Pochi sanno che nella legge di stabilità in discussione in questi giorni c’è anche un bel regalo alle banche.
Vediamo come.
Banca d’Italia non è più di proprietà pubblica sin dagli anni Novanta del secolo scorso. La proprietà formale è in mano a pochi grandi istituti bancari, che tuttavia non hanno potere di controllo, perché il governatore è espressione di un Direttorio sulla cui nomina non hanno possibilità di intervento. Anche i crediti ricavati sono stati sinora bassissimi, perché il capitale di Banchitalia era di soli 156.000 euro. Altrettanto basso l’introito fiscale che ne ricavava lo Stato.
Di ieri la decisione del governo di aumentare il valore delle azioni della Banca d’Italia sino a 10/11 miliardi di euro. Nel 2013 lo Stato ricaverà un bell’introito in tassa, ma sin dal prossimo ne tirerà fuori bel po’ di soldi, perché dovrà pagare interessi enormi.
In questo modo un’operazione che all’apparenza pare un prelievo straordinario a banche e assicurazioni, si trasformerà a breve in un bel pacco regalo a spese di noi tutti.
Ascolta la diretta realizzata dall’info di radio Blackout con l’economista Francesco Carlizza, che ha anche esaminato gli ultimi dati dell’Istat sulla povertà in Italia.
Si è concluso il processo a quattro antifascisti accusati inizialmente di furto aggravato per aver strappato manifesti inneggianti alla marcia su Roma.
Un processo andato avanti per oltre un anno, nonostante gli stessi testimoni dell’accusa avessero negato il furto.
Il PM, certo di perdere il processo, ha infine deciso di cambiare il capo di accusa in danneggiamento.
Un altro bel coniglio dal cappello del PM Antonio Rinaudo, un prestigiatore di gran fantasia. Gli è andata male con il furto, ci ha provato con il danneggiamento, ma gli è andata male anche così.
Lunedì 28 ottobre – a tre anni esatti dai fatti – gli antifascisti sono stati assolti.
Cos’era successo?
Immaginate che sia una qualsiasi giornata d’autunno. Siete appena usciti da una riunione No Tav e percorrete una via pedonale del centro della città dove abitate. Una macchina entra sgommando nella via: ne escono quattro uomini che affiggono manifesti. Incuriositi da tanta esibita arroganza vi fermate e scoprite che si tratta di manifesti fascisti, manifesti che alludono ad un passato di dittatura, violenza, repressione della possibilità stessa di dire la propria, se non a rischio di confino e prigione.
Quel giorno, ve ne rendete conto solo in quel momento, è il 28 ottobre, anniversario della “marcia su Roma”, con la quale presero il potere i fascisti.
Quei manifesti finiscono a terra, strappati.
Un banale gesto di difesa della memoria dei tanti che morirono, dei tanti che patirono persecuzioni, esilio, botte ed umiliazioni. Siamo a Torino. L’antifascismo fa parte del DNA di una città che combatté metro per metro per cacciare fascisti e nazisti.
Dopo un diverbio con i fascisti – tra loro c’é anche il segretario cittadino e all’epoca consigliere comunale de “La Destra” Giuseppe Lonero – ve ne andate a casa.
La denuncia di Lonero trova pronto il PM Rinaudo che formula l’accusa decisamente fantasiosa di furto. Tre anni dopo l’assoluzione dei quattro anarchici chiude una vicenda che non avrebbe mai dovuto iniziare.
La proposta di un’apericena davanti alla caserma Ceccaroni di Rivoli è partita dalle “Fomne contra l’Tav – Donne contro il Tav”. Nessuna pubblicità, solo passaparola.
Di fronte alla caserma degli alpini, gli stessi di servizio nella zona occupata in Clarea, si sono ritrovati una sessantina di attivisti No Tav, armati di bandiere e volantini.
In breve sono arrivati tre blindati e un nugolo di agenti della Digos, che hanno identificato i manifestanti. Evidentemente anche un presidio improvvisato contro l’occupazione militare della Val Susa mette in moto la macchina della Questura, che fa sfoggio di muscoli in ogni occasione.
Lo stesso giorno, nell’aula bunker delle Vallette, gli imputati al processo per lo sgombero della Maddalena e la resistenza del 3 luglio hanno imposto al giudice Bosio che :Lorenzo, l’unico No Tav rinchiuso nelle gabbie dei detenuti, potesse assistere al dibattimento con gli altri.
