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A margine del 14N. Esodo conflitto autogestione

anarchia verde bluEsodo, autogestione, conflitto
Senza servi, niente padroni

Renzi ha calato le sue carte. Carte pesanti che incideranno nel profondo nella carne viva di chi, per vivere, deve lavorare.
Nel nostro paese i numeri dei disoccupati, dei precari, dei senza casa, dei senza futuro non sono statistica ma innervano il tessuto sociale, attraversando le vite di chi deve fare i conti con i fitti non pagati, le rate che scadono, le bollette sempre più care, la spesa per i figli a scuola. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Quest’anno gli asili – troppo cari – non si sono riempiti; i malati rinunciano alle cure e alla prevenzione per non pagare i ticket, tanti non riescono a pagare il fitto e finiscono in strada.
Chi resiste agli sfratti, chi occupa le case vuote rischia la galera o il manganello. Esemplari in tal senso le vicende di Roma e Torino e quella, recentissima, del Giambellino a Milano.
Le reti familiari, smagliate e indebolite, non riescono più a reggere il peso della solidarietà sociale, sempre forte, nonostante l’appeal degli slogan del Presidente del consiglio.
Il suo gioco è abile. Dopo decenni di erosione di libertà, quei pochi che ancora ne godono vengono dipinti come “vecchi” privilegiati. Chi è nato precario, chi ha una laurea e risponde al telefono in un call center, chi finisce l’apprendistato e viene sostituito da un altro apprendista, non ha mai avuto la tutela dell’articolo 18.
Dopo aver demolito un sistema di garanzie costruito in decenni di lotte – quando l’ammortizzazione del conflitto era l’unico modo per contenere la lotta di classe – oggi il PD targato Renzi, sta chiudendo gli ultimi conti, cercando di contrapporre i figli disoccupati ai padri costretti a lavorare sino alla tomba.
E’ la fine di ogni finzione socialdemocratica. I figli della crisi stanno imparando ad attraversarla, agendo forme di conflitto che provano a ri-definire un terreno di lotta che getti la questione sociale nel tessuto vivo delle nostre città. Una strada ancora in salita in cui la violenza della polizia si intreccia con la rassegnazione di tanti. Ancora troppi.
Il movimento di lotta per la casa è il segno – per ora ancora troppo debole – di un agire che si emancipa dal piano meramente rivendicativo e scende sul terreno della riappropriazione diretta.
I facchini che bloccano i gangli della circolazione delle merci, ultimo nodo materiale nella smaterializzazione e parcellizzazione delle produzioni e dei contratti, dimostrano che è possibile mettere in difficoltà i padroni, quando si riesce a disarticolare un punto sensibile.

Lo spettro della Grecia
La retorica dell’antipolitica, il populismo più becero, la paura del grande complotto, alibi per le destre di ogni dove, comunque si coniughino nella geografia dei giochi parlamentari, mostrano una trama già logora, ma continuano a sedurre.
Più consistente è il pericolo della destra sociale, che alimenta steccati e soffia sul fuoco della guerra tra poveri. Se non sapremo creare un ponte tra soggetti sociali separati da anni di frammentazione fisica e culturale, se non sapremo intrecciare le pratiche e i percorsi, rischiamo una rivolta sociale di destra.
Il segnale delle piazze dei forconi è stato forte e chiaro. Il fascino dei blocchi selvaggi ha sedotto certa sinistra, che gode delle rotture di piazza nonostante tricolori e saluti romani, ma non è certo riuscita a mutare di indirizzo alla protesta dello scorso anno, cavalcata con facilità dalle destre. Sarebbe molto miope non vedere che, oltre la rivolta fiscale, c’é un immaginario che si nutre di militari al potere. Quelle piazze sono affondate nel ridicolo ma presto potremmo avere il discutibile piacere di un bis. Il buon Marx sosteneva che la storia, quando si ripete, declina in farsa la tragedia: nulla osta che una farsa non possa invece volgersi in tragedia.
Le adunate di Salvini, la campagna contro i rom e gli immigrati, gli assalti al centro per rifugiati di Tor Sapienza, la campagne d’odio che serpeggiano selvagge per la rete, sono una campana d’allarme che richiede riflessione e iniziativa.
I successi dell’estrema destra più violenta in Grecia sono un monito che non possiamo ignorare. Le periferie povere e rabbiose sono il terreno di coltura per fascisti e razzisti. Gli ultimi, gli immigrati, i senza tetto diventano il capro espiatorio per i tutti i mali.
Si tratta, senza indulgere ai facili populismi di certa sinistra in cerca d’autore, di insistere sulla pratica della partecipazione diretta e sulla possibilità di fare da se nella solidarietà.
L’occupazione del comune di Carrara e la nascita di un’assemblea di cittadini avrebbe potuto avere ben altro esito se non fosse stata innervata da una chiara proposta libertaria.

La partita di Camusso e soci
Questo governo sta puntando in modo secco sulla repressione del conflitto sociale e chiude i conti con la lunga stagione della concertazione.

Questo spiega perché il sindacalismo di Stato, la CGIL, la CISL e la UIL, siano nel mirino del rottamatore.

Renzi vuole che CGIL si rassegni ad una secca perdita di status e colpisce gli interessi materiali del sindacato.

Camusso, dopo le legnate ai funzionari della Fiom, ha infine indetto sciopero. La CGIL gioca una partita la cui posta è bloccare i tagli a distacchi e finanziamenti, i lucrosi spazi di cogestione che Renzi sta attaccando. Resterà da vedere se i tanti iscritti al maggiore sindacato italiano non sapranno esprimere un protagonismo che vada al di là della mera difesa della burocrazia sindacale.
La scelta della FIOM di scioperare il 14 in contemporanea con il sindacalismo di base e quella di Camusso di annunciare lo sciopero due giorni prima del 14, ha riportato nei ranghi settori di CGIL che avrebbero aderito allo sciopero indetto dai sindacati più conflittuali.
Gli scioperi tardivi della CGIL non devono farci dimenticare che il precariato e il caporalato legale, sono stati sdoganati con gli accordi del 31 luglio 1993 e del 3 luglio 1994. I vent’anni di tabula rasa di diritti e tutele che sono seguiti li hanno sempre visti in prima fila.
L’auspicio è che sempre più lavoratori non si rassegnino al recinto del sindacalismo di Stato.
I sindacati di base scontano tuttavia una certa difficoltà a confrontarsi con le problematiche emergenti dalla condizione precaria. Lo slogan dello sciopero sociale al momento è una mera suggestione che agisce sul piano dell’immaginario, ma, su un terreno più pratico, trova sponda ancora nella CGIL. Questa sponda potrebbe cedere come gli argini dei nostri fiumi strangolati dal cemento, di fronte a pratiche diffuse di solidarietà attiva, che diano impulso forte alle lotte dei precari, dei disoccupati, dei senza casa.

Oltre la crisi. Conflitto e autogestione
La crisi e la macelleria sociale che ci è stata imposta, la perdita irreversibile di un ampio sistema di garanzie e tutele, la fine dello scambio socialdemocratico tra sicurezza e conflitto, potrebbero offrirci nuove possibilità. Possibilità inesperite da lungo tempo, seppellite nelle pieghe della memoria della lotta di classe, dello scontro con la struttura gerarchica della società e della politica.
Negli ultimi anni abbiamo assistito all’abbozzarsi di reti territoriali, che intrecciano legami solidali nella pratica quotidiana, nella relazione diretta, nella costruzione di percorsi di esodo conflittuale dall’istituito.
La scommessa è costruire nel conflitto, fare dell’esodo, della fuoriuscita dalla morsa delle regole del capitalismo e dello Stato, il punto di forza per l’estendersi delle lotte.
Uno spazio pubblico strappato alla delega democratica, che in alcune occasioni si è creato nelle lotte per la difesa del territorio, è stato laboratorio di idee e proposte radicali. Aumentano coloro che riconoscono l’incompatibilità tra capitalismo e salute, tra capitalismo e futuro, offrendo spazi all’emergere di un immaginario, che mette all’ordine del giorno, come necessità di sopravvivenza, la rottura dell’ordine della merce.
Le lotte contro gli sfratti e per l’occupazione di spazi vuoti spesso non si limitano a cercare di sottrarre alcuni beni al controllo del mercato, ma negano legittimità alla nozione stessa di proprietà privata.
La fine delle tutele apre uno spazio – simbolico e materiale – per riprenderci le nostre vite, sperimentando i modi per garantirci salute, energia, cura degli anziani e dei bambini fuori e contro il recinto statuale. La scommessa è tentare percorsi di autonomia che ci sottraggano al ricatto del “peggio”, ai processi di servitù volontaria (leggi, ad esempio, lavori/tirocini/stage non pagati etc.), alla continua evocazione dell’apocalisse che abbatte chi non segue i diktat della politica nell’epoca del liberismo trionfante, della finanza anomica, della logica del fare per il fare, perché chi fa mette in moto l’economia, fa girare i soldi, “crea” ricchezza.
Sappiamo che questa logica “crea” solo macerie.
Lasciamo che Renzi e i suoi le spalino, noi abbiamo un mondo nuovo nei nostri cuori, nelle nostre teste, nelle nostre braccia.
Maria Matteo

