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Gradisca. Rivolta e fuga

evasione-carcere1-300x260Dopo una breve pausa sono riprese le lotte al CIE di Gradisca. Sabato scorso un immigrato è riuscito ad evadere. La notte successiva nella struttura isontina è scoppiata l’ennesima rivolta: gli immigrati si sono alternati nell’occupazione del tetto della struttura, spaccando anche le ringhiere. In tre ce l’hanno fatta a fuggire. Un’evasione spettacolare: con corde improvvisate hanno preso al laccio la ringhiera esterna e con un perfetto passaggio alla marinara sono riusciti a transitare dall’altra parte e darsi alla macchia dopo un salto nel vuoto di quattro metri. Nel frattempo gli altri reclusi facevano arretrare dalle loro postazioni militari e poliziotti con lanci di sedie, bottiglie riempite di sassi trovati nel cantiere allestito per ripristinare la “sicurezza” nelle sezioni danneggiate. Gli scontri sono proseguiti fino all’alba e la tensione non è scemata neppure il giorno successivo.
La scintilla della nuova rivolta è stato il rinvio di un giorno dell’uscita dalla struttura per uno degli immigrati, che aveva richiesto il rimpatrio volontario. In appoggio all’immigrato, che si è anche procurato un taglio piuttosto serio ad un braccio, è partita la protesta dei suoi compagni di prigionia.
Secondo quanto riferiscono gli attivisti gradiscani della “tenda per la pace e i diritti” durante gli scontri ci sono stati due feriti: uno con tre punti di sutura al viso e l’altro con contusioni al braccio e al ginocchio.

Ascolta la diretta realizzata da radio Blackout con Federico, antirazzista impegnato da molti anni nella lotta contro i CIE.

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L’altra via dei curdi siriani

combattantes-kurdesI curdi siriani del KNK – un partito vicino alle posizioni del PKK turco – pur accerchiati sia dalle milizie dell’esercito libero siriano che dai regolari di Assad – hanno provato a costruire un percorso di autonomia e autodifesa dei villaggi nel segno del federalismo transnazionale ed internazionalista. Il prezzo è stato durissimo, perché sono sotto attacco sia dal regime baathista sia dalle diverse componenti islamiste, foraggiate da Arabia Saudita, Quatar e Turchia.
Nel Kurdistan siriano la rivolta popolare contro il regime ha aperto la strada ad un rapido cambiamento della situazione. La guerra civile che sta insanguinando la Siria è stata per buona parte dei curdi siriani occasione di una sperimentazione di autonomia, ispirata al municipalismo libertario, con assemblee che garantiscono la partecipazione popolare.
Le “assemblee popolari” in varie città e le “case del popolo” in ogni distretto (in cui sono presenti anche minoranze armene, cecene, arabe, caldee, turcomanne) mirano a rinforzare percorsi di libertà femminile che spesso si scontrano con una cultura misogina. Nelle strutture di base e nelle milizie le donne hanno un ruolo che comincia ad emanciparle dal patriarcato.

Abbiamo profittato dell’uscita in italiano di un opuscolo redatto dal KNK dal titolo “Siria. Sviluppi politici del Kurdistan occidentale” per fare una chiacchierata con Daniele, il compagno che ne ha curato l’edizione italiana.
Un’occasione per osservare il conflitto in Siria da un punto di vista altro. Il punto di vista di chi, pur partito dalla rivolta contro l’oppressione un popolo, è approdato a percorsi di libertà che attraversano la comunità curda come le altre che vivono nella regione.

Ascolta la lunga chiacchierata con Daniele fatta dall’info di Blackout

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Torino. La grande abbuffata in salsa PD

soldiTorino. La commissione di indagine istituita dal Comune la scorsa primavera dopo il crack di CSEA ha consegnato la propria relazione finale al consiglio comunale lunedì sera. CSEA era un consorzio affidato a privati ma gestito con fondi pubblici che si occupa di corsi di formazione professionale.
Compito della commissione era ricostruire come un ente no profit, che per propria natura non avrebbe dovuto produrre perdite, e che a fine anni 90 aveva 30 miliardi di lire, abbia dilapidato tutto e sia poi affondato sotto il peso di 25 milioni di passivo, bruciando circa 40 milioni di euro in quindici anni.
La distrazione di oltre 4 milioni di fondi pubblici fatta dai vertici di CSEA è ormai in mano alla magistratura. Compito della commissione di inchiesta guidata da Enzo Liardo del Pdl era mettere in rilievo le responsabilità e le coperture del governo della città. La relazione punta l’indice sull’ex vice sindaco Tom Dealessandri, ormai uscito dalla stanze di Palazzo civico e perfetto capro espiatorio di un sistema di malaffare, che ha goduto di ampie coperture, alimentando un blocco di potere tra PD e settori sindacali.
A farne le spese la collettività, che deve subire le ruberie della stessa classe politica che impone tagli dei servizi e aumenti delle tariffe.

Suggeriamo di ascoltare l’intervista fatta dall’info di radio Blackout a Simone Bisacca, avvocato del lavoro che ha seguito la vicenda dei lavoratori CSEA, trasferiti ad altro ente con riduzione secca di stipendio e garanzie.

