Lo scorso luglio è partito un progetto investe tutta l’area di Porta Palazzo, che ospita il mercato all’aperto più grande d’Europa. Il fulcro narrativo e materiale della “riqualificazione” dell’area è la gastronomia.
Da settembre prossimo l’ex caserma dei Vigili del fuoco in corso Regina Margherita ospiterà “Combo”, un nuovo ostello della gioventù progettato dall’architetto norvegese Ole Sondresen e finanziato da Michele Denegri. Nei 5.500 mq di superficie ci saranno 250 posti letto, aree multifunzionali artistiche con servizio di ristorazione e un bar aperto 24 ore. Restyling anche per il mercato del pesce: i lavori dureranno circa due anni. L’intervento prevede una “boutique del pesce” al piano terra con punti vendita ristrutturati, un bar, uno stand per la degustazione “street food” delle specialità ittiche e un ristorante di lusso.
L’operazione sarà gestita dal Consorzio mercato ittico di Porta Palazzo, formato da Coming alimentare srl e la Cortese Santo Nicola.
A completamento del mercato è prevista anche la risistemazione dei bastioni sotto il parco archeologico, dove gli ambulanti potranno nuovamente parcheggiare i loro carretti.
Sabato 13 aprile verrà inaugurato Mercato Centrale. Il bottiglione verde dell’archistar Massimiliano Fuksas ha conosciuto una vita tribolata sin dall’esordio, quando venne costruito al posto della vecchia Ala liberty che ospitava i negozietti/bancarelle degli abiti a basso costo per gli abituali frequentatori del mercato.
Il Palafuksas era destinato a fallire, perché i negozi di lusso non lo trovavano attrattivo e i vecchi negozianti non potevano permettersi i nuovi affitti. Dalla sua apertura è sempre stato una spina nel fianco delle amministrazioni subalpine. Oggi, nella Porta Palazzo in via di gentrificazione, voluta prima dalle amministrazioni targate PD e oggi dalla giunta a 5Stelle, il bottiglione ospita un polo del gusto, secondo la recente vocazione torinese, che va da Terra Madre ad Eataly, Alti Cibi ad enorme tasso di sfruttamento.
Ci sono voluti dieci mesi di lavoro con un investimento di sei milioni di euro per realizzare a Torino il terzo “Mercato Centrale” in Italia, dopo quelli aperti a Firenze (mercato San Lorenzo) e Roma (Stazione Termini). 4.500 metri quadri distribuiti su tre livelli. Ci saranno 26 botteghe, tra artigiani del gusto, ristoranti, bar, birreria e una scuola di cucina.
Il ‘Mercato Centrale’ nasce dall’idea dell’imprenditore della ristorazione Umberto Montano e dall’esperienza del gruppo Human Company della famiglia Cardini-Vannucchi. “Non solo – spiegano gli ideatori – un luogo, aperto dalle 8 alle 24, dove mangiare e fare la spesa, ma una destinazione in cui cibo e cultura s’incontrano, generando forte aggregazione sociale e realizzando progetti di rigenerazione nel tessuto urbano all’interno del quale si inserisce”.
In altri termini: per i poveri, che pure ancora abitano in buona parte della zona del mercato, non ci sarà posto. L’aumento degli affitti delle case, dei posti dove piazzare i banchi, dei prezzi delle merci allontanerà dal quartiere la popolazione che non se lo potrà permettere.
Un quartiere attira le persone perché vivace, multietnico, perché nell’area del mercato e in quella del limitrofo Balon, gira tanta gente diversa, che ne costituisce l’attrattiva, rischia di trasformarsi in un Luna Park plastificato, destinato a turisti plastificati che affolleranno – già ora accade – le case trasformate in Bed & Breckfast dopo la fuga dei vecchi abitanti.
Ultimo tassello della partita dell’amministrazione Appendino lo spostamento del pezzo non ancora normalizzato del Balon, quello tra il canale Molassi e il piazzale di San Pietro in Vincoli, il vecchio cimitero degli impiccati, rinominato “Barattolo” e gestito dall’associazione Vivi Balon, nata per mettere sotto controllo il mercato illegale, spontaneo, che nell’area che va dal Ponte ora dedicato al vicesindaco sceriffo Domenico Carpanini” al limite della grande piazza della Repubblica, che i vecchi piemu chiamavano Porta Pila. Ora vengono sfrattati tutti, sospinti verso via Carcano, in un’area desolata nei pressi del cimitero, dove già si svolge il mercato domenicale, che dieci anni fa occupava motu proprio l’area di Porta Palazzo Nord, che, nonostante le lotte, venne cacciato con la politica del divide et impera.
Doveva finire tutto quasi tre mesi fa, invece sabato dopo sabato, i balonari occupano la piazza e resistono.