L’udienza è durata otto ore. Si comincia ad entrare nel vivo con le testimonianze dei dirigenti della Digos. Gli avvocati della difesa hanno richiesto senza successo le ordinanze senza omissis, per poter identificare correttamente le responsabilità nella catena di comando delle operazioni del 27 giugno e 3 luglio.
Secondo il giudice le aree del cantiere sono di interesse strategico nazionale, cui si applica il segreto d’ufficio.
Il processo procederà a tappe forzate – udienze fiume sino a due volta alla settimana – per consentire al giudice Bosio di finire prima della pensione. Gli avvocati del collegio dei No Tav considerano leso il diritto alla difesa in questo e negli altri processi che seguono e minacciano le dimissioni di massa. Le prossime udienze saranno 8,19,21,30 novembre e 2,6,23 dicembre.
Sempre nel bunker delle Vallette.
Tanto tuonò che non piovve. Le nuove norme annunciate in estate per chiudere in una morsa d’acciaio il cantiere/fortino di Chiomonte, ad un’analisi attenta del testo definitivo approvato dal Parlamento, pur stringendo ancora il cordone securitario, non introducono nessuna sostanziale novità nell’ordinamento.
La scorsa estate il decreto sul femminicidio divenne l’occasione per mettere insieme altre questioni (dal furto di rame all’arresto in differita per gli ultras) del tutto estranee alla violenza di genere. Un pacchetto sicurezza camuffato.
In agosto si diffuse la diceria che ci fossero nuove leggi costruite apposta per colpire i No Tav. In occasione della recente conversione del decreto, questa “notizia” è stata diffusa sia da alcuni siti di movimento sia da qualche testata main stream. Il testo è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 15 ottobre. Lo puoi scaricare qui.
Anarres ne ha parlato con Roberto Lamacchia, avvocato del collegio difensivo degli attivisti No Tav sotto processo.
Ascolta l’intervista
La legge omnibus varata dal parlamento tocca gli attivisti No Tav in tre punti.
In tutti i casi si tratta di un’estensione degli ambiti di applicazione di norme, che, all’occorrenza potevano già essere usate contro i No Tav.
Vediamo come.
La prima è una modifica di una legge securitaria del 2009, che consente qualche margine di intervento in più alla polizia. Si estendono le prerogative delle forze dell’ordine alla vigilanza di siti e obiettivi sensibili. Poiché il cantiere/fortino di Chiomonte è stato dichiarato area strategica sin dal luglio del 2012, questa specificazione da loro maggiore potere di interdizione nell’area.
La seconda è una modifica dell’articolo 260 del codice penale, quello che tratta dell'”ingresso clandestino in aree di interesse militare e al possesso di mezzi di spionaggio”. Questa norma prevede per chi vi incappa la reclusione da uno a cinque anni. Viene inserito il seguente comma: “le disposizioni del presente articolo si applicano, altresì, agli immobili adibiti a sedi di ufficio o di reparto o a deposito di materiali dell’Amministrazione della pubblica sicurezza, l’accesso ai quali sia vietato per ragioni di sicurezza pubblica”.
Facile immaginare che, all’interno del cantiere di Chiomonte possano essere costruiti edifici che svolgano questa funzione o potrebbero svolgerla in futuro. La Procura torinese ha uno strumento in più per tentare di applicare una norma già esistente agli attivisti No Tav che avessero la sfortuna di essere pizzicati all’interno del cantiere, dopo esserci entrati di nascosto.
Lo stesso comma viene inserito all’interno della legge 682, quello di “ingresso arbitrario in luoghi ove l’accesso è vietato nell’interesse militare dello Stato”. Si tratta di un reato molto più lieve, punito con l’arresto da tre mesi a un anno, ovvero con l’ammenda da 51 a 309 euro.
Che differenza c’é nel concreto tra l’articolo 260 e l’articolo 682?
Nel primo caso la legge colpisce chi entra di nascosto nel cantiere, nel secondo si applica a chi lo fa a viso aperto ma senza alcuna autorizzazione.
Si tratta indubbiamente di un cambiamento del quadro normativo che offre ulteriori strumenti alla repressione, ma non ha nulla a che fare con le fantasie di chi teme di essere arrestato perché scatta una fotografia.
Il gioco è già grave da molto tempo, da quando per aprire un cantiere hanno dovuto impiegare migliaia di uomini in armi, da quando reti, filo spinato a jersey hanno stretto l’area in una morsa di ferro, da quando il divieto di passaggio su alcune strade di accesso è diventato permanente, da quando per raccogliere l’uva bisogna passare un check point ed essere muniti di lasciapassare.
Le norme infilate nella legge sul femminicidio aggiungono solo un altro piccolo tassello.