(quest’articolo è uscito sul settimanale Umanità Nova)

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Torino 22N. Corteo No Tav a Torino. Con Chiara, Claudio, Mattia e Nicolò

2014 11 17 manif no tav copyIl movimento No Tav ha lanciato un appello per una settimana di lotta, nei vari territori, dal 14 al 22 novembre. Altre iniziative si svolgeranno il 7 e 8 dicembre e il 17 dicembre, giorno in cui potrebbe essere emessa la sentenza.

Il 14 novembre i due PM del processo, Andrea Padalino e Antonio Rinaudo hanno pronunciato la requisitoria, chiedendo nove anni e mezzo di reclusione.
La stessa sera, davanti ai cancelli della centrale di Chiomonte, c’é stata una prima risposta.

A Torino il 22 novembre si terrà un corteo No Tav

Appuntamento in piazza Castello alle 15

di seguito il testo diffuso dal movimento No Tav quando Chiara, Claudio, Mattia e Nicolò hanno rivendicato la partecipazione all’azione di sabotaggio di un compressore per cui sono in carcere da più di undici mesi.

14 maggio 2013. Un gruppo di No Tav compie un’azione di sabotaggio al cantiere di Chiomonte.
Quella notte venne danneggiato un compressore. Un’azione di lotta non violenta che il movimento No Tav assunse come propria. Un’azione come tante in questi lunghi anni di lotta contro l’occupazione militare, contro l’imposizione violenta di un’opera inutile e dannosa.

Il cantiere/fortezza è ferita inferta alla montagna, un enorme cancro che ha inghiottito alberi e prati, che si mangia ogni giorno la nostra salute. In questo paesaggio di guerra ci sono gli stessi soldati che occupano l’Afganistan. Un compressore bruciato è poco più di un sogno, il sogno di Davide che abbatte Golia, il sogno che la nostra lotta vuole realizzare.

Il 9 dicembre del 2013 vengono arrestati Chiara, Claudio, Mattia e Nicolò. Quattro di noi.
Nonostante non sia stato ferito nessuno, sono imputati di attentato con finalità di terrorismo sono accusati di aver tentato di colpire gli operai del cantiere e i militari di guardia.

Ai nostri quattro compagni di lotta viene applicato il carcere duro, in condizioni di isolamento totale o parziale, sono trasferiti in carceri lontane. Volevano rendere difficili le visite, volevano isolarli ma non ci sono riusciti. Noi andiamo e torniamo insieme: non lasciamo indietro nessuno.
Nonostante la Cassazione abbia smontato l’impianto accusatorio della Procura di Torino, negando che i fatti del 14 maggio possano giustificare l’utilizzo dell’articolo 270 sexies, che definisce la “finalità di terrorismo”, il processo va avanti. In dicembre dovrebbe essere pronunciata la sentenza.

Decine di migliaia di No Tav, sin dai primi giorni dopo gli arresti, hanno detto: “quella notte in Clarea c’ero anch’io”. Il 22 febbraio e il 10 maggio si sono svolte le manifestazioni più importanti, ma non è mancato giorno in cui non vi sia stata un’iniziativa di solidarietà attiva.

Il 24 settembre in aula bunker Chiara, Claudio, Mattia e Nicolò, per la prima volta dall’inizio del processo, hanno preso la parola, dicendo che quella notte, la notte del 14 maggio 2013, c’erano anche loro.
Le loro parole, pronunciate con fierezza di fronte a chi li ha rinchiusi in una gabbia da quasi un anno, sono le nostre parole, i nostri sentimenti, la nostra stessa strada.
Movimento No Tav

Qui l’appello per il corteo del 22 novembre a Torino

25 anni di bugie sul TAV, ecco il dato che emerge chiaramente e che il Movimento No Tav denuncia da sempre.

Nessun costo attendibile, finanziamenti europei sempre più in forse, l’assenza di un progetto esecutivo e di una seria analisi costi/benefici ma, soprattutto, l’inutilità di quest’opera miliardaria, come confermato nero su bianco da esperti e tecnici di tutta Europa. Che succede ora?

Ministri, politici interessati solamente a mantenere la poltrona e vari incaricati del progetto ripetono la litania “tutto regolare, la Tav si farà” e nel frattempo la mafia ringrazia e le tasche dei soliti noti si riempono.

Tutti quei miliardi che vogliono spendere per il TAV potrebbero servire a sistemare le scuole che cadono a pezzi, a mettere in sicurezza i territori, a sostenere chi rimane privo di reddito e della casa e chi, pur facendo di tutto, non arriva a fine mese.

I No Tav queste cose le hanno sempre dette e da sempre lottano per bloccare quest’opera inutile e devastante.

La procura di Torino con i processi ai No Tav sta cercando di fermare il movimento, creando un precedente con l’accusa di terrorismo, affinché tutte le lotte sociali vengano indagate come ipotesi criminali.

Il 14 novembre è stata formulata la richiesta di 9 anni e 6 mesi di reclusione per i NOTAV Chiara, Claudio, Mattia, Niccolo’, in carcere dal 9 dicembre scorso con l’accusa di terrorismo, per un atto di sabotaggio, incendiando un compressore, anche se la Cassazione ha già escluso si possa parlare di terrorismo. A dicembre sarà emessa la sentenza. Altri tre compagni sono in carcere per lo stesso episodio, in attesa di giudizio.

A gennaio, invece, verrà emessa la sentenza del Maxiprocesso ai 53 No Tav per i fatti del 27 giugno e 3 luglio 2011, date storiche della lotta No Tav, in cui sono state richieste condanne per un totale di quasi 200 anni di reclusione e più di due milioni di euro per danni a persone, cose e “all’immagine dello Stato italiano”!

Quesi giorni e quelle notti c’eravamo tutti!

Libertà per tutti i No Tav!

Sabato 22 novembre

ore 15 piazza Castello a Torino  corteo No Tav!