Ascolta la diretta

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Lame fasciste nella Grecia paralizzata dagli scioperi

SCIOPERO-GRECIALa prossima settimana la Trojka – FMI-UE-BCE – farà visita in Grecia per verificare lo stato dei conti pubblici e il rispetto delle misure draconiane che hanno messo in ginocchio i lavoratori del paese.
Il governo guidato dal conservatore Antonis Samaras ha annunciato altri 25.000 licenziamenti nel pubblico impiego, tagli all’istruzione e alla sanità. In risposta i dipendenti pubblici hanno proclamato una settimana di scioperi.
Dopo lo sciopero di cinque giorni degli insegnanti delle scuole medie e superiori, che ha raccolto adesioni che hanno sfiorato il 100%, è cominciato oggi lo sciopero generale proclamato dall’Adedy, uno dei due maggiori sindacati settore pubblico.
La situazione sociale nel paese è sempre più grave: oltre il 60% dei giovani è senza lavoro, salari e pensioni non bastano a pagare fitti, mutui e bollette. Istruzione e sanità sono i settori più colpiti tra scuole chiuse ed ospedali privi di medicinali.
Durante l’estate è continuata la campagna repressiva contro i posti occupati. Ad Atene due giorni fa è stato sgomberato e subito rioccupato un teatro, a fine luglio sono stati chiusi con la forza due squat di Patrasso. Lo sgombero delle zone liberate ed autogestite è una delle principali richieste dei nazisti di Xrisi Argi – Alba dorata. La polizia, sempre più collusa con l’estrema destra sta attuandone il programma, garantendo coperture e impunità e talora aperto appoggio alle crescenti violenze delle squadracce.
L’ultimo, gravissimo episodio è di questa notte.
Un antifascista ed artista hip hop, Pavlos Fyssas, detto Killah P, è stato aggredito ed ucciso all’uscita di una locale nel quartiere operaio ateniese di Keratsini. Secondo quanto ha riferito un testimone Pavlos con altri tre ragazzi è stato circondato ed insultato da una decina di fascisti, uno dei quali lo ha colpito all’addome e al cuore. Il compagno, che aveva 34 anni, è morto in nottata all’ospedale.
In quella stessa zona, che è limitrofa al Pireo, ci sono state diverse altre aggressioni naziste nell’ultima settimana.
Oggi si svolgerà un corteo antifascista a Keratsini. Ci sarà anche uno spezzone antifascista nel corteo dei lavoratori del pubblico impiego in sciopero.

Ascolta la diretta fatta dall’info di Blackout con un compagno greco, Giorgio – Yιώργος.

Ascolta la diretta

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Sabotaggi, intellettuali e fiammiferi

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Politici, imprenditori falliti, media hanno scatenato un attacco senza precedenti al movimento No Tav. Negli ultimi giorni sono scesi in campo anche intellettuali e storici, che rileggono gli eventi di oggi con la lente distorta di una narrazione che trascolora nel mito. Il mito degli anni di “piombo”, degli “antimoderni” moti luddisti, della perdita di consenso di avanguardie che scelgono la lotta armata.
Scomodare un termine ingombrante come “terrorismo” è normale per tanti giornalisti e commentatori politici. Il paragone tra la lotta armata di trent’anni fa e la resistenza No Tav ne è la pietra miliare.
Da quando i PM Padalino e Rinaudo il 29 luglio hanno accusato una dozzina di ragazzi di associazione a scopo terroristico, affibbiandogli l’articolo 180 del codice, gli scritti su questo tema si sono moltiplicati. Le iniziative di lotta estive li hanno scatenati. Nella loro lente deformante sono finite le passeggiate di lotta in Clarea, i sabotaggi, i blocchi, persino la marcia simbolica degli over 50, simbolo del legame tra le generazioni, del filo robusto che lega tutti gli attivisti in una lotta in cui ogni tassello si incastra nel mosaico deciso collettivamente. I sabotaggi delle ultime settimane verso ditte collaborazioniste – spesso aziende stracotte, plurifallite, in odore di mafia – li hanno scatenati definitivamente.
In piena sintonia con i media la Procura torinese ha ordinato perquisizioni e limitazioni della libertà con scadenza sempre più ravvicinata. Ultimi i tre No Tav arrestati con l’accusa di violenza privata – ma la Procura voleva infilarci anche la tentata rapina – perché, secondo Erica De Blasi, giornalista del quotidiano “la Repubblica”, avrebbero fatto parte del folto gruppo di No Tav che avevano smascherato l’inganno con cui si era infiltrata nella manifestazione degli over 50. De Blasi si era finta una manifestante ed aveva scattato foto che, per sua stessa ammissione, erano destinate alla Digos. Per quest’episodio insignificante è stata scomodata la libertà di stampa, dimenticando che questa “giornalista” era venuta meno alla sua stessa deontologia professionale, ponendosi al servizio della polizia.
Nella guerra mediatica scatenata contro il movimento No Tav si inserisce il dossier uscito proprio sul quotidiano “la Repubblica” il 12 settembre.
Lo storico Salvadori tenta una genealogia della pratica del sabotaggio, ricostruendo la vicenda del movimento che, tra il 1811 e il 1816, scosse l’Inghilterra. La pratica della distruzione delle macchine viene descritta da Salvadori come una sorta di disperata resistenza alla miseria frutto delle nuove tecnologie produttive, che riducevano il bisogno di manodopera. Salvadori liquida la rivolta, che pure durò a lungo nonostante i manifestanti uccisi dalla polizia, le deportazioni e le condanne a morte, come ultimo inutile grido di un’epoca preindustriale condannata a sparire.