Un motivo in più per essere in tanti alla manifestazione decisa dall’assemblea popolare svoltasi venerdì 25 ottobre a Bussoleno. L’appuntamento è per tutti il 16 novembre alle ore 13 a Susa.
Un segreto che sanno tutti, ma deve restare segreto, non è un divertimento per bambini, ma il gioco di quegli adulti che siedono sulle poltrone dei potenti.
Tutti sanno che i governi fanno la spia, altrimenti non si capirebbe a cosa servano i tanti servizi di intelligence alle dirette dipendenze dall’esecutivo di turno.
Ogni governo sa o sospetta di essere spiato dal vicino, che a sua volta è registrato, ascoltato, fotografato.
Lo scandalo suscitato dalle rivelazioni di Edward Snowden, il dipendente della National Security Agency, esule in Russia, dopo aver vuotato il sacco sulle orecchie lunghe dell’agenzia per cui lavorava, non è il fatto in se, ma il fatto che la grande potenza statunitense si sia fatta pizzicare con le mani nel sacco.
Naturalmente oggi tutti recitano la propria parte, tra indignazione ed imbarazzi, ambasciatori convocati e vertici di fuoco, ma la pervasività del controllo, con la quale ognuno di noi deve fare ogni giorno i conti, tra telecamere, microspie, satelliti, badge elettronici, è sotto gli occhi di tutti. Il segreto di Pulcinella.
Anarres ne ha parlato Peppe, con un compagno che si occupa da molti anni di comunicazione e tutela della privacy.
“Ad altezza d’uomo, sparate ad altezza d’uomo”. E’ una voce fuori campo che grida ai poliziotti dell’antisommossa di sparare i candelotti lacrimogeni, mirando al corpo degli uomini in rivolta nella campagna di Mineo.
La tensione che stava crescendo da mesi nel Centro di accoglienza per rifugiati e richiedenti asilo in provincia di Mineo è esplosa ieri. La nona rivolta in meno di due anni, la più dura.
Circa mille rifugiati e richiedenti asilo, parcheggiati da mesi ed anni nella struttura, stanchi delle infinite attese imposte dalla burocrazia italiana, si sono riversati in strada bloccando tutte le strade intorno all’ex recidence Aranci, una struttura isolata nella campagna siciliana.
Nonostante la polizia, chiamando rinforzi dall’intera provincia, abbia colpito con estrema durezza, caricando più volte con violenza, la sommossa è durata per l’intera giornata.
Bloccata per ore la Catania-Gela, una statale con il traffico di un’autostrada, chiusa anche la provinciale che porta al centro città, la cittadina di Mineo è di fatto rimasta isolata.
Il CARA di Mineo è una potenziale polveriera sin dalla primavera del 2011, quando, in seguito alla cosidetta “emergenza nordafrica”, il governo, per far fronte ai nuovi arrivati, decise di concentrarvi tutti o, quasi, i richiedenti asilo ospitati nei CARA della penisola.
La struttura, costruita dalla Pizzarotti di Parma per i militari statunitensi di stanza a Sigonella, era vuota da molti mesi dopo che gli americani avevano optato per sistemazioni meno isolate e più vicine alla base. Il governo fece un regalo a Pizzarotti riconvertendo la struttura a CARA. Oggi Pizzarotti riceve sei milioni di euro l’anno per l’affitto dell’ex recidence.
Il CARA è un buon affare anche per le cooperative amiche dei politici locali: i pasti sono gestiti dalla coop. Sisifo, vicina al PD e dalla Solcalatino, di area PDL, come il sindaco di Mineo.
Oggi, nello spazio dove potrebbero stare 2000 persone ce ne sono 4000. I tempi di esame delle domande di asilo, già lunghissime, hanno avuto una dilatazione enorme, perché le strutture siciliane non ce la fanno a sbrigare pratiche che prima venivano esaminate in tutta la penisola.
La commissione territoriale competente, quella di Siracusa, deve far fronte al doppio delle richieste, con metà degli organici.
Ieri in mille hanno deciso che la misura era colma. Hanno spaccato i lucchetti, abbattuto le recinzioni e si sono riversati nelle campagne e poi nelle strade.
In serata la rivolta è rientrata. Un richiedente asilo è stato arrestato.
Ascolta la diretta realizzata dall’info di radio Blackout con Alfonso Di Stefano della rete antirazzista.