Qui potete leggere il comunicato di solidarietà della CdC della Federazione Anarchica Italiana

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Torino 14N. I vasi non comunicanti

05 torinoUna bella giornata di sole. Oltre mille studenti e altrettanti lavoratori, un corteo fatto insieme ma lontano dall’afflato unitario che si era tentato di costruire.
Un paio di settimane di assemblee, incontri, iniziative pubbliche non sono bastate a creare un ponte tra le aree studentesche e quelle del sindacalismo di base. In mezzo centri sociali, anarchici, cigiellini dissidenti un po’ smarriti.
L’area del sindacalismo di base avrebbe voluto un corteo comunicativo, che attraversasse il centro cittadino e desse rappresentazione di piazza ai lavoratori che avevano scelto il 14 novembre per scioperare. Le organizzazioni studentesche, nelle principali articolazioni politiche all’ombra della Mole, puntano a divenire polo di riferimento per chi, spesso giovane, vive una condizione precaria che rende difficile praticare senza rischi lo sciopero.
Sciopero generale per gli uni, sciopero sociale per gli altri. Tra gli Studenti Indipendenti non è mancato un corteggiamento alla CGIL. In testa al corteo hanno aperto uno striscione con la scritta “Verso lo sciopero generale”: un chiaro riferimento al carattere di “anteprima” attribuito alla giornata del 14 novembre.
Gli studenti, indipendenti ed autonomi, puntavano a realizzare nel tessuto urbano la proposta che l’economista Andrea Fumagalli aveva lanciato durante un’assemblea al Campus Einaudi: bloccare la città, mettere in difficoltà i flussi di comunicazione, il passaggio delle merci, la mobilità delle persone. Lo scopo, dichiarato, era fare male ai padroni adottando strategie di lotta che potessero colpire e colpire forte nel portafoglio, vero cuore pulsante di ogni buon capitalista.
Nei fatti questa strategia è rimasta un desiderio irrealizzato ed irrealizzabile, perché bloccare i flussi significa avere tante persone, lavoratori che non vanno a lavorare, indipendentemente che siano o meno in sciopero, studenti che facciano nottata, disoccupati che trovino i propri spazi di rappresentanza negli svincoli delle tangenziali, negli autoporti, alle uscite della metropolitana, in alcune piazze cruciali per i mezzi pubblici. Dulcis in fundo, un moltiplicarsi di reti Anonymous che lanci i propri attacchi nella rete.
Un’impresa, quella proposta da Fumagalli, non meno difficile di allargare l’area di consenso del sindacalismo di base, moltiplicando, tra chi ne gode ancora il diritto, il numero degli scioperanti.

Nei fatti la manifestazione del 14 novembre a Torino non è stata né carne né pesce. L’imposizione di un percorso che mirava ai blocchi, ha reso vana la tensione ad un corteo comunicativo. La componente studentesca, non essendo riuscita a fare i blocchi, sia pure simbolici come quello di una stazione ferroviaria nella tarda mattinata, ha trasformato la manifestazione in una defatigante maratona, nell’illusione che il corteo in se realizzasse un rallentamento dei flussi delle persone e delle merci tale da creare qualche problema alla controparte.

Un fatto invece positivo è il buon numero di lavoratori in sciopero che ha risposto all’appello del sindacalismo di base: un’inversione di tendenza, sul piano dei numeri, rispetto al recente passato.
Si tratterà nei prossimi mesi di costruire percorsi di lotta tali da unire, nella necessaria riterritorializzazione del conflitto, chi vive la condizione precaria e chi, grazie alle misure del governo, cammina sul’orlo del baratro. Non sarà facile, ma è necessario provarci.
Gli anarchici della FAT, che, sia pur criticamente, avevano aderito allo spezzone del sindacalismo di base, erano presenti con le loro bandiere e con un volantino, che coglieva le possibilità di emancipazione da una prospettiva welfarista, che la crisi e le politiche governative offrono.
La fine delle tutele apre spazi – simbolici e materiali – per riprenderci le nostre vite, sperimentando i modi per garantir(ci) salute, energia, cura degli anziani e dei bambini fuori e contro il recinto statuale.

Per approfondimenti leggi. “A margine del 14N. Esodo conflitto autogestione”

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Nove anni e mezzo. Quella notte c’eravamo tutti!

2014 11 14 chiomonte (14)Venerdì 14 dicembre. È il giorno della requisitoria di Andrea Padalino e Antonio Rinaudo, i due PM che rappresentano la pubblica accusa nel processo contro quattro No Tav per il sabotaggio del 14 maggio del 2013 in Clarea.
Il gesto, rivendicato in aula dai quattro No Tav lo scorso 24 settembre, è stato fatto proprio dall’intero movimento.
Padalino e Rinaudo hanno ribadito l’impianto accusatorio sul quale hanno costruito il processo per attentato con finalità di terrorismo. La finalità di terrorismo, così come definita dall’articolo 270 sexies, si 2014 11 14 chiomonte (9)sostanzia nel danno all’immagine dell’Italia, tenuta in scacco da un gruppo di No Tav, che hanno attuato un’azione di sabotaggio, danneggiando un compressore.
Se bastasse bruciare un compressore o qualsiasi altro attrezzo di lavoro per obbligare lo Stato a fare marcia indietro, saremmo sull’orlo della rivoluzione.
La requisitoria dei due PM si è dipanata intorno a quest’asse, descrivendo una sorta di organizzazione paramilitare e insistendo sulla potenziale pericolosità dell’attacco al cantiere, nel quale sarebbero state impiegate armi da guerra.

2014 11 14 chiomonte (10)La risposta dei No Tav non si è fatta attendere.

Sin dal tardo pomeriggio il popolo No Tav si è ritrovato ai cancelli prima della centrale Iren di Chiomonte, tra jersey e filo spinato circondati da reti alte e potenti per chiudere la strada che porta all’ormai ex museo archeologico della Maddalena.
Una lunga, lunghissima battitura, ritmata tra slogan e canti è stata il segno inequivocabile di una condivisione di percorsi, ribadita ogni giorno sin dal 9 dicembre dello scorso anno. Era il giorno degli arresti di Chiara, Claudio, Mattia e Nicolò, sottratti alle loro vite e messi in gabbie dalle maglie molto strette, spesso in 2014 11 14 chiomonte (15)isolamento, sempre in regime di alta sorveglianza. Sono considerati pericolosi. Secondo i PM torinesi lo dimostra il loro essere anarchici. Un atto di accusa che non può che essere motivo d’orgoglio per qualunque anarchico.
Ma, con buona pace della Procura di Torino, il pericolo è altrove. Il pericolo sono le migliaia di persone che continuano a percorrere i sentieri della lotta No Tav.
Piove a dirotto ma siamo comunque tanti. Qualcuno si avvicina alla piccionaia dall’alto e subito mettono aprono l’idrante: la pompa è difettosa e bagna meno 2014 11 14 chiomonte (18)della pioggia.
Si condivide il cibo e si cuociono le castagne su un fuoco di legna ma il fuoco più forte arde nei nostri cuori. Che il loro calore possa raggiungere Chiara, Claudio, Mattia e Nicolò bucando i muri delle loro prigioni.

Il prossimo appuntamento è sabato 22 novembre per un corteo No Tav a Torino. Ore 15 da piazza Castello

Sabato 15 novembre. Anonymus ha dato la propria zampata. Il sito della Procura di Torino è Tango Down!

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Esodo, conflitto, autogestione

gabbietta-da-aprireSenza servi, niente padroni

Renzi ha calato le sue carte. Carte pesanti. A Torino i numeri dei disoccupati, dei precari, dei senza casa, dei senza futuro non sono statistica ma innervano il tessuto sociale.
Il gioco di Renzi è volgare ma abile. Dopo decenni di erosione di libertà, quei pochi che ancora ne godono possono essere dipinti come “vecchi” privilegiati. Chi è nato precario, chi a trent’anni ha una laurea e risponde al telefono, chi a 29 si ritrova ad essere un apprendista licenziato per sempre, non ha mai conosciuto le tutele dell’articolo 18.
Il PD targato Renzi cerca di contrapporre i figli disoccupati ai padri costretti a lavorare sino alla tomba.
È la fine di ogni finzione socialdemocratica. I figli della crisi stanno imparando ad attraversarla, agendo forme di conflitto che provano a di ri-definire un terreno di lotta che getti la questione sociale nel tessuto vivo delle nostre città. Una strada ancora in salita in cui la violenza della polizia si intreccia con la rassegnazione di tanti. Ancora troppi.
Il movimento di lotta per la casa, i facchini che bloccano i gangli della circolazione delle merci, ultimo nodo materiale, nella smaterializzazione e parcellizzazione delle produzioni e dei contratti, sono i segni – per ora ancora troppo deboli – di un agire che si emancipa dal piano meramente rivendicativo e scende sul terreno della riappropriazione diretta.
La crisi e la macelleria sociale che ci è stata imposta, la perdita irreversibile di un ampio sistema di garanzie e tutele, la fine dello scambio socialdemocratico tra sicurezza e conflitto, ci offre la possibilità di agire lotte che si emancipino dall’illusione della tutela statale.
Senza dimenticare che il rinnovato vigore della destra alimenta steccati e soffia sul fuoco della guerra tra poveri. Se non riusciremo a creare un ponte tra condizioni sociali separate da anni di frammentazione fisica e culturale, se non sapremo intrecciare le pratiche e i percorsi rischiamo – ancora una volta – una sommossa di piazza agita dalla destra.