La gentrificazione ci mostra la linea di cesura tra le classi senza finzioni o belletti.
Su questa scena ci sono anche altri attori. La questura di Torino, che stringe il quartiere in una soffocante morsa disciplinare, i poveri che resistono e difendono i loro commerci, gli anarchici che si collocano sulla faglia mobile del conflitto, del mutuo appoggio, della costruzione di assemblee popolari dal basso, parte dell’intelligenza torinese, che sente l’urgenza di impastare le proprie ricerche con la polvere delle strade di Porta Palazzo, per un pensiero che è situato, perché la neutralità è la maschera dei padroni e degli oppressori.
Di Mercato Centrale, di quest’ennesima riqualificazione escludente nel cuore di Porta Palazzo, l’info di Blackout ne ha parlato con Giovanni Semi, sociologo dell’Università di Torino, tra i promotori dell’iniziativa “Cosa succede in città?”
Ieri mattina c’è stata la seconda udienza nel procedimento avviato dalla Procura di Torino, che ha chiesto la sorveglianza speciale e il divieto di dimora nella loro città per cinque volontari italiani in Siria.
All’udienza è intervenuto alche il capo della Procura Borgna per sostenere che la sorveglianza speciale è una norma “democratica” e non fascista. Non possiamo che essere d’accordo con lui, perché sebbene le assonanze con normative di epoca fascista siano evidenti, la sorveglianza speciale è una misura squisitamente “democratica”. La democrazia tratta da nemici, privando della libertà per via amministrativa, chi non riesce e condannare e rinchiudere con i pur innumeri strumenti offerti dalla legislazione penale.
Borgna ha voluto mettere il suo peso un procedimento di natura squisitamente politica, affiancando le esili argomentazioni della PM Pedrotta. Per la PM i cinque torinesi accorsi in Siria per sostenere la rivoluzione democratica contro lo Stato Islamico sarebbero “socialmente pericolosi”.
La nozione di pericolosità sociale è del tutto scivolosa, quasi impalpabile, perché retta sulla presunzione che si possano valutare le intenzioni sulla base di un pedigree tracciato dalla polizia.
Aver appreso l’uso delle armi la volontà di usarle anche in Italia. Una forzatura indimostrabile, che tuttavia si incardina sui profili criminali tracciati dalla polizia politica.
Fuori dall’aula c’erano le foto di Orso e Giovanni, altri due volontari italiani, entrambi caduti in combattimento in Siria. Da morti sono considerati “eroi”, da vivi rischiano di perdere la libertà di abitare nella loro città, di frequentare assemblee e riunioni politiche, di partecipare a cortei e altre iniziative di lotta, rischiano il coprifuoco notturno.
Le arringhe della difesa sono andate aventi sino alle 13,30. Il tribunale si è riservato di decidere: ha 90 giorni per comunicare la sentenza.
Nel pomeriggio, nella centralissima piazza Carlo Alberto, presidio per ricordare Lorenzo Orsetti, Tekoser, volontario anarchico in Siria, morto nella battaglia di Teghuz il 18 marzo.
Una data che è nella memoria e nel cuore di tanti. Nell’anniversario della Comune. Quella di Parigi del 1871, quella di Kronstradt del 1921. I fili si intrecciano, la memoria siamo noi che la teniamo viva. Tante le testimonianze di chi lo aveva conosciuto in Siria. Orso da quando ha scelto di andare a combattere non si è mai risparmiato. Da Afrin, dove la sua serenità dava coraggio a tanti, sino all’ultima battaglia, quando è caduto insieme ad altri volontari arabi negli ultimi giorni dell’ISIS in Siria.
Domenica 31 marzo ci sarà un corteo nazionale in memoria di Orso a Firenze. Ore 15 piazza Leopoldo.
L’info di Blackout ne ha parlato con Paolo – Pachino – Andolina, uno dei cinque volontari per i quali è stata chiesta la sorveglianza speciale, amico e compagno di Orso.
Lorenzo Orsetti, nome di battaglia Tekoser, è stato ucciso in un’imboscata durante la battaglia di Teghuz. Sarebbe presto tornato in Italia, ma ha voluto esserci per affrontare quest’ultima roccaforte dell’ISIS.
Teghuz è circondata, molti si sono arresi ma un nucleo di circa 1500 soldati dello Stato Islamico ha deciso di combattere sino alla fine.
Lorenzo era uno dei tanti volontari accorsi in Siria per difendere il confederalismo democratico in Rojava e per combattere l’Isis.
“Ciao, se state leggendo questo messaggio è segno che non sono più a questo mondo. Beh non rattristatevi più di tanto, mi sta bene così; non ho rimpianti, sono morto facendo quello che ritenevo più giusto, difendendo i più deboli e rimanendo fedele ai miei ideali di giustizia, uguaglianza e libertà”, si legge nella lettera firmata Orso, Tekoser, Lorenzo.