Si intitola Will I be next? US drone strikes in Pakistan, “Sarò io il prossimo? Gli attacchi con i droni USA in Pakistan”. E’ il rapporto preparato da Amnesty International e presentato ieri a Londra. Gli Stati Uniti hanno utilizzato massiciamente i droni in Pakistan sin dal 2004. Nel mirino le cosiddette aree tribali del nord-ovest del paese e, in particolare il Waziristan. Queste regioni, mai controllate a pieno dallo Stato pachistano sin dall’indipendenza, sono abitate dalle stesse popolazioni di lingua e origini persiane che vivono al di là del passo Khyber, in Afganistan. In Pakistan sono dette pathan, in Afganistan, pashtun. Le aree “tribali” del Pakistan sono state la culla delle scuole coraniche deobandi, in cui si sono formati i talebani.
Queste aree, sospettate di dare rifugio e appoggio sia ai guerriglieri talebani che agli esponenti dell’internazionale islamica Al Quaeda, sono entrate nel mirino dell’amministrazione statunitense, che ha ordinato attacchi con i droni, gli aerei senza pilota, guidati da lontano verso gli obiettivi prescelti.
I droni hanno ucciso numerosissimi civili: Il j’accuse di Amnesty è fortissimo: gli Stati Uniti sono accusati di crimini contro l’umanità.
“I droni sono come l’angelo della morte – ha detto ad Amnesty Nazeer Gul, un commerciante di Miram Shah. Soltanto loro sanno quando e dove colpiranno”.
Il segretario di Stato statunitense Kerry ha descritto le operazioni come un trionfo nella lotta contro Al Quaeda, privo di effetti collaterali.
La realtà descritta da Amnesty è molto diversa. Il gruppo per la difesa dei diritti umani ha preso in esame tutti i 45 attacchi che hanno colpito il Waziristan del Nord tra il gennaio 2012 e l’agosto 2013. Secondo Amnesty, i droni avrebbero ucciso, in due soltanto di questi attacchi nel gennaio 2012, almeno 19 civili. Nessuna delle vittime poteva in alcun modo essere collegata ai militanti islamici.
Miram Shah, un villaggio nel nord-ovest del Paese è stato attaccato per ben 13 volte dai droni a partire dal 2008; altri 25 attacchi sono stati lanciati nelle zone circostanti. A Miram Shah la popolazione vive nel terrore. Gli abitanti dell’area, scrive Amnesty, sono costretti a vivere tra due fuochi: da un lato “l’angelo della morte”, dall’altro la violenza di talebani e militanti di Al Qaeda, che uccidono chiunque sia sospettato di essere “una spia americana”. Moltissimi uomini e donne vengono massacrati e lasciati ai lati delle strade, con addosso cartelli in cui si dice che “chiunque diventi un collaboratore degli americani farà la stessa fine”. Il villaggio è completamente controllato da talebani e militanti radicali, che girano per le strade imbracciando fucili AK-47, sovrintendendo a qualsiasi attività soprattutto nel locale bazaar e arrivando persino a dirigere il traffico nel centro del villaggio.
A dieci chilometri da Miram Shah c’é una base statunitense, con una nutrita flotta di elicotteri da combattimento Cobra. I militari statunitensi, tranne qualche scaramuccia, se ne stanno all’interno della base. La guerra la fanno i droni. Gli agenti della Cia negli ultimi mesi hanno preso di mira una panetteria, una ex-scuola per le ragazze, una fabbrica di fiammiferi e un ufficio per l’invio di denaro.
In questa, come in tutte le guerre moderne, la popolazione civile, diventa un obiettivo primario, non certo un “incidente” di percorso.
Gli Stati Uniti creano il terrore tra la popolazione civile, per fare terra bruciata intorno ai talebani. Il governo pachistano protesta ma non mette in discussione l’alleanza con gli Stati Uniti.
Stretti tra l’incudine e il martello, migliaia di abitanti del Waziristan, privi di cure mediche, con l’agricoltura al collasso, hanno abbandonato le loro case per fuggire dalle violenze.
L’anziana contadina Manana Bibi non ce l’ha fatta, incenerita nel campo dove raccoglieva verdure per la cena. I suoi nipoti, accorsi a soccorrerla, sono stati feriti da un missile tanto intelligente da indirizzarsi sui soccorritori. Il missile che l’ha colpita si chiama “Hellfire”, fuoco dell’inferno.
Ascolta la diretta dell’info di Blackout con Alberto, antimilitarista siciliano, che ha ricordato che una delle maggiori basi di droni statunitensi si trovi nella base di Sigonella.