Anarres ne ha discusso con Cosimo Scarinzi, un sindacalista che si è occupato a fondo della pratica del sabotaggio all’interno del movimento dei lavoratori. Secondo Scarinzi la radicalità del movimento “luddista” non era una critica alle macchine, quanto la risposta alla ferocissima repressione che colpiva ogni forma di protesta. Lotte meno dure venivano sanzionate con la deportazione e la condanna a morte, non lasciando alcun margine di trattativa ai lavoratori che si ribellavano ad una miseria estrema. In questa situazione l’attacco alla macchine diviene il mezzo per tentare di piegare un padronato indisponibile a qualsiasi concessione.
Scarinzi esamina la pratica del sabotaggio, attraverso la storia del movimento operaio, che ne è attraversato costantemente, sia che si tratti di pratiche spontanee, che non si rivendicano come tali, sia che vengano assunte e valorizzate come uno dei tasselli della lotta contro lo sfruttamento capitalista. Nell’opuscolo “Sabotage” Emile Pouget, esponente del sindacalismo rivoluzionario di segno libertario teorizza esplicitamente l’utilizzo del sabotaggio come segno incontrovertibile dell’indisponibilità ad un compromesso con una società divisa in classi. In questo caso, al di là della materialità dell’agire, emerge la volontà di scoraggiare ogni tentativo di compromesso tra capitale e lavoro, demolendo nei fatti la propaganda che vorrebbe sfruttati e sfruttatori sulla stessa barca, con gli stessi interessi di fondo.

Ascolta qui la chiacchierata con Cosimo, che è proseguita con l’analisi del sabotaggio nella pratica dei lavoratori del secolo appena trascorso.

Torniamo al dossier di “la Repubblica”.
Nell’analisi di Salvadori, che pure prudentemente si limita alle rivolte inglesi all’epoca della cosiddetta “rivoluzione industriale”, si possono cogliere due elementi che spiegano le ragioni dell’inserimento in un paginone che si apre con un articolo di Guido Crainz dedicato ai sabotaggi contro l’alta velocità in Val Susa.
Il primo elemento è il carattere antimoderno delle rivolte luddiste, il secondo è l’ineluttabilità della sconfitta di chi si batte contro un progresso inarrestabile. In altri termini l’articolo di Salvadori, anche al di là dell’esplicita volontà dell’autore, svolge il compito che la rivista di intelligence Gnosis affida all’”agente di influenza“, ossia orientare l’opinione pubblica, demolire la fiducia dei No Tav, insinuando il dubbio sulle prospettive della lotta.
Questi elementi ci consentono vedere la trama del mosaico che la lobby Si Tav sta componendo. Il governo alza il tiro, appesantisce la repressione, picchia, arresta, criminalizza. La speranza è dividere, spaventare il movimento per far emergere la componente più istituzionale e spezzare la resistenza dei No Tav, riducendoli a meri testimoni indignati dello scempio.
La spettacolarità insita negli attacchi con il fuoco alle ditte, che pure si collocano a pieno nell’alveo della lotta non violenta, da la stura alla retorica sulla violenza. Il pezzo di Crainz si apre con l’occhiello “le polemiche recenti sulle azioni contro (la) Tav in Val di Susa riprono la questione del confine tra diritto al dissenso e forme illegali di opposizione” nel sottotitolo diventa più esplicito con un secco “quando le proteste diventano violenza”. Il pezzo si caratterizza per una continua equiparazione tra illegalità e violenza, il che dimostra, al di là dell’insistito discettare sulla lotta non violenta, la fondamentale incomprensione del senso e dei modi di questa pratica. Non tutto quel che è illegale è necessariamente anche violento, che non tutto quel che è legale è non violento. Che spaccare una ruspa e spaccare la testa di qualcuno non siano gesti equivalenti mi pare non meriti dimostrazioni di sorta. Se in questo gioco si inserisce la distinzione tra legale ed illegale il quadro invece si intorbida.
I poliziotti che spaccano le teste dei No Tav, che sparano in faccia lacrimogeni, che mandano in coma un attivista e cavano un occhio ad un altro non fanno che compiere il loro dovere.
I governi di turno ne solo tanto convinti che hanno garantito una buona carriera a tutti i massacratori di Bolzaneto, nonostante, in questo caso, vi sia stata una sentenza di condanna della magistratura. Per la mezza dozzina di capri espiatori di quelle giornate di lotta sono scattate condanne sino a sedici anni di reclusione, nonostante avessero soltanto rotto delle cose.
Se è di Stato vale anche la tortura, se è espressione di lotta sociale viene perseguito anche un semplice danneggiamento. Anzi. Si parla addirittura di terrorismo, l’espressione che venne usata negli anni Settanta per definire la lotta armata. Crainz considera le vicende della Diaz e Bolzaneto errori di percorso da evitare di offrire argomenti a chi vorrebbe una diversa organizzazione politica e sociale. Scivoloni pericolosi perché si fanno delle gran brutte figure.
L’autore, echeggiando Salvadori, sostiene che il sabotaggio è sintomo di debolezza, di sconfitta, di separazione dal movimento popolare. Crainz richiama i fantasmi del “rozzo pedagogismo giacobino ‘del gesto esemplare’ e dell’avanguardia leninista” che, per disprezzo, si sostituiscono all’azione autonoma dei cittadini.
Su questa base Crainz ricostruisce le lotte degli anni Settanta, rievocando le figure dei cattivi maestri e riducendo la dinamica sociale di quegli anni ad una sorta di gigantesca cupio dissolvi culminata nella lotta armata.
Parte dall’assunto che le forme di lotta più radicali sono legittime contro le dittature, non certo in un regime democratico.
Peccato che la democrazia reale, non quella dei libri delle scuole elementari, sia quella della Diaz e di Bolzaneto, perché la “sospensione del diritto” non è l’eccezione ma la regola. Peggio. In questi anni la sospensione del diritto si è fatta regola. L’intera legislazione sull’immigrazione, i respingimenti collettivi, gli accordi con la Libia per l’outsourcing della detenzione, le guerre umanitarie, le bombe intelligenti, le carceri che scoppiano, i morti nelle caserme, i militari nelle strade, le proteste popolari sedate con gas e manganelli…
La sospensione del diritto si fa sempre regola, quando qualcuno si ribella a regole del gioco che garantiscono il ricambio delle elite, negando un reale spazio di partecipazione ai cittadini, sancendo come insuperabile una società divisa in classi, dove il profitto di pochi conta più della vita e della dignità dei più.
Crainz conclude il pezzo ironizzando sugli intellettuali che giocano con i fiammiferi. Quelli come lui usano le penne come i poliziotti i manganelli. Un gioco stupido ma trasparente.
Grande assente nell’analisi di Crainz è il movimento No Tav. Un movimento che non può essere ingabbiato in nessuno degli schemi in cui tanti analisti hanno provato ad incasellarlo negli anni. Un movimento che cresce e si alimenta della sue tante anime, che elabora le proprie strategie attraverso un lento e, a volte difficile, confronto. Un movimento radicale e radicato nel territorio. Un movimento che ha optato per l’azione diretta, che non delega a nessuno e ha deciso di resistere attivamente all’imposizione violenta di un’opera la cui unica utilità è il drenaggio di soldi pubblici a fini privati.
Il movimento No Tav ha scelto alcuni mesi fa di appoggiare la pratica del sabotaggio. Di questa decisione restano poche tracce sui media, sia tra i cronisti che tra gli analisti, perché di fronte alla volontà di un’assemblea popolare tanti teoremi si sgretolano come neve al sole.
Il movimento in questi mesi dovrà affrontare una sfida complessa: mantenere radicalità e radicamento sociale. Non sarà facile, perché la magistratura sta preparando una operazione repressiva in grande stile, come dimostrano le gite dei PM torinesi a Milano e in altre città. Non sarà facile, perché le prossime amministrative rischiano ancora una volta di assorbire troppe energie a discapito dell’azione quotidiana per gettare sabbia negli ingranaggi dell’occupazione militare.
La scommessa dei prossimi mesi sarà quella di riaprire gli spazi per l’azione diretta popolare, che la repressione e la violenza del governo stanno cercando di chiudere.
Il governo e la lobby del Tav non hanno troppa paura dei sabotaggi o di un manipolo di amministratori No Tav, hanno invece gran timore di una nuova rivolta popolare che renda ingovernabile il territorio.
A noi tutti il compito di rendere reali le loro paure.