Chi, dopo l’indizione dello sciopero generale da parte delle CGIL, nutrisse illusioni farebbe bene a ricordare che il precariato e il caporalato legale, sono stati sdoganati con gli accordi del 31 luglio 1993 e del 3 luglio 1994. I vent’anni di tabula rasa di diritti e tutele che sono seguiti l’hanno sempre vista complice.
La CGIL gioca una partita la cui posta è bloccare i tagli a distacchi e finanziamenti, i lucrosi spazi di cogestione che Renzi sta attaccando.

Sul piano sociale si moltiplicano le reti territoriali, che intrecciano legami solidali nella pratica quotidiana, nella relazione diretta, nella costruzione di percorsi di esodo conflittuale dall’istituito.
La scommessa vera è costruire nel conflitto, fare della fuoriuscita dalla morsa delle regole del capitalismo e dello Stato, il punto di forza per l’estendersi delle lotte.
Uno spazio pubblico strappato alla delega democratica, che in alcune occasioni si è creato nelle lotte per la difesa del territorio, è stato laboratorio di idee e proposte radicali. Aumentano coloro che riconoscono l’incompatibilità tra capitalismo e salute, tra capitalismo e futuro, offrendo spazi all’emergere di un immaginario, che mette all’ordine del giorno, come necessità di sopravvivenza, la rottura dell’ordine della merce.
Le lotte contro gli sfratti e per l’occupazione di spazi vuoti spesso non si limitano a cercare di sottrarre alcuni beni al controllo del mercato, ma negano legittimità alla nozione stessa di proprietà privata.
La fine delle tutele apre uno spazio – simbolico e materiale – per riprenderci le nostre vite, sperimentando i modi per garantir(ci) salute, energia, cura degli anziani e dei bambini fuori e contro il recinto statuale. La scommessa è tentare percorsi di autonomia che ci sottraggano al ricatto del “peggio”, ai processi di servitù volontaria (leggi, ad esempio, lavori/tirocini/stage non pagati etc.), alla continua evocazione dell’apocalisse che abbatte chi non segue i diktat della politica nell’epoca del liberismo trionfante, della finanza anomica, della logica del fare per il fare, perché chi fa mette in moto l’economia, fa girare i soldi, “crea” ricchezza.
Sappiamo che questa logica “crea” solo macerie.
Lasciamo che Renzi e i suoi le spalino, noi abbiamo un mondo nuovo nei nostri cuori, nelle nostre teste, nelle nostre braccia.

Questo testo verrà diffuso dagli anarchici della FAT al corteo dei lavoratori in sciopero domani a Torino

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14 novembre. Sciopero generale

scioperogenerale01Venerdì 14 novembre il sindacalismo di base ha indetto sciopero generale di 24 ore. La posta in gioco è molto alta: costruire una giornata di lotta che sia punto di partenza per un conflitto più ampio. L’obiettivo è disinnescare i dispositivi messi in campo dal governo Renzi, coronamento di vent’anni di precarizzazione del lavoro, di asservimento e impoverimento delle classi lavoratrici.

Su questo terreno il conflitto tra il governo e la maggiore organizzazione sindacale statalizzata del nostro paese, la CGIL, va colto nella sua portata più autentica. Renzi ritiene di poter regolare i conti con ogni apparato di mediazione sociale – dal sindacato a Confindustria – per consolidare il proprio ruolo di mattatore in una commedia con un solo attore protagonista. Renzi non vuole fare fuori la CGIL, ma semplicemente escluderla dai tavoli di concertazione: se Camusso e i suoi non si piegheranno il primo ministro potrebbe stringere ulteriormente i cordoni della borsa. La CGIL si sta muovendo per difendere privilegi consolidati, rendite sicure, il proprio enorme apparato burocratico.

La partita di chi lavora, dei precari, dei disoccupati è altrove.
Il governo vende un piano per il lavoro che non avrà effetti sul piano occupazionale ma produrrà solo più precarietà e cancellerà le residue tutele. In contemporanea, la legge di stabilita 2015 taglia di miliardi di spesa pubblica riducendo ancor più occupazione, servizi e redditi dei ceti popolari.

A Torino ci sarà un corteo cittadino che partirà alle 10 da piazza Arbarello.

Ascolta la diretta
di radio Blackout con Stefano Capello della CUB

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Sblocca Italia. Cemento e affari

cemento“Misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive”, contiene 44 articoli destinati ad avere un notevole impatto: dai treni ad alta velocità alle nuove autostrade, dalle prerogative delle soprintendenze alle norme sull’edilizia.” Questo l’incipit del decreto del governo diventato legge qualche giorno fa.

Di cosa si tratta?
Eliminazione di vincoli e tutele per l’ambiente, la salute, la sicurezza dei lavoratori e di chi abita un territorio, via libera a enormi colate di cemento per autostrade, linee ad alta velocità, urbanizzazioni selvagge, trivellazioni.

Lo Sblocca Italia è stato ribattezzato da alcuni anche Sblocca Antenne, perché introduce un principio di deregulation per cui le ditte di telecomunicazioni potranno piazzare antenne sempre più potenti – la tecnologia a 4 giga – sforando legalmente i limiti per l’inquinamento elettromagnetico.

Tra le chicche dello Sblocca Italia ci sono gli articoli 36, 37 e 38 che danno nuovo stimolo alle ricerche di petrolio sul territorio, e nei mari, italiani e all’importazione e allo stoccaggio di gas. A poco o nulla valgono considerazioni banali sulla pericolosità delle trivellazioni, per non dire dell’assoluta inutilità dei rigassificatori. Quello di Livorno, ormai completato da tempo, non è, per fortuna, mai entrato in funzione. Il motivo? Il gas arriva regolarmente sia dalla Russia sia dal nord africa. I rigassificatori però, anche quando sono fermi, li paghiamo noi tutti in bolletta.

Messa in soffitta anche la tutela del paesaggio e del patrimonio artistico: la norma del silenzio assenzio spargerà cemento ovunque.

Mentre il ministro dell’ambiente chiama omicidi i mille condoni edilizi concessi nel nostro paese, il suo governo ha chiarito i propri obiettivi: ridare slancio alla grande lobby dei costruttori, per drogare l’economia e ridare slancio alle grandi opere, a danno di chi in questo paese vive e si barcamena tra stabile precarietà e disoccupazione.
In questi giorni un gruppo di uomini e donne con figli a scuola ha scritto al prefetto di Genova, ricordando gli enormi sacrifici affrontati, la perdita di ore di lavoro e del relativo stipendio dovute ai sette giorni di stop delle scuole per l’alluvione. L’ennesima alluvione annunciata. Nella lettera si chiedono ragione dello stanziamento di poche decine di milioni per la messa in sicurezza dei territori a fronte dei miliardi destinati al cemento.

A Carrara i cittadini, esasperati da alluvioni continue intervallate da provvedimenti tampone che tappano un buco ma non incidono sulle cause occupano dall’8 novembre la sala di rappresentanza del comune e hanno dato vita all’assemblea permanente dei cittadini. Un’eco non casuale con l’analoga esperienza che condusse alla chiusura della Farmoplant di Massa.

E’ finita con cassonetti in fiamme e scontri con la polizia la manifestazione dello scorso 7 novembre a Napoli. Il corteo era stato convocato per protesta contro la nomina, prevista all’articolo 33 dello Sblocca Italia, di un commissario che porti a compimento la bonifica dell’ex area industriale di Bagnoli cominciata quasi vent’anni fa. Al centro della protesta il timore che attraverso il commissariamento si arrivi a una cementificazione di un’area che tanti vorrebbero bonificata e destinata ad uso pubblico.