La morte di 359 migranti al largo di Lampedusa ha riaperto il dibattito sulle leggi che stabiliscono le regole per l’ingresso legale di lavoratori stranieri nel nostro paese. Il primo ministro Letta e il suo vice, nonché ministro dell’interno Alfano, hanno recitato bene la parte del poliziotto buono e di quello cattivo.
Il 22 ottobre, nel corso di un’audizione parlamentare, Letta ha parlato dell’Europa che smarrirebbe le proprie origini se non fosse capace di accogliere profughi, rifugiati ed immigrati. Alfano gli ha fatto eco, ribadendo che in tempi di crisi la priorità è garantire un futuro agli italiani. In questo modo i due hanno accontentato gli umori del proprio elettorato. Nei fatti tuttavia entrambi chiederanno agli altri paesi europei maggiori risorse per l’accoglienza e maggiore impegno nel pattugliamento dei mari, affinché nessuno abbia più la malagrazia di annegare nelle nostre acque territoriali. A questo si aggiunge l’obiettivo di rinforzare gli accordi già esistenti con i paesi della sponda sud del Mediterraneo, perché gestiscano in loco il contrasto e le repressione dell’immigrazione. L’indice è puntato soprattutto contro la Libia, dove il frantumarsi dello Stato in una miriade di poteri territoriali determinati dal prevalere di questa quella milizia rende poco meno facile l’applicazioni degli accordi bilaterali sottoscritti da Prodi e Berlusconi con il regime di Muammar Gheddafi. Nonostante queste falle le galere libiche per immigrati, luoghi di tortura, strupro e compra vendita di ostaggi umani, sono piene di immigrati, soprattutto eritrei. Eritrei come i morti di Lampedusa, eritrei come gli scampati che non hanno potuto assistere la funerale al quale il governo italiano ha invitato i rappresentanti di quello eritreo, lo stesso da cui fuggono quelli che rischiano la vita sui barconi.
La Bossi- Fini non è, nè è mai stata, in discussione.
Questa legge è una fabbrica di clandestini, poiché, imponendo il contratto di lavoro come condizione all’ottenimento del permesso di soggiorno, di fatto, visto che nessuno viene assunto al buio in un paese lontano, fa sì che tutti, o quasi, entrino illegalmente, lavorando in nero, finché, a caro prezzo e per pochi fortunati, un decreto flussi non permette di fingere un ingresso legale nel paese in cui si vive già da anni. In questo modo i padroni hanno ottenuto manodopera a basso costo, ricattabile e licenziabile a piacimento.
Per capire meglio l’origine, gli sviluppi e l’applicazione concreta di queste norme razziste, abbiamo sentito l’avvocato Gianluca Vitale, da molti anni in prima fila nella difesa degli immigrati senza carte, che finiscono imbrigliati nelle rete della Bossi-Fini. O, meglio, della Turco-Napolitano-Bossi-Fini.
Anche quest’anno gli antifascisti ed antimilitaristi livornesi daranno vita ad una manifestazione di piazza contro le celebrazioni della battaglia fascista e coloniale di El Alamein.
Quest’anno le celebrazioni della battaglia promosse dai parà della Folgore, complice la spending review, saranno in tono minore, senza sfarzo e senza la provocazione di una parata fascista per le vie della città.
Il variegato arcipelago dell’opposizione sociale livornese, riunito nel “Comitato 26 ottobre” ha invece promosso una due giorni di lotta.
Venerdì 25 ottobre ci sarà un presidio in Piazza Mazzini alle 16,30
Sabato 26 ottobre corteo da p.zza Garibaldi alle 15,30.
Di seguito uno stralcio del comunicato di indizione. Continued…
Gli faranno il funerale in segreto, nel silenzio. Dopo tanto clamore, dopo le proteste e gli scontri, Erich Priebke avrà la sua tomba.
Gli è andata meglio che alle sue vittime, tutti insieme in una fossa comune alle Ardeatine, gli è andata meglio che ai 385 morti di Lampedusa, uccisi dalle frontiere, annegati dalle leggi italiane.
Dopo il clamore, i riflettori, le visite eccellenti di Letta, Alfano, Barroso sono stati dimenticati.
Dopo 15 giorni li hanno stipati in tombe anonime, senza alcun funerale, senza neppure un nome sulla bara.
Questa vicenda fotografa il nostro paese, un paese senza memoria, che piange i bimbi annegati e se ne dimentica subito. Un paese dove i criminali di guerra, italiani e tedeschi, sono tornati quasi tutti nelle loro case settant’anni fa, perché la guerra era finita ed era meglio dimenticare. Peccato che la giustizia italiana, sorda e cieca di fronte a torturatori ed assassini, sia stata inflessibile con quei partigiani che la lotta armata l’avevano prolungata oltre la fine ufficiale della guerra. Decenni di galera consumata nel silenzio di una classe politica i cui eredi oggi sono indignati perché non vogliono la tomba del nazista Priebke in Italia.