Lorenzo era anarchico e combatteva in un battaglione di anarchici. Oggi viene onorato da tutti, persino dal Ministro dell’Interno, lo stesso ministro che, se Lorenzo fosse tornato vivo dalla Siria, lo avrebbe trattato da delinquente.
La prossima settimana il tribunale di Torino deciderà sulla richiesta di sorveglianza speciale per cinque volontari torinesi, considerati socialmente pericolosi, per aver appreso l’uso delle armi.
Gli anarchici qualche volta diventano eroi ma solo da morti, quando l’ultimo sfregio che si può fare loro è annebbiarne la memoria falsificandola. In questo, i macellai dello Stato Islamico, che gli hanno imposto l’etichetta di “crociato” e i politici italiani, che mettono la sordina sulla sua storia e lo usano per le loro crociate, sono fatti della stessa pasta.
Ne abbiamo parlato con con Paolo “Pachino” Andolina, già membro delle formazioni di autodifesa in Siria, uno dei cinque torinesi che rischiano di diventare sorvegliati speciali. Paolo ha conosciuto Lorenzo in Siria e sa che la promessa reciproca di rivedersi in Italia non potrà essere mantenuta.
Lorenzo per sua volontà sarà seppellito lì dove ha vissuto e combattuto nell’ultimo anno e mezzo.
Numerose iniziative per ricordare Lorenzo e la sua lotta sono in cantiere.
A Firenze il prossimo 31 marzo è stata lanciata una manifestazione nazionale.
A Torino, il 25 marzo alle 8,30 presidio davanti al tribunale di Torino per l’udienza per la sorveglianza speciale, alle 17 presidio in piazza Castello per Orso, Tekoser, Lorenzo
Roma 23 marzo. In marcia per fermare il cambiamento climatico e le grandi opere
Il cambiamento climatico e le conseguenze devastanti che ne derivano sono oggi saperi condivisi. Un tempo se ne occupavano solo gli esperti e gli attivisti ambientali, oggi investono in modo diretto le vite di tutti.
Le conseguenze del cambiamento climatico e della mancata tutela del territorio fanno morti e feriti a ogni temporale, ad ogni mareggiata, ad ogni incendio. Cementificazione, deforestazione, inquinamento dell’aria e dell’acqua producono devastazioni su scala globale.
Le chiamano “catastrofi naturali”, ma la loro origine è umana, sin troppo umana, ma non colpiscono tutti allo stesso modo. Un capitalismo cieco e sordo ci conduce diritto sino alla catastrofe. Chi governa e chi lucra sulle vite altrui ha uno sguardo ancorato al presente, con una progettualità che si limita ad una proiezione elettorale o ad un’indagine stagionale di marketing. Le questioni ambientali sono affrontate con interesse solo se possono essere fonte di business. La Green Economy è un lusso messo a disposizione di chi può e vuole pagare per alimenti più sani, acqua pulita, oasi privilegiate.
Il prezzo del cambiamento climatico e dell’abbandono dei territori viene pagato soprattutto dai più poveri.
I profughi climatici, quelli che fuggono da intere aree del pianeta, dove l’avanzare della desertificazione chiude ogni possibilità di sopravvivenza, sono in costante aumento. Non importa quanti muri verranno eretti, quanti militari armati saranno messi a guardia dei confini, quante vite verranno inghiottite dai deserti, dai mari, dalle montagne. Ci sarà sempre qualcuno che si metterà in viaggio. Quando la casa brucia si tenta il tutto per tutto. Oggi sta bruciando la casa di tutti, sta entrando in ebollizione il pianeta. Continued…
Un tira e molla durato settimane. Come una margherita sfogliata a San Valentino, i due vice presidenti del consiglio hanno recitato con cura un copione già scritto. No Tav, Si Tav, No Tav, Si Tav. Vediamo chi vince, vediamo chi resta con il gambo in mano.
Ieri, con la decisione di TELT, la società italo francese incaricata della costruzione della Torino Lyon, di far partire gli “avis de marchés” gli inviti a presentare le candidatura per i lotti francesi del tunnel di base della Torino-Lione, i giochi parevano fatti.
Salvini ha dichiarato che i lavori per la realizzazione del tunnel di base sarebbero partiti presto, che l’opera non aveva subito alcuno stop.
Di Maio invece sosteneva che le “dichiarazioni” di interesse raccolte da Telt non rappresentavano alcun impegno né vincolo che obbligasse l’Italia e la Francia, principali azioniste di TELT, a pagare penali in caso di recesso. Secondo DI Maio il Tav non si farà.