Da Genova a Napoli a Carrara sono tanti i segnali di un’insofferenza diffusa tra chi paga un duro prezzo per le scelte scellerate di una classe politica che bada sola alla perpetuazione di se stessa.
Ascolta l’approfondimento dell’info di Blackout con Francesco Carlizza

 

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Carrara. Occupato il comune, nasce l’assemblea permanente

carraraIl Comune di Carrara è occupato da sabato 7 novembre. Tanti cittadini, esasperati dall’ultima alluvione, quel giorno avevano dato vita ad una manifestazione davanti al comune. Sin dal mattino qualche manifestante aveva occupato la sala consiliare. L’occupazione di massa è scattata intorno all’una, quando il sindaco ha deciso di affacciarsi alla finestra, dichiarando che sia lui sia la sua giunta non si consideravano responsabili dell’accaduto.
I pochi carabinieri di guardia alla scalinata d’accesso al comune hanno capito al volo e, dopo aver messo al sicuro il sindaco, se ne sono andati.
Diverse centinaia di persone fanno a turno nella sala occupata. Qualche politico sperava che la protesta facesse da volano per la nascita di una lista civica, ma si è presto disilluso di fronte alla determinazione dell’assemblea popolare ad autogestire la lotta e la gestione dell’emergenza. E’ nata l’assemblea permanente dei cittadini di Carrara, con riunioni quotidiane ogni giorno alle 18. I partecipanti hanno dato vita a vari gruppi di lavoro e si sono dotati di un ufficio di comunicazione, con il compito di trasmettere all’esterno le decisioni dell’assemblea.
A Carrara ci sono state 11 alluvioni in quattro anni che, sommate a quelle dei paesi vicini, arrivano ad un’alluvione all’anno. Al di là di qualche intervento tampone è stato fatto poco o nulla. Questa volta, grazie all’abbassamento dell’alveo del fiume Carriona e all’innalzamento degli argini, il centro storico si è salvato dall’inondazione, ma la frazione a mare di Marina è stata investita in pieno. I tanti volontari che sono immediatamente accorsi per dare una mano cercando di salvare qualcosa, si sono trovati di fronte scene di grande desolazione: in numerose case poco o nulla era sfuggito alla furia delle acque.
La rabbia è tanta, perché è forte la consapevolezza che il dissesto idrogeologico non può essere affrontato con provvedimenti tampone, ma servirebbero interventi strutturali, che potrebbero mettere in discussione interessi molto forti. In primis quelli dei padroni delle cave che ad uno sfruttamento intensivo uniscono la vendita degli scarti di lavorazione, un tempo lasciati sul fianco della montagna ed oggi venduti per il mercato dei carbonati di calcio.

La tradizione libertaria di Carrara, una radicata attitudine a fare da se, hanno innescato una risposta forte, che al di là della protesta e della rabbia, sta costruendo un percorso di autonomia, che mette in difficoltà il governo della città e chi ambirebbe a prenderne il posto.

Ne abbiamo parlato con Donato, un compagno che, come tanti, sin da giovedì scorso ha spalato fango a Marina, e, da sabato, partecipa all’occupazione e all’assemblea permanente.
Il nome scelto non è casuale. E’ lo stesso che i cittadini di questi territori si diedero per la lotta contro la Framoplant, impianto chimico che ha avvelenato per decenni l’ambiente e chi ci abitava. Dopo 12 anni di lotte la Farmoplant chiuse i battenti.

Ascolta la diretta con Donato fatta dall’info di Blackout

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I reparti confino del nuovo millennio

arbeit mach fiatIn un reportage uscito sull’ultimo numero dell’Internazionale Alessandro Leogrande ci racconta una storia che pensavamo seppellita nel passato della lotta di classe. In realtà i padroni, che la guerra per l’asservimento dei lavoratori la combattono e la vincono da trent’anni, nonostante l’aura di modernità con cui ama ammantarsi il capitalismo, certi attrezzi, ferocemente desueti, non li hanno mai messi in soffitta.
Il reparto confino è il luogo dove vengono “relegati i dipendenti ritenuti ‘facinorosi’, ‘ingovernabili’, ‘ingestibili’. Hanno la forma di palazzine non ristrutturate, o di spogli magazzini, o di uffici fino ad allora disadorni e che tali rimangono.
Ai lavoratori “confinati” non è chiesto di produrre, ma di passare le giornate senza fare niente, guardando il soffitto o girandosi i pollici, fino a quando quel lento, prolungato stato di inazione non diventa una forma estrema di violenza contro la propria mente e il proprio corpo. Il confinato vive in una condizione di perenne sospensione in cui la fabbrica finisce per apparirgli come un mondo a parte, che può essere osservato solo attraverso uno spioncino. In breve, il confinato diventa monito per tutti gli altri, per tutti quelli cioè che continuano a lavorare alla catena. Se non ti comporti bene, ecco cosa ti aspetta… Allo stesso tempo, chi è spedito in un reparto confino è costantemente esposto al ricatto di passare dal confinamento al licenziamento, di cadere dalla padella nella brace.”
I reparti confino sono una specialità Fiat. Negli anni cinquanta c’era a Torino l’OSR – Officina Sussidiaria Ricambi di corso Peschiera, soprannominata “Officina stella rossa. Qui finivano gli operai più combattivi. Più di recente, all’inizio degli anni Ottanta, dopo la sconfitta della lotta dei 35 giorni, alcuni operai prima del licenziamento subirono il confino.
Oggi è il turno di Pomigliano. In questo stabilimento Fiat la resistenza all’imposizione del modello Marchionne, il manager svizzero, proiettato a New York, ma con lo stesso piglio del vecchio Valletta, è stata molto forte. Il prezzo della sconfitta molto duro. Sono 316 gli operai che ogni giorno salgono sul pullman diretto al reparto confino di Nola.
Il reparto confino distrugge la dignità del lavoratore, lo isola dai suoi compagni di fabbrica, ne fiacca la resistenza. E’ come il carcere: devi andare, far passare il tempo che non passa sotto gli occhi dei sorveglianti. A differenza del carcere ruba solo otto ore della tua giornata. Come in carcere sono tanti queolli che non reggono e decidono di farla finita.
Maria Baratta, operaia di 47 anni lo scorso 21 maggio si è ammazzata colpendosi ripetutamente all’addome con un coltello. Era in cassaintegrazione da sei anni, 800 euro al mese di stipendio, una del reparto confino di Nola.
In un’intervista per il documentario “la fabbrica incerta” diceva: “a 22 anni montavo il tergilunotto sull’Alfa 33 da sola, oggi prendo psicofarmaci”. (…)
“Dopo la sua morte, sono stati licenziati cinque operai che hanno protestato contro la dirigenza aziendale a Pomigliano. Si erano finti cadaveri, imbrattandosi di sangue e stendendosi sull’asfalto, dopo aver appeso a un palo della luce un manichino con la faccia di Marchionne.”
Vari altri operai e operaie della Fiat di Pomigliano, non hanno retto, qualcuno si è ammazzato, qualcuno ha anche sterminato la famiglia, secondo il sanguinoso rituale prevalentemente maschile che sta insanguinando l’Italia.
Nel suo articolo Leogrande ricorda il laminatoio LAF, il reparto confino istituito dalla famiglia Riva, quando prese possesso dell’ILVA. Nota inoltre che le vicende tragiche degli operai morti, piegati, malati costretti nei reparti di isolamento ci raccontano dell’Italia delle fabbriche, di quella dove ancora ci sono margini di resistenza, che la grande macina della precarietà e del caporalato non offrono.
Scrive ancora Leogrande “Al terrore dei “facinorosi” di ieri, si è sostituito il mito attuale della “governabilità” della fabbrica. Tutto ciò che è governabile può essere mantenuto in Italia. Tutto ciò che è “ingovernabile” dovrà necessariamente far posto ad altri stabilimenti, magari aperti in altri lidi e paesi. Nell’attesa, si creano delle falle: la lotta sotterranea tra governabilità e ingovernabilità passa attraverso l’antica tradizione dei reparti confino.

L’info di Blackout ne ha parlato con Marco Revelli, docente universitario e sociologo, che a lungo si è occupato della FIAT, dei reparti confino da Valletta ai giorni nostri.