Pochi sanno che Priebke è stato condannato per l’assassinio di 5 dei 355 ostaggi fucilati alle Ardeatine.
In base alla Convenzione di Ginevra, sottoscritta anche dall’Italia, l’uccisione per rappresaglia di dieci nemici per ogni soldato ammazzato da truppe irregolari è perfettamente legale.
Priebke è stato condannato perché era un cattivo ragioniere.
L’emozione scatenata dalla questione dei funerali dell’ex ufficiale tedesco, gli scontri ad Albano, hanno consentito a Napolitano di intervenire per spingere l’approvazione di nuova legge contro il negazionismo, una legge che punisce l’apologia o l’istigazione a commettere atti contro l’umanità, di terrore, crimini di guerra. In questo modo, per sua stessa dichiarazione, Napolitano intenderebbe dare una ripulita all’immagine dell’Italia. La nuova legge, per un paradosso della politica dovrebbe in primis colpire i giudici e i politici che hanno coperto il criminali di guerra italiani, seppellendoli in un armadio da cui sono emersi casualmente solo qualche anno fa.
In realtà sarà solo un ulteriore colpo alla libertà di opinione. Come se la verità su quanto accadde si potesse imporre per legge, come se ci si potesse sottrarre al compito di tutela delle memoria, affidandosi alle scure dei tribunali.
Di questa storia fatta di oblio ed omissioni abbiamo parlato con Claudio Venza, dell’università di Trieste.
Una volta si chiamavano “finanziarie”, dal 2010 si chiamano leggi di stabilità, in ossequio ad un accordo europeo, sottoscritto anche dall’Italia. Nei fatti si tratta dello strumento legislativo che serve ad attuare le decisioni governative di finanza pubblica. Il governo valuta quale sia la soglia di debito che si può raggiungere restando nei parametri imposti dall’Unione Europea, poi fa le leggi che suppone possano consentire di rimanere dentro i paletti dell’UE.
I conti sono presto fatti: c’é una previsione di aumento del PIL dell’1% in termini reali cui si deve aggiungere la crescita dell’1,9% dovuta all’inflazione e si arriva ad una previsione di aumento del 2,9%. L’indebitamento è pronosticato del 2,5%. Ne consegue che la differenza tra Pil e debito si attesterebbe allo 0,4%, rientrando così nei parametri europei che richiedono una riduzione del rapporto debito pil dello 0,5% l’anno. Nei prossimi anni si dovrebbe avere un’ulteriore riduzione del debito dell’0,5%. Ne consegue che il governo deve ridurre la spesa pubblica per raggiungere l’obiettivo prefissato.
Quest’anno il compito del governo è relativamente facile, perché i soldi spesi arrivano per lo più dal lato delle entrate, dalle spese in conto capitale, ossia dai soldi che si incassano costruendo qualcosa. Vi rientra persino l’aumento della spesa per la sorveglianza del cantiere/fortino di Chiomonte.
In questo momento non tutto è definito, perché la legge, sebbene già inviata a Bruxelles per rispettare la scedenza del 15 ottobre, deve passare ancora al vaglio del parlamento.
Alcune spese sono tuttavia già state definite per il 2014.
Vediamo quali. Continued…
18 ottobre, sciopero generale del sindacati di base. Non succedeva da anni. Il sindacalismo di base, frantumato in tante organizzazioni, è riuscito ad accordarsi per uno sciopero unitario. Tre giorni prima era uscita la legge di stabilità del governo Letta.
Due le manifestazioni nazionali indette per la giornata: a Roma USB e Cobas, a Milano la Cub e il Si.Cobas, ciascuno nelle aree geografiche di maggiore presenza. Diversa la scelta dell’USI e di tanti lavoratori e movimenti sociali, che hanno puntato sul radicamento nei territori, sulla lotta nelle città e nei luoghi di lavoro.
Oltre a Roma e Milano, ci sono stati cortei, picchetti, presidi, punti informativi a Firenze, Parma, Modena, Cosenza, Torino, Trieste, Palermo, Jesi.
Di seguito i resoconti di Parma, Milano, Firenze, Trieste, Roma, Torino.