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Tra Afganistan e Siria. Il declino degli Stati Uniti

statua-libertà-300x183Tre settimane fa i bombardieri di Barack Obama rollavano sulle pista delle portaerei pronti al decollo verso la Siria. In pochi giorni il quadro è mutato radicalmente. L’attacco alla Siria è stato rimandato. Forse non si farà mai.
Barack Obama, dopo aver scoperto che solo la Francia era disponibile a seguirlo nell’impresa, che il Congresso statunitense non era affatto entusiasta di una nuova guerra dalle prospettive incerte, che la Russia non sarebbe ingoiato di buon grado un’invasione di campo, ha accettato al volo l’assist offerto da Vladimir Putin in occasione del G20 svoltosi a Mosca lo scorso fine settimana. In cambio dell’impegno assunto da Bashar Assad di porre sotto controllo internazionale il proprio arsenale chimico, l’ammnistrazione statunitense ha accettato di riaprire i canali diplomatici.
L’immagine di Obama, e, conseguentemente, degli Stati Uniti ne esce decisamente appannata.
Ovviamente i giochi sono ben lungi dall’essere conclusi e la battaglia per il controllo della Siria continua con altri mezzi. Tutti micidiali per la popolazione civile.
Le difficoltà di Obama in Siria derivano direttamente dagli errori commessi dalle ammanistrazioni statunitensi negli ultimi 15 anni. In questi tre lustri gli Stati Uniti hanno perso tre guerre su quattro. Solo in Kosovo, grazie alla solida alleanza con la mafia albanese, gli USA sono riusciti a non perdere la pace dopo aver vinto facilmente la guerra.
L’Iraq è governato da una maggioranza islamica shiita vicina all’Iran. In Libia, esattamente un anno fa, Obama ha subito lo scacco dell’assalto salafita alla propria legazione di Bengasi e dell’uccisione dell’ambasciatore Stevens. Il prossimo primo gennaio le truppe a stelle e strisce lasceranno l’Afganistan esattamente come capitò a suo tempo ai sovietici. Un paese spezzato, in cui i vari signori della guerra controllano il territorio e il presidente/fantoccio Karzai non governa nemmeno Kabul.
Tre nette sconfitte, figlie dell’incapacità statunitense di costruire una base di consenso nei paesi occupati sul modello del piano Marshall per l’Europa del dopoguerra.
Gli equilibri planetari si stanno modificando, ri-proponendo un ruolo in prima fila per la Russia e marcando le fratture del fronte occidentale, i cui interessi, è il caso dell’Italia, sono spesso divaricati rispetto all’ingombrante alleato statunitense.
Ne abbiamo discusso con Stefano.