Ascolta la diretta

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Sfruttamento made in Eataly

eataly is italyEataly è il simbolo dell’Italia ai tempi di Renzi, un luogo dove si lavora 365 giorni l’anno, dove la precarietà è la norma e la disciplina durissima.
I lavoratori, tutti italiani, del supermercato più eco, green e costoso d’Italia, vengono pagati 8 euro (lordi) l’ora. I pochi con contratto a tempo indeterminato sono tutti part time a 30 ore, ma di ore ne fanno molte di più. Sempre.
In media chi lavora dietro ai banchi o nei ristorantini dove si affacciano anche facoltosi turisti stranieri, porta a casa 800 euro al mese. Niente domeniche, niente festività, niente 25 aprile, niente Primo Maggio.

Oscar Farinetti, il fondatore di Eataly, deve fare i conti con chi lo contesta ai quattro angoli della penisola.Il 5 novembre, su consiglio della Digos, ha rinunciato ad una conferenza a Genova. Farinetti denuncia il “clima avvelenato, contro di me accuse false alimentate da un linguaggio violento” ma si guarda bene dal rispondere alle argomentazioni di chi lo contesta. Argomentazioni molto pratiche. Pracarietà, sfruttamento selvaggio, straordinari a manetta, controlli e perquisizioni sono gli elementi forti della ricetta di questo manager modello dell’imprenditoria made in PD tra eco business e sfruttamento del buon tempo antico.
Renzi avrebbe voluto l’amico Farinetti all’Economia: il Job Act è figlio degli scaffali di questo supermercato.

Del job act l’info di blackout ha parlato con Simone Bisacca, avvocato del lavoro che collabora con il sindacalismo di base.

Ascolta la diretta

A Torino oggi alle 18 ci sarà un presidio di lavoratori, disoccupati e precari di fronte al supermercato di via nizza 230. Un assaggio delle iniziative in preparazione dello sciopero generale di venerdì 14 novembre.

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Torino, 4 novembre. Impacchettati i bersaglieri, lungo Po Cadorna diviene lungo Po Disertori

02 (s)coprire le vergogne bersaglieriNella giornata che lo Stato italiano dedica alla celebrazione delle forze armate, non potevano mancare gli antimilitaristi, che nelle ultime settimane hanno dato vita a tante occasioni di informazione e lotta. Dalla Giornata dei disertori, alla serata “Ancora prigionieri della guerra”, al film “E Jhonny prese il fucile”, passando per la giornata antimilitarista ai giardini (ir)reali. In giugno il corteo contro l’Alenia a Caselle torinese era stato il coronamento di una lunga serie di iniziative.
Di seguito il post comparso con indymedia svizzera sulle azioni del 4 novembre.

Di seguito il post comparso su indymedia svizzera sulle azioni di questo 4 novembre.

Il monumento ai bersaglieri di corso Galileo Ferraris è stato impacchettato con un grosso telo di plastica e vi è stata affissa la targa “(s)coprire le vergogne del militarismo”.

Lungo Po “Luigi Cadorna” è diventato lungo Po “Disertori di tutte le guerre”: una nuova targa ha sostituito quella che ricorda il massacratore della Prima guerra mondiale.

Le nostre città sono piene di monumenti, targhe, lapidi che ricordano assassini, gente che si è guadagnata una statua per aver ucciso, bombardato, sgozzato, violentato. Questi sono gli esempi che i nostri figli studiano a scuola, che incontrano in ogni piazza, in ogni strada, questi sono i pilastri sui quali è edificata la nostra “civiltà”.
Non vogliamo che i nostri figli vedano per le strade delle nostre città le effigi di chi si guadagna medaglie ed onori ammazzando altri bambini, bambini nati con la guerra e morti di guerra. Per loro nessuno erige lapidi, né monumenti.
In questi anni, destra e sinistra, governo ed opposizione, hanno cercato di arruolarci, di unirci con la paura, coprendo le nostre vite con un sudario tricolore. Ma noi non ci siamo stati: abbiamo disertato la loro guerra e stracciato le loro bandiere.
Le basi della guerra sono a due passi dalle nostre case: fabbriche di armi, caserme, aeroporti militari, poligoni di tiro. Lottiamo per chiuderle, perché 53 milioni di euro che ogni giorno vengono spesi per garantire le avventure militari dell’Italia, tra l’Afganistan, i CIE, il cantiere di Chiomonte, servano per ospedali, scuole, trasporto pubblico.
Fare a meno degli eserciti è possibile, ma nessuno Stato è disposto a rinunciare al monopolio della violenza: farla finita con i mercenari in divisa tricolore, significa farla finita con lo Stato, con tutti gli Stati, le frontiere, le bandiere.

Il monumento ai bersaglieri è una delle tante vergogne militariste che costellano questa città. Opporsi alla guerra, agli eserciti è anche scegliere di rifiutarne la retorica, i simboli di odio e violenza, la ragion di Stato che si fa pietra e bronzo.

Nel centesimo anniversario dell’inizio della prima guerra mondiale, si moltiplicano le celebrazioni di quel massacro. I militari, lo hanno deciso i ministri della difesa e della pubblica istruzione, vanno a scuola a fare propaganda e per arruolare nuovi mercenari per l’esercito italiano.

04 lungo po disertoriLuigi Cadorna è l’emblema di quella guerra, l’uomo delle decimazioni, delle fucilazioni di massa, il responsabile della morte e mutilazione di centinaia di migliaia di soldati.
Tanti di loro si ribellarono, girando le armi contro gli ufficiali, disertarono, rifiutarono di continuare la guerra. A loro – con una targa che sostituisce quella del macellaio Cadorna – dedichiamo questa giornata. Per un esercizio di memoria che è stato a lungo negato, ma poco a poco riemerge.

Noi abbiamo scelto di essere uomini e donne di parte. La parte degli oppressi, degli sfruttati, dei senzapatria. La parte di chi crede che non c’è pace senza giustizia, la parte di chi crede che non vi sono guerre giuste, né poteri buoni.

Anche a Trieste gli antimilitaristi hanno fatto un’azione di arredo urbano in contemporanea con la sfilata di bersaglieri “per il ritorno di Trieste all’Italia”.

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Disertori tra il Balon e Porta Palazzo

disertori (00)Primo Novembre. Siamo tra il Balon e Porta Palazzo. Il Balon, l’antico mercato delle pulci, è stato normalizzato a forza negli ultimi dieci anni, ma non domato del tutto. Ogni sabato qualche abusivo stende il suo pezzo di stoffa e prova a sbarcare il lunario. I vigili urbani vanno a caccia di poveracci da multare e cacciare, le ronde di poliziotti e alpini, sono la minaccia dello Stato ai senzatetto che dormono sotto il porticato di corso Emilia, ai senza documenti che chiudono i loro fagotti al passaggio del truppone.
Sono il segno concreto di una guerra ai poveri sempre più feroce. Non per caso i militari sono gli stessi che si danno il cambio tra l’Afganistan, il CIE, il cantiere di Chiomonte e la Barriera a Torino. Abbiamo attraversato il Balon, incrociato gli alpini che si sono allontanati in fretta, senza fermarsi. Non li abbiamo più visti.
Poi siamo saliti a Porta Palazzo, il più grande mercato all’aperto d’Europa, dove ogni giorno pullman e tram sputano fuori tanta gente, che cerca la frutta e verdura a prezzi più bassi. Porta Palazzo è lo specchio di Torino. Qui è il cuore di quel ceto di piccoli ambulanti massacrati dalla crisi, privati dei propri privilegi fiscali, che lo scorso 9 dicembre bloccarono pezzi di città, animati dal progetto sovversivo di mandare tutti a casa, per dare il potere ai militari. In bilico tra Grillo e la Lega covano sotto la cenere del fallimento di allora, il fuoco di un rancore pericoloso. Silenti ma ben visibili sono invece le decine di lavoratori dipendenti del mercato, quelli che alle tre di notte montano i banchi e a metà pomeriggio li smontano, caricano le cassette, correndo senza fermarsi mai.
Nella giornata dedicata ai disertori, ne abbiamo incrociati tanti che correvano in mezzo al mercato, dove la gente si fermava numerosa al passaggio degli antimilitaristi, che raccontavano della Grande Guerra, dei suoi 16 milioni di morti, delle stragi, decimazioni, fucilazioni di massa del 1917. Storia di ieri, che torna, diversa ma uguale nelle guerre moderne, dove a morire, spezzarsi le ossa, venire torturati e stuprati sono quasi sempre i civili.
L’Italia spende ogni giorno 53 milioni per le proprie avventure di guerra.
In Piemonte ci sono tante industrie eccellenti specializzate nella produzione di ordigni di guerra, cacciabombardieri e sistemi di puntamento, AMX, Eurofighter, F35.
Per il mercato le sagome di caduti di guerra sono state riempite con i nomi delle tante fabbriche di morte. Alenia, Selex, Iveco, Avio, Microtecnica, Galileo, Macaer…
Se le basi di guerra sono a due passi dalle nostre case, l’opposizione ai massacri non può essere mera testimonianza, deve farsi azione diretta.
La giornata si è conclusa con la costruzione collettiva di un monumento ai disertori di tutte le guerre. Un monumento fatto di cose recuperate, ben diverso dai bronzi a cavallo che campeggiano nelle piazze di Torino, pornografia bellica per esaltare qualche assassino in divisa.
Qui il testo del volantino distribuito ai passanti.