Massimiliano da Parma:
Stefano da Milano:
Claudio da Firenze:
Federico da Trieste:
Francesco da Roma:
Di seguito il volantino distribuito nel presidio che si è svolto a Torino:
Disoccupazione, povertà, sfratti. Finite le carote, resta il manganello Continued…
Disinformazione, menzogna esplicita, persino la calunnia sono state armi ampiamente usate contro il movimento No Tav. Gli attivisti di lungo corso non ne fanno certo una malattia: si vaccinano ogni anno al principio dell’autunno. Quest’anno il ceppo influenzale è comunque particolarmente virulento.
Il tema è quello consueto. La tesi è sempre la stessa: la maggioranza dei No Tav sarebbe ostaggio di una minoranza di violenti. Il movimento viene descritto come una maggioranza di brave persone disponibili a manifestare pacificamente, senza provare ad inceppare i meccanismi del cantiere. Suonano questa canzone con infinite variazioni da moltissimi anni, ma non riescono mai a darle la giusta intonazione. Il movimento li ha sempre smentiti. Con le parole e, soprattutto, con i fatti.
L’estate No Tav è stata durissima. La violenza della polizia e la stretta repressiva sono state il segno esplicito della volontà di dare una spallata definitiva al movimento, di spingerlo a suon di manganellate ed arresti su un piano meramente testimoniale.
L’inverno e la prima parte della primavera erano state segnate da azioni di sabotaggio a sorpresa che, sia pure su un piano poco più che simbolico, erano riuscite a mettere in difficoltà l’avversario.
Il 13 giugno un’assemblea popolare svoltasi a Bussoleno aveva sancito che le azioni contro mezzi del cantiere/fortino, ditte collaborazioniste, strumenti di controllo militare erano condivise e sostenute dal movimento.
Durante l’estate si sono moltiplicati i sabotaggi fuori dal cantiere. Le azioni notturne in Clarea sono invece per lo più fallite: emblematica in tal senso la notte del 19 luglio, quando il governo Letta ha messo in campo il meglio del proprio apparato repressivo, tra torture, molestie sessuali, botte ed arresti.
La risposta del movimento è la marcia diurna del 27 luglio con migliaia di persone che attraversarono la zona occupata, passando per i sentieri tra Giaglione e Chiomonte.
Due giorni dopo la Procura passa all’attacco accusando una dozzina di giovani No Tav di terrorismo. È il 29 luglio. Il giorno successivo mentre la piazza del comune di Bussoleno si riempie per una manifestazione di solidarietà, i primi trasporti speciali portano i primi e più importanti pezzi della talpa nella fortezza di Chiomonte.
Il mese di agosto è segnato dal tentativo di bloccare il passaggio di altri pezzi della talpa – un mostro di oltre duecento metri destinato a perforare la montagna. Quasi impossibile intercettare trasporti speciali a sorpresa, ma i No Tav ci provano lo stesso. Nessuno si arrende, la lotta continua, la repressione si incrudisce. Ci sono arresti per blocco stradale e persino per aver smascherato una giornalista che, sotto mentite spoglie, scattava foto per la polizia.
In settembre la campagna stampa diventa feroce, senza esclusione di colpi: il movimento tiene ma non è facile.
Particolare è l’insistenza sulle azioni di sabotaggio, sempre descritte come atti violenti, nonostante siano colpite solo cose. I sabotaggi sono equiparati ad atti di terrorismo. Una parola che spaventa, sulla quale provano ad aprire crepe nel movimento. La confusione aumenta quando uno dei siti No Tav decide di dare voce e chi crede che alcuni sabotaggi e, in particolare quello contro la Geomont di Bussoleno del 30 agosto, siano opera della mafia Si Tav o magari dello stesso imprenditore per avere i soldi dell’assicurazione.
L’azione di disinformazione lavora ai fianchi il movimento, cercando di diffondere un sentimento di sconfitta, insistendo sui successi dello Stato nell’imporre l’avvio dei lavori per il tunnel geognostico. Difficile credere ad una vittoria che si gioca sulle armi, senza scalfire l’opposizione popolare all’opera. Lo scopo però non è convincere ma vincere e per vincere occorre diffondere lo sconforto, suscitare l’idea che i giochi siano fatti, che la partita si sta chiudendo.
In agosto hanno deciso di inviare in Clarea altri 225 soldati. In questo modo il presidio militare sale a 450 effettivi, ai quali bisogna aggiungere centinaia di poliziotti, carabinieri, guardie di finanza.
Non solo. Tra le pieghe del decreto sul femminicidio hanno inserito norme che consentono di estendere il controllo militare, aumentando le sanzioni per chi si oppone.