Un fatto è certo: l’opera va avanti, nonostante le chiacchiere del movimento 5 Stelle sullo stop imposto agli alleati di governo. È anche certo che non si pagheranno penali se tra sei mesi non verranno lanciati i bandi.
L’info di Radio Blackout ha sottoposto la questione al professor Tartaglia del Politecnico di Torino, tecnico No Tav.
La sua risposta è stata tanto semplice, quanto complesse sono state le giravolte elettorali dei due compari in competizione per le europee e le regionali piemontesi. Continued…
Si chiama Simona. Mentre scrivo si trova al centro grandi ustionati di Torino. Non può vedere né sentire nulla: è stata sedata ed intubata, per evitarle sofferenze terribili. Stava andando al lavoro, quando nel parcheggio è stata raggiunta da Mario D’Uonno, l’uomo che da oltre due anni la perseguita in un crescendo di insulti, violenze e minacce. Pochi giorni prima era sfuggita ad un tentativo di speronamento, questa volta non ce l’ha fatta. É stata inseguita, bloccata, picchiata. Infine l’uomo ha preso la tanica di benzina che aveva preparato, l’ha gettata sull’auto ed ha appiccato il fuoco. Prima di perdere conoscenza Simona ha gridato “è stato lui”.
Lui che sui social aveva scritto “Ti manderò all’inferno. Fosse l’ultima cosa che faccio”. Detto e fatto.
Simona non è una vittima. Aveva dato parola alla persecuzione, aveva denunciato le angherie che subiva. Anche per questo Mario D’Uonno ha cercato di bruciarla viva, di annientarla.
Sui media e sui giornali si è scatenata la canea di chi chiede più polizia e repressione, di chi parla di “amore malato”, di “sfera affettiva”, di questioni “private”.
Le statistiche dell’ultimo anno ci dicono che nel nostro paese il numero di omicidi è ancora calato. Se si scorporano i dati emerge che è diminuito il numero degli uomini uccisi, resta invece stabile quello delle donne ammazzate.
Nell’aridità di questi calcoli è la cifra della guerra contro la libertà femminile. Una guerra che non si deve nominare, che viene sistematicamente travestita da malattia, eccesso, eccezione. Raptus e follia sono il paravento che copre il non detto, il non dicibile.
La violenza contro le donne è un fatto del tutto “normale” nel nostro paese e su scala planetaria. Normale perché non ha nulla di eccezionale, strambo, folle; normale perché viene agita da uomini di tutte le età, di tutti i ceti sociali, di ogni livello di istruzione.
Il disconoscimento della guerra contro le donne, innescata dai tanti percorsi di libertà ed autonomia che hanno segnato gli ultimi quarant’anni, ha rimesso in pista il femminismo. Un femminismo consapevole che la posta in gioco è alta, che nulla è scontato, che la lotta al patriarcato è necessaria per ogni reale trasformazione verso la libertà e l’uguaglianza di soggetti, che lo sguardo femminista sottrae agli stereotipi di genere e consegna all’avventura del superamento delle identità precostituite ed imposte. Continued…
Nell’ennesimo rogo nella Baraccopoli di Rosarno è morto un lavoratore immigrato. Si chiamava Moussa Ba ed era originario del Senegal. Non è il primo e probabilmente non sarà l’ultimo, perché la precarietà dei rifugi di plastica e legno, dove vivono buona parte dei braccianti della piana di Gioia Tauro, è tale che basta una scintilla ad innescare roghi devastanti, che inghiottono case e vite. Il ministro dell’Interno ha riproposto la sua ricetta, ruspe e sgomberi, ma per il momento le sue sono solo parole, perché la ricchezza del comparto agroalimentare della zona si fonda sulle povertà dei lavoratori schiavi.
Ai braccianti africani nessuno affitta una casa. Chi lo fa propone contratti di qualche mese, il tempo della stagione della raccolta e poi via, lontano, non importa dove.
Pochi però possono aspirare ad un tetto in affitto, troppo basse le paghe, troppe le persone rimaste a casa cui spedire qualche soldo.
I lavoratori sono pagati a cottimo (“0,50 centesimi per ogni cassetta di arance, 1 euro per i mandarini”) o a giornata: “Poco più del 90% percepisce tra i 25 ed i 30 euro al giorno, il 7,17% ha un guadagno compreso tra 30 e 40 euro e il 2% riceve addirittura meno di 25 euro.
Le tende di plastica, le baracche fatte di lamiere recuperate, legno e quel che capita sono l’unico riparo.
Difficilmente Salvini manderà qui le sue ruspe. Rosarno non è il CARA di Mineo né quello di Castelnuovo di Porto, postacci dai quali sono stati cacciati nelle scorse settimane i migranti diventati clandestini per decreto legge.