Ascolta il suo intervento della scorsa settimana

Ascolta l’intervista fatta oggi

Aggiornamento al 15 settembre. Gli Stati Uniti e la Siria hanno sottoscritto ieri a Ginevra un accordo sulle armi chimiche in dotazione all’esercito siriano. In base a tale accordo, siglato dal segretario di Stato startunitense Kerry e dal ministro degli esteri russo Lavrov, la Siria dovrebbe  consegnare un elenco delle proprie dotazioni entro la prossima settimana.  Kerry ha sostenuto e poi smentito che Russia e Stati Uniti avessero concordato l’appoggio ad una risoluzione ONU che comportasse il ricorso al Capitolo 7, che prevede l’uso della forza in caso di inadempienza agli accordi. Gli Stati Uniti hanno perso anche quest’ultima schermaglia diplomatica.

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Fiat. Una macchina mangiasoldi

varianti-slot-machine2Numerosi osservatori hanno segnalato la divaricazione tra il blocco corporativo definito dal Patto di Genova – CGIL, CISL, UIL e Confindustria – e il gruppo Fiat, che accentua la conflittualità nei confronti dei sindacati meno asserviti. Secondo alcuni avremmo di fronte due modelli diversi e contrapposti. L’uno punta al mantenimento dell’attuale fase di pace sociale, l’altro conferma una secca attitudine disciplinare, per spezzare, senza alcun compromesso, quel che resta della conflittualità di classe.
Secondo Pietro, un compagno con cui abbiamo fatto una lunga chiacchierata, il ricatto di Marchionne che chiede una nuova legge sulla rappresentanza per togliere acqua dal laghetto della Fiom, sarebbe la mera copertura per fare pressione sul governo ed ottenere altri soldi tra cassa integrazione e sgravi fiscali. La Fiom oggi non è – e non lo è stata per lungo tempo – capace di impensierire Marchionne.
L’AD di Fiat deve governare la transizione fuori dal tradizionale core business della dinastia industriale che rappresenta. Non da oggi Fiat è sempre meno una fabbrica di automobili e sempre più una macchina mangiasoldi. Pubblici.
Ascolta la diretta

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Uniti per la pace. Sociale

philosophy_image“Saluto positivamente l’accordo Confindustria-sindacati: è un fatto importante e positivo che le parti sociali lavorino per contrastare le tensioni e per la pace sociale”. Con queste parole il presidente del consiglio Letta ha risposto alle critiche del ministro Saccomanni all’accordo siglato ad inizio settembre tra Confindustria, CIGL, CISL, UIL.
Secondo Saccomanni l’accordo di Genova è troppo oneroso per lo Stato, perché richiederebbe eccessivi sgravi fiscali per le imprese, Letta invece dichiara che la pace sociale non ha prezzo.
Resta da vedere se questo patto corporativo che segue quello sulla rappresentanza stilato prima dell’estate basterà a contenere le tensioni che, sotterraneamente, attraversano il corpo sociale.
Il Patto di Genova di fatto sancisce la nascita di un blocco corporativo, voluto da un conservatore come l’attuale presidente dell’associazione degli industriali italiani. I sottoscrittori del Patto di Genova si candidano di fatto ad un ruolo di prevenzione dell’insorgenza sociale, facendo pressione per la riduzione della pressione fiscale sulle imprese.
Al governo chiedono meno tasse sui redditi da lavoro, aumentando le detrazioni per dipendenti e pensionati. Vogliono anche la riduzione dell’Irap, eliminando la componente «lavoro» alla base dell’imposta, così da favorire le imprese che assumono.
Chiedono agevolazioni fiscali per gli investimenti in ricerca e sviluppo; un meccanismo di garanzia pubblica che convinca le banche a finanziare grandi progetti di innovazione industriale realizzati da filiere o reti di imprese; una rapida attuazione dell’agenda digitale. Ma anche politiche che riducano il costo dell’energia e una cabina di regia per la gestione delle crisi aziendali più significative a livello nazionale. Ed infine una revisione della spesa pubblica che vada oltre i tagli lineari.
Di fatto, se il Patto di Genova avrà gambe per camminare, la prima conseguenza potrebbe essere l’emarginazione del gruppo Fiat. Marchionne, in questo primo scorcio di settembre, pur ingoiando il ritorno della Fiom, non fa passi indietro nella pretesa di disciplinamento di ogni resistenza dei lavoratori. Nell’agenda dell’AD di Fiat è pressante la richiesta di una legge sulla rappresentanza che faccia fuori chi non firma i contratti, al di là del suo peso tra i lavoratori.
Marchionne continua a minacciare la fuga all’estero, promette di rinnovare Mirafiori con la produzione del suv Maserati, di fatto procrastina la cassa per un altro anno.
In altre parole incassa soldi pubblici, pretende leggi che lo tutelino da un conflitto che non c’é e nel frattempo tiene tutto fermo.
Ovviamente c’é sempre la possibilità che la materialità del conflitto faccia saltare tutti i tavoli, rimettendo la palla al centro.
Il prossimo 18 ottobre il sindacato di base ha indetto sciopero generale. Purtroppo al momento pare prevalga l’esigenza di autorappresentazione di un ceto politico/sindacale, che preferisce puntare su manifestazioni nazionali, invece di lavorare per il radicamento territoriale delle lotte. Tuttavia, nonostante i suoi limiti, la giornata del 18 potrebbe costituire un’occasione per tentare di costruire momenti di lotta sul piano locale.