Sebbene l’incrudirsi della repressione sia sintomo della difficoltà di fermare il movimento, il rafforzamento del dispositivo militare viene usato dai media per tentare di far crescere lo sconforto, l’idea che tutto sia perduto.
Nella stessa direzione vanno le azioni volte a mostrare un sostegno all’azione delle forze dell’ordine da parte della popolazione spaventata dalle azioni No Tav.
Andava in questa direzione la lettera di 500 cittadini di Susa comparsa a settembre sul bisettimanale di area cattolica “La Valsusa”. Le firme, tutte coperte dall’anonimato, hanno avuto ampia eco mediatica, perché tra i meccanismi più utilizzati dalla disinformazione c’è il cosiddetto “agente di influenza”, cui la rivista Gnosis, vicina ai servizi segreti italiani, ha dedicato un ampio articolo.
L’agente di influenza è una persona o un gruppo di persone che fanno azioni comunicative per spostare l’orientamento dell’opinione pubblica, per ottenere consenso ad una scelta politica del governo, per creare confusione tra le file degli avversari.
Tra i mezzi più usati ci sono le lettere ai giornali, perché le parole di un comune cittadino consentono meccanismi di identificazione, rispetto a editorialisti ed opinion maker, la cui influenza tende a far da specchio a settori già definiti di lettori, ascoltatori, spettatori.
Quest’operazione è stata disinnescata dal comitato di Susa, che ha raccolto oltre 2.500 firme contro l’occupazione militare, pagando a “La Valsusa” un paginone per farle pubblicare.
Sull’agente di influenza Anarres ha intervistato Robertino Barbieri.
Ascolta la diretta:
L’ultimo capolavoro dei media è sotto gli occhi di tutti in queste ore. Non c’è giornale che non abbia scritto che il corteo romano per la casa e i diritti sociali di questo 19 ottobre non fosse un corteo No Tav. Nonostante il corteo sia stato organizzato soprattutto dai movimenti per la casa, nonostante sia stato più volte annunciato che i No Tav sarebbero stati presenti a Roma solo con una delegazione, ormai il marchio “No Tav” è usato dai media ogni volta che vogliono evocare scenari di guerra nelle strade.
In tante altre occasioni i legami di solidarietà stretti nella lotta in valle si sono riallacciati in altri luoghi, dalla Sicilia dei No Muos alla Campania in lotta contro discariche e inceneritori. Lo stesso è accaduto per l’appuntamento del 19 ottobre. Ma poco importano i fatti quando la narrazione proposta dai media va oltre, costruendo un proprio mondo parallelo.
I No Tav sono per i media e i politici il nemico per eccellenza, i cattivi maestri di un paese,che stenta a radicare il conflitto sociale nei territori ma vede in questa, come nelle altre lotte locali, una possibilità di mettere davvero in difficoltà un sistema di relazioni politiche e sociali, che impone con la forza quello che non riesce ad ottenere con l’inganno.
16 ottobre. Il duplice processo intentato dalla Procura di Torino contro 67 antirazzisti torinesi, dopo mesi di schermaglie procedurali sta entrando nel vivo. Il giudice Gianetti che presiede il collegio ha deciso di accelerare i tempi moltiplicando le udienze nei prossimi mesi.
Entra in scena, chiamato dai PM Padalino e Pedrotta, il capo della Digos Giuseppe Petronzi. Sebbene fosse presente solo ad una delle iniziative entrate nel mirino della Procura torinese, Petronzi fa un affresco sulle lotte che segnarono l’esperienza dell’Assemblea Antirazzista sin oltre il suo scioglimento nel maggio del 2009.
Petronzi riporta nella maxi aula 3 del tribunale di Torino la tesi associativa, pur caduta in Cassazione. Sostiene che le lotte di quegli anni mirassero alla visibilità mediatica e alla violenza.
Cattivi ed esibizionisti gli antirazzisti torinesi vengono descritti come delinquenti, che istigano altri a delinquere. Secondo Petronzi dopo i presidi all’allora CPT i prigionieri si ribellavano, perché spinti dai manifestanti.
In quell’anno cruciale un decreto poi trasformato in legge dal parlamento prolungò la detenzione amministrativa degli immigrati da due a sei mesi. Le rivolte che scossero la prigione dei senza carte in tutta la penisola furono la risposta a questa condanna senza tribunali decisa dal governo italiano.
L’appoggio a quelle lotte fu sempre inadeguato all’urgenza del momento, al punto che nell’estate del 2008 il moltiplicarsi delle proteste e delle rivolte fu tale che era difficile persino conoscerle e raccontarle tutte. Continued…
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