Rosarno è una miniera d’oro. Continued…
L’attacco all’Asilo, l’accusa di associazione sovversiva, la normalizzazione violenta di un quartiere
Era l’alba del 7 febbraio. Sin dalla tarda notte c’erano stati segnali d’allarme: decine di mezzi blindati della polizia in movimento per la città. La sorpresa, programmata con cura, non aveva funzionato. Quando un esercito di poliziotti, carabinieri, guardie di finanza e Digos hanno fatto irruzione all’Asilo occupato di via Alessandria, cinque anarchici sono riusciti a salire sul tetto. Vi rimarranno per oltre 30 ore, nonostante il freddo rigido e l’assedio degli uomini e delle donne della polizia politica.
La stessa mattina la polizia entrava nella casa occupata di corso Giulio Cesare per effettuare alcuni arresti. Lo sgombero di una delle occupazioni storiche della città è coinciso con l’Operazione “Scintilla“, che la Procura torinese ha aperto nei confronti di una trentina di attivisti contro la macchina delle espulsioni e i CPR, le prigioni amministrative per immigrati senza documenti. Il pubblico ministero Manuela Pedrotta ha chiesto ed ottenuto la detenzione in carcere per sei anarchici.
L’accusa, rispolverata per l’occasione, è di associazione sovversiva, l’articolo 270 del codice penale, uno dei tanti strumenti affinati nei decenni per colpire chi si unisce per trasformare radicalmente l’assetto politico e sociale in cui tanta parte dell’umanità è forzata a vivere. Un’accusa che colpisce l’identità politica al di là dei singoli episodi che vengono assemblati per criminalizzare le lotte, tentare di isolare compagni e compagne dal contesto sociale in cui si muovono. Continued…
Siamo solidali con i compagni e le compagne dell’Asilo Occupato sgomberato. In città è calato un pesante clima di repressione: alle prime luci dell’alba di ieri la polizia ha fatto irruzione in via Alessandria e nella Casa occupata di corso Giulio Cesare, per eseguire diversi arresti e per sgomberare l’Asilo.
Celerini giunti da ogni parte d’Italia, un intero quartiere militarizzato e chiuso dalla polizia sono gli ingredienti di un attacco frontale a una storica esperienza di autogestione in città, un’alternativa reale all’abbandono e alla speculazione capitalista, alle logiche della competizione e della sopraffazione. L’operazione poliziesca, condotta dalla questura di Torino con particolare violenza, è il frutto maturo del “decreto sicurezza” e delle misure liberticide del governo 5Stelle-Lega. Nel nome della legalità, della sicurezza e del “decoro” si intende consolidare l’ordine autoritario colpendo a fondo le condizioni di vita degli oppressi e degli sfruttati.
L’accusa di associazione sovversiva è scattata contro decine di compagni, per sei dei quali la ben nota PM Pedrotta ha chiesto ed ottenuto la detenzione in carcere. L’applicazione dell’articolo 270 del codice è un attacco alle lotte contro i CPR e contro l’intera macchina delle espulsioni: ben chiara è la volontà di colpire chi non accetta l’ordine politico e sociale in cui siamo forzati a vivere. Di fronte a queste accuse siamo tutti sovversivi. Tutti impegnati contro le prigioni per migranti e le deportazioni dei senza carte.
Il Ministro dell’interno e la sindaca Appendino non hanno perso l’occasione per dare aria alla bocca, congratulandosi con la polizia per l’operazione repressiva nel cuore di Aurora. I media mainstream sfoderano le loro armi migliori contribuendo al processo di criminalizzazione di ogni forma di dissenso sociale.
Ora più che mai è fondamentale non chinare la testa, continuare a battersi per la difesa e la riappropriazione degli spazi sociali autogestiti e ribadire che i veri terroristi sono lo Stato e i suoi cani da guardia. Solidali con chi occupa, solidali con chi lotta.
Liber* Tutt*!
I compagni e le compagne della Federazione Anarchica Torinese – FAI
corso Palermo 46 – riunioni, aperte agli interessati, ogni giovedì alle 21
Di seguito il comunicato emesso dalla Commissione di Corrispondenza della FAI
La procura di Torino ha chiesto l’applicazione della sorveglianza speciale e il divieto di dimora nella loro città per cinque torinesi. Jack, Eddi, Davide, Jacopo e Paolo hanno fatto la scelta di andare in Siria. Quattro di loro si sono uniti alle unità di difesa del popolo e alle unità di difesa delle donne, uno è stato ad Afrin per raccontare l’assedio, la resistenza, lo sfollamento dopo l’attacco e l’invasione turca della regione, che, con le altre della Siria del nord, dal 19 luglio 2012, sperimentavano relazioni politiche e sociali più eque, libere, femministe ed ecologiste.