Ascolta la diretta che anarres ha fatto la scorsa settimana con Cosimo Scarinzi della Cub

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Cile. Memoria resistente

cile_golpeIl ricordo dell’11 settembre 1973 è impresso indelebilmente nel DNA di una generazione di compagni. La fine violenta del governo socialista, la durissima repressione nei quartieri e nelle fabbriche, dove la pratica dell’azione diretta, dell’occupazione, dell’autogestione, stava infliggendo duri colpi alla società di classe, fu un duro colpo per i movimenti sociali che in Italia stavano giocando la loro partita. Il Partito Comunista Italiano di Enrico Berlinguer ne profittò per rafforzare la politica di collaborazione con l’area cattolica inaugurata da Togliatti nel 1945. Con il pretesto di evitare un colpo di stato militare sponsorizzato dagli Stati Uniti Berlinguer promosse una politica di unità nazionale e di compromesso con la Democrazia Cristiana, il maggiore partito di governo dal dopoguerra in poi.

Ne abbiamo parlato con Massimo, un compagno che ha attraversato quegli anni e ne ricostruisce il clima.
Ascolta la diretta

Abbiamo ascoltato la testimonianza di Urbano, esule cileno anarchico.
Urbano era il suo nome di battaglia, quello che adottò durante la clandestinità in Cile. Un Cile che Urbano non vede dal lontano 1974, quando, dopo aver occupato con altri l’ambasciata italiana a Santiago, giunse esule nel nostro paese. Inarrestabile nel suo impegno contro la dittatura di Pinochet, Urbano nel nostro paese è stato impegnato nelle lotte per la difesa dell’ambiente, per la libertà dei migranti, contro ogni forma di oppressione. Oggi è in prima fila nella lotta contro il terzo valico e le discariche.
L’11 settembre 1973 a Santiago venne bombardata la Moneda, il palazzo del governo presieduto dal socialista Allende, che vi trovò la morte. Poi la repressione passò nei barrios, nei quartieri della periferia, dove il popolo delle baracche aveva occupato le case in muratura destinate ai militari. Urbano, che una casa vera non l’aveva mai conosciuta sin dalla più tenera infanzia, aveva occupato con la famiglia una casa nel quartiere “Poblacion Guatemala”. Ma era difficile trovarcelo perché lui come tanti passava gran parte del tempo negli accampamenti dei senza casa dove si programmavano le lotte per nuove occupazioni di terre e case. Contro il percorso di libertà e dignità di un popolo si abbatté il terrorismo dei militari sostenuti dal governo statunitense.
Ascolta la diretta

Abbiamo chiesto ad Urbano di raccontarci il suo 11 settembre.

“All’epoca io ed altri compagni eravamo già in clandestinità: il governo Allende ci perseguitava per le occupazioni di terre e la guerra contro il mercato nero. Nel sud di Santiago, una zona che era cresciuta sin dagli anni ’50 con le occupazioni di terre demaniali e dei latifondi, nel 1971 abbiamo iniziato l’autogestione della distribuzione di alimenti alla popolazione. Abbiamo così pestato molti autorevoli piedi: in primo luogo quello dei padroni della distribuzione ma anche quelli dei Partiti socialista e comunista che intendevano gestire in comune con i commercianti la distribuzione del cibo, imponendo prezzi esosissimi, mentre l’autogestione garantiva prezzi equi per tutti. Lo stesso programma governativo per le terre abbandonate privilegiava nei fatti i militanti socialisti e comunisti, tenendo fuori tanta parte della popolazione. Questa situazione ci ha cacciato nella clandestinità: il governo Allende dichiarò illegali le nostre attività e le organizzazioni libertarie. All’epoca eravamo impegnati anche sul fronte della solidarietà internazionale con gli esuli provenienti da tutto il Sud America perché perseguitati nei loro paesi. Il governo socialista cileno non concedeva loro asilo politico: questi compagni lo ottenevano da noi. Erano ospitati nei quartieri occupati e lottavano al nostro fianco per le libertà ed i diritti di tutti. Il governo ci considerava alla stregua di delinquenti comuni e ci perseguitava: il nostro rifugio erano i quartieri occupati, dove la gente ci ospitava e proteggeva.
Prima dell’11 settembre ormai in tanti sapevamo che il golpe era imminente. Nei mesi precedenti era passata una legge sul controllo delle armi, la cosiddetta “Ley Maldita” che lo stesso Allende aveva consentito: ufficialmente doveva servire per disarmare i fascisti che attaccavano le zone popolari ma, nei fatti, la legge venne applicata solo contro di noi, contro i sindacati, contro il “cordone industriale” delle fabbriche occupate e dei quartieri autogestiti. In realtà noi non eravamo armati: il governo socialista non aprì mai i suoi arsenali al popolo che, quando avvenne il golpe, non aveva che poche vecchie pistole.
Quell’11 settembre ero a casa di un compagno. Appena vengo a sapere che il sollevamento militare era iniziato mi reco alla “La Bandera” uno dei tanti quartieri occupati. Con la gente raccogliamo le armi disponibili: saltano fuori una quarantina di pistole. Poi smontiamo la baracca della distribuzione autogestita, consegnando alla popolazione tutte le derrate che vi erano custodite. Con le armi a disposizione iniziamo la resistenza, passando da un barrio all’altro nell’intera zona sud. La battaglia più dura si farà nel quartiere “La Legua”, quello dove sono nato io, lì i lavoratori di una fabbrica tessile occupata, la Sumar, che si erano opposti a colpi di arma da fuoco alla consegna delle armi imposta dai militari, resisteranno a lungo. Per rastrellare “La Legua” i militari impiegheranno ben tre reggimenti, carri armati, aerei per stroncare la resistenza popolare. Finirà con un massacro: oltre 400 saranno le vittime della loro ferocia. Continued…