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Da Torino a Kobane. Una libertà senza confini

DSCN0139Torino, 1° novembre. A quindici giorni dalla manifestazione del 14 ottobre, siamo tornati in piazza in appoggio alla resistenza delle YPG e YPJ contro l’assedio delle truppe del califfo nero.
La comunità curda e i solidali si sono ritrovati in piazza Castello, dove hanno suonato i Kara Gunes & Mubin Dunen, nell’ambito del loro tour “tra rivoluzione e barbarie”.
Il presidio si è ancora una volta trasformato in corteo sino alla sede regionale della RAI, dove ha sostato a lungo prima di tornare in piazza Castello, dove balli tradizionali e slogan hanno chiuso la giornata, nell’impegno per una lotta che sarà ancora molto dura. Forte tra i solidali la consapevolezza che la partita di libertà che si sta giocando in Rojava, è importante per tutti. Anche a Torino.

Di seguito il volantino della Federazione anarchica di Torino:

Rojava. Per una libertà senza confini

Il Rojava resiste. La gente di Kobane, assediata dalle forze bene armate del califfo, sta pagando un prezzo durissimo. Centinaia di migliaia di profughi, migliaia di morti, devastazioni infinite ne sono il segno. E’ una lotta impari tra un esercito mercenario bene armato e ben pagato e le milizie di autodifesa popolare, divise in battaglioni femminili e maschili, che contendono metro dopo metro, casa per casa il terreno agli islamisti. L’Isis intende massacrare e rendere schiavi tutti.
Siamo nel nord della Siria, una regione abitata in prevalenza da gente di lingua curda ma anche assira, caldea, turca, armena, araba.
La posta in gioco in quest’area del pianeta è molto alta. Lo sanno bene gli uomini e le donne in armi che difendono la propria autonomia non solo dalle truppe dell’ISIS ma anche dalle pressioni degli Stati Uniti, che subordinano il proprio appoggio alla resistenza alla rinuncia alla propria esperienza di autogoverno popolare. Le frontiere con la Turchia restano serrate per i volontari e le armi dirette a Kobane, la città assediata da quasi due mesi. Vorrebbero che a Kobane andassero le truppe del Kurdistan iracheno, una regione controllata da vent’anni dal partito filo statunitense di Barzani.
Vorrebbero sopratutto che il silenzio calasse sulla storia di gente che si organizza dal basso in comuni e comitati per decidere da sé come amministrarsi. Vorrebbero che nessuno sapesse che in Rojava si pratica la parità di genere negli organismi elettivi, la partecipazione di tutte le componenti linguistiche, etniche e religiose. Nessuno deve diffondere notizie sui cantoni del Rojava e laq loro sperimentazione politica e sociale. Potrebbe essere contagioso.

Negli ultimi anni si sono sviluppati movimenti di lotta che sia nelle modalità organizzative, sia negli obiettivi hanno modi libertari. Partecipazione diretta, costruzione di reti solidali su base locale, mutazione culturale profonda che investe le relazioni di dominio nel corpo sociale ne sono il segno distintivo, oltre alla durezza dello scontro con le istituzioni statali e religiose che controllano i vari territori.
La caratteristica importante di questi movimenti è il radicarsi in aree del pianeta dove negli ultimi quindici anni si sono sviluppati movimenti reattivi all’occidentalizzazione forzata di stampo religioso.
Si va dalla Kabilia, la regione berbera dell’Algeria, al Messico all’India, sino al Rojava.
Qui, nel 2012, profittando del “vuoto” lasciato dal governo di Damasco per la guerra civile che sta insanguinando il paese, uomini e donne stanno sperimentando il confederalismo democratico. Ispirato alle teorie del municipalismo libertario dell’anarchico statunitense Murray Bookchin, l’autogoverno in Rojava rappresenta un tentativo laico, femminista e libertario di praticare un’alternativa ai regimi autoritari che si contendono la Siria.

Intendiamoci. In Rojava non c’é l’anarchia. C’é tuttavia un percorso di partecipazione diretta di segno marcatamente libertario.
Non solo. Per la prima volta tra la gente di un popolo senza stato, diviso da frontiere coloniali, c’é chi dichiara esplicitamente di non volere un nuovo Stato, di rifiutare ogni frontiera, di lottare perché la gente si autogoverni su base territoriale, senza più frontiere. Se non ci sono frontiere non possono esserci nemmeno stati. Un’attitudine rivoluzionaria che inquieta il califfato e i loro ex amici a Washington.
Per la prima volta l’illusione che lotta di classe e indipendentismo siano ingredienti di una stessa minestra rivoluzionaria, capaci di catalizzare una trasformazione sociale profonda, tipica della sinistra autoritaria, si scioglie come neve al sole, aprendo la possibilità di un percorso libertario.
L’integralismo religioso e le satrapie mediorientali non sono un destino.
La difesa di Kobane ci riguarda tutti, perché la storia che hanno cominciato a costruire apre uno spazio di libertà e uguaglianza importante per tutti. In ogni dove.

Per saperne di vi diamo appuntamento a
giovedì 13 novembre
ore 21 in corso Palermo 46
Autogoverno e resistenza popolare in Rojava
Ne parliamo Ferat e Ezel del MED – centro culturale curdo – di Torino e con Daniele Pepino, curatore dell’opuscolo “Dai monti del Kurdistan”

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Ai disertori di tutte le guerre

2014 10 28 maNIF FAT DISERTORISabato 1° novembre
Giornata dei disertori
ore 10 tra Balon e Porta Palazzo

Mostra, letture antimilitariste, esposizione itinerante sull’industria di guerra, autocostruzione collettiva del monumento ai disertori di tutte le guerre.
Nel centesimo anniversario di quell’immane massacro che fu la prima guerra mondiale.