In questo primo scorcio del 2019 una minaccia terribile incombe sull’intero Rojava: dopo il ritiro delle truppe statunitensi, l’esercito turco potrebbe sferrare il proprio attacco all’intera regione, per cancellare l’esperienza della rivoluzione democratica e riaprire le porte al Califfato, ormai quasi sconfitto dopo anni di una guerra durissima, nella quale sono morti tanti uomini e donne. Alcuni di loro venivano da molto lontano. Di inizio gennaio la notizia che, nella battaglia di Deir Zor è morto Giovanni, che era partito da Bergamo per combattere l’Isis.
L’Isis che, a cavallo tra la Siria e l’Iraq, aveva costruito uno stato confessionale, dove torture, stupri ed esecuzioni erano mostrate al mondo in segno di forza e di sfida, è stata quasi sconfitta grazie alle unità di autodifesa del Rojava. L’Isis, che in Europa e nel mondo, ha compiuto centinaia di massacri, oggi è in grave difficoltà grazie a chi ha rischiato e perso la vita per bloccare il fascismo islamico, viene usata come pretesto per serrare sempre più le frontiere ai migranti in viaggio.
Chi ha combattuto l’Isis e difeso l’esperienza del confederalismo democratico in Rojava e nelle altre zone liberate della Siria e dell’Iraq, viene considerato “socialmente pericoloso” dalla Procura di Torino.
Un paradosso solo apparente.
L’Isis è un problema quando qualcuno spara, si fa esplodere, assale con un camion gente per le strade, le piazze, gli stadi, i bar, i locali d’Europa. Tutto cambia ad altre latitudini, dove a morire sono altri, specie se pretendono di sovvertire l’ordine politico, sociale, culturale dei paesi in cui vivono. Sono lontani e “pericolosi”, per il rischio di contagio in un’area del mondo, dove la bilancia delle alleanze si misura sulle possibilità di controllo di risorse, vie di comunicazione, delle varie potenze imperiali che si contendono il pianeta. In quest’ottica spesso i vari fondamentalismi islamici sono stati alleati preziosi, che tuttavia, giocando in proprio, talora si sono trasformati in nemici assoluti.
In quest’area il perno del Grande Gioco è la Turchia, membro della NATO, con recenti buoni rapporti con la Russia, che a sua volta ha obiettivi imperialisti nell’area, che la guerra in Siria e l’insurrezione sanguinosamente repressa nelle regioni curdofone interne aveva momentaneamente messo in difficoltà.
Il forte appoggio dato all’Isis è stato un boomerang per la democratura di Erdogan, che tuttavia oggi, dopo la pacificazione violenta delle tante forme di opposizione interna, gli accordi con l’Europa per il blocco dei profughi siriani, l’intesa con la Russia, che ha permesso l’occupazione del cantone curdofono di Afrin, si prepara a chiudere i conti con il Rojava.
Piazza San Carlo, il salotto buono di Torino, è attraversata da una folla densa, intenta al passeggio che intervalla gli acquisti. Manca pochissimo a Natale. In piazza campeggiano da un lato l’albero luminescente, dall’altro il “Calendario dell’Avvento” di Luzzati, una sorta di presepe. Tutto pagato dal comune e dalle solite banche sponsor.
Quest’anno a sorpresa c’erano anche le anarcofemministe, che, al suono di canzoni anticlericali e femministe, hanno aperto uno striscione con la scritta “Contro la (sacra) famiglia. Libere e liberi!”.
Alcuni passanti erano indignati, altri curiosi, altri ancora hanno apprezzato l’iniziativa.
La polizia, che presidia il centro storico, non si è accorta di nulla.
Una piccola rottura dell’ordine simbolico e materiale, che il governo della città e quello del paese, impongono in occasione delle feste cattoliche di fine anno.
Di seguito il volantino distribuito in piazza. Continued…
Dire è fare. L’agire comunicativo è intrinsecamente politico. Persino quando incontriamo nostra madre e le diciamo “ciao mamma” raccontiamo di noi e della cultura in cui siamo immersi, narriamo una relazione particolare, specifica, potente. Se, salutandola, le dicessimo “ciao Renata” muteremmo di segno alla relazione. Per la maggior parte delle persone agiremmo per sottrazione, elidendo con quel banale saluto la relazione con lei. Negandola come “mamma” la insulteremmo. Così penserebbero i più. Solo l’esplicitazione conflittuale dell’aspirazione a relazioni diverse potrebbe mutare di segno al nostro “ciao Renata”, trasformandolo in allusione ad un diverso ordine del mondo.
Torniamo, ad una settimana dal grande corteo No Tav dell’8 dicembre e a oltre un mese dal presidio Si Tav del 10 novembre, alle “7 madamine”.