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Informazione spazzatura e repressione. Altri tre arresti No Tav

monnezza-triangolo-infami-201453Mercoledì 11 settembre. Questa mattina la polizia ha arrestato e perquisito le abitazioni di tre No Tav.  Il Gip li accusa di violenza privata per un episodio avvenuto il 10 agosto alla marcia degli over 50 in Clarea. Secondo i PM Padalino e Rinaudo una ventina di persone avrebbero allontanato Erica De Blasi, una giornalista di “la Repubblica”, che avrebbe successivamente riconosciuto Giuliano di Avigliana, Maurizio di Torino, redattore di radio Blackout, e Giobbe della provincia di Varese.
Tutti e tre si trovano ai domiciliari con tutte le restrizioni.
Ascolta la diretta fatta dall’info di Blackout con Silvia, una No Tav del varesotto.

Questa sera – dalle 21 – presidio solidale ad Avigliana sotto casa di Giuliano in via don Balbiano 33

Giovedì 12 settembre. Aggiornamento
Circa 150 No Tav si sono ritrovati sotto casa di Giuliano ad Avigliana. Un modo tangibile per fargli sentire la solidarietà e per respingere al mittente questa ennesima operazione repressiva della Procura torinese.
Il mero allontanamento di una “giornalista”, che mente sulla propria professione e poi ammette senza remore di aver scattato foto e di averle consegnate alla polizia, si trasforma ancora una volta in “violenza privata”, un reato usato come passpartout per privare della libertà tre attivisti.

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Turchia. La polizia uccide ancora

Polizia-lancia-lacrimogeni-300x186Ad Antiochia, in Turchia, è morto alle 2 del mattino del 10 settembre il ventiduenne Ahmet Atakan, ucciso dalla polizia mentre stava partecipando ad una manifestazione. Il giovane, colpito a morte da un candelotto lacrimogeno, è la sesta vittima della violenza delle forze dell’ordine turche dall’inizio del movimento di lotta sviluppatosi nel paese alla fine dello scorso maggio. La polizia sostiene che sia caduto da un palazzo, ma dall’autopsia non risulta nessuna frattura, mentre è stata riscontrata una ferita alla testa di 5/6 cm. Ahmet era sceso in piazza per una manifestazione in solidarietà con le proteste che nelle ultime settimane hanno avuto luogo ad Ankara, presso l’Università Tacnica del Medio Oriente, anch’esse duramente represse dalla polizia. Nell’ultimo mese si è sviluppato un movimento contro la costruzione di una strada che attraverserà la grande area verde e forestale in cui si trova l’università. Questo progetto porterebbe all’abbattimento di circa 3000 alberi e il campus universitario verrebbe letteralmente diviso in due parti dalla nuova strada.
Dopo la morte di Ahmet, ieri ci sono state proteste nelle principali città della Turchia e la polizia è tornata ad usare lacrimogeni ed idranti per disperdere la folla, impedendo qualsiasi tipo di manifestazione.
Dall’inizio di settembre ha preso il via una nuova ondata di proteste. Solidarietà agli arrestati dei mesi scorsi, opposizione ai progetti di devastazione ambientale, reazione al terrore poliziesco, solidarietà tra le lotte locali. Su questi temi nelle ultime settimane ci sono state di fatto manifestazioni quotidiane nelle principali città turche. Inoltre, mentre Gezi Park ad Istanbul torna ad essere blindato dalla polizia e Piazza Kizilay ad Ankara è ancora teatro di scontri, il PKK per la prima volta dichiara in un comunicato il proprio sostegno ai movimenti di protesta in Turchia, rompendo il silenzio degli scorsi mesi.

Ascolta la diretta fatta dall’info di Blackout  con Dario, un compagno che conosce bene la situazione turca.

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Tav. Sabbia negli ingranaggi

tav-interna-nuovaIl cantiere di Chiomonte, area militarizzata, isolata, chiusa da filo spinato, custodita da militari con carri armati e idranti, serrata tra i cancelli di strada dell’Avanà e il ponte di Clarea, accessibile solo a piedi ai normali visitatori, ma con accesso privilegiato dall’autostrada per le truppe e per le ditte collaborazioniste, sul piano militare è difficilmente attaccabile. Ma il cantiere non sono solo le strutture in Clarea sono anche i rifornimenti di carburante e cemento, gli operai che dormono e cenano altrove, le ditte che hanno sedi ed impegni anche in altre zone. Conoscere bene i meccanismi che fanno funzionare il cantiere è indispensabile per incepparli.
In Valle ci sono tanti occhi e orecchie che da sempre amano il proprio territorio e lo osservano. Questi sguardi sparsi necessitano di un coordinamento che li renda accessibili a tutti coloro che lottano contro quest’opera inutile e devastante.
Da agosto è partito un lungo a paziente lavoro di monitoraggio del cantiere, che verrà periodicamente pubblicizzato con dossier e post sui siti d’area.
Ogni lunedì a Venaus si volgono riunioni pubbliche, aperte a tutti gli interessati, per fare il punto collettivamente.
In rete è girato un appello che vi riportiamo sotto.
Ascolta la diretta dell’info di Daniele, un attivista No Tav dell’alta valle.