L’Italia è in guerra da molti anni. Ne parlano solo quando un ben pagato professionista ci lascia la pelle: un po’ di retorica su interventi umanitari e democrazia, Napolitano che saluta la salma, una bella pensione a coniugi e figli.
È una guerra su più fronti, che si coniuga nella neolingua del peacekeeping, dell’intervento umanitario, ma parla il lessico feroce dell’emergenza, dell’ordine pubblico, della repressione.
Gli stessi militari delle guerre in Bosnia, Iraq, Afganistan, gli stessi delle torture e degli stupri in Somalia, sono nei CIE, nelle strade delle nostre città, sono in Val Susa.
Guerra esterna e guerra interna sono due facce delle stessa medaglia. L’armamentario propagandistico è lo stesso. Le questioni sociali vengono narrate nel lessico dell’ordine pubblico.
Hanno applicato nel nostro paese teorie e tattiche sperimentate dalla Somalia all’Afganistan.
La separazione tra guerra e ordine pubblico, tra esercito e polizia è sempre più impalpabile. L’alibi della difesa dei civili è una menzogna mal mascherata di fronte all’evidenza che le principali vittime ed obiettivi delle guerre moderne sono proprio i civili. Civili bombardati, affamati, controllati, inquisiti, stuprati, derubati. Poi arriva la “ricostruzione”, la creazione di uno stato democratico fantoccio delle truppe occupanti, l’organizzazione di esercito, polizia, magistratura leali ai nuovi padroni. È la prosecuzione con altri mezzi della guerra. Se non funziona, come in Afganistan, in Libia, Somalia, Iraq e in Siria, gli Stati Uniti e i loro alleati si ritrovano recalcitranti e far guerra al mostro che hanno partorito, nutrito, fatto crescere.
La guerra diventa filantropia planetaria, le bombe, l’occupazione militare, i rastrellamenti ne sono lo strumento. Il militare diventa poliziotto ed entrambi sono anche operatori umanitari.
Nel centesimo anniversario della prima guerra mondiale, un massacro da 16 milioni di morti, si spreca la retorica. Garrire di tricolori e militari nelle scuole al posto degli insegnanti di storia per reclutare nuovi mercenari per le guerre dell’Italia.
Non una parola sulle esecuzioni sommarie, le decimazioni dei soldati, gli stupri di massa, le migliaia di disertori.
Oggi, chi mette in discussione la sacralità di confini che segnano il limite degli stati, chi irride il militarismo, chi brucia il tricolore, finisce in tribunale. Si concluderà il 19 dicembre il processo a 17 antimilitaristi accusati di vilipendio alle forze armate e al tricolore.
Chi uccide in divisa, chi massacra è considerato un eroe, chi diserta le guerre, chi si fa beffe dei militari, delle frontiere e delle bandiere è, a ragione, trattato da sovversivo.
La testimonianza, la rivolta morale non basta a fermare la guerra, se non sa farsi resistenza concreta.
Negli ultimi anni l’opposizione alla guerra qualche volta è riuscita a saldarsi con l’opposizione al militarismo: il movimento No F35 a Novara, i No Tav che contrastano l’occupazione militare in Val Susa, i no Muos che si battono contro le antenne assassine a Niscemi. Anche nelle strade delle città, dove controllo militare e repressione delle insorgenze sociali sono la ricetta universale, c’é chi non accetta di vivere da schiavo.
Le radici di tutte le guerre sono nelle industrie che sorgono a pochi passi dalle nostre case. Chi si oppone alla guerra senza opporsi alle produzioni di morte, fa testimonianza ma non impedisce i massacri.
Nella nostra regione ci sono tante fabbriche di morte. La più importante è l’Alenia, uno dei gioielli di Finmeccanica. Alenia costruisce gli Eurofighter Thypoon, i cacciabombardieri made in Europe, e gli AMX. Le ali degli F35, della statunitense Loockeed Martin, sono costruite ed assemblate dall’Alenia. Un business milionario. Un business di morte.
Per fermare la guerra non basta un no. Occorre incepparne i meccanismi, partendo dalle nostre città, dal territorio in cui viviamo, dove ci sono caserme, basi militari, aeroporti, fabbriche d’armi, uomini armati che pattugliano le strade.
Mettiamo sabbia nel motore del militarismo!
Spezziamo la retorica di guerra! Nelle nostre piazze ci sono statue di bronzo e pietra che celebrano assassini in divisa, uomini la cui virtù era ammazzare.
Costruiamo insieme un monumento ai disertori di tutte le guerre!

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Remi vive nelle lotte. Corteo a Torino

IMG_20141030_190143Il presidio indetto a Torino di fronte al consolato francese in via Roma, dopo un’ora di blocco della circolazione, si è trasformato in corteo. In testa due striscioni “Lo Stato uccide”, “Remi vive. No alla diga di Sivens”. Molti gli slogan per ricordare Remi Fraisse, ucciso da un ordigno lanciato della polizia, durante una notte di lotta alla ZAD du Testet.
Alcune centinaia di persone, molti gli attivisti No Tav, hanno risposto all’appello lanciato dalla Federazione Anarchica Torinese per un’iniziativa contro la violenza degli Stati.  In mattinata era circolato il comunicato del movimento No Tav, che faceva proprio l’appuntamento al consolato.
Il corteo, ha percorso via Roma, attraversando piazza S. Carlo, per concludersi in piazza Castello, con alcuni interventi e Bella Ciao cantata in un sommesso crescendo.

Ascolta la presentazione dell’iniziativa su Radio Onda d’Urto

Di seguito il volantino distribuito alla manifestazione.

Remi, un omicidio di Stato
Si chiamava Remi. Uno studente di Tolosa colpito a morte da una granata assordante durante una notte di assedio al cantiere per la diga di Sivens.
La polizia francese le chiama armi non letali. Ma fanno male. Tanti sono stati feriti, Remi invece è morto. Un omicidio di Stato.
Sabato 25 ottobre era stata indetta una manifestazione al cantiere per la costruzione della diga di Sivens. Quest’opera è contrastata dagli ambientalisti e dai piccoli agricoltori della zona. La diga servirebbe gli interessi di alcune grandi aziende agricole e distruggerebbe l’unica zona umida della zona.
La ditta che ha fatto “l’inchiesta pubblica” per la realizzazione dell’opera, una procedura di consultazione tipica della Francia, è la medesima che si è aggiudicata l’appalto e dovrebbe gestire la diga a lavori ultimati. Una mano lava l’altra e poi si fanno la faccia pulita.
Siamo nel Tarn, nella zona pirenaica a ovest di Tolosa.
Qui è sorta da diversi mesi una ZAD, Zone A Defendre, un’area occupata da accampamenti, casette sugli alberi, tende, per tentare di impedire il disboscamento preliminare all’inizio dei lavori per la diga, che dovrebbe fornire acqua per le coltivazioni intensive di mais.
In questi mesi gli attacchi alla ZAD si sono susseguiti in un crescendo di violenza poliziesca. Tra i resistenti era forte la convinzione che prima o poi ci sarebbe scappato il morto.
Migliaia di manifestanti provenienti da tutta la Francia hanno partecipato all’iniziativa contro la diga e in solidarietà con chi resiste nei boschi. Una grande manifestazione popolare.
Al termine del corteo qualche centinaio di attivisti aveva proseguito per l’area di cantiere vietata e blindata dalla polizia. Le truppe dell’antisommossa hanno usato gas lacrimogeni, pallottole di gomma e granate. Le cariche nel bosco si sono susseguite per ore. Molti manifestanti sono stati feriti. Remi è morto sul colpo. Aveva 21 anni.
Non lo conoscevamo, ma era uno dei tanti che hanno scelto di mettersi di mezzo, di lottare contro l’imposizione di un’opera inutile e costosa. Contro la distruzione di una zona umida, per un’agricoltura misurata sulla qualità, non sul peso, per una vita libera dalla feroce logica del profitto.
La piccola dimensione, l’autogestione dei territori e delle proprie vite, un’idea di relazioni sociali che rifiuta il profitto e sceglie la solidarietà, un’utopia concreta per tanti, in ogni dove, uniti al di là delle frontiere che separano gli uomini e le donne ma non le merci.
Leggendo i racconti di chi era in quei boschi, la mente è corsa ai nostri boschi, alle nostre valli, alla nostra lotta contro il Tav, contro le grandi e piccole opere inutili.
Abbiamo pensato ai malati senza cure, alla gente sfrattata perché non arriva a fine mese, ai bambini stipati in scuole insicure, senza risorse, sempre più costose.
I soldi per una nuova linea di treni, dove già c’è il treno, i soldi per un’opera inutile, costosa e devastante li trovano sempre. Sono l’ossatura di un sistema di drenaggio di soldi pubblici a fini privati, che regge un’intera classe politica.
I soldi per le guerre dell’Italia – 53 milioni al giorno – ci sono sempre. I soldi per i militari nelle strade, per la polizia che picchia chi lotta per la propria vita, per il proprio futuro, ci sono sempre.
Siamo in guerra. La guerra di classe, la guerra per la sopravvivenza di un ceto di politici di professione, di cui possiamo fare a meno. Sempre più persone lo sanno, disertano le urne, costruiscono percorsi di autogestione e autogoverno, aprono spazi di libertà, costruiscono il mondo nuovo che sta crescendo nei nostri cuori.

Remi vive. Vivrà nelle lotte di ogni dove, sarà con noi nei mesi e negli anni a venire.

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