I fatti sono arcinoti: sette esponenti della borghesia torinese hanno assunto mediaticamente il compito di promotrici della manifestazione, non senza qualche malumore tra politici e imprenditori vari, in prima fila il fanatico del Tav Mino Giachino.
Madamin è l’espressione coniata dai media per designarle. Apparentemente un epiteto benevolo, che riassume le caratteristiche di pacatezza, gentilezza e bon ton tipiche della borghesia subalpina. O, meglio, delle donne della borghesia subalpina. In realtà, un modo per rinchiuderle in uno stereotipo femminile.
Il piemontese è una lingua sessista. Come tante altre, d’altro canto.
Quando ci si rivolge ad un uomo, se ha cessato di essere un ragazzo, lo si chiama “monsù”. Per le donne esiste una gamma più ampia. Una ragazza non sposata è una “tota”, una donna sposata ma ancora giovane è una “madamin”, una donna sposata di una “certa” età è una “madama”. Infine una donna non sposata e non più giovane è un “toton”. Toton è al maschile ed ha chiaro sapore dispregiativo. Nessuno lo direbbe in faccia alla diretta interessata, se non volesse intenzionalmente ferirla. É più pesante dell’italiano “zitella”, perché una donna non sposata è automaticamente privata del proprio sesso. Se non ti sposi è segno che non vuoi o non puoi essere donna. Un disvalore.
Il 5 dicembre in Argentina le donne hanno scioperato, una giornata di indignazione e lotta di fronte ad un terribile femminicidio coperto dalla magistratura, con una sentenza che lo nega.
Nello stesso giorno abbiamo fatto punto info e volantinaggio a Palazzo Nuovo, dove è stato appeso uno striscione.
Di seguito il volantino distribuito:
Siamo le ancelle
ci hai condannate
ci hai ammazzate
nell’aria appese
lo spasmo ai piedi
non era giusto
la lancia avevi
e la parola
al tuo comando
nell’aria appese
ci hai condannate
ci hai ammazzate
(estratto di Filastrocca – Il canto di Penelope – M.Atwood)
Lucia Perez è stata una donna argentina. Nel 2016, quando aveva 16 anni, è stata drogata, violentata, torturata e uccisa da tre uomini. La notizia di questi giorni è che i responsabili delle sue sofferenze e della sua morte terribile sono stati condannati per questioni relative alla vendita di droga e nulla altro.
La violenza estrema è la punta dell’iceberg. Le coltellate, il fuoco, la stretta feroce che serra la gola, i pugni, il colpo di pistola troncano la vita, annientano il nemico. Annientare è far diventare nulla chi prima era qualcuno. C’è chi lo fa con freddezza, chi con rabbia, chi persino con paura, ma il fine resta lo stesso: imporre se stessi sino alle estreme conseguenze.
Questo è il senso di ogni omicidio.
Quando sotto i colpi cade una donna, il senso muta. Il termine femminicidio descrive l’uccisione di una donna in quanto donna. L’uccisione di una donna in quanto donna ha un significato intrinsecamente politico. Per paradosso il femminicidio è un atto politico, proprio perché ne viene nascosta, dissimulata, negata la politicità.
I femminicidi avvengono ad ogni latitudine, in Argentina come in Italia, e ovunque la libertà delle donne, i nostri corpi liberi sfidano il patriarcato.
Tanta parte della violenza maschile sulle donne è una reazione all’autonomia acquisita in decenni di lotte. Continued…
La piazza Si Tav del 10 novembre a Torino, a saperla osservare, ci racconta della persistenza del mito del progresso e della velocità. Il motore dello sviluppo, del benessere e del saldo ancoraggio al treno del primo mondo.
La piazza Si Tav, piazza borghese, per bene, torinese, che si alimenta del ricordo di Cavour e del canale di Suez, sogna un Piemonte che non c’è più. E non tornerà.
È una piazza la cui principale novità è il suo stesso esserci, la scelta di scendere in campo e di rendere visibile un aggregato sociale, che usualmente è restio a farlo.
Il paragone con la marcia dei 40.000 colletti bianchi della Fiat al termine dell’ultimo braccio di ferro tra la classe operaia torinese e i padroni della città appare tuttavia del tutto incongruo. In questi ultimi 40 anni tanta acqua è passata sotto i ponti della città dei tre fiumi.
I colletti bianchi difendevano, pagati e spinti dal padrone, una posizione di piccolo privilegio che ritenevano inattaccabile. Pochi anni dopo i fatti dimostrarono quanto grande fosse stato il loro errore. I protagonisti di quella marcia e i loro figli, colletti bianchi per via ereditaria, vennero licenziati, quando il padrone decise che non servivano più.