Continued…

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Lacrime sangue e slot machine

taxIl governo Letta ha chiuso la lunga trattativa sull’IMU e l’IVA. Cancellata la prima rata della tassa sulla prima casa, sospesa – non abolita – la seconda, il governo si è inventato la “service tax”, nome inglese per coprire l’effetto negativo del termine “tassa”. Se la tassa sulla prima casa colpiva i proprietari, la service tax invece equanimemente tocca tutti, anche i semplici affittuari che una casa di proprietà non se la possono permettere.
Per recuperare i soldi hanno annunciato tagli, compresi quelli alla sicurezza, illudendo che per la prima volta un governo tagliasse, dopo scuole, ospedali, ferrovie e trasporto locale, anche gli effettivi delle tante polizie del nostro paese, che ha il maggior numero di addetti in rapporto alla popolazione a livello mondiale. Pare che invece a farne la spese saranno solo i vigili del fuoco.
La nuova tassa e il recupero degli introiti mancati dall’IMU avrebbero potuto essere facilmente recuperati imponendo alle dieci società che gestiscono le slot machine di pagare i due milioni e mezzo di tasse non pagate, anziché fare un bel regalo a società da sempre in odore di mafia, riducendo l’addebito a seicentomila euro.

Ascolta la diretta dell’info di Blackout a Francesco, economista che ci ha aiutato a districarci nella giungla di cifre che disegnano un provvedimento che è solo l’antipasto della manovra che il governo dovrà fare per raggiungere il pareggio di bilancio imposto dalla revisione costituzionale di due anni orsono.

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Fukushima. Fuori controllo

newsweek-fukushima cutL’ultima notizia è che, intorno ai reattori nucleari, verrà costruito un muro di ghiaccio sotterraneo per tentare di impedire altre infiltrazioni e fuoriuscite di liquidi contaminati dalla centrale di Fukushima. Lo ha annunciato il governo giapponese che sosterra’ il piano per bloccare gli sversamenti di acqua radioattiva con un stanziamento di 47 miliardi di yen (360 milioni di euro). Per aiutare la Tepco, che gestisce la centrale di Fukushima Daiichi, il primo ministro giapponese Shinzo Abe ha fatto sapere che la meta’ dei fondi verranno recuperati dalle riserve del bilancio pubblico 2013, e si prevede un aumento delle tasse per sostenere lo stanziamento.
A quanto sembra la decisione del governo di Tokyo non è legata a legittime preoccupazioni per la salute della popolazioni interessate o per le conseguenze sulla fauna ittica degli sversamenti nell’oceano di acqua radiottiva, ma dal timore che la canditadura di Tokyo per i Giochi estivi del 2020 possa essere bocciata dal Comitato Olimpico Internazionale a causa dell’incertezza sulla situazione della centrale a due anni dallo tsnunami che provocò uno dei peggiori incidenti nucleari della storia, paragonabile solo a quello di Cernobyl. Lo scorso 28 agosto la Tepco non aveva potuto più tacere l’ennesimo gravissimo versamento di acqua radiottiva.
Attualmente migliaia di tonnellate di acqua radioattiva sono conservate in serbatoi temporanei e vengono usate per raffreddare i reattori. La Tepco ha ammesso che quest’acqua, altamente contaminata, potrebbe raggiungere l’oceano Pacifico, oltre alle zone vicine alla centrale. Ogni giorno sono circa 300 le tonnellate di acqua contaminata che finiscono in mare.
Dei 47 miliardi di yen stanziati dal governo, si prevede che 32 miliardi serviranno a creare la barriera di congelamento che dovrebbe impedire ulteriori fuoriuscite di liquidi radioattivi, mentre 15 miliardi verranno spesi per decontaminare quanto piu’ possibile l’acqua conservata nei serbatoi, che poi dovra’ essere comunque riversata in mare.
Intorno alla centrale di Dai-ichi c’è un deserto nucleare. Sebbene la popolazione sia stata fatta evacuare da un perimetro di circa venti chilometri dalla centrale, tuttavia si registrano livelli di inquinamento gravissimi sino a 50 chilometri da Fukushima, perchè la diffusione della contaminazione dipende in modo forte da agenti atmosferici.

Nell’ambito dell’info di radio Blackout è stata fatta un’intervista a Marco Tafel, un antinuclearista che segue con attenzione l’evolversi di una situazione ancora oggi fuori controllo, le cui consguenze per la vita e salute delle persone sono destinate a manifestarsi nel corso di decenni.

Ascolta la diretta

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No Muos. Un popolo in marcia

bimba no muosNon verrà dimenticato tanto presto l’agosto dei No Muos. Si parte con la decisione della giunta Crocetta di revocare la revoca alle autorizzazioni per la costruzione delle antenne nella base militare, si chiude con il comune di Niscemi, formalmente schierato contro il Muos, che mette a disposizione delle truppe di occupazione i mezzi per il trasporto di meteriali nella base.
Una strada tutta in salita che un movimento popolare ha affrontato di slancio riuscendo a rinforzarsi dopo la retromarcia delle istituzioni locali. Ne sono nate occasioni di azione diretta popolare, che, in alcune occasioni, hanno coinvolto migliaia di persone.
Il momento più importante è stata la manifestazione del 9 agosto, quando un corteo grandissimo ha circondato la base, tagliato le recinzioni ed occupato l’area, raggiungento le antenne, occupate il giorno prima da alcuni attivisti che erano riusciti a violare la base.
Nonostante le cariche di fine agosto per spezzare i blocchi dei No Muos, nonostante la forte volontà di completare il montaggio delle antenne, il movimento No Muos non molla e rilancia con una manifestazione regionale a Palermo il 28 settembre.

Ne abbiamo parlato con Pippo Gurrieri, attivista No Muos che negli ultimi trent’anni è stato in prima fila nella lotta contro il militarismo e le basi della guerra.
Ascolta la diretta

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