi grazie alla reciproca solidarietà.
Sinora la polizia non è intervenuta in modo troppo muscolare, segno evidente che in corso Vinzaglio e nei palazzi del potere della capitale subalpina c’è chiara consapevolezza che l’incrudirsi della crisi – e la ferocia antipopolare delle misure attuate dai governi per contrastarla – rischiano di far salire le tensioni sociali a livello esplosivo.
Fassino e il suo partito non vogliono correre questo rischio, perché, se è vero che questa lotta è oggi solo di una piccola minoranza, il disagio di tirare a campare tra disoccupazione, taglio dei servizi e aumento delle tariffe, cresce di giorno in giorno.
Il corteo si conclude nel mercato di Porta Palazzo tra i mercandini che tirano via i banchi e la gente che si affretta verso casa tra neve e freddo. Un ultimo intervento invita alla prossima giornata di resistenza agli sfratti prevista per martedì.
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– 19 Gennaio 2013
Stefania è quasi avvocato. Martedì scorso è entrata nel CIE di Torino per incontrare un cliente, un ragazzo pestato a sangue durante l’ultima rivolta dei reclusi di corso Brunelleschi.
La protesta si è fatta incandescente nella notte del 13 gennaio, un freddo cane e niente riscaldamento. Alcuni prigionieri bruciano i materassi, altri salgono sui tetti, fuori la polizia intercetta qualche manciata di solidali, poi, dopo l’arrivo di altri, li rilascia.
Nella notte del 15 è ancora rivolta. La polizia spara lacrimogeni e pesta. Il giorno dopo parte una perquisizione punitiva con perquisizione delle celle in cerca di attrezzi usati per le rivolte.
Stefania ascolta il racconto del pestaggio subito dal ragazzo che l’ha chiamata. Poi resta lì, nella zona destinata ai colloqui, in attesa di un altro “cliente”. Aspetta e ascolta. Ascolta uno della Croce Rossa, l’organizzazione umanitaria che gestisce il CIE di Torino sin dalla sua apertura nel lontano 1999, quando l’Italia bombardava la ex Jugoslavia e il confine tra la guerra fatta fuori e quella in casa era sottile sottile.
Il tizio della Croce rossa ovviamente parla con la voce di chi si è fatto complice dei secondini, ma il suo racconto ci dice che, anche a Torino sta succedendo quello che capita un po’ dappertutto, da quando il governo – e l’Europa – hanno deciso che lì dentro ci puoi rimanere sino a un anno e mezzo. Una condanna senza crimine, senza giudice, senza avvocato.
Le rivolte, racconta l’uomo della Croce Rossa, sono le punte più aguzze di una realtà quotidiana di lotta e di tentativi di evasione. I materassi bruciano ogni notte, le coperte spariscono in fretta, perché servono per intrecciare le corde per saltare il muro.
Solo questo conta. Saltare il muro.
Anche i poliziotti che passano parlano, parlano dei telefoni portati via agli immigrati, che hanno osato fare foto della rivolta che potrebbero uscire fuori e mostrare a chi vuol vedere quello che succede.
Stefania racconta questa storia all’informazione di radio Blackout. Un racconto preciso, senza sbavature, intelligente, che si intreccia con la spiegazione dei meccanismi che stritolano le vite di chi finisce nei pollai per immigrati. La direttiva rimpatri stabilisce che nel CIE ci puoi stare sino a sei mesi, ma la prigione amministrativa dovrebbe essere l’estrema ratio. Prima si dovrebbero tentare altre strade, verificare se il senza carte ha parenti, affetti, legami. Lo dovrebbe fare il giudice di pace al momento della ratifica della detenzione. Ma, dice Stefania, per quello che ha visto lei, quelli convalidano sempre.
E, ogni notte, in ogni dove d’Italia, i materassi bruciano.
Ascoltate l’intervista a Stefania sul sito di radio Blackout.
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By anarres
– 19 Gennaio 2013
Martedì 15 gennaio. Dopo oltre un mese e mezzo di rumores sul possibile passaggio di un nuovo treno carico di scorie nucleari, provenienti dal deposito Avogradro di Saluggia e dirette all’impianto di riprocessamento della Areva a La Hague, lunedì sera il tam tam degli antinuclearisti ha suonato la sirena d’allarme nel tardo pomeriggio, quando è arrivata la conferma che erano cominciate le operazioni di carico del treno a Vercelli, dove arrivano in camion le scorie provenienti da Saluggia.
Nel Piemonte occidentale, dove si era già svolto un presidio domenica, l’appuntamento era da tempo fissato alla stazione di Avigliana. Altri presidi si sono formati a Novara e ad Asti.
In tarda serata è arrivata la notizia che il treno era partito da Vercelli intorno alle 23,40. Il percorso è quello di sempre. Da Vercelli a Novara, poi giù nel basso Piemonte a Mortara, Alessandria, Asti, Torino Lingotto, interland ovest e poi Val Susa.
L’assemblea degli attivisti, infreddoliti ma decisi a resistere, decide l’occupazione dei binari. Da queste parti nessuno è disponibile ad un ruolo testimoniale. Bisogna mettersi di mezzo.
A Novara e ad Asti, i presidi vengono circondati dalla polizia e bloccati sin dopo il passaggio del convoglio nucleare, composto da tre treni, due civetta e uno con le scorie.
Sono trascorsi pochi minuti dallo sgombero ad Asti, quando la polizia, che ha nel frattempo militarizzato tutte le stazioni sul percorso, irrompe in massa ad Avigliana, entrando dal sottopassaggio e da entrambi i lati della stazione. I No Nuke vengono circondati da un apparato repressivo impressionante per i numeri messi in campo. In un primo tempo pare che si accontentino di circondare gli attivisti, poi parte un intervento più diretto, i compagni vengono sospinti fuori con la delicatezza che contraddistingue quelli dell’antisommossa, gli attivisti vengono sollevati di peso. Parte anche qualche botta: una attivista viene schiacciata da uno scudo e diventa necessario chiamare l’ambulanza. Non viene concesso ai volontari di arrivare nel piazzale per prestare soccorso e la donna colpita deve essere aiutata a raggiungere il mezzo.
La partita, visto lo schieramento di forze e le diverse “regole di ingaggio” aveva un esito scontato, lo sgombero del blocco, tuttavia la determinazione dei compagni e delle compagne fa sì che se la debbano sudare per quasi un’ora. Terminato lo sgombero la polizia circonda il piazzale della stazione per impedire che i manifestanti si allontanino.
Circa un quarto d’ora dopo il passaggio del convoglio nucleare, il capitano dei carabinieri di Susa, Mazzanti, fa aprire i cordoni. Sono le tre e quarantacinque. Quella appena trascorsa è la quarta notte di resistenza ai trasporti nucleari negli ultimi due anni. I treni dovevano essere 12 entro il dicembre scorso, a gennaio 2013 ne sono passati solo quattro: il segno che la resistenza a questi trasporti inutili e pericolosi, fatti senza avvertire la gente, sta mettendo in difficoltà i vari governi che si sono succeduti.
Per approfondimenti su questi trasporti leggi il volantino distribuito in questi giorni a Torino e in Val Susa.
Per una cronaca della nottata antinucleare ascolta il servizio su radio onda d’urto.
Guarda il video del Fatto Quotidiano
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By anarres
– 15 Gennaio 2013