Ma. L’errore più grande lo commisero gli operai in lotta da trentacinque giorni davanti ai cancelli della Fiat. Credettero al sindacato, che già aveva pronto l’accordo che barattava ventimila licenziati con sessantamila cassaintegrati. La grande epopea dei lavoratori della città-fabbrica non finì per la marcia degli impiegati Fiat, ma per la resa ad un sindacato che stava cambiando pelle, avendo già mutato anima negli anni del compromesso socialdemocratico.
Se in quei giorni fosse partito un appello a tornare in piazza, la marcia dei “40.000” sarebbe scomparsa nel nulla e nessuno la ricorderebbe.
Quella vicenda si incise a sangue nella memoria collettiva, perché spianò la strada alla vendetta padronale, che fu implacabile.
Torino si è trasformata radicalmente. La città della Fiat, pensata e costruita come città fabbrica, ha lasciato il posto alla città immaginata tra il Politecnico, la stessa Fiat, le Banche e il partito Democratico. Città di servizi, turismo e grandi eventi. Gli antichi borghi operai, luogo di crescente marginalità sociale, sono costantemente sospesi tra riqualificazioni escludenti e il parco giochi per carabinieri, militari e poliziotti.
Evocare la marcia dei “40.000” è un abile artificio retorico per proclamare la vittoria prima di aver vinto.
Questa volta però, alla faccia del governo pentastellato della città, che si è affrettato ad aprire un’interlocuzione con i Si Tav, il movimento No Tav non ha esitato e ha lanciato un corteo per l’8 dicembre che, partendo da piazza Statuto, quella della rivolta del 1962 contro la UIL, si concluderà in piazza Castello, nello stesso luogo dei Si Tav.
La partita è quindi ancora apertissima.
Ed è meno banale di quanto sembri, perché ci racconta della città com’è ora, non di quella del tempo andato.
La borghesia scende garbatamente in piazza per rimettere a posto le cose, per fare ordine, per spiegare alla sindaca Appendino chi comanda in città.
La piazza Si Tav del 10 novembre è la piazza dei padroni. Basta dare un’occhiata all’elenco delle associazioni promotrici per rendersene conto. Si va dalle associazioni padronali a quelle del commercio per arrivare alle organizzazioni sindacali degli edili di CGIL, CISL e UIL, che questa volta non hanno problemi a stare nella stessa piazza dei padroni. Non devono più fingere. Continued…
Diritti civili, buoni sentimenti, Costituzione Repubblicana, Europa sono alcuni degli ingredienti della salsa con cui le sinistre post governative e quelle orfane di governo provano a rifarsi la faccia e riconquistare i consensi perduti tra i governi Monti, Renzi e Gentiloni.
Un impasto che difficilmente reggerà la cottura dei prossimi mesi ed anni. Privo di lievito si sgonfierà.
Vent’anni di berlusconismo sono passati invano. La sicumera di una sinistra convinta della propria superiorità intellettuale e morale è tale da sottovalutare gli avversari di oggi non meno di quelli di ieri.
L’esibita volgarità di Matteo Salvini, la cialtroneria di Luigi Di Maio, l’intollerabile burattino Conte nutrono le illusioni di rivalsa degli orfani di potere, incapaci di cogliere a pieno la pervasività del populismo gialloverde.
Intendiamoci. É probabile che il “popolo” di queste sinistre sparse e zoppicanti esprima un’indignazione autentica per le politiche feroci contro i poveri, i senza casa, i senza reddito, la gente in viaggio attraverso le frontiere. Sin troppo facile sarebbe chiedersi quanta di quest’indignazione restasse sotto traccia quando Minniti lanciava la caccia ai migranti e il divieto di soccorso in mare.
Se sono pochi i dubbi sulla natura strumentale del riposizionamento della dirigenza del Partito Democratico e dei pianeti nati dopo il suo big bang, resta tuttavia la possibilità che anche queste piazze moderate possano cogliere la lieve distanza pratica tra il governo Gentiloni e l’attuale diarchia Salvini Di Maio, liberando energie per l’allargarsi di un conflitto sociale oggi ai minimi storici.
Non solo. Oggi scontiamo l’ambiguità di settori diversi e concorrenti della sinistra extraistituzionale, che restringono ulteriormente gli spazi di lotta, azione diretta e sottrazione conflittuale dall’istituito.
I post autonomi puntano sul caos sistemico ma mantengono aperto il credito al Movimento 5 Stelle, “ostaggio” della cattivissima Lega.
Settori sindacali e politici con simpatie rosso brune non disdegnano il populismo antieuropeista del governo, mantenendo un atteggiamento ambiguo.
La situazione non è facile e potrebbe peggiorare. Continued…
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